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La crisi come guerra globale

di Sergio Segio (*)
È tornata la lotta di classe, ci dicono le cronache di questi mesi dense di conflitti di lavoro e di territorio. Ma quella che domina la scena globale, incidendo in profondità, non è la lotta di resistenza dei lavoratori stritolati dagli effetti della crisi o dei ceti medi che cercano di opporsi alla propria irruente proletarizzazione. All’opposto, è una lotta di classe dall’alto, che promana dalle classi dominanti mondializzate e che è silenziosamente ed efficacemente in corso dagli anni Ottanta.

Una “contro-rivoluzione” o un “grande balzo all’indietro” – a seconda delle diverse definizioni utilizzate da alcuni autori – che si sostanzia in un recupero di profitti, privilegi e potere che il precedente ciclo di lotte e di cambiamenti degli anni Sessanta e Settanta avevano concretamente e in profondità messo in discussione in molti Paesi europei e negli Stati Uniti.

«La caratteristica saliente della lotta di classe della nostra epoca è questa: la classe di quelli che da diversi punti di vista sono da considerare i vincitori – termine molto apprezzato da chi ritiene che l’umanità debba inevitabilmente dividersi in vincitori e perdenti – sta conducendo una tenace lotta di classe contro la classe dei perdenti. È ciò che intendo per lotta di classe dopo la lotta di classe»: così il sociologo Luciano Gallino nel suo ultimo libro (La lotta di classe dopo la lotta di classe, a cura di Paola Borgna, Laterza, 2012).

■ La resurrezione del colosso dai piedi di argilla

Cinque anni di crisi non hanno per nulla invertito questa tendenza: la finanza e il capitalismo globali, pur essendone direttamente responsabili, non hanno visto mettere in discussione la propria supremazia, del resto da tempo fuori controllo. Anzi: i profitti e i patrimoni dei “vincitori” continuano introduzione a lievitare, mentre milioni di persone sono precipitate nella povertà e nella disoccupazione.
Il dato più recente e appariscente è venuto dalla classifica aggiornata quotidianamente e in tempo reale da “Bloomberg”, il Bloomberg Billionaires Index: ebbene, in pochi mesi, da gennaio ad aprile 2012, il patrimonio delle 40 persone più ricche del mondo si è accresciuto di 95 miliardi di dollari arrivando a superare il trilione di dollari (http://topics.bloomberg.com/bloomberg-billionaires-index).
La ragione della sostanziale impunità del sistema finanziario e dell’imperturbabile sfrontatezza con la quale il colosso dai piedi di argilla è stato rimesso immediatamente in piedi, facendone pagare interamente i costi ai lavoratori e alle classi medie di tutto il mondo – e dell’Europa in modo particolare, e della Grecia in maniera più drammatica e accentuata – è assai semplice: da tempo, ben prima dell’esplodere della crisi, i governi avevano sostanzialmente abdicato ai propri ruoli e poteri, cedendone progressive quote agli organismi sovranazionali come il Fondo Monetario, le Banche centrali, l’Organizzazione mondiale del commercio, le reti non trasparenti delle corporation e delle lobby industriali e finanziarie che hanno il proprio santuario non a caso in Svizzera, nell’annuale assise del World Economic Forum a Davos.

■ Movimenti, vecchi e nuovi

Questa analisi non è particolarmente nuova: il movimento altermondialista e le reti del World Social Forum la vanno ripetendo e articolando da quasi tre lustri senza che tali verità e consapevolezze siano riuscite a modificare il corso degli avvenimenti né a influenzare la governance mondiale; ciò dovrebbe indurre una specifica riflessione sul ruolo, gli strumenti, i limiti e l’efficacia possibili dei movimenti nell’epoca della globalizzazione. Evidentemente, non basta avere ragione per trasformare la realtà. Occorre costruire il necessario e allargato consenso, saper istruire e governare i processi, essere in grado di dotarsi degli strumenti complessi, organizzativi oltre che teorici, capaci di diventare davvero lievito e motore del cambiamento e di rendere credibile l’alternativa.
I movimenti più recenti, Indignados e Occupy Wall Street in primo luogo, ci stanno provando, con ingenuità, entusiasmo, generosità, determinazione e capacità di innovazione. E sapendo muovere da idee forza semplici, cosa che in Italia è sempre risultata più difficile, per eccessive frammentazioni, minore autonomia rispetto alla politica tradizionale e forse pure per una certa inclinazione alla complicazione, a leaderismi e passatismi.
La parola d’ordine We are the 99 percent è tanto esatta quanto comunicativamente efficace; tanto è vero che nel mese di ottobre del 2011 si contavano occupazioni in più di 95 città di 85 Paesi nel mondo, mentre negli USA le occupazioni avevano interessato oltre 600 comunità. Lo stesso vale per i valori fondanti dell’esperienza di Occupy e di Zuccotti Park, che agli inizi si è coagulata a partire da una richiesta assai semplice: «Chiediamo che Barack Obama istituisca una commissione presidenziale con il compito di porre fine all’influenza che ha il denaro sui nostri rappresentanti a Washington» (Scrittori per il 99%, Occupy Wall Street, Feltrinelli, 2012). Tanto semplice da apparire semplicistica. Eppure, in radice, gran parte delle questioni stanno proprio in questa potenziale distruttività connessa al potere del denaro, non più temperata da valori e filosofie, da regole e culture, come in altre epoche storiche.

■ Le diseguaglianze esplosive

Una mutazione ben evidenziata dalla diseguaglianza, divenuta non solo manifesta realtà ma obiettivo perseguito. Se negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso i compensi medi dei top manager arrivavano a 40 volte l’importo del salario di un operaio o di un impiegato mentre oggi ammontano a 300 volte, con punte sino a 1.000 volte, significa che si è rotta una proporzione plausibile e accettabile tra le diverse figure e ruoli che partecipano al processo di produzione della ricchezza sociale ma anche che il denaro, ovvero la finanza, è divenuto un valore-potere in sé e che a sé tutto subordina.
Secondo i dati del Congressional Budget Office statunitense, tra il 1992 e il 2007 i 400 americani più ricchi hanno avuto un incremento del reddito del 392%, ma le loro tasse sono calate mediamente del 37%; nel 2007, il 20% degli americani più ricco possedeva l’85% della ricchezza nazionale, mentre l’80% della popolazione solo il 15%. Tendenze analoghe sono registrate dall’OCSE anche negli altri Paesi. In Italia, dicono i dati della Banca d’Italia, alla fine del 2008 la metà più povera delle famiglie deteneva il 10% della ricchezza totale; a fronte, il 10% più ricco possedeva quasi il 45% della ricchezza complessiva. Da ultimo, sempre l’OCSE ci dice che l’Italia è al 23° posto su 34 Paesi per livello di salario medio netto, peggio persino di Irlanda e Spagna, e che nel 2011 ha perso una posizione rispetto all’anno precedente.
Quando solo dieci persone possiedono beni e capitali per circa 50 miliardi di euro, tanto quanto i tre milioni di italiani più poveri (Giovanni D’Alessio, Ricchezza e disuguaglianza in Italia, Questioni di Economia e Finanza, Banca d’Italia, n. 115, febbraio 2012), significa che il sistema non solo è profondamente iniquo ma non più sostenibile. Il mondo, allora, è tanto guasto da essere divenuto marcio.
Mettere in discussione quel potere e quelle esplosive diseguaglianze, per quanto ingenuo e utopico possa apparire, vuol dire riprogettare le forme e i modi del vivere e del produrre, il lavoro e il consumo, la politica e l’economia, il rapporto con il presente e quello con il futuro, il sistema di relazioni e le forme dell’abitare i luoghi, le città e il pianeta, l’ambiente e il rapporto con le nuove generazioni. Occorre, insomma, ripensare i paradigmi che presiedono ai processi di globalizzazione e le istituzioni che li governano, in direzione di una riconversione ecologica dell’economia, di una trasformazione degli stili di vita, di una nuova  democrazia, di un’universalizzazione dei diritti.
Una questione che, oltre che urgente, è divenuta vitale e globale. «La transizione dal controllo delle multinazionali sulle risorse della Terra è diventata fondamentale per la sopravvivenza della democrazia e per la libertà degli uomini», scrive Vandana Shiva nel suo ultimo libro, indicando anche i cambiamenti necessari da compiere. Tra di essi, il passaggio dalla competizione alla cooperazione; il passaggio dalla globalizzazione delle multinazionali alla localizzazione economica basata sulla minimizzazione dello sfruttamento di risorse naturali; il passaggio dal consumo illimitato a una cultura di conservazione, dalla monocultura gerarchica a culture inclusive basate sulla diversità e sui diritti della Madre Terra (Vandana Shiva, Fare pace con la Terra, Feltrinelli, 2012).

■ L’alternativa necessaria e la neolingua del liberismo

Naturalmente, tutto ciò è tanto indilazionabile e necessario quanto improbabile. Poiché i “vincitori”, di cui scrive Luciano Gallino, negli scorsi decenni hanno alterato in profondità non solo i rapporti di forza e le procedure democratiche, ma – prima, assieme e più in là – le precondizioni del cambiamento. Tra di esse, le categorie d’interpretazione, la possibilità di sguardo critico, il linguaggio stesso, espungendone ogni possibile smagliatura rispetto alla vigenza del Nuovo ordine mondiale, appunto fondato sul potere del denaro, sull’uso indiscriminato e irresponsabile delle risorse naturali e sul dominio dell’1% sul 99% della popolazione. Taluni correttori dei programmi di scrittura del computer segnalano come scorretta e desueta la parola «alternativa», suggerendo di modificarla con «scelta» oppure con «possibilità». Forse in futuro sarà cancellata direttamente dal software; per ora, basta sostituirla con sinonimi che sfumino ogni idea di radicalità, di alterità di modello.
La neolingua del neoliberismo ha sapientemente e pervasivamente plasmato e asservito a sé buona parte dei media, dell’industria culturale e della produzione di immaginario, proprio come in precedenza aveva fatto con la politica.
Si vuole, insomma, che il mondo globalizzato dominato dal sistema neoliberista non preveda alternative ma semmai solo varianti. Eppure, agli inizi della crisi, era sembrata farsi strada l’idea di una necessaria “legittima difesa” collettiva rispetto ai guasti e al domino di catastrofi che il sistema finanziario ha prodotto con la sua ipertrofia, riguardo alla quale basti solo un dato citato da Vladimiro Giacché (in Titanic Europa, Aliberti, 2012): nel 1980 il valore complessivo a livello globale delle attività finanziarie era all’incirca corrispondente a quello del PIL mondiale; nel 2007, quando si comincia a evidenziare la crisi, la proporzione rispetto al PIL era divenuta del 356%.
Nel 2008 e 2009 la consapevolezza dei guasti e dei rischi connessi all’abnorme castello di carte finanziario si era diffusa nelle opinioni pubbliche, ma anche a livello di governi. Quello di Obama, pur ovviamente soccorrendo il sistema per impedirne il tracollo, ha provato a introdurre correttivi, ma immediata ed efficacissima è stata la reazione delle potentissime lobbies. L’Europa, sotto il tallone di ferro della Troika, non ci ha neppure provato. Critiche e accuse sono state deviate verso i debiti pubblici e i sistemi di welfare; sul banco degli imputati sono stati subito collocati la classe politica e i partiti, verso cui si sono alimentati i sentimenti di rabbia e la delusione dei cittadini e delle fasce più colpite. Non che la politica non abbia una significativa quota di responsabilità per il malgoverno della cosa pubblica e per il saccheggio dei beni comuni. Ma quella in corso negli ultimi anni è stata una vera e propria operazione di disinformacija e di sollecitazione del populismo e dell’antipolitica a opera dei grandi e sovranazionali poteri economico-finanziari per evitare di pagare il dazio, vale a dire per poter continuare indisturbati a macinare profitti strabilianti e per scaricare su altri le responsabilità, gli oneri e i costi della crisi.
Dapprima e soprattutto sulla Grecia, con la logica di colpirne (e spolparne) uno per minacciarne e disciplinarne cento.

■ Il neocapitalismo colonialista e la banca che fa il mestiere di Dio

Ciò che è successo in Grecia, per volontà della Germania ma non solo, dal punto di vista della devastazione del tessuto sociale, è paragonabile a una guerra, cinicamente condotta. I prestiti erogati a quel Paese – soprattutto per garantire le banche – con il contagocce e imponendo feroci condizioni ammontano a 110 miliardi di euro nel 2010 e ad altri 130 nel 2012. Cifre risibili di fronte a quelle impiegate per salvare i grandi istituti bancari e assicurativi: «Nel giugno 2009 il Financial Stability Report della Bank of England rivelò che i sussidi e le garanzie offerti dalle banche centrali e dai governi degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dei Paesi dell’Eurozona a sostegno del sistema bancario ammontavano alla cifra spaventosa di 14.000 miliardi di dollari. Si trattava – precisava lo stesso Rapporto – di una cifra equivalente a circa il 50% del Prodotto Interno Lordo di quei Paesi» (Vladimiro Giacché, Titanic Europa, Aliberti editore, 2012).
Solo il salvataggio degli istituti finanziari statunitensi sarebbe arrivato a ben 7.700 miliardi di dollari (corrispondenti alla metà dell’ammontare del PIL USA e a 11 volte l’importo degli aiuti ufficialmente ammessi), secondo le rivelazioni di “Bloomberg” che ha avuto accesso ai documenti riservati della Federal Reserve.
Basterebbe guardare agli attori, alle biografie e agli incarichi dei personaggi che hanno un ruolo in questa complicata e drammatica partita per capirne genesi, sbocchi e interessi. Prima fra tutte la Goldman Sachs, banca d’affari statunitense tra le più grandi e la più influente al mondo, che all’inizio ha preso all’amo la Grecia attraverso un prestito, poi l’ha aiutata a truccare i conti, per consentire infine ai grandi player della finanza globale di azzannarne le carni vive, con la collaborazione attiva delle addomesticate istituzioni europee. Figure chiave della vicenda del debito greco erano, o sono poi diventati, uomini della Goldman: come Petros Christodoulu, responsabile dei mercati della Banca nazionale greca; come Otmar Issing, già esponente dell’assemblea esecutiva della Banca Centrale Europea. Come Mario Draghi, vicepresidente della divisione europea di Goldman Sachs tra il 2002 e il 2006, ora presidente della Banca Centrale Europea; vale a dire di quell’organismo che ha dettato il programma economico al governo italiano sin nelle virgole. E che ha espresso direttamente il nuovo Primo ministro greco, Loukas Papadimos, vicepresidente della Banca Centrale Europea sino al 2010, insediato come premier nel novembre 2011 per sostituire il socialista George Papandreou, troppo recalcitrante rispetto allo strangolamento neocoloniale sotto la minaccia del default del suo Paese, e del suo popolo, e che ha avuto l’ardire di proporre un referendum consultivo attraverso il quale i greci potessero esprimersi sui sacrifici richiesti.
Ma la crisi è la nuova forma della guerra e, proprio come avviene da sempre per la guerra tradizionale, essa viene decisa dai generali e dai governi, mentre il popolo non ha diritto di scegliere, ha solo il dovere di andare al fronte a morire.
Lo stesso premier italiano Mario Monti dal 2005 è stato International Advisor per Goldman Sachs. Ancor più evidenti e stretti i rapporti con figure centrali dell’Amministrazione USA: dall’ex direttore generale della Goldman Sachs, Robert Rubin, divenuto sottosegretario al Tesoro con Bill Clinton, a Henry Paulson, amministratore delegato della Goldman dal 1999 sino al 2006, divenuto Segretario al Tesoro con George W. Bush. Il travaso e la contiguità, per la verità, continuano anche con Barack Obama, dato che una delle attuali figure centrali della Federal Reserve Bank,William Dudley, è stato capo economista della Goldman, così come l’attuale capo del personale del Dipartimento del Tesoro, Mark Patterson, già lobbista della Goldman Sachs (Marc Roche, La banque – Comment Goldman Sachs dirige le monde, Editions Albin Michel, 2011).
Si tratta di un impero che ha avuto un ruolo preciso e determinante nel creare le premesse e l’innesco della crisi mondiale e la cui potenza è effettivamente globale e intramontabile. Del resto, Lloyd Blankfein, che nel marzo 2012 è stato riconfermato nel doppio ruolo di amministratore delegato e presidente della Goldman, all’acme della crisi delle banche statunitensi aveva dichiarato al “Sunday Times”: «I banchieri fanno il lavoro di Dio». È un po’ difficile che chi ritenga di esercitare un compito così alto possa convincersi spontaneamente di aver provocato danni catastrofici e che sarebbe meglio farsi da parte. La potenza divina è per propria natura infallibile ed eterna.

■ La Prima Guerra Mondiale della finanza

Ricostruendo queste dinamiche e questi intrecci, spesso non trasparenti e compiacentemente sottaciuti dai grandi media, è più facile convenire su una lettura solo apparentemente avventata, secondo cui quello che sta accadendo in Grecia e che a breve potrà avvenire in Portogallo, in Spagna e anche in Italia, rappresenta le prove tecniche di una nuova forma di colonialismo. Come ha scritto Parag Khanna, influente osservatore geopolitico, politologo, consigliere di Barack Obama e Senior Research Fellow presso la New America Foundation: «Un tempo si conquistavano le colonie; oggi si comprano le nazioni» (I tre imperi – Nuovi equilibri globali del XXI secolo, Fazi editore, 2009). Naturalmente, per comprarle a prezzi di saldo, occorre prima portarle al default. Esattamente com’è avvenuto per la Grecia.
Gli scenari resi evidenti dalla crisi rendono così meno apocalittiche e improbabili anche le analisi che vedono avvicinarsi sullo sfondo una nuova forma di guerra (Elido Fazi, La terza Guerra Mondiale? La verità sulle banche, Monti e l’euro, Fazi editore, 2012) e quelle che parlano di Prima Guerra Mondiale della finanza, relativamente alle speculazioni e agli attacchi avvenuti in questi mesi contro l’Eurozona da parte del sistema finanziario anglosassone, come fa in questo volume l’economista Andrea Di Stefano. Una preoccupazione espressa anche da una figura eminente come Jacques Delors, già ministro delle Finanze con François Mitterrand e presidente per un decennio della Commissione Europea: «Forse non più come nel 1915-1918 e nel 1939-1945. Ma oggi ci si può fare la guerra in altri modi, con l’economia, la frode fiscale, il dumping sociale, l’immigrazione» (in Paolo Valentino, «Troppo cinismo, moneta unica a rischio. Lanciamo gli eurobond già nel 2012», “Corriere della Sera”, 19 settembre 2011).

■ La guerra globale contro il pianeta

Tuttavia, quella condotta attraverso le potenti leve dell’economia e della finanza non è l’unica guerra globale in corso che minaccia il futuro (ma anche il presente) dell’umanità. «L’economia globale delle corporation, fondata sull’idea della crescita illimitata, è diventata una guerra permanente contro il pianeta e le popolazioni», scrive l’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva (Fare pace con la terra, Feltrinelli, 2012). Anche su questo versante della guerra globale, le armi di distruzione di massa a disposizione e utilizzate senza remore e riserve sono diverse e potenzialmente tutte letali, ad esempio:
l’ingegneria genetica, la geoingegneria e le nanotecnologie, i trattati di libero scambio e le guerre commerciali, le tecnologie produttive invasive, la distruzione delle biodiversità, le emissioni nocive fuori controllo, l’inquinamento planetario, il consumo vorace del territorio, la desertificazione, la crescita senza limiti, il consumismo divenuto religione, l’appropriazione indebita e incontrollata dei beni comuni e delle risorse naturali. Un pugno di consigli di amministrazione e un sistema finanziario onnivoro e insaziabile stanno, insomma, portando il pianeta sull’orlo di un abisso, senza che chi quel pianeta abita ne abbia sufficiente informazione, consapevolezza e dunque capacità di difesa.
«Il potere delle corporation non si limita a convergere con quello dello Stato sull’obiettivo del grande depredamento delle risorse: c’è un potere dello Stato formato dalle multinazionali che sta emergendo come potenza militare per imporre in modo antidemocratico un’agenda politica ingiusta verso il pianeta e le sue popolazioni. Ecco come la guerra contro la Terra diventa guerra contro il popolo, la democrazia e la libertà», denuncia ancora Shiva.
Come sempre, assieme alla verità, è la democrazia a essere la prima vittima di qualsiasi guerra, che essa avvenga con i bombardamenti, attraverso l’aggressione al pianeta e la rapina delle sue risorse oppure mediante l’oscillazione dello spread.

■ Tecnocrazie e obsolescenza della democrazia

Questo è, in effetti, un punto nodale: la crisi, o meglio la sua gestione per opera di Troike, grande finanza e poteri forti transnazionali, sta modificando in profondità i sistemi democratici, imponendo premier e compagini governative, dettando programmi, agende e priorità. In precedenza, li condizionava di preferenza dall’interno. Esemplare il caso di Dick Cheney, vicepresidente degli Stati Uniti durante l’Amministrazione di George W. Bush, proveniente dalla multinazionale Hulliburton, grande beneficiaria degli appalti miliardari in Iraq, durante e dopo l’intervento militare americano di cui è stato tra i fautori principali guarda caso lo stesso Cheney.
Negli scorsi decenni, tra governi e consigli di amministrazione di grandi banche e corporation sono esistite infinite porte girevoli, come le chiama Luciano Gallino, che così riassume: «Molti ministri e consiglieri economici dei presidenti americani e dei capi di governo, nel Regno Unito come in Francia, in Italia come in Germania, sono stati manager di grandi società finanziarie e hanno portato in politica l’abilità di trasferire direttamente in leggi e decreti gli interessi del mondo industriale e finanziario, con un forte accrescimento del potere del secondo negli ultimi trent’anni» (La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, 2012).
Il movimento, peraltro, funziona in entrambi i sensi di marcia: politici di professione, terminato il mandato, vengono prontamente accolti in ruoli apicali o comunque ben retribuiti nelle aziende che hanno beneficiato durante l’attività parlamentare e di governo.
La democrazia dopo la democrazia, titola un editoriale di “Limes” (A che serve la democrazia?, n. 2/2012). Ed è ben questo uno degli aspetti centrali, ancora da comprendere e sviscerare adeguatamente, che la crisi ha consegnato al mondo. Le tecnocrazie che prendono piede e i populismi che digrignano i denti alludono a risposte diverse ma simili nei connotati tendenzialmente autoritari.
Non spirano venti di libertà dall’impero in declino, gli USA, che continuano a predicare democrazia, ma il sistema globale di cui si suppone essi siano il perno «secerne l’opposto: guerre, anomia, malessere sociale, più vincoli e meno libertà. Non proprio il genere di rivoluzione evocata nella belle époque clintoniana». La situazione non è migliore nell’altra metà dell’Occidente, quasi un quarto di secolo dopo la caduta del Muro e le tante speranze alimentate: «fine dell’incubo della guerra nucleare nell’Europa violata dalla cortina di ferro; diffusione del benessere secondo gli standard del capitalismo calmierato dallo Stato sociale; ordine democratico; libertà al plurale (di movimento, mercato, coscienza, opinione e religione) e al singolare (libertà come valore dei valori). Vent’anni dopo, il bilancio non esalta. L’orizzonte è piatto. Di promettere non se la sente più nessuno. Il comunismo sarà morto, ma il liberalcapitalismo non scoppia di salute. La democrazia è in questione, colpevole di non corrispondere alle attese. Rischia di fungere da capro espiatorio della crisi» (“Limes”, n. 2/2012).
Certamente non può essere considerato faro possibile di rilancio della democrazia il nuovo polo emergente, costituito dai BRICS, in particolare date le logiche imperiali e le situazioni interne di Cina e Russia.
Il vento freddo che spira dall’Ungheria di Viktor Orbán, il quale proclama che il parlamento può funzionare anche senza opposizione, dovrebbe far accapponare la pelle; specie se si accompagna temporalmente alla forte affermazione del Fronte Nazionale di Marine Le Pen al primo turno delle elezioni presidenziali francesi del 22 aprile 2012. Salvo ricordarsi che, con retroterra, toni e umori di fondo certo diversi, anche nelle Camere italiane l’opposizione appare come un principio e una necessità di rappresentanza resi desueti dalla durezza della crisi e dall’inevitabilità del sostegno a un governo non eletto dal popolo, in una situazione che “Limes” definisce efficacemente e propriamente «sabbatico della democrazia dei partiti» e che al momento accomuna Grecia e Italia, i cui governi sono entrambi espressione di quel tribunale metafisico costituito dai mercati e i cui programmi vengono stabiliti dalle Banche centrali ed eseguiti dagli uomini di riferimento delle grandi banche d’affari e delle potenti lobbies transnazionali.
Il governo delle tecnocrazie è una situazione che si può ritenere necessitata quanto si voglia (lo si fa anche, e autorevolmente, da sinistra, con la posizione ad esempio espressa da Marco Revelli in questo volume riguardo al governo Monti), ma che costituisce obiettivamente uno strappo nel già sfibrato tessuto democratico.
Si tratta di un processo che, con particolare riferimento all’Europa e al ruolo avuto nella crisi da Francia e Germania, il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha definito di post-democrazia, arrivando a parlare di un silenzioso golpe tecnocratico, di fronte al quale «i cittadini di ogni singolo Paese, che finora hanno dovuto accettare la riallocazione delle responsabilità al di là dei confini sovrani, in qualità di cittadini europei potrebbero far pesare la loro influenza democratica sui governi che al momento agiscono nell’ambito di una zona grigia costituzionale» (in Habermas, the Last European, intervista di Georg Diez, “Der Spiegel”, 11 novembre 2011).
Questa realtà, peraltro, non è suscettibile di ritorni indietro, e ciò rende improrogabili e urgenti nuove consapevolezze, nuovi paradigmi e anche nuove politiche e nuovi soggetti in grado di imporle, come ha ammonito a fare l’economista ed ecologista Guido Viale: «Non ci sarà alcun ritorno alla “normalità” di un tempo: perché il mondo di domani, come già quello di oggi, sarà in preda a sconvolgimenti continui, non solo economici e finanziari, ma soprattutto ambientali; e a rischi sempre maggiori di svolte autoritarie» (Un programma minimo ma ambizioso, “il manifesto”, 21 aprile 2012).

■ Il contagio della rivoluzione dal basso

Se esiste a breve una nuova speranza, più che nella capacità di reazione interna del sistema politico-partitico, sclerotizzato e in evidenza incapace di autoriforma, essa può prendere le mosse forse solo dal basso, come auspica Marco Revelli nell’intervista in questo volume, per disintossicarsi dalla «morfina tecnocratica».
Com’è, in effetti, successo in questi mesi, sia pur più nel resto del mondo che non in Italia, dove, per il momento, solo i sindacati e in particolare la CGIL sembrano in grado di reagire e di proporre alternative.
«Una lite scoppiata in Tunisia tra un venditore di frutta esasperato e una poliziotta si trasforma in una rivolta panarabica, così forte da portare alle dimissioni alcuni dittatori al potere da anni. La rivoluzione diventa un virus che si diffonde in tutto il bacino del Mediterraneo e minaccia di arrivare fino al cuore dell’Unione Europea: Bruxelles. Negli USA il movimento Occupy Wall Street inizia con manifestazioni pacifiche a New York e ben presto si diffonde in centinaia di città nel Paese e nel mondo. La rivoluzione è rapida, il contagio rapidissimo; tutto succede alla velocità di Twitter»: così l’economista Loretta Napoleoni sintetizza gli avvenimenti salienti del 2011 (10 anni che hanno cambiato il mondo, Bruno Mondadori, 2012).

■ L’11 settembre dei diritti e dello Stato sociale

«L’autunno del capitalismo è quasi sempre il duro inverno del proletariato», ha scritto Valentino Parlato (“il manifesto”, 28 febbraio 2012). Il linguaggio potrà apparire novecentesco ma la sostanza (e la verità) non cambia. Che l’attuale crisi si sia trasformata in un profondissimo attacco e in una resa dei conti rispetto ai diritti e alle residue conquiste delle lotte degli anni Sessanta e Settanta appare del tutto evidente. Lo dimostrano incontrovertibilmente anche i dati e le vicende di questi ultimi mesi, riassunti e analizzati in questo nostro Rapporto, giunto al decimo anno di vita. Non si avesse voglia di perdersi dentro i noiosi numeri e le diverse statistiche, basterebbe registrare la considerazione soddisfatta del governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi: «Il modello sociale europeo è morto» (“Wall Street Journal”, 24 febbraio 2012).
Che ciò fosse necessario è una delle grandi menzogne attraverso le quali si è provato, spesso riuscendoci, a convincere le vittime della necessità dei sacrifici loro richiesti, o meglio imposti.
In Italia è rapidamente scomparsa anche la sola ipotesi dell’imposta patrimoniale – che in una forma consistente costituirebbe l’unica vera, adeguata ed equa risposta alla crisi –, mentre il bisturi dei tagli e delle manovre ha inciso senza anestesia e con sempre maggiore profondità nel corpo sociale. Tanto che nel solo 2011 le manovre varate ammontano a ben 89 miliardi di euro (55 miliardi di euro da parte del governo Berlusconi, 34 miliardi da parte dei “tecnici” di Monti).
Eppure, le alternative c’erano e ci sono. In Italia l’evasione fiscale arriva annualmente a 120 miliardi di euro, mentre, come denuncia la Corte dei conti, i fenomeni di corruzione sottraggono almeno 60 miliardi e l’economia sommersa giunge a quasi 350 miliardi. Una somma pari al 20% del Prodotto Interno Lordo. Basterebbe recuperare solo la metà dell’importo dell’evasione fiscale e della corruzione per vent’anni per azzerare il debito pubblico italiano.
«Il “Fiscal compact” europeo e il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione cancelleranno i diritti. I diritti, infatti, costano. E se lo Stato non potrà più indebitarsi, lo scandalo della ricchezza dei singoli contro la povertà del pubblico sarà sancito per sempre. Monti ha già firmato, Hollande resiste.
La Francia, per ora, è l’unica speranza per l’Europa» (Giovanni Ferrara, “il manifesto”, 9 marzo 2012). Queste poche righe indicano l’obiettivo dei poteri globali e gli effetti della crisi, indotti con successo dai suoi stessi responsabili.
In Italia il pareggio di bilancio è stato poi effettivamente inserito nella Costituzione repubblicana con il voto definitivo (e quasi unanime: 235 i voti a favore, solo 11 quelli contrari e 24 gli astenuti) del Senato del 17 aprile 2012. Un provvedimento che alcuni commentatori non hanno esitato a definire a chiare lettere eversivo: «Al di là della gravità di aver utilizzato in maniera impropria e strumentale l’istituto della revisione costituzionale, occorre ricordare che la garanzia dei diritti fondamentali, tra i quali ovviamente sono inclusi i diritti sociali, rappresenta un principio fondamentale della Costituzione italiana e configura un’ipotesi classica di limite alla prevalenza e/o ingerenza del diritto comunitario sul diritto interno. Quindi, in caso di contrasto tra diritto comunitario e diritto interno prevalgono i principi costituzionali e il governo italiano avrebbe potuto e dovuto da subito anteporre la difesa della Costituzione a regole eversive poste dai mercati finanziari» (Alberto Lucarelli, Un’altra battaglia di obbedienza civile, “il manifesto”, 20 aprile 2012). Altrettanto drastico il commento del costituzionalista Ferrara: «Con l’approvazione di tale legge costituzionale, la politica economica è sottratta al Parlamento italiano, al Governo italiano, al corpo elettorale italiano. Con tale approvazione la nostra Costituzione non è più nostra. È stata trasformata in strumento giuridico funzionale a un feticcio, quello neoliberista, che la tecnocrazia finanziaria europea interpreterà volta a volta dettando le misure che dispiegheranno la mistica del feticcio» (Giovanni Ferrara, Regressione costituzionale, “il manifesto”, 18 aprile 2012).
Si è voluto, insomma, con la concorde partecipazione dell’intero parlamento italiano e di quasi tutti i partiti e in assenza di opposizione sociale, scardinare il sapiente equilibrio della Costituzione per imbrigliare la finanza pubblica, così che quella privata possa ulteriormente spadroneggiare e perseguire il sistematico depredamento dei beni comuni e l’affossamento delle garanzie sociali. Ma, assieme allo Stato sociale e ai diritti, è la democrazia stessa che sta barcollando sotto i colpi concentrici dell’ultraliberismo e di governi succubi o direttamente espressione delle tecnocrazie.
La grande questione, evidente prima della crisi e drammatica dopo, è quella distributiva. Come dice in questo volume il giurista Ugo Mattei, ogni eccesso di proprietà e di risorse corrisponde obiettivamente a una sottrazione di beni comuni. La forbice della diseguaglianza è la spada di Damocle che pende sui destini globali, la cui permanenza è in grado di inficiare qualsiasi strategia di uscita dalla crisi. Tanto più se, come avviene attualmente, le risposte già introdotte vanno nella direzione di un allargamento di quella forbice. Con tutte le conseguenze che ciò comporta, in termini di vita o di morte.

■ La crisi uccide

Le emozioni non dovrebbero mai supplire ai ragionamenti, allo sforzo dell’analisi, al vaglio lucido degli avvenimenti. Pure, le emozioni possono e talvolta debbono accompagnare e vivificare la disamina razionale, che di per sé potrebbe essere così fredda da risultare cinica, e dunque incompleta e anche distorcente.
Se c’è un’emozione e un’immagine che possono condensare la lettura della crisi in corso e soprattutto dei suoi effetti, questa ha un nome e una data: Dimitris Christoulas, un farmacista di 77 anni che si è sparato a una tempia davanti al parlamento greco il 4 aprile 2012. I motivi li ha lasciati scritti in un biglietto, accusando il governo con parole estreme, ma certo non si può chiedere moderazione a chi sta per abbandonare la vita con disperazione e per dignità.
Quelle parole sono state censurate da quasi tutti i media; persino lo stesso nome di chi le ha volute lasciare come proprio testamento è stato occultato dalla stampa greca e da quella internazionale. Eppure, quella morte meritava e merita una riflessione, anche perché non parla solo di un dramma individuale.
Come non lo è stato per la vicenda di Mohamed Bouazizi, il venditore ambulante che si è dato fuoco il 17 dicembre 2010 in una cittadina della Tunisia centrale per protestare contro i soprusi della polizia che boicottava il suo piccolo commercio. Una forma estrema di protesta che, diversamente, è stata enfatizzata dai media mondiali sino a fare di Bouazizi un’icona della Primavera che ha scosso e cambiato diversi Paesi arabi. Un “errore” che, evidentemente, grandi media e governi non intendono ripetere, preferendo ora silenziare e occultare quelle drammatiche proteste e le loro ragioni.
Indignarsi non basta. Lo dicevamo già lo scorso anno, ai tempi del libro di Stéphane Hessel. L’indignazione è tuttavia premessa e strumento del cambiamento. Il quale muove dalle necessità materiali, dalle sollecitazioni culturali, dalle teorizzazioni politiche ma anche, e forse prima, da una dimensione etica. Trasformare radicalmente l’esistente, poi, sta diventando questione di vita e di morte, come mostrano le cronache di questo anno e di questa lunga crisi. Crisi che è ancora del tutto aperta e anzi suscettibile di peggiorare notevolmente e a spettro decisamente più ampio le già difficili condizioni delle fasce deboli delle popolazioni, dei lavoratori in primo luogo, ma anche dei ceti medi.
La Grecia, insomma, è davvero vicina per parafrasare il titolo di un film di Marco Bellocchio, che pochi oggi ricordano (è del 1967) e che registrava i cambiamenti radicali che già bollivano sottotraccia nel corpo sociale e destinati a esplodere l’anno successivo in tutto il mondo e a lasciarvi tracce permanenti.
Il suicidio di Dimitris Christoulas ci ricorda che nella responsabilità politica e di governo non esiste decisione asettica e “tecnica”; nessuno può davvero tranquillizzarsi chiamandosi fuori dagli effetti delle proprie decisioni, per complicate che siano o necessitate che possano apparire. Lo smantellamento accelerato dello Stato sociale, la rarefazione delle reti di sostegno a chi ha perso l’occupazione e il reddito, l’allontanamento drammatico del miraggio della pensione, la precarizzazione a oltranza del mercato del lavoro, ma anche il credit crunch, le difficoltà crescenti per artigiani e piccoli imprenditori producono sofferenza e lacerazione sociale. E, appunto, morte. E, poi, malattia, disagio fisico e psichico.
I dati al riguardo della Grecia sono stati evidenziati dall’autorevole “The Lancet” e sono obiettivamente sconvolgenti: gli ospedali pubblici hanno avuto tagli del 40%, ma si sono impennate le richieste di ricovero (+24% nel 2010, +8% nella prima metà del 2011) non essendo in grado molta parte della popolazione di sostenere i costi delle cure private. È cresciuto l’uso di eroina (+20% nel 2009), così come le correlate infezioni da HIV (+52% nel 2011); nonostante ciò, i servizi per le tossicodipendenze hanno subito una riduzione del 30%. Tragico il bilancio dei suicidi: +17% tra il 2007 e il 2009; +25% tra il 2009 e il 2010; +40% nella prima metà del 2011, rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente.
Numeri da emergenza catastrofica, come si vede.
Di minor entità ma pur sempre drammatici e allarmanti quelli dell’Italia, dove i dati ISTAT e una ricerca di EURES indicano una crescita significativa dei suicidi con movente economico: erano il 2,9% nel 2000, sono arrivati al 10,3% nel 2009. In maggioranza si tratta di persone che hanno perso il lavoro o comunque che non riescono a trovarlo: 281 casi nel 2005, 275 nel 2006, 270 nel 2007, 260 nel 2008, 357 nel 2009 e 362 nel 2010. Un dato crescente, evidenziato in questi mesi dai media, è anche quello degli imprenditori e lavoratori autonomi che si sono suicidati per difficoltà economiche: nel 2010 vi sono state 192 vittime tra artigiani e commercianti e 144 tra gli imprenditori e i liberi professionisti (erano state 151 nel 2009), nel 90% dei casi uomini. Ma sono numeri sicuramente inferiori al dato reale, poiché spesso queste cause di morte e le loro motivazioni vengono tenute in ambito privato.
Stragi di mercato, le ha definite Marco Revelli in un editoriale, ricordando che lo stillicidio di queste morti è figlio diretto di una certa cultura economica e sociale, di visioni e teorie economiche divenute dogmi indiscutibili, che governano il mondo e che sono le stesse che caratterizzano convintamente anche l’esecutivo presieduto da Mario Monti. Scrive Revelli: «Se leggiamo con attenzione le qualifiche professionali in questo elenco di necrologi che si allunga ogni giorno di più, vedremo che sono operai, disoccupati, piccoli imprenditori, pensionati: tutte le variegate figure di quel lavoro del cui mercato il governo sta ridisegnando la struttura. E di cui, quelle morti tragiche, ci dicono quanto sia inseparabile dalla vita delle persone. Quanto pericoloso (e criminale) sia l’atto, mentale e pratico, di ridurre il lavoro alla pura dimensione di merce: di cosa che si scambia secondo le leggi oggettive della domanda e dell’offerta» (“il manifesto”, 20 aprile 2012).
Il giudizio è duro, ma non inappropriato se si considera l’esteso carico di sofferenze e, appunto, di morte, che un voto parlamentare o un indirizzo di governo determinano nel corpo sociale. Ferite vere e fatali, in corpore vili, non asettiche decisioni che si vorrebbero neutre e sgravate da responsabilità.
Il tema, del resto, ha sfiorato anche l’agone politico, allorché, subito dopo due suicidi per motivi economici, il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, intervenendo alla Camera dei deputati il 4 aprile 2012, ha affermato che il premier Monti avrebbe sulla coscienza queste morti, scatenando così accese polemiche. Ma, al di là delle diatribe, delle accuse e delle reazioni, la sfera politica sembra sempre in altre faccende affaccendata, così che anche problemi di tanta urgenza e drammaticità non trovano davvero riflessione,
approfondimento e risposte. E, anzi, non frenano minimamente quei provvedimenti economici che accentuano le difficoltà per le fasce più vulnerabili del mondo del lavoro.
Né potrebbe essere diversamente, data l’imperturbabile, e “tecnica”, escalation di tagli allo Stato sociale e ai livelli di diritti e garanzie dei lavoratori che hanno caratterizzato negli ultimi mesi le scelte del governo italiano, in modo ancor più accentuato degli altri Paesi europei, Grecia a parte.
Sulla base di quei perduranti dogmi, ammonisce Revelli, non si potrà uscire dalla crisi e dalle difficoltà che stritolano i Paesi più esposti. Non ci sarà una fine del tunnel.

■ Gli scenari prossimi venturi e la voce della strada

Il nodo è questo. Nel nostro piccolo, lo andiamo ripetendo ormai da anni.
La crisi globale e la necessità del cambiamento, titolavamo la nostra introduzione nel Rapporto sui diritti globali del 2008, ormai quattro anni fa. La crisi, le sue cause, le sue vittime e le soluzioni, era quello dell’anno successivo, nel volume del 2009. Di fronte alla crisi cogliere l’opportunità di uno sviluppo diverso,
era il titolo della prefazione al Rapporto 2010 di Guglielmo Epifani, mentre nel volume dello scorso anno Susanna Camusso invitava a Ripensare lo sviluppo, riformare l’economia e il governo globale.
Le cose sono andate esattamente nella direzione opposta: quella della perseveranza del modello neoliberista, dell’assoluta continuità nelle scelte di natura economica globale, della più totale permanenza di una grande finanza fuori controllo e dei meccanismi che la premiano e riproducono, anziché frenarla e correggerla, della perdurante sottomissione dei governi e dei poteri politici a quelli economico-finanziari, della supremazia delle logiche dei mercati e della loro sregolatezza, anche rispetto a questioni vitali, come quella ambientale ed ecologica.
Continua, imperterrito, anche il grande e criminale spreco di risorse destinate agli armamenti. Nel 2011, secondo i dati SIPRI, la spesa militare mondiale è ammontata a 1.740 miliardi di dollari. Come sempre, in testa gli Stati Uniti, con quasi 700 miliardi; al secondo posto la Cina con poco meno di 130 miliardi di spesa, ma con un primato nel trend di crescita (+119% in termini reali nel periodo 2001-2010 a fronte del +81,3% degli USA e al +82,4% della Russia). Questi dati ci dicono indirettamente quali saranno gli scenari della competizione globale nei prossimi anni, riguardo alla sfera economica ma anche al sempre possibile confronto militare.
La spesa militare italiana, per il 2011, è invece stimata in 34,5 miliardi di dollari, vale a dire circa 26 miliardi di euro, quanto una manovra finanziaria.
Mentre, secondo l’annuale Rapporto del Presidente del Consiglio sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento, le autorizzazioni all’esportazione di materiale d’armamento italiano nel 2011 si sono mantenute ai livelli dell’anno precedente, superando i 3 miliardi di controvalore; nel corso del 2011 sono state rilasciate complessivamente da parte del ministero degli Esteri 2.497 (erano state 2.210 nel 2010) autorizzazioni all’esportazione di materiali di armamento.
Il settore bellico, evidentemente, non conosce crisi.
Davanti a questo scenario disastrosamente incipiente, davvero la salvezza pare possibile solo se crescono una consapevolezza e una capacità di mobilitazione, di nuova progettualità e di costruzione di alternative dal basso, dalla società, dai corpi intermedi, dal mondo del lavoro, dalle associazioni e dai movimenti.
Come ha scritto Loretta Napoleoni: «In assenza di un punto di contatto concreto la “primavera araba” sarà con molta probabilità il preludio dell’autunno caldo europeo, e di un lungo inverno di crisi e crolli economici. Solo allora la voce della strada, quella che si è alzata dalle piazze spagnole e che da lì è arrivata fino in Israele e, ahimè, ha infuocato la Gran Bretagna, farà breccia nei parlamenti europei e piazza pulita di tutti i farabutti che vi hanno fatto parte. E non sarà tardi per dare inizio al futuro!» (Loretta Napoleoni, Il contagio, Rizzoli, 2011).

* Coordinatore del Rapporto “Diritti Globali 2012”

(Il Presente articolo costituisce l’Introduzione al Volume “Rapporto sui diritti globali 2012”, presentato ieri 21 Giugno, presso la Sala F.Santi della CGIL Nazionale)

FONTE: http://www.dirittiglobali.it

Discussione

Un pensiero su “La crisi come guerra globale

  1. Mi pare che la crisi l’ha voluto il RICCO, e non il Povero.
    c’e’ poco da scherzare, da noi la crisi, non ancora ha messo piede, e si spera che non arriva. Pero’ cI dicono di stare in GUARDIA.

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    Pubblicato da Frank Padula. | 22/06/2012, 21:59

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