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Diritti globali

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Libertà di espressione e censura mediatica

di Marco Consolo

Lo scorso 2 maggio, Nasser Abu Baker, Presidente del Sindacato dei Giornalisti della Palestina, ha ricevuto a Santiago del Cile il “Premio Mondiale della libertà di Stampa” dell’UNESCO (l’Agenzia dell’ONU), intitolato a Guillermo Cano. A nome di tutti-e i-le giornalisti-e palestinesi, Abu Baker ha ricordato le più di 135 vittime tra i-le colleghi-e che documentavano il genocidio israeliano a Gaza.

L’immediata rappresaglia mediatica israeliana è stata la chiusura di Al Jazeera ed il furto delle sue apparecchiature. Per i più smemorati, nel 2021, con un bombardamento, Israele aveva raso al suolo il grattacielo sede di Al Jazeera e dell’ Associated Press a Gaza.

Argentina e Telesur

In America Latina, la capa del Comando Sud degli Stati Uniti, la sorridente generale Laura Richardson, nella sua recente visita in Argentina aveva puntato il dito sui canali TV di Russia Today e di TeleSUR. La loro “colpa” è quella di avere un diverso punto di vista sul declinante strapotere USA nella regione.  Detto (ordinato) e fatto. Il 3 maggio, in Argentina, il “fedele scudiero” neo-sionista Milei ha oscurato il segnale di TeleSUR, nella griglia della Televisione Digitale Aperta. Poche settimane fa, il presidente Milei aveva già chiuso TELAM, la storica agenzia pubblica di notizie.

Nel 2018, il governo degli Stati Uniti ha silenziato diversi media, come il canale turco TRT World, quello russo Russia Today America, due canali cinesi CGTN1 e CGTN2, un canale sudcoreano Arirang, e poi Africa Today, France 24, TeleSUR, la tedesca Deutsche Welle,  in quanto “agenti stranieri”. Più recentemente il governo statunitense ha chiuso Press TV e sta dando l’assalto alla cinese TikTok (con 170 milioni di utenti negli States), mentre la “democratica” Unione Europea ha da tempo oscurato il segnale di Russia Today.

Per non rimanere indietro, la piattaforma X di Elon Musk ha censurato l’iraniana Hispan TV ed altri media “scomodi”.

E nell’Italia del governo neo-fascista, la RAI si è trasformata in “Tele Meloni”, umiliando il servizio pubblico, chi ci lavora e i-le cittadini-e.

Censura mediatica, democrazia e libertà di espressione

Il veto dei canali russi in Occidente o la costrizione a riferire su temi sensibili come il conflitto in Ucraina, il massacro in corso a Gaza, la pandemia del COVID-19 o la corruzione, hanno evidenziato il modo in cui i “latifondi mediatici” cercano di censurare e manipolare, mentre pretendono dare lezioni al mondo sui diritti e le libertà.

In nome del genocidio e della guerra, del turbo-liberismo e delle “magnifiche sorti” del capitalismo, censurano la tanto declamata libertà di espressione. Hanno paura di voci fuori dal coro, tra le altre quella dello stesso Papa, evidentemente non abbastanza “arruolato”. Nella battaglia mediatica per conquistare i cuori e le menti, la voce del padrone, “il pensiero unico del Ministero della Verità” non ammette controcanto, solo i cori ipocriti e stonati dei suoi sostenitori.

Nel mondo al rovescio, avanza la censura mediatica in nome della “democrazia” e della “libertà di espressione”.

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/liberta-di-espressione-e-censura-mediatica/

UCRAINA: diritti civili e umani sacrificati alla nuova mobilitazione e alla prosecuzione della guerra

30 Aprile 2024: Si apprende in queste ore, da fonti di informazione ucraine e polacche che sono in corso colloqui tra Kiev e Bruxelles per decidere sul trasferimento dei cittadini in età di leva in Ucraina che si trovano nei paesi UE; lo ha dichiarato il vice primo ministro e ministro della Difesa polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz dopo una riunione del governo polacco, auspicando che la decisione sia presa a livello europeo.

“L’Ucraina”, secondo il settimanale tedesco Bild, “non ha abbastanza soldati per fermare Putin”. Questo il titolo con cui è uscito un articolo della Bild che contiene commenti di militari ucraini e portavoce occidentali che criticano la leadership ucraina per aver “ritardato la mobilitazione”. Nello stesso articolo si suggerisce di abbassare il limite di età per la mobilitazione.

L’articolo contiene commenti di militari ucraini e portavoce occidentali che criticano la leadership ucraina che suggeriscono che il limite di età per la mobilitazione dovrebbe essere abbassato. Allo stesso tempo, viene riferito che il 15% degli uomini in età di leva è già ora nell’esercito.

“Stiamo resistendo, ma abbiamo un problema. Una volta dicevo che il problema più grande era la carenza di proiettili d’artiglieria, ma oggi è la carenza di risorse umane”, ha detto Dmytro Kukharchuk, un ufficiale della 3ª Brigata indipendente.

Un marine ucraino con il nome di battaglia “Military Explorer” lamenta che “dopo che il presidente ha rimandato la mobilitazione per così tanto tempo”, l’Occidente ora “fornisce armi ed equipaggiamento, ma nessuno è addestrato ad usarli”.

Singoli portavoce dell’Occidente affermano inoltre che: “A parte il lento e insufficiente sostegno militare, finanziario e politico da parte dell’Occidente, il grande dilemma dell’Ucraina è la mobilitazione”. Uno dei compiti principali di Zelensky è quello di creare una strategia e un modello di mobilitazione che porti a una maggiore equità, prevedibilità e mantenga un alto valore di combattimento. Un sistema del genere non esiste ancora in Ucraina”, ha detto l’esperto di difesa dell’UE Roderich Kiesewetter.

L’ex funzionario del Ministero della Difesa tedesco e attuale esperto militare, Nico Lange, afferma che la leadership ucraina ha “perso molto tempo in discussioni tattiche” e invita Zelensky a mostrare “leadership”.

“Per quanto onorevole sia l’idea ucraina di non arruolare i giovani, il carico di lavoro fisico è elevato, l’equipaggiamento e le munizioni sono molto pesanti, e i giovani soldati se la caveranno meglio di molti quarantacinquenni che si incontrano ora sul fronte”, ha affermato.

Mentre secondo il il deputato Kamelchuk, circa 15mila militari avrebbero disertato, l’ex parlamentare ucraino Ihor Lutsenko, ora comandante di una compagnia di droni d’attacco, ha annunciato la formazione di un’unità UAV femminile e il Ministro dell’Economia Yulia Sviridenko ha dichiarato che l’Ucraina sta cercando di coinvolgere più donne nel processo di sminamento.

“Il Consiglio dei Ministri cerca di garantire la realizzazione professionale e l’integrazione sociale delle donne, dei veterani e delle veterane, delle persone colpite da rischi di esplosione e delle persone con disabilità attraverso il coinvolgimento nel lavoro di sminamento”, ha dichiarato Sviridenko. “Questa iniziativa”, spiega, “è un ulteriore passo verso una politica di ‘parità di genere’ in Ucraina”.

Nel frattempo le truppe russe stanno avanzando su tutto il fronte orientale e l’obiettivo principale sarebbe quello di prendere la città di Kostiantynivka che è il punto di rifornimento per le truppe ucraine su gran parte del fronte orientale.

La guerra a Gaza ha ridotto l’attenzione su ciò che sta realmente accadendo in Ucraina, né i governi e i media occidentali hanno interesse a far conoscere gli sviluppi interni al paese che ha già perso, dal 2014 ad oggi oltre due terzi della sua popolazione, in gran parte profuga in Russia e in Europa occidentale.

Il sacrificio imposto al popolo ucraino dalla Nato e dai governi occidentali, in accordo con la leadership politica locale, con l’obiettivo di mettere al tappeto la Russia, si sta rivelando una vera catastrofe anche dal punto di vista umanitario. Mentre l’irresponsabile narrazione continua a concentrarsi, in Italia e in Europa, sulla legittimità della “resistenza” ucraina e sulla indispensabile prosecuzione nel rifornimento di armamenti.

Ma il clima interno nel paese è decisamente cambiato e le misure di ulteriore pressione sulla popolazione per mandare uomini al fronte sta diventando insopportabile. Il Ministro degli Esteri Kuleba ha imposto la sospensione dei servizi consolari – documenti,, ecc. – per coloro che si trovano all’estero e sono in età di coscrizione (25-60 anni). Allo stesso tempo la compressione dei diritti civili e umani viene affermata ormai senza ritegno. Lo testimoniano diversi reportage, tra cui quelli che seguono, tratti da СТРАНА.ua (“Strana”) che riportiamo di seguito.

Di ciò che sta davvero accadendo in Ucraina non sembra esserci traccia su giornali e tv. E sarà da vedere in che modo si comporterà l’Europa liberale e libertaria rispetto alla stretta autoritaria in corso.

Il richiamo d’oltremare. Come il divieto dei servizi consolari influenzerà il corso della guerra e della mobilitazione

In Ucraina, uno dei temi principali degli ultimi giorni è la decisione del Ministero degli Affari Esteri di interrompere la fornitura di servizi consolari alle persone soggette al servizio militare fino all’entrata in vigore della legge sulla nuova procedura di mobilitazione, nonché la decisione del Consiglio dei Ministri di vietare il rilascio di passaporti stranieri al di fuori dell’Ucraina agli uomini tra i 18 e i 60 anni.

Ciò ha provocato una grave spaccatura all’interno della società. Le autorità, attraverso il Ministro degli Esteri Kuleba, hanno di fatto dichiarato che tutti gli ucraini che si trovano all’estero e non vogliono tornare in Ucraina durante la guerra sono traditori.

Gli ucraini all’estero si sono duramente indignati. Gli ucraini in patria si sono divisi in due campi. Alcuni gongolano per il fatto che anche coloro che sono “fuggiti all’estero” ora si sentiranno male. Altri sottolineano che tali approcci potrebbero incoraggiare milioni di ucraini a tagliare per sempre i ponti con il loro Paese. Si teme inoltre che tali misure drastiche vengano prese non solo all’estero, ma anche all’interno del Paese. Nel complesso, gli esperti ritengono che tutto ciò aumenti l’ansia nella società per l’ulteriore corso degli eventi.

Strana ha analizzato le conseguenze politiche che tutto ciò ha già causato e potrebbe causare.

In anticipo sulla legge

Abbiamo già analizzato in dettaglio le sfumature dell’introduzione delle restrizioni sui servizi consolari, che potete leggere qui e nel canale Telegram “Politica del Paese”.

In breve, dal 23 aprile il Ministero degli Affari Esteri ha vietato alle missioni diplomatiche di accettare nuove domande da parte di uomini in età di mobilitazione per azioni consolari, tra cui il rilascio e la ricezione di passaporti.

Il Ministero degli Esteri ha dichiarato in un comunicato che si tratta di una misura temporanea in attesa dell’entrata in vigore, il 18 maggio, della legge “Sulla modifica di alcuni atti legislativi dell’Ucraina su alcune questioni relative al servizio militare, alla mobilitazione e alla registrazione militare” adottata dalla Verkhovna Rada l’11 aprile.

La legge stabilisce che gli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni che soggiornano all’estero avranno pieno accesso ai servizi consolari dopo l’entrata in vigore della legge solo se confermeranno i loro dati nel database della registrazione militare. Allo stesso tempo, il Ministero degli Affari Esteri riconosce che il meccanismo di conferma previsto dalla legge non è ancora del tutto pronto. A quanto pare, si tratta della versione dell’armadio elettronico dei coscritti, che funzionerà, a giudicare dalle dichiarazioni del Ministero della Difesa, nel secondo trimestre (molto probabilmente, più o meno nello stesso periodo in cui funzionerà la legge sulla “mobilitazione”). Ricordiamo che dopo l’entrata in vigore della legge sulla mobilitazione più severa, gli uomini soggetti al servizio di leva dovranno confermare le loro credenziali in un modo o nell’altro entro 60 giorni e portare sempre con sé un tesserino militare.

Ma fino ad allora le missioni diplomatiche non accetteranno i militari di leva, a meno che non abbiano fatto richiesta di servizi consolari prima del 23 aprile o si siano trovati in una situazione di emergenza all’estero.

In seguito, il Consiglio dei Ministri ha emesso un decreto che vieta il rilascio di passaporti agli uomini in età di leva in qualsiasi luogo al di fuori dell’Ucraina.

Le voci degli insoddisfatti

Come scrive “Strana”, la società è venuta a conoscenza di questa iniziativa del Ministero degli Affari Esteri (le autorità) per caso – dalla lettera “trapelata” ai rappresentanti diplomatici firmata dal primo viceministro degli Affari Esteri Andrei Sibiga, recentemente nominato, in cui si dà istruzione di non fornire servizi consolari agli uomini.

È scoppiato uno scandalo, in cui le autorità hanno dovuto giustificarsi. Tuttavia, il Ministero degli Esteri si è immediatamente assunto la paternità dell’iniziativa. Inoltre, il capo del Ministero degli Esteri Dmytro Kuleba ha effettivamente definito traditori tutti i militari ucraini arruolati all’estero.

“Come appare ora: un uomo in età di leva è andato all’estero, ha mostrato al suo Stato che non si preoccupa della sua sopravvivenza, e poi viene e vuole ricevere servizi da questo Stato. Non funziona così. Il nostro Paese è in guerra”, ha scritto Kuleba sulla sua pagina Facebook.

Nelle ambasciate – almeno in Europa – intanto si registrano agitazioni e litigi con il personale, a cui viene chiesto di rilasciare documenti presumibilmente pronti.

Nella società si sono formati due grandi gruppi di sostenitori e oppositori di regole consolari più severe. Il primo gruppo comprende le persone in guerra e i loro parenti, amici e suoceri, così come le persone che sostengono misure severe contro gli evasori (che includono indistintamente tutti gli uomini attualmente all’estero).

La seconda è più interessante: non ci sono solo coloro che hanno affrontato le restrizioni nelle ambasciate, ma anche coloro che sono insoddisfatti della decisione stessa. Mettono in dubbio la sua legalità. E tra questi ci sono anche deputati del popolo.

“In base a quali norme vengono bloccati i servizi consolari? Le autorità violano la legge, la Costituzione e i trattati internazionali! Come possono pretendere che la gente rispetti la legge quando loro stessi la violano?”. – Ha dichiarato il deputato Dmytro Razumkov (non affiliato), che guida l’associazione di opposizione dei deputati “Politica ragionevole” nella Rada.

Un membro della commissione parlamentare “difesa”, Solomiya Bobrovska (Golos), ha definito la decisione di Kuleba “semi-legale” in un commento ai media, ritenendo che abbia “un risultato, un’adeguatezza e un contenuto discutibili”.

Il deputato Volodymyr Vyatrovych ha affermato che il vantaggio è “solo per la Russia”.

“Solo il nostro nemico trae vantaggio dalla spaccatura tra gli ucraini lungo qualsiasi linea, e dalla restrizione dei diritti di alcuni cittadini ucraini, e dal declino del livello di sostegno internazionale per l’Ucraina, e dal disastro demografico, che si adatta perfettamente ai loro piani per distruggere gli ucraini come nazione”, scrive Vyatrovych.

Egli definisce la risoluzione di Kuleba “arbitraria”. E osserva che nessuna legge, compresa la nuova legge sulla mobilitazione, vieta ai cittadini di ottenere passaporti all’estero.

Vyatrovych è sicuro che nessuno si arruolerà nell’esercito sotto questa pressione. Al contrario, interromperanno i contatti con la loro patria, aggravando la “catastrofe demografica” già esistente.

“Il rifiuto dello Stato di rilasciare passaporti o di fornire servizi consolari ai propri cittadini è un disprezzo per la democrazia e i diritti umani. Nemmeno la Russia fa una cosa del genere. Questo è un modo diretto per peggiorare l’atteggiamento verso il nostro Stato in Occidente, e quindi per ridurre il livello di sostegno, da cui dipende in modo critico la nostra sopravvivenza”, scrive il deputato.

La società accumula negatività

In generale, si può parlare di un aggravamento della già difficile situazione della mobilitazione. Le autorità sono ovviamente pronte a portarla avanti in modo rigido, indipendentemente dalle conseguenze politiche e di altro tipo. Ma forse non ha ancora affrontato quelle più gravi.

“Ora mobiliteranno persone che per la maggior parte non vogliono andare in guerra. Va detto che se l’Occidente non avesse fornito nuovi pacchetti di aiuti militari, la mobilitazione sarebbe diventata un problema colossale. In base agli attuali sviluppi, non porterà a una crisi politica, ma vediamo come sarà condotta, se e quanti eccessi ci saranno. In generale, questo è un altro passo nella direzione dell’impopolarità del governo”, commenta a Strana il politologo Ruslan Bortnik.

vAllo stesso tempo, richiama l’attenzione sull’iniziativa del Ministero degli Esteri in questa materia. “Il Ministero degli Esteri ha deciso di fare giochi politici, per dimostrare, come il governo e il parlamento, il suo sostegno alla linea generale delle autorità”, ha detto l’esperto.

L’analista politico Andrei Zolotaryov ha definito la decisione del Ministero degli Esteri sui servizi consolari come un elemento delle attività di uno “Stato militare-poliziesco”.

“Il rapporto tra Stato e cittadini non è a senso unico. Dobbiamo guardare non solo ai doveri dei cittadini, ma anche a come lo Stato adempie ai propri. È necessaria una sorta di equilibrio. E ultimamente queste relazioni hanno iniziato ad assomigliare al comportamento di un signore feudale con i suoi sudditi”, commenta Zolotarev a Strana.

Le autorità rischiano non solo perdite di reputazione, prevede.

E non è nemmeno detto che molti cittadini ucraini all’estero “metteranno i loro passaporti in uno scaffale lontano”.

“A causa di questa politica, la mobilitazione appare agli occhi dei cittadini con i colori più scuri. Vedono che le autorità sono pronte a prendere le misure più severe. Ne vedremo le conseguenze in termini di calo del rating del presidente, del governo e delle autorità in generale. La negatività si sta accumulando nella società e può concretizzarsi in aggressioni. Stiamo già sentendo i campanelli d’allarme. Non sarebbe esagerato dire che ora molte persone stanno pensando a come vivere meglio, a come uscire dalla “fossa” attuale. E per alcuni questa scelta non è legata all’Ucraina. Probabilmente le autorità se ne rendono conto decidendo di aumentare il numero di guardie di frontiera contemporaneamente alla cancellazione dei servizi consolari”, ha detto Zolotariov.

Anche il politologo Bortnik richiama l’attenzione sui punti di vista opposti sulla necessità di servire. “Si percepisce la spaccatura della società a questo proposito. Sia i sostenitori che gli oppositori della mobilitazione della forza sono, ovviamente, ostaggio della situazione. Ma la divisione tra chi ha servito e chi no, tra chi ha aiutato al fronte e chi si è “seduto fuori” può manifestarsi per molto, molto tempo dopo la guerra, aumentando il conflitto nella società”, ritiene l’esperto.

Tuttavia, le conseguenze possono essere più ampie. Tra cui l’atteggiamento della popolazione nei confronti delle prospettive della guerra e delle opzioni per la sua fine. Gli esperti ritengono che ciò potrebbe colpire il morale della società e aumentare il numero di coloro che sono favorevoli a terminare la guerra il prima possibile.

FONTE: https://strana.news/articles/analysis/463048-vlijanie-zapreta-na-konsulskie-usluhi-na-khod-vojny-i-mobilizatsii-v-ukraine.html

Articolo del 26 Aprile 2024

(Traduzione: cambiailmondo.org)

L’Ucraina ha dichiarato al Consiglio d’Europa che non rispetterà tutti i diritti umani durante la guerra

Il 4 aprile 2024, l’Ucraina ha presentato al Consiglio d’Europa una dichiarazione scritta sulla deroga parziale all’osservanza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà.

La notizia è riportata sul sito web del Consiglio.

La dichiarazione afferma che durante la legge marziale, i diritti umani sanciti da una serie di articoli della Costituzione possono essere limitati. Tra questi, il diritto a libere elezioni.

Gli articoli della Costituzione soggetti a restrizioni garantiscono:

– L’inviolabilità del domicilio (articolo 30);

– Segretezza della corrispondenza, delle conversazioni telefoniche e di altri scambi epistolari
(art. 31);

– Non interferenza nella vita privata e familiare (art. 32);

– Libertà di movimento, libera scelta del luogo di residenza e diritto di lasciare e tornare liberamente nel territorio ucraino (art. 33);

– Il diritto alla libertà di pensiero e di parola, alla libera espressione di opinioni e convinzioni, e il diritto di raccogliere, conservare, utilizzare e diffondere liberamente le informazioni (art. 34);

– Il diritto di partecipare alla gestione degli affari pubblici, ai referendum, il diritto di eleggere ed essere eletti liberamente negli organi di governo statali e locali e la parità di accesso ai servizi pubblici (art. 38);

– Il diritto di tenere riunioni, comizi, marce e dimostrazioni e il diritto di sciopero (artt. 39 e 44);

– Il diritto di possedere, usare e disporre dei propri beni (art. 41);

– Il diritto all’imprenditorialità e al lavoro (artt. 42 e 43);

– Il diritto all’istruzione (art. 53).

Il documento elenca inoltre le misure applicate in Ucraina che, durante la legge marziale, possono essere considerate una deroga alla Convenzione per la protezione dei diritti umani e al Patto internazionale sui diritti civili e politici. In particolare:

– L’alienazione forzata di proprietà private o comunali per le esigenze dello Stato;
l’imposizione del coprifuoco;

– Regimi speciali di ingresso e uscita, restrizioni alla circolazione dei cittadini, degli stranieri e degli apolidi e alla circolazione dei mezzi di trasporto,

– Ispezione degli effetti personali dei cittadini, dei trasporti, dei bagagli, delle merci, degli uffici e delle abitazioni;

– Divieto di assemblee pacifiche, riunioni, marce, dimostrazioni e altri eventi;

– Divieto o restrizione nella scelta del luogo di soggiorno o di residenza;

– Divieto per i cittadini iscritti nei registri militari o speciali di cambiare il luogo di residenza o di soggiorno senza un’adeguata autorizzazione;

– Istituzione di una tassa militare per le persone fisiche e giuridiche.

Il Ministro della Giustizia Denys Malyuska ha commentato la lettera dell’Ucraina al Consiglio d’Europa sulla restrizione dei diritti umani. Secondo il ministro, si tratta di una pratica comune per un Paese belligerante: dopo il 24 febbraio 2022, l’Ucraina aveva già inviato al Consiglio d’Europa avvertimenti sulla restrizione dei diritti, mentre nell’attuale lettera l’elenco di tali restrizioni è stato ridotto.

“Abbiamo inviato un messaggio sulla possibilità di applicare restrizioni ad alcuni diritti quasi immediatamente dopo l’introduzione della legge marziale nel 2022 – questo fa parte dei nostri obblighi internazionali (tali messaggi sono stati inviati dal 2015). Non si tratta di una novità: è quello che fanno tutti i Paesi in guerra. E nell’aprile del 2024 abbiamo nuovamente chiarito l’elenco delle restrizioni esistenti e lo abbiamo ridotto”, ha scritto Maliushka su Facebook.

FONTE: https://strana.news/news/463353-ukraina-podala-v-sovet-evropy-pismennoe-zajavlenie-o-chastichnom-otstuplenii-ot-sobljudenija-evropejskoj-konventsii.html

Articolo del 28 Aprile 2024

(Traduzione: cambiailmondo.org)

COLONIALISMO: come la Palestina divenne dipendente da Israele

100 ANNI Dal mandato britannico a oggi: l’estrazione di valore a favore dell’economia israeliana, aiutata da leggi e forza militare, ha impoverito i palestinesi e li ha messi alla mercé del “vicino”

di Clara Mattei (da Il Fatto Quotidiano, 29/04/24)

Nel suo magistrale libro Jaccuse (Fuoriscena), in cui mette in luce la violenza strutturale della colonizzazione e la violazione di diritti umani perpetrata da Israele, la special rapporteur delle Nazioni Unite Francesca Albanese riproduce la giornata tipo di un lavoratore palestinese: “Alle 7.30 ti svegli, vuoi fare una doccia ma l’acqua la devi comprare da Mekorot, l’azienda idrica di Israele, che ha preso il controllo dell’80% delle risorse idriche della West Bank.
Alle 8.30 sali in auto per andare al lavoro, in un percorso simbolico, come può essere quello da Betlemme a Ramallah. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha una rete di 97 check-point fissi e centinaia di posti di blocco ‘volanti, che compaiono e scompaiono senza preavviso.
Lunghe code, controllo documenti, spesso chiusure — collettive o verso singole persone senza spiegazioni. Ogni lavoratore palestinese deve muoversi da casa con largo anticipo.
In pausa pranzo, per comprare un panino o fare la spesa, si usa solo lo shekel israeliano, non avendo Mai avuto una moneta palestinese.
Magari devi tare benzina, solo da gestori israeliani, che hanno il totale controllo delle risorse energetiche. Se lavori con l’estero, qualsiasi viaggio tu voglia fare, per qualsiasi motivo, dipende dall’autorizzazione che ti sarà eventualmente concessa da Israele, che controlla tutti i punti di accesso e di uscita dalla Palestina”.

QUESTA IMMAGINE è emblematica di una ultra-decennale storia di oppressione economico-politica, che gli economisti critici chiamano “teoria della dipendenza”: la vicinanza geografica tra Israele e Palestina ne è un caso da manuale. L’idea fondamentale è quella per cui lo “sviluppo” delle nazioni ricche non accade in maniera indipendente, ma deriva dall’attiva creazione di “povertà” in quelle povere. La struttura economica della periferia (Palestina) è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro (Israele). Prova ne sia il Pil di Israele: il doppio di quello palestinese nel 1967, oltre 14 volte tanto nel 2022 (in valori assoluti oggi e quasi 20 volte quello palestinese).
L’economia palestinese ha perso nel tempo un‘autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola. L’estrazione di valore è dunque oggi tutta a favore dello Stato ebraico, che ne beneficia in un doppio senso: Riceve risorse naturali, materie prime e forza lavoro da un lato; ha a disposizione un mercato per le proprie merci dall’altro. La Palestina deve infatti importare i più costosi beni finiti sviluppando un deficit commerciale che ne aumenta la vulnerabilità economica e monetaria: negli ultimi cinquant’anni il 75-80% di tutti i beni importati ed esportati dalla Palestina sono stati scambiati con l’economia israeliana; nel 50% dei casi impor palestinese ha riguardato beni in passato prodotti in Palestina (abbigliamento, calzature, bibite, mobili, eccetera).

Per studiare il fenomeno della dipendenza economica palestinese, e quanto sia inscindibile da chiare decisioni politiche, dobbiamo fare un passo indietro e guardare agli anni del mandato britannico (1922-1947). La Gran Bretagna, in collaborazione con le organizzazioni sioniste del tempo (Palestine Jewish Colonization Association, The Jewish National Fund, The Palestine Land Development Company e via elencando), ebbe un ruolo cruciale nel plasmare l’economia dell’area in direzione capitalistica: facilitò la crescita dell’industria israeliana e la proletarizzazione dei palestinesi, allontanandoli dalla terra che costituiva la base della loro economia di sussistenza.

La terra acquistata dalle organizzazioni sioniste fu censita come “terra soltanto per ebrei’, non più vendibile ai non ebrei. Gli inglesi favorirono, inoltre, grandi donazioni e investimenti per le industrie ebraiche.
E ancora: l’impero britannico richiese le tasse agricole in denaro, causando l’indebitamento dei contadini palestinesi e costringendoli a prendere denaro in prestito, rendendoli cosi pià dipendenti dal mercato. D’altro canto, la Gran Bretagna assicurò fondamentali concessioni sulle risorse naturali alle compagnie ebraiche: la Rutenberg Electricity Company (1922), la la Atlit Salt Company (1929) e la Palestine Potash Company (1929),società – quest’ultima – di estrazione mineraria.
LA POLITICA DISEGUALE dei dazi giocò poi un ruolo fondamentale per creare le condizioni dipendenza palestinesi. Gli inglesi mandatari abolirono i dazi sulle merci prodotte da ebrei e sulle importazioni di materie prime, mentre imposero alte tariffe sulle merci che potevano competere con I’industria ebraica. Il trattamento opposto fu riservato all’industria araba, con l’imposizione di alte tariffe sul sapone e l’olio di oliva, i loro primari settori economici. Non solo: la “open border policy”, già sperimentata in India, comportò che i contadini palestinesi non fossero più in grado di competere coi prodotti agricoli importati, aumentando il loro debito e portandoli a vendere le terre a grandi proprietari terrieri.
Venticinque anni dopo, al momento del piano di partizione del 1947 e della guerra del 1948 – la Nakba, “la catastrofe” degli arabi, durante la quale ”80% della popolazione palestinese divenne profuga e più di 700 villaggi furono distrutti – il peso dell’economia ebraica era molto più forte della sua controparte araba: la quota ebraica della produzione nazionale era del 53%, ma quella della produzione industriale dell’89% e gli investimenti in capitale I’88% di quelli totali.
Il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica fu però l’occupazione del 1967, in cui la Palestina fu ridotta al 22% del territorio rispetto alla Palestina del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Tra le varie ordinanze militari emesse da Israele si possono ricordare quelle che stabilirono la chiusura di tutte le banche operanti in Cisgiordania tranne due, poste sotto supervisione israeliana; o l’impossibilità di importare nuove macchine (l’unica opzione era acquistarle di seconda mano); o ancora quelle che misero in atto una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni, in vigore ancora oggi, che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale. Tra il 2016 e il 2018, le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% dei permessi di costruzione nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania.

Da allora la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori per proteggere l’agricoltura israeliana.
Ogni commercio col resto del mondo deve passare attraverso Israele ed essere gestito da personale israeliano: qualsiasi Merce importata o esportata da singoli o da imprese palestinesi passa dalla dogana israeliana, che può bloccare e tutto e che da anni trattiene i dazi doganali invece di girarli come da Accordi di Oslo all’Autorità nazionale palestinese. Per di più le autorità israeliane hanno proibito gli investimenti da Israele – o dall’estero – nell’economia palestinese e l’esercito israeliano ha esercitato il pieno controllo sui bilanci in Cisgiordania e Gaza, compresa la tassazione e la raccolta: i palestinesi sono stati costretti a pagare imposte sul reddito dal 3 al 10% più alte rispetto a quelle applicate agli israeliani per la stessa fascia di reddito.

L’OCCUPAZIONE MILITARE ha confiscato nel tempo vaste aree di terre pubbliche e private palestinesi per la costruzione di insediamenti e riserve naturali.
Alla meta degli anni 80, il 39% della Cisgiordania e circa il 31% della Striscia di Gaza erano state Mappate come terre statali israeliane: secondo il gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, durante i primi 36 anni di occupazione Israele sequestro quasi 200mila ettari di terre palestinesi affittandole a enti, associazioni e privati per la costruzione di insediamenti.

Le confische di terreni e le restrizioni al commercio e agli investimenti causarono il collasso dell’agricoltura palestinese, che un tempo impiegava gran parte della forza lavoro autoctona: nel 1967 l’economia agricola nei Territori assorbiva quasi il 40% della forza lavoro, nel 1993 degli Accordi di Oslo meno del 20%. Comunità autosufficienti videro scomparire i loro mezzi di sostentamento e il risultato fu una diffusa “proletarizzazione” della società palestinese: molti passarono dall’essere lavoratori autonomi nell’agricoltura locale a salariati nell’economia israeliana. Nei primi vent’anni dell’occupazione, la percentuale di individui che cercavano lavoro all’interno di Israele o dei suoi insediamenti aumentò in modo esponenziale: da pressoché zero prima del 1967 a circa il 40% nel 1987, quando scoppio la Prima Intifada.

IL LAVORO PALESTINESE serve Israele in molteplici modi. La presenza di un grosso esercito industriale di riserva riduce i costi dei salari e garantisce sufficiente estrazione di plusvalore per l’industria israeliana.
Come ha detto un imprenditore al giornale Haaretz: “E quasi impossibile licenziare un lavoratore israeliano o spostarlo senza il suo permesso e un aumento del salario, invece un lavoratore arabo è eccezionalmente mobile, può essere licenziato senza preavviso e spostato da un luogo all’altro. Non fanno scioperi, non presentano richieste.

La riduzione dei costi di produzione permette di vendere merci a prezzi migliori: è dunque un vantaggio competitivo rispetto all’estero, Palestina compresa, ma come spiega Ibrahim Shikaki, professore di economia al Trinity College in Connecticut, l’esercito industriale di riserva palestinese aiuta anche a togliere potere contrattuale ai lavoratori israeliani.

Come già fu in Sud Africa, i palestinesi sono autorizzati a lavorare solo per il datore di lavoro indicato sul loro permesso (che contiene i dettagli di entrambi), a viaggiare solo nell’area del loro lavoro e devono rientrare entro un determinato orario, pena l’arresto. I permessi sono carte biometriche necessarie per attraversare i check-point, in alcuni dei quali Israele ha implementato per i palestinesi il riconoscimento facciale automatico con l’intelligenza artificiale.

I flussi di lavoro palestinese verso Israele hanno coinvolto negli anni fino al 40% dei lavoratori della Striscia di Gaza e il 30% di quelli della Cisgiordania, dove ancora oggi sono più di 200mila: “Una volta che si sottrae una cosi massiccia forza lavoro a un’economia, non può che conseguirne miseria”, spiega al Fatto il professor Shikaki, i cui studi mostrano chiaramente che il tasso di disoccupazione palestinese è ormai strettamente correlato al ciclo economico di Israele. Con un corollario non da poco: “Oggi poi, sotto le bombe e col blocco totale delle frontiere, non si può neppure più lavorare..”.

FONTE. Il Fatto Quotidiano, 29 Aprile 2024

Yanis Varoufakis: Il discorso che mi ha fatto bandire dalla Germania

Olaf Kosinsky, CC BY-SA 3.0 DE , via Wikimedia Commons

Oggi, a Yanis Varoufakis è stato vietato non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a videoconferenze sulla politica ospitate in Germania. Ecco l’appello per l’umanità e la giustizia in Palestina che lo ha portato al bando.

di Yanis Varoufakis

Oggi, il ministero degli Interni tedesco ha emesso contro di me un “betätigungsverbot”, un divieto di qualsiasi attività politica, non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a eventi Zoom ospitati nel paese. Non posso nemmeno avere un mio video registrato riprodotto agli eventi tedeschi.

I problemi sono iniziati sul serio ieri, quando la polizia tedesca ha fatto irruzione in una sede di Berlino per sciogliere il nostro congresso sulla Palestina, ospitato dal Movimento per la Democrazia in Europa 2025 (DiEM25). Giudicate voi stessi che tipo di società sta diventando la Germania se la sua polizia mette al bando i sentimenti riportati di seguito.

Congratulazioni e ringraziamenti di cuore per essere qui – nonostante le minacce, nonostante la polizia corazzata fuori da questa sede, nonostante la panoplia della stampa tedesca, nonostante lo Stato tedesco, nonostante il sistema politico tedesco che ti demonizza per essere qui.

“Perché un congresso palestinese, signor Varoufakis?” mi ha chiesto recentemente un giornalista tedesco. Perché, come disse una volta Hanan Ashrawi, “non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che sono messi a tacere ci parlino della loro sofferenza”.

Oggi, la ragione di Ashrawi è diventata tristemente più forte, perché non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che vengono messi a tacere, anch’essi massacrati e affamati, ci parlino dei massacri e della fame.

Ma c’è anche un’altra ragione: perché un popolo orgoglioso e rispettabile, il popolo tedesco, viene condotto lungo una strada pericolosa verso una società senza cuore, essendo costretto ad associarsi a un altro genocidio compiuto in suo nome, con la sua complicità.

Non sono né ebreo né palestinese. Ma sono incredibilmente orgoglioso di essere qui tra ebrei e palestinesi – per unire la mia voce per la pace e i diritti umani universali con le voci ebraiche per la pace e i diritti umani universali, con le voci palestinesi per la pace e i diritti umani universali. Essere qui insieme oggi è la prova che la convivenza non solo è possibile, ma che esiste già.

“Perché non un congresso ebraico, signor Varoufakis?” mi ha chiesto lo stesso giornalista tedesco, immaginando che facesse il furbo. Ho accolto con favore la sua domanda.

Perché se un singolo ebreo viene minacciato, ovunque, solo perché è ebreo, indosserò la Stella di David sul bavero e offrirò la mia solidarietà, qualunque sia il costo, qualunque sia il costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Quindi cerchiamo di essere chiari: se gli ebrei fossero sotto attacco, in qualsiasi parte del mondo, sarei il primo a sollecitare un congresso ebraico in cui registrare la nostra solidarietà.

Allo stesso modo, quando i palestinesi vengono massacrati perché sono palestinesi – secondo il dogma secondo cui per essere morti e palestinesi devono essere stati Hamas – indosserò la mia kefiah e offrirò la mia solidarietà a qualunque costo, a qualunque costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Con questo in mente, ho risposto alla domanda del giornalista tedesco con alcune delle mie:

  • Due milioni di ebrei israeliani, che furono cacciati dalle loro case e rinchiusi in una prigione a cielo aperto ottant’anni fa, sono ancora tenuti in quella prigione a cielo aperto, senza accesso al mondo esterno, con cibo e acqua minimi, senza alcuna possibilità? di una vita normale o di viaggiare ovunque, pur essendo bombardato periodicamente per questi ottant’anni? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono fatti morire di fame intenzionalmente da un esercito di occupazione, mentre i loro figli si contorcono sul pavimento, urlando dalla fame? NO.
  • Ci sono migliaia di bambini ebrei feriti senza genitori sopravvissuti che strisciano tra le macerie di quelle che erano le loro case? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono bombardati dagli aerei e dalle bombe più sofisticati del mondo? NO.
  • Gli ebrei israeliani stanno vivendo un totale ecocidio di quella piccola terra che possono ancora chiamare propria, senza un solo albero sotto il quale possano cercare ombra o di cui possano gustare i frutti? NO.
  • I bambini ebrei israeliani vengono uccisi oggi dai cecchini per ordine di uno stato membro delle Nazioni Unite (ONU)? NO.
  • Oggi gli ebrei israeliani vengono cacciati dalle loro case da bande armate? NO.
  • Israele sta lottando per la propria esistenza oggi? NO.

Se la risposta a una qualsiasi di queste domande fosse sì, oggi parteciperei a un congresso di solidarietà ebraica.

Oggi ci sarebbe piaciuto avere un dibattito dignitoso, democratico e reciprocamente rispettoso su come portare la pace e i diritti umani universali a tutti – ebrei e palestinesi, beduini e cristiani – dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo con persone che la pensano diversamente da noi. noi.

Purtroppo l’intero sistema politico tedesco ha deciso di non permetterlo. In una dichiarazione congiunta alla quale partecipano non solo la CDU-CSU (Unione Cristiano-Democratica-Unione Cristiano-Sociale della Baviera) e il FDP (Partito Democratico Libero), ma anche l’SPD (Partito Socialdemocratico), i Verdi e, sorprendentemente, due leader del partito Die Linke (La Sinistra), lo spettro politico tedesco ha unito le forze per garantire che un dibattito così civile, sul quale possiamo essere piacevolmente in disaccordo, non abbia mai luogo in Germania.

Dico loro: volete metterci a tacere, metterci al bando, demonizzarci, accusarci. Pertanto non ci lasci altra scelta se non quella di rispondere alle tue ridicole accuse con le nostre razionali accuse. Hai scelto questo, non noi.

Ci accusate di odio antisemita. Ti accusiamo di essere il migliore amico dell’antisemita equiparando il diritto di Israele a commettere crimini di guerra con il diritto degli ebrei israeliani a difendersi.

Ci accusate di sostenere il terrorismo. Ti accusiamo di equiparare la legittima resistenza a uno stato di apartheid alle atrocità contro i civili che ho sempre e sempre condannerò, chiunque le commetta: palestinesi, coloni ebrei, la mia stessa famiglia, chiunque. Vi accusiamo di non riconoscere il dovere del popolo di Gaza di abbattere il muro della prigione a cielo aperto in cui è stato rinchiuso per ottant’anni – e di equiparare questo atto di abbattere il muro della vergogna, che non è più difendibile di fu il Muro di Berlino, con atti di terrore.

Ci accusate di banalizzare il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Vi accusiamo di banalizzare gli ottant’anni di pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele e l’erezione di un ferreo sistema di apartheid in tutto Israele-Palestina. La accusiamo di banalizzare il sostegno a lungo termine di Benjamin Netanyahu a Hamas come mezzo per distruggere la soluzione dei due Stati che lei sostiene di favorire. Vi accusiamo di banalizzare il terrore senza precedenti scatenato dall’esercito israeliano sulla popolazione di Gaza, in Cisgiordania. e Gerusalemme Est.

Lei accusa gli organizzatori del congresso di oggi di essere, cito testualmente, “non interessati a parlare delle possibilità di coesistenza pacifica in Medio Oriente nel contesto della guerra a Gaza”. Sei serio? Hai perso la testa?

Vi accusiamo di sostenere uno Stato tedesco che è, dopo gli Stati Uniti, il più grande fornitore delle armi che il governo Netanyahu usa per massacrare i palestinesi come parte di un grande piano per realizzare una soluzione a due Stati e una coesistenza pacifica tra ebrei e Palestinesi, impossibile. La accusiamo di non aver mai risposto alla domanda pertinente a cui ogni tedesco deve rispondere: quanto sangue palestinese dovrà scorrere prima che il suo giustificato senso di colpa per l’Olocausto venga lavato via?

Cerchiamo quindi di essere chiari: siamo qui a Berlino con il nostro congresso palestinese perché, a differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li sta perpetrando. Perché ci opponiamo all’apartheid nella terra di Israele-Palestina, non importa chi abbia il sopravvento, proprio come ci siamo opposti all’apartheid nel Sud americano o in Sud Africa. Perché sosteniamo i diritti umani universali, la libertà e l’uguaglianza tra ebrei, palestinesi, beduini e cristiani nell’antica terra di Palestina.

A differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, noi condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li perpetra.

E così abbiamo ancora più chiare le domande, legittime e maligne, a cui dobbiamo essere sempre pronti a rispondere:

Condanno le atrocità di Hamas?

Condanno ogni singola atrocità, chiunque ne sia l’autore o la vittima. Ciò che non condanno è la resistenza armata a un sistema di apartheid concepito come parte di un programma di pulizia etnica a combustione lenta ma inesorabile. In altre parole, condanno ogni attacco ai civili e, allo stesso tempo, celebro chiunque rischi la propria vita per abbattere il muro.

Israele non è forse impegnato in una guerra per la sua stessa esistenza?

No non lo è. Israele è uno stato dotato di armi nucleari con forse l’esercito tecnologicamente più avanzato del mondo e con la panoplia della macchina militare statunitense alle sue spalle. Non c’è simmetria con Hamas, un gruppo che può causare gravi danni agli israeliani ma non ha alcuna capacità di sconfiggere l’esercito israeliano, o anche solo di impedire a Israele di continuare ad attuare il lento genocidio dei palestinesi sotto il sistema di apartheid che è stato eretto con sostegno di lunga data da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

Gli israeliani non sono forse giustificati a temere che Hamas voglia sterminarli?

Certo che lo sono! Gli ebrei hanno subito un Olocausto che è stato preceduto da pogrom e da un radicato antisemitismo che ha permeato per secoli l’Europa e le Americhe. È naturale che gli israeliani vivano nel timore di un nuovo pogrom se l’esercito israeliano dovesse piegarsi. Tuttavia, imponendo l’apartheid ai propri vicini e trattandoli come subumani, lo Stato israeliano sta alimentando il fuoco dell’antisemitismo e rafforzando palestinesi e israeliani che vogliono solo annientarsi a vicenda. Alla fine, le sue azioni contribuiscono alla terribile insicurezza che divora gli ebrei in Israele e nella diaspora. L’apartheid contro i palestinesi è la peggiore autodifesa degli israeliani.

E l’antisemitismo?

È sempre un pericolo chiaro e presente. E deve essere sradicato, soprattutto tra le fila della sinistra globale e tra i palestinesi che lottano per le libertà civili palestinesi in tutto il mondo.

Perché i palestinesi non perseguono i loro obiettivi con mezzi pacifici?

Loro fecero. L’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) riconobbe Israele e rinunciò alla lotta armata. E cosa hanno ottenuto in cambio? Umiliazione assoluta e pulizia etnica sistematica. Questo è ciò che ha nutrito Hamas e lo ha elevato agli occhi di molti palestinesi come l’unica alternativa a un lento genocidio sotto l’apartheid israeliano.

Cosa si dovrebbe fare adesso? Cosa potrebbe portare la pace in Israele-Palestina?

  • Un cessate il fuoco immediato.
  • Il rilascio di tutti gli ostaggi: quelli di Hamas e le migliaia detenuti da Israele.
  • Un processo di pace, sotto la guida delle Nazioni Unite, sostenuto dall’impegno della comunità internazionale a porre fine all’apartheid e a salvaguardare pari libertà civili per tutti.
  • Per quanto riguarda ciò che dovrà sostituire l’apartheid, spetta a israeliani e palestinesi decidere tra la soluzione dei due Stati e la soluzione di un unico Stato federale laico.

Amici, siamo qui perché la vendetta è una forma pigra di dolore.

Siamo qui per promuovere non la vendetta ma la pace e la coesistenza in tutto Israele-Palestina.

Siamo qui per dire ai democratici tedeschi, compresi i nostri ex compagni di Die Linke, che si sono coperti di vergogna abbastanza a lungo – che due errori non fanno una cosa giusta – e che permettere a Israele di farla franca con i crimini di guerra non migliorerà la situazione l’eredità dei crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Al di là del congresso di oggi, in Germania abbiamo il dovere di cambiare il discorso. Abbiamo il dovere di persuadere la stragrande maggioranza dei tedeschi perbene che ciò che conta sono i diritti umani universali. Questo mai più significa mai più per nessuno. Ebrei, palestinesi, ucraini, russi, yemeniti, sudanesi, ruandesi: per tutti, ovunque.

In questo contesto, sono lieto di annunciare che il partito politico tedesco MERA25 di DiEM25 sarà sulla scheda elettorale delle elezioni del Parlamento Europeo del prossimo giugno, cercando il voto degli umanisti tedeschi che desiderano un membro del Parlamento Europeo che rappresenti la Germania e che chieda all’UE complicità nel genocidio, una complicità che è il più grande dono dell’Europa agli antisemiti in Europa e oltre.

Saluto tutti voi e suggerisco di non dimenticare mai che nessuno di noi è libero se uno di noi è in catene.

DISCORSO DEL DR. GHASSAN ABU SITTAHALLA SUA NOMINA DI RECTOR DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW

Dr. Ghassan Abu-Sittah during his address at the University of Glasgow following his landslide victory as Rector with 80% of the vote, April 11, 2024. (Photo: The University of Glasgow)

L’11 aprile, il dottor Ghassan Abu-Sittah è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione schiacciante con l’80% dei voti.

Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del Dr. Abu-Sittah.

“Ogni generazione deve scoprire la sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati gli arti.
Hanno votato per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e 12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

All’inizio del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale globale sta esaminando la gestione delle popolazioni in eccesso.
Si sono schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da cecchino – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.

Quindi, in realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata ceduta da uno dei precedenti rettori dell’Università di Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dell’Università di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920, mio nonno Sheikh Hussain costruì una scuola con i suoi soldi nel piccolo villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì ha gettato le basi per una relazione che ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio 1nonno furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.

L’anno dopo la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti della sua generazione, si è trasferito nel Golfo per aiutare a costruire il sistema sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.
E fu così che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone al freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come viene modellata la vita delle persone e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel 1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto il genocidio svolgersi.

Tutto quello che sapevo sulle guerre era paragonato a niente di quello che vedevo. Era la differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza, metà dei quali erano bambini. Dopo il mio coming out, gli studenti dell’Università di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come rettore. Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.

Che cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative, sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo. 400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori e presidi e due rettori di università.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto dell’iceberg è costituito da un asse di genocidio. Questo asse del genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari con il paracadute.
Ho anche scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.

  1. I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i quali i bambini palestinesi rimangono insopportabili. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla barbarie di Israele.
  2. Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel prendersi cura del proprio avanzamento personale”.
  3. I terzi sono gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera sull’apatia e non può esistere senza di essa”

Nell’aprile del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e devastare la natura.

Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.
Allora, qual è il nostro piano, questo “selvaggio” e i suoi complici?

Faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.
Il denaro del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.
Ci batteremo per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.
Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.
Combatteremo con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione del popolo palestinese.

Solo questa settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista antisionista ebreo, per antisemitismo.

Durante il volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complicato conta di più”.

90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?” Bene, la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro mondo per cui lottare.

È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari di domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid, sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.
Uno degli scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia famiglia possiamo piangere per i nostri cari.

Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla.

Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish, “Alla nostra terra, ed è un premio di guerra, la libertà di morire per il desiderio e l’incendio e la nostra terra, nella sua notte insanguinata, è un gioiello che brilla per il lontano sul lontano e illumina ciò che è al di fuori di esso…

Quanto a noi, dentro, soffochiamo di più!” E così voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby Sands, “La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

FONTE: https://mondoweiss.net/2024/04/dr-ghassan-abu-sittah-tomorrow-is-a-palestinian-day/

La lunga notte della Repubblica

di Domenico Gallo

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006.

La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni.

Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017).

Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”

(Intervento al convegno del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che si è tenuto il 23 aprile a Roma. Un estratto è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano del 24 aprile con il titolo: Una tempesta perfetta contro la Costituzione)    

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/la-lunga-notte-della-repubblica/

Gli Usa e il “metodo Giacarta”: il massacro delle popolazioni come politica estera

di Piero Bevilacqua

Chi legge il libro di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta, La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (Einaudi, 2021) ne uscirà con una visione rovesciata della storia mondiale dopo il 1945, e con l’animo sconvolto. È successo anche a me, storico dell’età contemporanea, e testimone del mio tempo, a cui tanti fatti e vicende qui raccontate erano noti. L’autore è un prestigioso giornalista americano, che è stato corrispondente del Washington Post, del Los Angeles Times, del Financial Times, ha scritto per il New York Times e tanti altri giornali americani e inglesi. Già questa appartenenza al giornalismo USA, per quel che racconta di gravissimo in danno dei governi del proprio paese, costituisce una prima garanzia di imparzialità e obiettività. D’altra parte non sarebbe la prima volta. Quello dei giornalisti americani che scavano nelle carte segrete e denunciano le malefatte dei loro governanti è un fenomeno non raro, che fa onore a quei professionisti. È sintomatico dell’onestà di fondo dell’animo e della cultura antropologica di gran parte del popolo americano, comunque ormai ampiamente manipolati. È così clamorosa la contraddizione con gli ideali democratici della loro formazione, che non pochi giornalisti, allorché scoprono azioni omicide segrete del loro Stato, sono spinti a una ribellione morale che li porta a intraprendere vaste indagini e a scrivere libri come questi.

Ma l’autorevolezza del Metodo Giacarta si fonda sullo scrupolo scientifico di Bevins, sulla vastità e rilevanza documentaria delle sue fonti, che sono carte desecretate degli archivi americani e di vari paesi del mondo, pubblicazioni di altri studiosi, registrazioni dirette di riunioni segrete, telegrammi, testimonianze rese dai protagonisti e soprattutto dai sopravvissuti ai massacri ecc. Grazie a questi materiali l’autore ci fa entrare spesso direttamente nel tabernacolo del potere americano, facendoci assistere a conversazioni inquietanti, come quella del 1963, in cui John Kennedy ordina agli uomini della sua amministrazione, che lo informano sulla condotta non gradita del presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem: «fatelo fuori». «Diem venne rapito insieme a suo fratello. I due vennero uccisi a colpi i pistola e a pugnalate nel retro di un furgone blindato». E non meno sconcertanti sono le informazioni che si ricevono su personaggi ai quali, ad esempio, è andata per decenni la nostra simpatia umana e politica. Non si può rimanere indifferenti quando si apprende che dopo il fallito tentativo USA di invadere Cuba alla Baia dei Porci, nel 1961, Robert Kennedy «suggerì di far esplodere il consolato americano per giustificare l’invasione».

Ma in che cosa consiste il rovesciamento della storia ufficiale, da tutti accettata, degli ultimi 70-80 anni di storia mondiale? In breve, a partire dal dopoguerra, gli USA mettono in atto una strategia sempre più perfezionata per controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi che si stavano liberando del colonialismo della Gran Bretagna, della Francia e dell’Olanda. Giova ricordare che in quei paesi, quasi ovunque, si affermano in quegli anni forze politiche nazionaliste che tentano di recuperare e gestire le proprie risorse, con processi di nazionalizzazione, ad esempio delle compagnie petrolifere (come fa in Indonesia il presidente Sukarno), delle miniere, delle piantagioni ecc. A queste riforme di solito si accompagnano programmi di alfabetizzazione della popolazione, costruzione di scuole pubbliche, distribuzione delle terre ai contadini, riforme agrarie. Tali strategie riformatrici di governi che intendono affacciarsi allo sviluppo economico dopo la guerra, seguono una politica equidistante tra Washington e Mosca, anche se talora sono appoggiati dai partiti comunisti nazionali. Ma essi sono guardati con sospetto e ostilità dagli USA che tramano segretamente per il loro rovesciamento. Talora è proprio la scoperta di tale ostilità che porta i dirigenti nazionalisti a guardare con favore e a chiedere appoggio a Mosca o a diventare comunisti, come accadde a Fidel Castro, dopo la fallita invasione americana di Cuba nel 1961.

Spesso a dare il via ai progetti dei colpi di stato sono le pressioni sulle amministrazioni americane delle compagnie petrolifere, o dei grandi proprietari terrieri, che vedono anche semplicemente contrastato il loro vecchio modello di sfruttamento coloniale delle risorse locali. Nel 1954 in Guatemala è il caso della United Fruit Company, sospettata di frodare il fisco. La pretesa del Governo guatemalteco di far rispettare gli obblighi fiscali alla ditta monopolista costò cara al Guatemala. Dopo due falliti colpi di Stato, «la Cia piazzò casse di fucili con l’effige della falce e del martello in modo che fossero “scoperti” e costituissero la prova della infiltrazione dei sovietici». Da li cominciò l’ingerenza armata degli USA, con varie vicende e campagne di terrorismo psicologico, di diffamazione dei comunisti come agenti di Mosca, a cui qui non possiamo neppure accennare. Il colpo di Stato si concluse con l’insediamento di Castillo Armas, il favorito degli USA. «In Guatemala tornò la schiavitù. Nei primi mesi del suo governo, Castillo Armas istituì il Giorno dell’anticomunismo e catturò e uccise dai tre ai cinquemila sostenitori di Arbenz» (il presidente deposto, che aveva avviato la riforma agraria).

Qui davvero è impossibile dar conto delle trame ingerenze messe in atto da tutte le amministrazioni USA degli ultimi 70 anni per controllare i paesi che uscivano dalle antiche colonizzazioni europee, spesso con l’aiuto del Regno Unito, maestro secolare di dominio coloniale, che in tanti casi rese onore alla sua tradizione sanguinaria. Lo fecero spesso con colpi di Stato poche volte falliti, ma spesso ripetuti fino al finale cambio di regime: in Iran (1953), Guatemala (1954), Indonesia (1958 e 1965), Cuba (1961), Vietnam del Sud (1963), Brasile (1964), Ghana (1966), Cile (1973) e un numero incalcolabile di sabotaggi, uccisioni, condizionamenti delle politiche del vari governi. Senza mettere nel conto la guerra contro il Vietnam, scatenata con il falso pretesto dell’“incidente del Tonchino”, che provocò 3 milioni di morti, oltre ai vasti bombardamenti con gli elicotteri dei villaggi contadini «in Cambogia e Laos [dove] ne morirono molti di più». Ricordo che dopo il colpo di stato in Brasile non ci furono più elezioni per 25 anni e la violenta dittatura di Suharto, in Indonesia, durò 32 anni.

Gli strumenti di queste politiche erano – come scrive lapidariamente Bevins – «esercito e finanza». I capi di tanti eserciti nazionali si erano formati spesso nelle scuole militari degli USA, e comunque venivano corrotti da ingenti finanziamenti americani, donazioni e vendite di armi, manovrati dalla Cia. In tante realtà si creò una scissione tra i governi indipendenti, che spesso venivano economicamente strozzati dai sabotaggi commerciali e finanziari, e i sistematici finanziamenti segreti forniti agli eserciti. Ma il cemento ideologico più determinante, e forse in assoluto la leva più potente che rese possibile l’intero progetto, fu la propaganda anticomunista, con tutto il repertorio di orrori fasulli di cui venivano ritenute responsabili le forze che vi si ispiravano. La minaccia del comunismo, oltre ad essere una formidabile arma di controllo sociale interno dei gruppi dirigenti americani, fu il fondamento psicologico e culturale, potremmo definirlo egemonico, su cui i vari golpisti riuscirono a coinvolgere nei massacri anche pezzi di popolazione civile. Uno strumento di persuasione di massa reso possibile dal fatto che in quasi tutti i paesi “attenzionati” dagli USA, la stampa era in mano ai grandi proprietari terrieri, o alle compagnie petrolifere, ostili alle riforme agrarie e alle nazionalizzazioni, in grado di imbastire campagne di falsificazione su larga scala, fondate su racconti di storie inventate, riprese dalle radio, talora trasformati in film e documentari.

Che cosa è il Metodo Giacarta? In breve. L’Indonesia, il quarto paese più popoloso del pianeta, che ospitava il terzo più grande Partito comunista del mondo (PKI), sostenuto da milioni di militanti, non poteva restare indipendente. Dopo vari tentativi falliti, uno riuscì e fu il più sanguinoso dei piani messi in atto dagli USA. Il pretesto definitivo fu un oscuro episodio ancora oggi non chiarito. Alcuni militari sequestrarono cinque generali dell’esercito indonesiano che poi furono trovati uccisi. Fu lanciata allora una campagna su larga scala di terrore psicologico, attraverso la stampa, la radio, i comizi. Venne sparsa la voce che i cinque uomini fossero stati oggetto di sevizie, mutilati dei genitali e poi massacrati, mentre alcune donne danzavano nude intorno a loro, svolgendo riti satanici. Nel 1987, quando tutto era ormai dimenticato, venne alla luce che la storia era un falso, i generali, secondo l’autopsia fatta eseguire allora da Suharto, il golpista a servizio degli USA che estromise il presidente Sukarno, aveva rivelato che erano tutti morti per colpi di arma da fuoco, eccetto uno, ucciso da una lama di baionetta, probabilmente durante il sequestro nel suo appartamento. Quel che seguì a Giacarta e in tutte le isole dell’arcipelago, dopo quella provocazione e quella campagna di caccia ai terroristi comunisti, è difficile da immaginare e da raccontare: «Le persone non venivano ammazzate nelle strade, non venivano giustiziate ufficialmente, le famiglie non erano sicure che fossero morte: venivano arrestate e poi scomparivano nel cuore della notte». Solo giorni dopo, come si vide ad esempio nel fiume Serayu, «gli omicidi di massa divennero evidenti: i corpi ammassati erano così tanti da ostacolare il corso del fiume e il tanfo che emanavano era orribile». In proporzione agli abitanti, l’isola che che subì la quota maggiore di uccisioni fu Bali, il 5% della popolazione, oltre 80 mila persone finite a colpi di machete. Non andò bene alle indonesiane: «Circa il 15% delle persone prese prigioniere furono donne. Vennero sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere», ad alcune «tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque». Alla fine i morti complessivi, secondo calcoli necessariamente sommari, si aggirarono tra 500 mila e 1 milione di persone, mentre un altro milione venne rinchiuso nei campi di concentramento. Il PKi, cui non poté essere addebitata nessuna sommossa o violenza, venne sterminato. A compiere i massacri furono i militari indonesiani, le squadre armate dei proprietari terrieri, bande di persone comuni assoldate o sobillate dalla propaganda. «Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi». Più tardi il Tribunale internazionale del Popolo per il 1965 convocato all’Aja nel 2014, dichiarò i militari indonesiani colpevoli di crimini contro l’umanità, e stabili che il massacro era stato realizzato allo scopo di distruggere il Partito comunista e «sostenere un regime dittatoriale violento» e che esso venne realizzato con il supporto degli USA, del Regno Unito e dell’Australia. Dopo il 1965 il Metodo Giacarta venne teorizzato da molti dirigenti filoamericani dell’Asia e dell’America Latina e usato anche come parola d’ordine con cui venivano terrorizzati i dirigenti comunisti e i politici nazionalisti che proponevano riforme e nazionalizzazioni. Venivano minacciati facendo circolare la voce: «Giacarta sta arrivando» .

Alcune considerazioni per concludere. Noi conosciamo da tempo molte delle operazioni, spesso ben documentate, condotte dagli USA in giro per il mondo almeno a partire dal dopoguerra. Nel voluminoso William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti (Fazi, 2003, ed. orig. Killing Hope. U.S. Military and CIA Interventions Sine World War II, 2003, che meglio rispecchia contenuto del volume e intenzioni dell’autore), se ne trova, da oltre 20 anni, un repertorio vastissimo e di impeccabile serietà storiografica. Ma il libro di Bevins ha qualcosa in più. Esso non mostra soltanto come gli USA abbiano condotto una politica estera fondata sulla violazione sistematica del diritto internazionale, spesso calpestando il diritto alla vita di milioni di persone. Non è solo questo, che sarebbe sufficiente per illuminare di luce meridiana le ragioni dell’attuale “disordine” mondiale. Il Metodo Giacarta mostra che cosa ha prodotto quella guerra segreta, che ha impedito l’emancipazione dei popoli usciti dal dominio coloniale e la nascita di un terzo polo mondiale dei paesi cosiddetti “non allineati”: cioè equidistanti rispetto a Washington e Mosca. Il grande progetto di mutua cooperazione avviato con la Conferenza di Bandung nel 1955, di cui Sukarno era stato uno dei protagonisti, si dissolse. I paesi del Sud del mondo vennero ricacciati nella loro subalternità che in tanti casi si è protratta fino quasi ai nostri giorni.

Perciò Bevins può scrivere, alludendo ai colpi di stato in Brasile e Indonesia: «La cosa più sconvolgente, e la più importante per questo libro, è che i due eventi in molti altri paesi portarono alla creazione di una mostruosa rete internazionale volta allo sterminio di civili – vale a dire al loro sistematico omicidio di massa – e questo sistema ebbe un ruolo fondamentale nel costruire il mondo in cui viviamo oggi». È, infatti, il nostro tempo che questo libro rende comprensibile. Alla luce di quanto accaduto, le guerre intraprese dagli USA, da soli o con la Nato, ispirate alla retorica delle lotta al terrore o all’esportazione della democrazia, in Jugoslavia, Afganistan, Iraq, Libia, Siria e ora in Ucraina, non sono una svolta aggressiva della politica estera USA nel nuovo millennio, ma la continuazione coerente del perseguimento del proprio dominio globale, da mantenere con ogni possibile mezzo.

FONTE: https://volerelaluna.it/mondo/2024/04/22/gli-usa-e-il-metodo-giacarta-il-massacro-delle-popolazioni-come-politica-estera/

L’aziendalizzazione delle politiche di gestione del Servizio Idrico Integrato: il caso del Basso Valdarno

Il caso del Basso Valdarno dove Acque Spa, società a capitale pubblico-privato, gestisce il servizio con logiche manageriali tese alla massimizzazione dei profitti

di Andrea Vento

Il progressivo affermarsi delle politiche neoliberiste durante gli anni ’90 del XX secolo ha comportato per il nostro Paese, non solo una massiccia campagna di privatizzazione di aziende pubbliche strategiche (energetiche, bancarie, siderurgiche, meccaniche, telefoniche ecc..) ma ha anche determinato un graduale passaggio della fornitura di fondamentali servizi per la cittadinanza come rifiuti e acqua da una gestione pubblica al servizio della collettività, ad una caratterizzata da criteri manageriali con finalità di profitto. Questa profonda trasformazione ha praticamente accomunato, , le tre tipologie di società che in quegli anni avevano assunto la gestione del servizio idrico integrato nei neo costituiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in tutto il territorio nazionale1.

La gestione del servizio riguarda le infrastrutture: la proprietà dei beni costituenti la dotazione del Servizio Idrico appartiene allo Stato, alle Province e ai Comuni. Il gestore ne dispone per concessione gratuita e ne usufruisce del possesso.

Il comune può gestire il Servizio Idrico direttamente (in economia) oppure decidere di affidarlo, secondo quanto previsto dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi del settembre 2014, per cui il Servizio idrico Integrato può essere assegnato in gestione attraverso:

• concessione a soggetti privati che abbiano vinto una gara di appalto;

• affidamento a società mista pubblico privato (con progressiva imposizione del gestore unico per ogni ATO, scelto tra coloro che già gestiscono il servizio del 25% della popolazione (art. 7 comma 1 lettera d e lettera i dello Sblocca Italia) vale a dire le grandi aziende e le multiutilities, anche appositamente create;

• affidamento a società per azioni a completo capitale pubblico partecipate dai comuni e/o da enti e società pubbliche locali;

• affidamento in house alla propria società a capitale interamente pubblico.

Ne consegue che il Servizio Idrico in Italia può essere gestito da società interamente pubbliche, da società private o da società miste pubblico/privato. La popolazione italiana nel 2018 risultava servita per:

• il 53% da società totalmente pubbliche;

• il 32% a maggioranza / controllo pubblici;

• il 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio (cosiddetta «gestione in economia»);

• il 2% da società interamente privata;

• l’1% è da società miste a maggioranza privata2.

Soprattutto al Centro Italia, e in Toscana in particolare, il modello societario prescelto per la gestione è risultato quello delle società a capitale misto pubblico-privato ma con management espresso dalla parte privata, tramite affidamento diretto della gestione da parte dell’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (AATO), l’Autorità Idrica Toscana3. Ciò, nonostante il primo referendum sul tema della acqua del giugno 2011 prevedesse, si legge sul sito del Ministero dell’Interno, “L’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali ad operatori privati”4. In sostanza lo schiacciante esito favorevole del 95%, espresso dal 55% degli aventi diritto al voto, che ha imposto il ritorno della gestione del servizio idrico integrato in mano pubblica e con criteri a beneficio della collettività è rimasto in pratica inapplicato, salvo alcune rare eccezione di amministratori locali virtuosi che hanno proceduto in tale direzione. Come nel caso della Giunta De Magistris a Napoli tramite la creazione di Acqua Bene Comune, sorta nel 2013 dalla trasformazione di ARIN, Spa totalmente partecipata dal comune di Napoli, in Azienda Speciale comunale5.

Ed appurato che il secondo quesito referendario relativo alla determinazione delle tariffe del servizio idrico integrato, anch’esso approvato con percentuali analoghe, contemplasse “L’abrogazione parziale delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, il cui importo prevede anche la remunerazione del capitale investito dal gestore”, vale a dire una rendita finanziaria garantita pari al 7% del capitale investito, benefit che non ha in pratica eguali in altri comparti, si sarebbe dovuto procedere alla sottrazione della determinazione delle tariffe dalle logiche del mercato e del profitto, a prescindere dalle tipologie di società che forniscono il servizio.

Il caso dell’Ato Toscana 2 del Basso Valdarno

Dalla nostra analisi relativa alle trasformazioni subite, dalla fine del secolo scorso, dal servizio idrico integrato (SII) del Basso Valdarno, emerge come a seguito del parziale processo di privatizzazione e soprattutto di passaggio alla gestione manageriale, siano stati introdotti profondi cambiamenti rivelatisi particolarmente penalizzanti per gli utenti. Infatti, da un servizio erogato con basse tariffe direttamente dalle amministrazioni comunali, la prima trasformazione è avvenuta con la creazione di società municipalizzate, vale adire Società per azioni controllate interamente dai Comuni. Per poi procedere al successivo passaggio in direzione della radicale trasformazione della finalità gestionali, con la creazione della società a capitale misto pubblico-privato e l’assegnazione diretta del servizio a partire dal 1 gennaio 2002, senza gara di appalto ad Acque Spa.

Acque Spa: cenni storici e composizione societaria

Acque Spa è una società a capitale misto pubblico-privato alla quale, dall’inizio del 2002, l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale ha affidato in forma esclusiva la gestione del servizio idrico integrato di 55 comuni del Basso Valdarno (ATO Toscana 2) distribuiti su 5 province, Pisa, Firenze, Pistoia, Lucca e Siena, ai quali da allora fornisce i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione ad una popolazione che attualmente ammonta a circa 800.000 persone.

La società monopolista sorse il 17 dicembre 2001 dalla concentrazione di cinque società pubbliche operanti su di un vasto territorio che dall’entroterra della Toscana settentrionale arriva fino alla costa tirrenica: Gea di Pisa, Publiservizi di Empoli (Fi), Cerbaie di Pontedera (Pi), Coad di Pescia (Pt) e Acqapur di Capannori (Lu), prevedendo l’ingresso nel capitale sociale di soggetti privati con una importante quota di minoranza. In linea con gli impegni stabiliti dalla convenzione di affidamento del servizio, Acque Spa nel 2003 ha espletato, a suo dire, una gara ad evidenza pubblica a livello europeo per la selezione di un partner privato, che si è conclusa con l’aggiudicazione del 45% del capitale sociale da parte di Abab SpA. Società, con sede a Roma in piazzale Ostiense 2, costituita appositamente in data 21 dicembre 2003 da Acea S.p.A., Ondeo Services Società Anonima di diritto francese (ora Suez Environnement S.A.), Monte dei Paschi di Siena S.p.A., SILM Società Italiana per Lavori Marittimi S.p.A., Ondeo Degremont S.p.A. (ora Degremont S.p.A.) e dal Consorzio Toscano Costruzioni C.T.C. s.c.a.r.l. e, come si apprende dalla visura camerale6, avente per “oggetto l’assunzione e la gestione della partecipazione di minoranza di Acque Spa”.

Carta 1: il territorio dell’ATO Toscana 2 del Basso Valdarno

Il capitale sociale di Abab spa, che nel 2024 ammonta ad 8 milioni di euro, dopo varie modifiche registrate negli anni, attualmente, secondo il sito ufficiale di Acque Spa7, risulta controllato da Acea Spa, Suez Italia Spa, Vianini Lavori Spa e CTC Società Cooperativa.

Senza lasciarsi fuorviare dalla poetica denominazione di Abab spa, acronimo di “Acque blu basso Valdarno”, la società ha come classificazione della propria attività economica (Ateco) “Attività delle società di partecipazione” vale a dire rappresenta una holding, una società che controlla il capitale sociale di altre imprese, ed i cui attuali soci meritano di essere brevemente inquadrati per facilitarne la comprensione delle linee strategiche aziendali.

Acea, acronimo di “Azienda comunale energia e ambiente”, è l’ex municipalizzata del comune di Roma che “nel corso del tempo è cresciuta sino a diventare una multiutility di riferimento del panorama italiano”8 con partecipazioni azionarie in molte ex aziende pubbliche locali di servizi e dal 2000 operante anche all’estero. Divenuta di fatto una multinazionale, attualmente opera nella fornitura di servizi legati ad acqua, gas, rifiuti, energia e mobilità sostenibile, e risulta la prima azienda del settore a livello italiano9.

Suez Italia Spa è la divisione italiana di Suez Environnement, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti, dietro Veolia Environnement, entrambe società a controllo francese.

In origine la società Suez era una compagnia franco-belga nata nel 1997 dalla fusione della Compagnia del Canale di Suez (Belgio) e della Lyonnaise des Eaux (Francia) che si è fusa per incorporazione con Gaz de France (energia) nel 2008, dando vita al gruppo GDF Suez, divenuto poi Engie nel 2015. Contestualmente alla fondazione di GDF Suez nel 2008, le attività di Suez nel settore idrico sono state cedute ad una nuova società che ha preso appunto denominazione di Suez Environnement, controllata al 35% da Engie

Vianini Lavori Spa è invece una società del gruppo Caltagirone fondata a Roma nel 1908, che opera nei settori dell’ingegneria civile e nell’industria dei manufatti in cemento ed ha numerose partecipazioni in aziende italiane ed estere, in vari comparti. Nonostante il suo core business sia nell’ingegneria, nell’edilizia e nelle opere infrastrutturali, ha ampliato il suo raggio di azione in altri settori ritenuti redditizi, come quello della gestione del ciclo delle acque.

Il Consorzio Toscano Cooperative – C.T.C è una società cooperativa nata a Firenze nel 1980, attiva, come da codice Ateco, nella “Costruzione di edifici residenziali e non residenziali”10, e nonostante si legga nella presentazione11 che “Il consorzio è retto e disciplinato dai principi di mutualità senza fini di speculazione privata”, continua a mantenere una proficua quota del capitale di Abab dalla sua fondazione che, in qualità di Spa che rappresenta una forma societaria che per peculiarità proprie persegue la massimizzazione dei profitti12.

La parte pubblica pur controllando il 55% del capitale di Acque Spa, ha una partecipazione suddivisa fra varie società e enti locali: Cerbaie Spa il 16,26%, Acquapur Spa il 5,04%, Gea Servizi Spa il 12,27%, il comune di Chiesina Uzzanese lo 0,31%, quello di Crespina – Lorenzana lo 0,25% e Alia Servizi Ambientali Spa il 19,31% (grafico 1). Quest’ultima, prima multiutility toscana dei servizi pubblici locali, opera nei settori ambiente, ciclo idrico integrato ed energia, ed è stata fondata il 26 gennaio 2023 dalla fusione per incorporazione da parte di Alia Servizi Ambientali Spa di tre società pubbliche della Toscana Centro-Settentrionale: Publiservizi Spa, Consiag Spa e Acqua Toscana Spa.

La nuova società multiservizi risulta al momento partecipata da 66 comuni tra l’Empolese – Val d’Elsa e le province di Firenze, Prato e Pistoia, con le quote ripartite tra i principali Comuni nella seguente modalità: Firenze (37,1%), Prato (18,1%), Pistoia (5,54%), Empoli (3,4%) mentre altri comuni toscani detengono il rimanente 35,9%. Tuttavia sin dalla sua fondazione la nuova multiutility è risultata accompagnata da un programma di apertura al capitale privato e di quotazione in borsa sul modello di Acea13, come puntualmente esposto dal suo Amministratore delegato Alberto Irace, non casualmente amministratore delegato di Acea in carica dal 2014, al termine del quale la parte privata entrerà nella società fino ad una quota massima del 49%, tramite un aumento di capitale sociale14, che non è difficile immaginare possa riguardare anche Acea stessa.

Emerge il paradosso che una multiutility a totale capitale pubblico sia affidata nella conduzione strategica all’Amministratore delegato della principale società nazionale del settore, nota per i suoi criteri di gestione all’insegna della remunerazione degli azionisti, sollevando quindi non infondate perplessità sulla compatibilità con la tutela dell’utenza e della risorsa idrica che dovrebbero essere i principi cardine dell’interesse colletivo.

Grafico 1: la composizione del capitale sociale di Acque Spa

Il management di Acque Spa

Pur controllando la parte pubblica nel suo insieme il 55% del capitale sociale di Acque Spa, la componente privata, in virtù del rappresentare il socio di maggioranza relativa col 45%, riesce ad esprimere il management dell’azienda e a dettarne le linee gestionali. Dall’ultimo rinnovo del Consiglio di amministrazione di fine 2023 è uscita infatti la riconferma ad Amministratore delegato di Fabio Trolese, manager espressione di Acea, già in carica dal 2020, mentre la parte pubblica continua a mantenere cariche prevalentemente di rappresentanza e di controllo come la Presidenza, assegnata all’ex sindaco di Pontedera (Pi) Simone Millozzi, e la vicepresidenza, attribuita ad Antonio Bertolucci, già consigliere comunale e assessore al Comune di Capannori (Lu)15 e da tempo membro del Cda della stessa azienda.

I compensi percepiti dai membri del Consiglio di amministrazioni risultano molto elevati e, in genere, superiori rispetto a quelle di società analoghe, tant’è che il Presidente riceve un compenso lordo di 72.000 euro, il Vicepresidente 26.000 euro, l’Amministratore delegato 67.000 euro e i consiglieri, tre per parte pubblica e altrettanti per quella privata, 21.000 euro ciascuno. Per un totale annuo del 2023 pari a 291.000 euro.

Per avere un termine di paragone con una società toscana che presta lo stesso servizio fra le province di Arezzo e di Siena e dalla analoga struttura a capitale misto pubblico (53,84%) – privato (46,16%), come Nuova Acque Spa, il Presidente viene remunerato con 32.536 lordi e i restanti otto Consiglieri, dei quali uno adempie al ruolo di Amministratore delegato e altro quello di Vicepresidente, solamente 4.648 euro lordi, con l’aggiunta di un gettone di presenza per ogni Consiglio d’amministrazione di 300 euro16.

Tabella 1: comparazione compensi lordi in euro del Cda di Acque Spa e di Nuova Acque Spa.

CaricheCompensi Cda Acque Spa in euroCompensi Cda Nuova Acque Spa in euro
Presidente72.00032.536
Vicepresidente26.0004.648
Amministratore delegato67.0004.648
Consiglieri (n° 6)21.0004.648
Totale compensi lordi Cda291.000101.720
Gettone di presenza riunioni CdaNon previsto300

Compensi indubbiamente eccessivi per una azienda senza particolari rischi di impresa che agisce ad affidamento diretto in regime di monopolio, fornendo un bene primario indispensabile per l’esistenza umana e del quale ne impone le condizioni tariffarie in modo unilaterale finendo per appesantire l’entità delle bollette a carico della cittadinanza.

L’impennata delle tariffe e la rimodulazione degli scaglioni di consumo

Al fine di quantificare l’impatto dell’aumento dei costi della fornitura idrica integrata sulle casse delle famiglie abbiamo effettuato uno studio sull’entità sia delle tariffe che delle fasce di consumo fissate dai 2 gestori che si sono succeduti nel corso degli ultimi 25 anni nei comuni del Basso val d’Arno. Nella tabella 1 riportiamo inizialmente le tariffe applicate, per la sola fornitura idrica, nell’anno 2001 dalla società Gea Spa, a completo controllo pubblico, e, successivamente, quelle di Acque Spa, società mista pubblico-privato, fra il 2002 e il 2013, mentre nella penultima riga troviamo gli esorbitanti aumenti percentuali intercorsi fra il 2001 e il 2013. Nell’ultima, invece, sono riportati gli incrementi registrati fra il 2011 e il 2013, vale a dire nel periodo successivo all’effettuazione dei Referendum del giugno 2011, i cui risultati disponevano, oltre al ritorno del servizio in mano pubblica, anche l’eliminazione della remunerazione del capitale investito.

Il passaggio, fra il 2001 e il 2002, della gestione dalla società pubblica Gea Spa, costituita il 15 giugno 1995 mediante trasformazione dell’allora Consorzio Azienda Servizi Ambientali Area Pisana, ad Acque Spa ha comportato in un solo anno un aumento di 3 volte della Tariffa agevolata sino ad 80 mc di consumo e di 5,5 volte della quota fissa, mentre la Tariffa base è quasi raddoppiata e l’Eccedenza 1 aumentata “solo” del 50%, con l’Eccedenza 2 che invece beneficia di una diminuzione della tariffa. Una dinamica tariffaria non solo in rapida ascesa ma anche estremamente penalizzante per le basse fasce di consumo, come i pensionati, i nuclei familiari poco numerosi e in genere chi consuma poca acqua (tab.2).

Allargando l’arco temporale del raffronto rileviamo come fra il 2001 e il 2013, ultimo anno di uniformità delle fasce di consumo, la Tariffa agevolata sia aumentata vertiginosamente del 615%, mentre le altre in misura sensibilmente minore, con la quota fissa addirittura del 1.280%. Una politica tariffaria chiaramente orientata non solo all’incremento dei profitti, con ricadute negative sull’intero panorama degli utenti ma che infierisce sulle fasce sociali più deboli come i pensionati che, consumando in genere poca acqua, hanno visto lievitare in modo insostenibile sia il costo della fornitura idrica sia quello della quota fissa che colpisce trasversalmente tutti gli utenti a prescindere dal consumo e dal reddito.

Rileviamo infine come Acque Spa e i sindaci dell’ATO 2 conniventi con tali politiche, non solo non hanno proceduto all’attuazione degli esiti dei due referendum sull’acqua del 2011, ma hanno continuato incurantemente ad aumentare le tariffe, tant’è che nei due anni successivi le varie fasce di consumo e la quota fissa sono aumentati fra l’11 e il 13%. Con buona pace della cancellazione del 7% di rendita finanziaria sul capitale investito, procedimento che poteva essere attuato anche senza il ritorno della gestione del servizio idrico totalmente in mano pubblica.

Tabella 2: tariffe della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 (residenti) fra 2001 e 2013



Tariffe in euro della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 periodo 2001-2013
PeriodoGestoreTariffa agevolata al mc (0-80)Tariffa base al mc (81-200)Tariffa I eccedenza al mc (201-300)Tariffa II eccedenza al mc (oltre 300)Quota fissa annua
2001GEA Spa0,1560,3750,6251,2512,784
2002Acque Spa0,5140,6860,9321,11915,493
2009Acque Spa0,8671,1571,5731,88826,395
2011Acque Spa0,9841,3131,7842,14129,891
2013Acque Spa1,1161,4892,0242,42838,44

Aumento 2001-2013
615,38%297,06%223,84%94,08%1.280,74%

Aumento 2011-2013
11.34%13,40%11,34%11,34%12,87%

Dal 2014 Acque Spa ha attuato una rimodulazione delle fasce di consumo con una drastica riduzione da 80 a 30 mc di quella soggetta a Tariffa agevolata, accompagnata da ulteriori aumenti generalizzati delle tariffe negli anni successivi (tab. 3), diabolico combinato disposto che ha impattato negativamente sulla quasi totalità degli utenti.

Tuttavia, restringendo la fascia di consumi a Tariffa agevolata a soli 30 mc/annui, maggiori penalizzazioni vengono subite dalle famiglie con uno o due compenti, alle quali viene applicata in prevalenza la Tariffa base. Ugualmente subiscono marcati aumenti le utenze con i consumi più frequenti, vale a dire le famiglie di 3-4 persone che consumano in media fra 100 e 200 mc annui e che passano da una tariffa di 2,429 euro/mc del 2013 a 3,613 nel 2017 (tab 3).

Il malcontento generato da una politica tariffaria di tale aggressività costringe nel 2018 Acque Spa ad innalzare la fascia di consumo a Tariffa agevolata a 55 mc.

Tabella 3: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2017



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche 1 anno 2017
Tariffe

Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 30 mc0,2260,2340,9161,376
Base da 30 a 90 mc1,7360,2340,9162,886
I eccedenza da 90 a 200 mc2,4630,2340,9163,613
II eccedenza oltre 200 mc3,4610,2340,9164,611
Quota fissa56,35

Tabella 4: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2020



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2020


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,9420,2540,9942,190
Base da 56 a 135 mc1,8850,2540,9943,133
Eccedenza oltre 135 mc3,0450,2540,9944,293
Quota fissa61,17

Tabella 5: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2023



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2023


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,6360,7901,2532,679
Base da 56 a 135 mc1,2720,7901,2533,315
Eccedenza oltre 135 mc2,9350,7901,2534,978
Quota fissa60,21

Dall’analisi della dinamica tariffaria e dai criteri di rimodulazione delle fasce di consumo, risulta quindi palese che la strategia aziendale attuata dal management di Acque Spa si ispiri alla massimizzazione del profitto, con entrambe tese a penalizzare le utenze con consumi più bassi, come i pensionati e i nuclei mono o bi-personali, e coloro che cercano di attuare comportamenti virtuosi orientati alla riduzione dell’utilizzo della risorsa idrica.

Anche per questo riteniamo necessario che la tematica del rispetto della volontà popolare espressa tramite le consultazioni del giugno 2021 sia portata, soprattutto dai movimenti e dai partiti che sostennero il Sì ai due referendum, al centro dei programmi delle imminenti elezioni europee e amministrative di molti comuni italiani. Un messaggio di coerenza che sicuramente contribuirebbe a riavvicinare gli elettori, sempre più disinnamorati da questa politica, ai seggi.

Andrea Vento – 9 aprile 2024

Comitato comunale per l’Acqua pubblica di San Giuliano Terme (Pisa)

NOTE:

1 Gli ATO Acqua sono stati originariamente istituiti dalla Legge del 5 gennaio 1994 n. 36 “Disposizioni in materie di risorse idriche” che ha riorganizzato i servizi idrici aggregando sotto un’unica autorità (L’autorità di Ambito) i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, ivi comprese le relative tariffe.

2 Rapporto Servizio idrico in Italia del marzo 2019, realizzato da Utilitalia la federazione che riunisce 450 aziende di servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’energia elettrica e del gas operanti in Italia.

3 https://www.autoritaidrica.toscana.it/it/page/ait

4 Per i testi e gli esiti elettorali dei referendum dell’12 e 13 giugno 2011: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/altri_speciali_2/referendum_2011/index.html

5 https://www.abc.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=113

6 https://www.ufficiocamerale.it/2460/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa

https://atoka.io/public/it/azienda/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa/1ab8f6f855d1

7 https://cittadinoinformato.it/acque_spa/?doing_wp_cron=1711984551.6514940261840820312500

8 https://www.gruppo.acea.it/conoscere-acea/nostra-storia

9 http://europeanwater.org/it/azioni/focus-per-paese-e-citta/710-acqua-privata-frosinone-e-provincia-si-ribellano-revocato-il-contratto-con-acea

10 https://registroaziende.it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa-firenze

11 https://atoka.io/public/it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa/270196460d42

12 La gestione deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci. https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_per_azioni_(ordinamento_italiano)

13https://www.ilsole24ore.com/art/pronta-varo-multiutility-toscana-l-obiettivo-e-borsa-AEzqHKWB

https://www.arezzonotizie.it/attualita/corte-conti-no-quotazione-borsa-multiutility.html

https://www.utilitalia.it/notizia/dbe68738-6095-4d3d-8dfc-6c28ab59d9e9

14 Irace (Ad multiutility Toscana): l’obiettivo è la quotazione nell’aprile 2024

https://www.milanofinanza.it/news/irace-ad-multiutility-toscana-obiettivo-e-quotazione-aprile-2024-202302101958398899?refresh_cens

15 https://www.acque.net/wp-content/uploads/cv_bertolucci_antonio.pdf

16 https://nuoveacque.it/chi-siamo/#

La situazione ad Haiti. Documenti dal fronte interno.  

La polizia antisommossa keniota pattuglia uno slum durante le proteste antigovernative

a cura di Enrico Vigna, 13 marzo 2024

Premetto che questo lavoro è un insieme di documentazioni provenienti da movimenti e realtà haitiane sul campo o di sostegno al popolo haitiano da anni, e non interpretazioni o analisi estemporanee da qui. Soprattutto, molto al di fuori da letture uniformi o lineari, dato il complesso e intricatissimo quadro che la storia haitiana passata e attuale raffigura. 

E’ una resistenza, un processo rivoluzionario o un ennesimo scontro sanguinoso tra attori disgiunti tra loro, ma con interessi momentanei coincidenti? Questa, che sembra una domanda banale è in realtà la riflessione centrale, per ora senza risposta, che si pongono militanti, attivisti, politici e studiosi haitiani nel paese o fuori. Sicuramente, come sempre, saranno gli sviluppi sul campo a dare una risposta. Per ora mettiamo sotto i riflettori questi materiali, documentazioni, denunce, appelli che ci arrivano dai protagonisti e testimoni diretti.


A causa della situazione caotica che il Paese ha vissuto negli ultimi tempi, la lotta del popolo haitiano per un domani migliore, sta vivendo in queste settimane un passaggio cruciale, considerando una indubbia mobilitazione popolare, insieme a violenze dispiegate, ma non solo casuali o spontanee, che sembrano suscitare nelle masse diseredate, speranze di cambiamenti radicali e ricerca straziante di futuro, mentre gettano indubbiamente nel panico i colonizzatori e gestori da Washington e Parigi, di Haiti.

In seguito a manifestazioni popolari di protesta e rabbia, verificatesi negli ultimi mesi la risposta del governo è stata una repressione brutale e criminale sulla popolazione e molti civili sono stati feriti o assassinati dalla polizia.

In particolare la repressione che si è abbattuta sui manifestanti durante la giornata di protesta del 7 febbraio, ha svelato definitivamente il carattere reazionario e duro a morire di questo regime fuorilegge imposto dagli Stati Uniti. Nel tentativo del regime di proteggersi da ogni possibilità di cambiamento popolare rivoluzionario, ha scatenato terrore e violenze indiscriminate nelle piazze e nei quartieri, ecco perché mentre la popolazione civile è stata costretta ad arretrare, tutta la rete, certamente legata al crimine, ma non tutte le bande, hanno reagito e occupato il vuoto di potere sul campo. Questa risposta, controversa e da valutare in profondità, non con categorie precostituite o usuali, ma tenendo conto della realtà devastata socialmente del paese, ha trovato il riconoscimento istintivo e l’appoggio degli umiliati e dei diseredati, di contadini, lavoratori e soprattutto di un gran numero di giovani.

Questa mobilitazione e dimostrazione di forza militare, ha suscitato una potente eco tra le masse diseredate haitiane, può piacere o meno, ma è un dato di fatto oggettivo e concreto, come si può leggere nelle documentazioni qui esposte come informazione. È un’esperienza sociale e politica fuori dagli schemi e nuova, una prova formidabile nel quale le masse immiserite e schiacciate di Haiti si sono identificate senza alcun segno di ritegno o esame. Dimostra la volontà di un popolo da troppi decenni soggiogato e sfruttato in modo disumano e criminale, che chiede cambiamento e la costruzione di una vita dignitosa, in qualsiasi modo. Certo, forse è solo la ricerca di una speranza, anche intrisa di contraddizioni e rischi, che potrebbe nuovamente scemare, ma per essi è necessità, bisogno per sopravvivere. Un popolo, vittima sacrificale, distrutto da decenni di precarietà, disoccupazione, di vita in abitazioni insalubri, se non capanne, servizi pubblici quasi inesistenti, carestie e disastri naturali, sfruttamento smisurato, insicurezza, miseria e sfollamenti forzati, tutte conseguenze dei governi di questi decenni assoggettati al dominio statunitense. Questo è Haiti oggi.

Purtroppo, quasi tutte le componenti politiche, sia interne che internazionali, faticano o non intendono affrontare la situazione creatasi, anche perché, oggettivamente è piena di rischi e nebulosa sul terreno. Ma come qui documento, non tutti si sono astenuti o negati a per dare solidarietà al popolo haitiano.

Un dato è certo, nessuno crede più che le soluzioni verranno dalla classe politica tradizionale locale, che già si prepara a riprendere il controllo con la proposta di una transizione, per ricominciare a dialogare e condividere con l’imperialismo e i suoi discepoli. In particolare i vari Ariel Henry, André Michel, Edmonde Supplice Beauzile, politici asserviti allo straniero che vorrebbero intavolare trattative per un compromesso e una nuova spartizione del paese.

Cercare di comprendere le complessità di Haiti e la sua lotta per un vero cambiamento è molto difficile e composito. Ma il punto fondamentale da comprendere e da cui partire per affrontare la situazione creatasi, è questo: da quando gli Stati Uniti hanno rovesciato il presidente Jean Bertrand Aristide, legittimamente eletto, esattamente nel febbraio di 20 anni fa, Haiti ha vissuto incessanti interferenze elettorali, sfruttamento, invasione e occupazione da parte o per conto del governo degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Il risultato è stato un ingresso incontrollato di armi nordamericane, la proliferazione di paramilitari, il dilagare di bande criminali, disperazione economica, malattie e la costruzione di carceri finanziate dagli Stati Uniti. Haiti è un paese che sta crollando sotto la guida di un governo scelto dagli Stati Uniti e non scelto dal popolo. In queste settimane il paese è praticamente occupato: dall’aeroporto di Port-Au-Prince, ai porti, alle varie istituzioni, banche, depositi di carburante, carceri e con il presidente Ariel Henry, di fatto in esilio fuori dal paese. I manifestanti chiedono le dimissioni di Henry, la cacciata dal paese di tutti i politici e amministratori legati agli USA e corrotti.

Tra settembre 2021 e 2022, si stima che nelle carceri haitiane siano morti di fame tra 80 e 100 detenuti. Nel Penitenziario Nazionale, i detenuti non hanno condizioni vitali e umane minime, l’83% dei prigionieri haitiani sono detenuti in custodia cautelare che non hanno nemmeno visto un giudice, alcuni aspettano da anni senza che vengano formalmente mosse accuse contro di loro. I media asserviti e i portavoce del governo americano cercano di liquidare ciò che sta accadendo in queste settimane, come una crisi causata da “gang violente”, problema reale ma che è solo un aspetto del problema. E’ una grave semplificazione del problema, che serve solo gli interessi di coloro che desiderano sfruttare e controllare Haiti per i propri fini. Ridurre la crisi a un nebuloso conflitto con “gang armate” è un tentativo razzista di utilizzare un linguaggio in codice per stereotipare gli haitiani. Haiti è il prodotto del caos generato dall’occupazione straniera e dai gruppi criminali e paramilitari sponsorizzati dall’oligarchia haitiana e dai leader economici e politici mantenuti al potere con l’aiuto degli USA. Più volte ci sono stati casi in cui i conflitti armati venivano risolti attraverso negoziati locali o territoriali, ma subito dopo la pace rotta veniva rotta da una di queste bande legate a interessi stranieri o di potentati locali corrotti.

Ma l’altro aspetto della storia è che è in corso una massiccia resistenza e mobilitazione popolare. Ad Haiti è in corso una rivolta per cambiare lo stato putrido delle cose e la fine del controllo straniero. Le richieste che il presidente Henry si dimetta, che agli haitiani sia permesso di tenere elezioni sotto il controllo popolare e che le invasioni e le occupazioni sponsorizzate dagli Stati Uniti debbano finire non sono richieste di “gang”, ma del popolo. L’attuale presidente di Haiti, Ariel Henry, è stato scelto nel 2021 dal gruppo CORE, composto da ambasciatori di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Spagna, Unione Europea e Brasile, insieme a rappresentanti dell’Organizzazione degli Stati Americani e delle Nazioni Unite. Era stato scelto per guidare il paese dopo l’assassinio del presidente Jovenal Moise. Henry è implicato nella pianificazione dell’assassinio, in uno scontro di poteri, per questo si è sempre rifiutato di collaborare alle indagini e non bisogna dimenticare che Henry partecipò anche al colpo di stato contro il presidente Aristide, venti anni fa.

Gli Stati Uniti hanno finora sostenuto il governo Henry, ma si rendono conto che la loro strategia è fallita e che il governo Henry probabilmente cadrà con o senza il sostegno degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato statunitense ha ora invitato Henry a dimettersi e ad avviare la transizione verso un nuovo governo. L’onestà dell’appello è dubbia e sembra essere piuttosto un tentativo da parte degli USA, di riprendere il controllo e facilitare la formazione di un nuovo governo che continuerà a fungere da rappresentante del dominio statunitense. Nello stesso momento in cui chiede le dimissioni di Henry, la Casa Bianca preme affinché venga schierata una forza d’invasione multinazionale guidata dal Kenya. Quella forza sarà lì per continuare a garantire l’egemonia statunitense, non per garantire una transizione verso elezioni giuste. Sono state discusse anche le eventualità di schierare un’unità d’élite di Marines americani.

Tuttavia, i piani statunitensi mostrano molteplici crepe. L’amministrazione Biden ha promesso fino a 200 milioni di dollari per sostenere la forza multinazionale, ma i finanziamenti sono stati bloccati dai Repubblicani che mettono in dubbio i costi. Le stime dicono che il prezzo potrebbe salire fino a 500 o seicento milioni di dollari. L’opposizione Repubblicana, che non mette in discussione il ruolo assoggettatore USA, sostiene inoltre che non c’è abbastanza tempo per formare e addestrare sufficientemente una forza d’invasione. Ancora una volta la proposta non è trovare soluzioni negoziali o conciliatorie ma è la metodologia di invasione e interferenza. In effetti, fu l’International Republican Institute (IRI), uno dei quattro istituti principali del National Endowment for Democracy, a coordinare essenzialmente il rovesciamento di Aristide nel 2004. L’IRI e la CIA addestrarono Guy Philippe a guidare il colpo di stato. Dopo il colpo di stato e le sue conseguenze, Phillipe andò negli Stati Uniti. Successivamente venne arrestato con l’accusa di riciclaggio di denaro legato ai narcotrafficanti colombiani. Philippe è stato rilasciato lo scorso novembre dopo sei anni di detenzione e poi rientrato ad Haiti., annunciando la sua intenzione di candidarsi alla presidenza. Anche da parte Democratica c’è stata una certa resistenza alle politiche di Biden. Alcuni rappresentanti alla Camera hanno rilasciato una dichiarazione nel dicembre 2023 invitando il presidente Biden a cambiare rotta, scrivendo che: “…Un altro intervento straniero armato ad Haiti non si tradurrà nella necessaria transizione guidata verso un governo democratico, piuttosto rischia di destabilizzare ulteriormente il paese, mettendo in pericolo più persone innocenti e rafforzando l’attuale regime illegittimo”.

Alla domanda se c’è qualche soluzione praticabile, i vari esponenti politici, militanti haitiani, ribadiscono la necessità primaria e fondamentale di espellere dal paese Stati Uniti, Francia, Canada e i loro alleati, solo questo passaggio difficile e impervio potrà aprire scenari nuovi per il popolo haitiano. Dietro i titoli sensazionalistici e inquietanti dei media occidentali, pervasi di un sottile razzismo, per cui Haiti è ingovernabile e il popolo haitiano non può governarsi da solo, è indirizzato e prepara il terreno a giustificare e legittimare una coalizione militare straniera che intervenga per “ stabilizzare e salvare” dal caos il paese. E’ invece un attacco alla sovranità e all’indipendenza di Haiti e del suo popolo.




Queste le posizioni e documentazioni dalla parte delle forze di resistenza popolari haitiane e quelle solidali con esse


Fanmi Lavalas, il partito dell’ex presidente Aristide, l’unico presidente eletto dal popolo nella storia di Haiti, ha risposto all’aggravarsi della situazione, e della crisi umanitaria e politica ad Haiti denunciando i molteplici interventi e attacchi degli Stati Uniti alla sovranità haitiana, come causa principale di queste crisi, che stanno causando sempre più vittime di, sofferenze e migrazioni forzate dal paese più povero dell’emisfero occidentale. Invita gli haitiani a manifestare e sostenere le parole d’ordine come “Truppe statunitensi/keniote, Ariel Henry/Gangster: fuori da Haiti!”, “Il governo haitiano non eletto è il capo gangster! Autodeterminazione per il popolo haitiano e “Fermare i massacri e i rapimenti”, che sono diventati crimini quotidiani contro le masse di Haiti.

Maryse Narcisse la presidente di FL ha dichiarato: “ Ogni giorno, la polizia haitiana, sotto il comando di Henry, armata e addestrata dall’esercito statunitense, lancia gas, picchia e uccide lavoratori disarmati che partecipano alle grandi proteste contro le condizioni di povertà e il governo. Qualsiasi caos sociale interno, che attanaglia i quartieri haitiani è stato creato dall’intervento degli Stati Uniti…”.

Il portavoce di Fanmi Lavalas, Jodson Dirgène, da parte sua ha dichiarato in un’altra intervista al programma ”Panel Magik”: “…Non possiamo chiedere al primo ministro Ariel Henry di dimettersi, non gli abbiamo mai dato un mandato…”.


Fòrs Revolisyonè G9 an Fanmi e Alye (Forze Rivoluzionarie della Famiglia G9 e alleati)

L’Alleanza G9 Famiglia e Alleati (G9 Fanmi e Alye) è una federazione di nove bande armate. Fondata nel giugno 2020 dall’ex agente di polizia diventato capobanda Jimmy Chérizier, detto “Barbecue”, questa coalizione controlla gran parte delle azioni armate organizzate dentro la rivolta.

L’ex agente di polizia Jimmy Chérizier, è una figura molto controversa e non lineare, sicuramente poco classificabile per ora, in questi mesi è divenuto il punto di riferimento militare ma anche politico all’interno di Haiti. Con un passato rasente e congiunto alla criminalità più dura, è poi diventato famoso per aver fondato G9 and Family (G9 an fanmi – G9), una federazione di nove potenti bande territoriali, radicate soprattutto nella capitale haitiana di Port-au-Prince, ma con ramificazioni anche in altre città dell’isola. Dallo scorso anno G9 si presenta come un’organizzazione politica rivoluzionaria e ha creato una rete di alleanze a livello nazionale denominata “G20”.

Da molti indicato come un efferato criminale, addirittura sanzionato dagli Stati Uniti, negli ultimi anni si è voluto proporre come leader politico rivoluzionario. Da tutti, in questo momento è considerato l’uomo più potente del Paese. Cherizier aveva costruito un forte legame con una delle forze politiche più potenti di Haiti, il partito haitiano Tèt Kale (Parti Haïtien Tèt Kale – PHTK) dell’ex presidente Jovenel Moise, poi dopo il suo assassinio allontanandosene, così come con pezzi della polizia, in particolare con le Forze di sicurezza, arrivando ora ha imporre le dimissioni del presidente Henry e sfidando apertamente lo Stato haitiano. 

In una intervista con la TV statunitense ABC News, Cherizier, ha promesso che la sua Alleanza avrebbe concesso una tregua, se Henry si fosse dimesso, i suoi combattenti avrebbero “fermato automaticamente gli attacchi alle stazioni di polizia…ma la guerra contro lo Stato continuerà fino a che tutte le élite politiche corrotte non saranno eliminate…Il primo passo è rovesciare Ariel Henry e poi inizieremo la vera lotta contro il sistema attuale, il sistema di oligarchi corrotti e politici tradizionali corrotti…Non solo stiamo combattendo contro Ariel Henry, ma stiamo anche combattendo contro chiunque abbia qualche complicità…Il mio messaggio per la comunità internazionale, in particolare per gli Stati Uniti che hanno un rapporto di lunga data con il popolo haitiano, è che dico loro che non possono più continuare a trattare il popolo haitiano come hanno fatto finora… Non siamo in una rivoluzione pacifica. Stiamo facendo una rivoluzione sanguinosa nel paese perché questo sistema è un sistema di apartheid, un sistema malvagio…”.

Cherizier ha anche accennato alle ambizioni presidenziali, dicendo ad ABC News: “Non sono io a decidere se voglio essere presidente o no. Sarà il popolo haitiano a decidere chi dovrà essere il suo presidente, chi dovrà guidare il Paese. Personalmente mi considero un servitore del PaeseAbbiamo deciso di prendere in mano le sorti del Paese. Ciò significa liberare il paese dal 5% delle persone che controllano l’85% della ricchezza del paese…”.

Brian Concannon, direttore esecutivo dell’Istituto per la giustizia e la democrazia di Haiti (IJDH), un istituto statunitense ha dichiarato che: “… il più grande attore criminale di Haiti ha ora un potere significativo nel sistema politico formale. Con il sostegno degli elettori nelle zone della città sotto il suo controllo , in futuro potrebbe addirittura candidarsi per un seggio in parlamento, con grandi margini di vittoria…”.


La Black Alliance for Peace ( Alleanza Nera per la Pace , BAP), sezione Haiti

“…La posizione dell’Alleanza Nera per la Pace è coerente e chiara. Noi sosteniamo gli sforzi del popolo haitiano per affermare la propria sovranità e rivendicare la propria indipendenza.Denunciamo l’attuale attacco imperialista contro Haiti e chiediamo che venga estirpata la presenza dei governanti coloniali stranieri di Haiti…il fallimento della governance nel paese, non è qualcosa di interno ad Haiti, ma è un risultato dello sforzo concertato da parte dell’Occidente per sventrare lo Stato haitiano e distruggere la democrazia popolare ad Haiti… Haiti è attualmente sotto occupazione da parte degli Stati Uniti/ONU e del Core Group, entità straniere che governano effettivamente questo paese. L’occupazione di Haiti è iniziata nel 2004 con il sostegno di Stati Uniti, Francia e Canada al colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto di Haiti.

Il colpo di stato è stato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.Che ha poi istituito una forza militare di occupazione (eufemisticamente chiamata missione di “peacekeeping”), con l’acronimo MINUSTAH. Sebbene la missione MINUSTAH sia ufficialmente terminata nel 2017, l’ufficio ad Haiti è stato ricostituito come BIHUH.BINUH,e continua ad avere un ruolo importante negli affari haitiani….Negli ultimi quattro anni le masse haitiane si sono mobilitate e hanno protestato contro un governo illegale, l’ingerenza imperialista e all’insicurezza da parte di gruppi armati finanziati dalle élite. Tuttavia, queste proteste sono state represse dal burattino installato dagli Stati Uniti. Dal 2021, i tentativi di controllare Haiti da parte degli Stati Uniti si sono intensificati.In quell’anno, il presidente di Haiti, Jovenel Moïse, fu assassinato e Ariel Henry fu insediato dagli Stati Uniti e dal gruppo ristretto delle Nazioni Unite come primo ministro de facto. Sulla scia del l’assassinio di Moïse e l’insediamento di Henry, gli Stati Uniti hanno cercato di costruire una coalizione di stati stranieri disposti a inviare forze militari per occupare Haiti e affrontare il presunto problema delle “gang” di Haiti….I gruppi armati (le cosiddette “gang”), principalmente nella capitale Haiti dovrebbero essere intese come forze “paramilitari”, poiché sono costituite da ex (o attuali) elementi militari e di polizia haitiani.

Molte di queste forze paramilitari sono note per agire per alcune delle élite di Haiti…Quando noi parliamo di “bande”, dobbiamo conoscere che le bande reali e più potenti del mondo sono gli Stati Uniti, il Core Group e l’ufficio illegale delle Nazioni Unite ad Haiti, in quanto sono questi che hanno contribuito a creare l’attuale crisi… Gli attacchi alla sovranità dei neri ad Haiti sono uguali agli attacchi ai neri in tutte le Americhe. Oggi Haiti è importante e vitale per la geopolitica e l’economia degli Stati Uniti.Haiti si trova in una posizione chiave nei Caraibi per la strategia militare e di sicurezza degli Stati Uniti nella regione, soprattutto alla luce dell’imminente confronto tra Stati Uniti e Cina, contesto dell’attuazione strategica del Global Fragilities Act…I BAP, come molte organizzazioni haitiane e di altro tipo, hanno argomentato con coerenza contro un rinnovato intervento militare straniero. Abbiamo chiesto con insistenza la fine dell’occupazione straniera di Haiti.Questo comprende lo scioglimento del Core Group, dell’ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti (BINHU), e la fine della costante ingerenza degli Stati Uniti, insieme ai suoi partner minori, CARICOM e il Brasile. Abbiamo denunciato i governi della Comunità Latinoamericana e Stati dei Caraibi (CELAC) (ad eccezione di Venezuela e Cuba), che sostengono i piani statunitensi per l’intervento armato ad Haiti e la negazione della sovranità haitiana. Abbiamo denunciato i leader della CARICOM…Le soluzioni di Haiti dovrebbero arrivare dal popolo haitiano attraverso un ampio consenso…Abbiamo anche criticato il ruolo del presidente brasiliano Luiz Inácio “Lula” da Silva, non solo per aver continuato il ruolo del Brasile nel Core Group, ma anche per guidarlo insieme al governo criminale degli Stati Uniti. In solidarietà con i movimenti haitiani, abbiamo denunciato l’approvazione delle Nazioni Unite, all’invasione armata straniera e l’occupazione di Haiti, finanziata dagli Stati Uniti e guidata dal Kenya. Noi siamo fermamente convinti che un intervento straniero armato ad Haiti guidato dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, non sia solo illegittimo, ma illegale.Sosteniamo il popolo haitiano e le organizzazioni della società civile che sono stati coerenti nella loro opposizione ai militari armati stranieri…Continueremo a sostenere i nostri compagni mentre lottano per un mondo libero e sovrano Con Haiti. Viva Haiti!”.


La Via Campesina Haiti

Questo comunicato stampa è stato preparato dalle organizzazioni membri di La Via Campesina ad Haiti, tra cui Mouvman Peyizan Nasyonal Kongre Papay (MPNKP), Mouvman Peyizan Papay (MPP), e Tet Kole Ti Peyizan Ayisyen (TK), in collaborazione con il coordinamento regionale delle organizzazioni del sud-est (KROS). Queste organizzazioni formano collettivamente la piattaforma “4 Je Kontre” ad Haiti.

Haiti: appello per la resistenza e la solidarietà con il popolo haitiano per un governo di transizione 16 febbraio 2024

Haiti, 6 febbraio 2024

La piattaforma “4 Je Kontre”, che comprende il Movimento Nazionale Contadino del Congresso Papaye (MPNKP), Tet Kole Tile Peyizan Ayisyen (TK), il Movimento Contadino di Papaye (MPP) e il Coordinamento Regionale delle Organizzazioni del Sud-Est (KROS), coglie questa opportunità per elogiare la resilienza e la determinazione del popolo haitiano contro il regime autoritario del PHTK. Questo regime è guidato dal primo ministro de facto Ariel Henry, da altri membri del governo senza scrupoli, e dai loro alleati nazionali e internazionali. Un’analisi completa della terribile situazione di Haiti rivela che gli atti criminali di bande armate e criminali senza scrupoli persistono, ostacolando la mobilitazione a livello nazionale contro il regime. L’aumento dell’insicurezza è stato documentato nelle aree in cui la popolazione è sottoposta a rapimenti, massacri, incendi di proprietà e stupri di donne e ragazze, tra le altre atrocità.

La popolazione è alle prese con un periodo economicamente difficile, caratterizzato da un costo della vita in ascesa. I beni essenziali continuano ad aumentare di prezzo, mentre il governo de facto di Ariel Henry assegna fondi significativi per finanziare bande e mercenari all’interno della Polizia Nazionale per mantenere la sua presa sul potere. La comunità internazionale, rappresentata dal BINUH, dal Core Group e dalle Nazioni Unite, persiste nel sostenere il governo de facto, adottando tattiche di ritardo per mantenere Ariel al potere, nonostante il diffuso malcontento pubblico e l’insoddisfazione per le istituzioni politiche. Ariel e le sue coorti hanno dichiarato la loro intenzione di rinunciare al potere dopo aver tenuto le elezioni, nonostante vari settori della vita nazionale propongano una soluzione haitiana alla crisi di Haiti. Sfortunatamente, nessun progresso è stato fatto mentre Ariel Henry ostacola tutte le iniziative volte a spostare il suo governo.

Per oltre due anni, Ariel Henry ha sostenuto le elezioni con la premessa che PHTK potrebbe rinnovarsi, condizionando negativamente la popolazione attraverso l’aumento delle tasse, l’aumento dei prezzi del carburante e la dispersione di fondi pubblici a programmi di assistenza sociale inefficaci. Dichiariamo enfaticamente che questa situazione è insostenibile, e dobbiamo sforzarci con veemenza a rovesciare il sistema e tutte le forze di supporto a spese del popolo.

In questo contesto, tutte le organizzazioni membri di “4 Je Kontre” approvano la proposta del Montana, sostenendo una rottura completa e l’istituzione di un governo di transizione a doppia testa, che dovrebbe durare tra i 18 e i 24 mesi. Questo governo mira a spianare la strada istituendo un consiglio elettorale imparziale, libero dall’influenza degli Stati Uniti e da qualsiasi interferenza della comunione internazionale. Inoltre, il governo di transizione dovrà garantire la sicurezza in tutto il territorio nazionale, consentendo la libera circolazione della popolazione.

4 Je Kontre” continuerà fermamente a sostenere tutte le azioni e le richieste positive di altri settori progressisti volti a rovesciare il governo de facto e i suoi alleati.

Lunga vita alla sovranità di Haiti!

Lunga vita alla battaglia del popolo per una soluzione haitiana per Haiti!

Lunga vita alla solidarietà tra tutte le organizzazioni progressiste in lotta per la giustizia sociale!”.


Coalizione Viv Ansanm / Living Together”. Movement – Vivere Insieme

‘Viv Ansanm non riconoscerà nessun governo risultante dalle proposte della Comunità e del Mercato Comune del Caribe (CARICOM)…E’ compito e responsabilità del popolo haitiano eleggere i propri leader che governino il paese…”.

La più grande prigione civile della Repubblica di Haiti è stata occupata da bande armate appartenenti del “Viv AnsannLiving Together”. Movement”, una coalizione di diversi gruppi armati nella capitale Port-au-Prince. Guidati da droni che li informavano della posizione della polizia, gli insorgenti hanno appiccato il fuoco nei dintorni del carcere e poi si sono diretti alla prigione. È diventato virale sui social un video ripreso da un drone con l’immagine del carcere conquistato.


HAITI Libertè

L8° vertice CELAC, tenutosi a Kingstown, Saint Vincent e Grenadine, 1 marzo 2024

La CELAC dovrebbe rivedere la sua posizione su Haiti

Secondo HaitiLibertè, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), ha pronunciato una grave decisione: “…è stato scioccante trovare nel documento finale del Summit Celac, il sostegno al piano di Washington di condurre una guerra contro il popolo haitiano per mantenere di fatto al potere il primo ministro Ariel Henry. La “Dichiarazione di Kingstown”, all’articolo 73, afferma: Chiediamo la rapida ed efficace attuazione della risoluzione 2699 (2023) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, inclusa la creazione delle condizioni di sicurezza necessarie ad Haiti come mezzo per mantenere la libertà ed elezioni eque ad Haiti e gettando le basi per uno sviluppo economico e sociale sostenibile a lungo termine nel paese, rafforzando la sicurezza e affrontando le cause strutturali alla base dell’attuale violenza e vulnerabilità…Questa aberrazione del vertice CELAC, potrebbe essere la conseguenza della posizione del Brasile sullo schieramento di una forza militare nell’isola…Nella sua dichiarazione al vertice, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato: ’Ad Haiti dobbiamo agire rapidamente per alleviare la sofferenza di una popolazione dilaniata dal caos sociale. Il Brasile afferma da anni che il problema di Haiti non è solo un problema di sicurezza, ma soprattutto un problema di sviluppo…’ Inoltre, va ricordato che Lula è stato purtroppo responsabile della guida brasiliana della Missione delle Nazioni Unite per stabilizzare Haiti (MINUSTAH) dal 2004 al 2017, un’occupazione militare straniera responsabile violenze, morti, inquinamento e di un’epidemia di colera ad Haiti… Fortunatamente, al vertice della CELAC, il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato chiaramente l’opposizione del suo paese all’intervento straniero ad Haiti, proprio come Hugo Chavez si era opposto alla MINUSTAH. ‘Non siamo d’accordo con nessun tipo di invasione nascosta, portando truppe da qui o da là. Questa non è la soluzione per Haiti…’. La CELAC dovrebbe rivedere immediatamente la “Dichiarazione di Kingstown” e rimuovere l’Articolo 73, che non fa altro che alimentare il piano di Washington di creare una forza per procura dalla faccia nera per occupare militarmente Haiti ancora una volta, per la terza volta in tre decenni. Il popolo haitiano respinge universalmente gli sforzi evidenti di Washington per salvare il suo burattino Ariel Henry, ora in esilio…”.

Anche Cuba, mantenendo prominente la sua statura politica e morale, con l’intervento del suo presidente Miguel Díaz-Canel Bermúdez, si è dissociato dalla posizione Celac su Haiti: “…Abbiamo tutti l’obbligo morale di offrire ad Haiti una cooperazione sostanziale e disinteressata, non solo per la ricostruzione di alcune aree, ma anche per promuovere in modo globale lo sviluppo sostenibile in tutto il Paese…Cuba parla qui con l’autorità morale che si è guadagnata per aver condiviso con quella nazione sorella, la più vicina geograficamente, grandi dolori e formidabili imprese nel corso dei secoli. Come si espresse nel 1998 il leader storico della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz, e cito: ‘Haiti non ha bisogno di truppe. Non ha bisogno di invasioni di truppe (…) Haiti ha bisogno di invasioni di medici. Haiti ha bisogno di invasioni di milioni di dollari per il suo sviluppo.

(Ricordo che Russia e Cina si erano astenute per l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel voto del 2 ottobre 2023 che autorizzava l’invio di militari nella Missione ad Haiti, ndr)


Partito Comunista del Kenya (CPK)

Combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”

“…Se il governo del Kenya procederà a dispiegare la sua polizia nella nazione caraibica, combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”, ha dichiarato al Peoples Dispatch, Booker Ngesa Omole, segretario nazionale del Partito Comunista del Kenya (CPK ) .

“Qualsiasi decisione da parte di qualsiasi organo o funzionario statale di inviare agenti di polizia ad Haiti… contravviene alla costituzione e alla legge, ed è quindi incostituzionale, illegale e non valida”, aveva stabilito l’Alta Corte del Kenya, il 26 gennaio.

La sentenza ha rappresentato una battuta d’arresto al previsto intervento sponsorizzato dagli Stati Uniti ad Haiti, al quale il Kenya dovrà dare un volto africano schierando un migliaio di agenti di polizia per guidare la missione, il cui obiettivo sarebbe di ripristinare la sicurezza liberando Haiti dalla minaccia delle bande criminali.

Il Kenia dovrebbe inviare un dispiegamento principale di oltre un migliaio di poliziotti, che Booker ha descritto come una “forza estremamente poco professionale, spesso utilizzata dai leader politici locali per svolgere attività criminali, compresi omicidi politici. Ribadiamo che il più grande killer dei giovani in Kenya, non è la malaria ma la polizia. Ogni giorno continuiamo a registrare l’uccisione di numerosi giovani poveri da parte della polizia keniana negli insediamenti della periferia di Nairobi. Questo è il tipo di polizia che gli Stati Uniti hanno scelto per guidare il loro intervento ad Haiti…, ha affermato il leader comunista keniota.

“…Se la polizia keniota avesse voluto seriamente eliminare le bande criminali, lo avrebbe fatto prima qui in Kenya, la polizia ha invece collaborato con bande che sono in contatto con i leader politici. C’è solo una linea sottile tra la polizia keniota e le bande criminali che continuano a terrorizzare i residenti, ad esempio, della provincia nord-orientale o dei quartieri poveri di Nairobi. Questa linea è ancora più sottile ad Haiti, dove molti gangster sono ex membri della polizia nazionale haitiana, che questa missione statunitense guidata dal Kenya, dovrebbe aiutare a ripristinare la legge e l’ordine. Una tale coalizione finirà solo per commettere ancora più crimini ad Haiti, sommandosi alla violenza che quel popolo sta già subendo…Ricordiamo a quei poliziotti che andranno, che devono essere pronti a pagare con la vita, se si lasciano sfruttare per scopi imperialisti da leader politici corrotti…Se pensano che entreranno e spareranno a qualche gangster, sono ingenui: non conoscono la storia di resistenza di Haiti all’imperialismo”, ha dichiarato Booker.


Fonti:

Haitiliberte, Fanmi Lavas, Living Together”. Movement, 4 Je Kontre, Radio Soleil

La aai campesina, BlackAllianceforPeace, Partito Comunista Kenia

A cura di Enrico Vigna, IniizativaMondoMultipolare/CIVG – 16 marzo 2024

Il Guatemala a una svolta ?

di Marco Consolo

Il Guatemala ha da poco concluso il ballottaggio elettorale con la vittoria di Bernardo Arévalo de León alle elezioni presidenziali (con Karin Herrera come vice-presidente) e con l’affermazione del movimento “Semilla” da lui creato, un piccolo partito composto in gran parte da professionisti e ceto medio.

Laureato in sociologia, con una conosciuta carriera diplomatica, Bernardo Arévalo è figlio di Juan José Arévalo, il primo presidente democraticamente eletto (1944-1951) dopo la “rivoluzione del 1944”. Bernardo è stato console in Israele, ambasciatore in Spagna e viceministro degli esteri. In seguito, è stato deputato del partito Semilla, un partito nato come movimento in seguito alle proteste del 2015 che portarono alle dimissioni dell’ex presidente Otto Pérez Molina, poi condannato per corruzione.

Lotta alla corruzione e Lawfare

Nella fragile democrazia guatemalteca, il principale obiettivo dichiarato da Arévalo è la lotta alla corruzione.

Proprio per attaccarne i meccanismi, tra il 2007 ed il 2019 il Paese aveva accolto una Commissione Internazionale Contro l’Impunità (CICIG ), sostenuta dalle Nazioni Unite, ma chiusa dall’ex-presidente Jimmy Morales dopo l’arresto del fratello e del figlio per corruzione. Il Guatemala si era così trasformato da Paese in cui veniva combattuta la corruzione, a uno in cui decine di giudici e procuratori sono stati costretti all’esilio.

Per Arévalo non è stato facile arrivare al governo, anche perché dall’inizio della campagna elettorale, i poteri forti e il “patto dei corrotti” hanno fatto l’impossibile per impedirglielo e rimanere in sella, utilizzando il Lawfare (la guerra giudiziaria) come strumento principale di opposizione e resistenza al cambiamento. Fino all’ultimo istante Semilla ha dovuto difendersi dagli attacchi della Procuratrice generale, Consuelo Porras. Infatti, sin dallo scorso 12 luglio la Procura generale ha avviato una serie di azioni legali contro Arévalo de León e il suo partito, tra cui tre richieste di rimozione dell’immunità del presidente e un tentativo di annullamento della personalità giuridica del Movimento Semilla.

Patto dei corrotti e sanzioni internazionali

Negli ultimi mesi sono fioccate le sanzioni internazionali contro diverse figure del corrotto apparato giudiziario, a cominciare dalla stessa Porras, sanzionata dal governo statunitense “per aver ostacolato la lotta alla corruzione e minato la democrazia in Guatemala”.  Agli Stati Uniti si è aggiunta l’Unione Europea, “per aver tentato di impedire l’insediamento del presidente Bernardo Arévalo e per aver minato la democrazia” con sanzioni anche contro Rafael Curruchiche, capo della Procura speciale contro l’impunità (Feci); il procuratore della Feci, Leonor Eugenia Morales Lazo; il segretario generale della Procura, Ángel Arnoldo Pineda Ávila; e il giudice Fredy Raúl Orellana.

Anche il governo canadese ha annunciato sanzioni contro la procuratrice generale Consuelo Porras e altri tre funzionari per aver “promosso direttamente o indirettamente la corruzione e per aver commesso impunemente gravi violazioni dei diritti umani”.

In un suo paradossale comunicato, la golpista Procura della Repubblica segnala che: “È opportuno ricordare la dichiarazione di Alena Douhan, relatore speciale delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani, che ha affermato che sanzioni di questo tipo violano i diritti umani degli individui”.

Con un atteggiamento golpista e di aperta sfida, la procuratrice generale ha comunque dichiarato che non si dimetterà dal suo incarico e che non incontrerà il presidente Arévalo che aveva sollecitato più volte le sue dimissioni.

Sul piano parlamentare, nonostante il tentativo di Porras di negare la personalità giuridica di Semilla, quest’ultima era riuscita a resistere e ad eleggere il presidente del Parlamento,  grazie ad un accordo con altre forze presenti in Parlamento. Peccato che, solo qualche ora dopo, il giovane neo-eletto Presidente è stato costretto a dimettersi, visto che la corrotta Corte Costituzionale ha stabilito che i deputati di Semilla non possono essere considerati un gruppo parlamentare, a seguito della decisione del giudice Fredy Orellana (tra i sanzionati…), che ha ordinato la sospensione della sua personalità giuridica.

E ora ?

Semilla si definisce un movimento politico democratico e plurale, con una identità politica ecologista e progressista, anche se dentro il movimento vi sono anche settori più centristi. E dopo il veto ad hoc del Tribunal Supremo Electoral (TSE)  nei confronti dei candidati presidenziali del Movimento di Liberazione dei Popoli (MLP), la gran parte della sua crescente base elettorale (forte soprattutto tra i popoli originari, ma non solo) ha optato per Semilla. Dal canto suo, la sinistra è riuscita ad eleggere solo una deputata con la lista Winaq (Sonia Gutierrez), confermando una debolezza che viene da lontano.

Per la vittoria di Arevalo, sono state decisive le mobilitazioni a difesa del voto da parte dei popoli originari, degli studenti, delle donne e di altri settori popolari, espressione dello scontento e la rabbia della popolazione per le innumerevoli denunce di  corruzione e i casi di frode elettorale.

Per quanto riguarda il nuovo governo, le nomine dei ministri non brillano certo tutte per “progressismo” o radicalità e molti provengono direttamente dalle organizzazioni padronali dei diversi settori.  In ogni caso, i rapporti di forza non sono certo favorevoli al governo e non sarà facile governare, nonostante l’aperto appoggio al presidente Arevalo degli Stati Uniti, della OEA e dell’Unione Europea. E proprio a Bruxelles, durante una recente visita di Arevalo, il ministro degli Esteri del Guatemala, Carlos Martínez e l’alto rappresentante dell’Unione europea (UE), Josep Borrell, hanno firmato un memorandum d’intesa per un meccanismo di consultazione bilaterale. Nel primo tour nella Unione Europea di Arévalo come presidente, il mandatario ha visitato Francia, Spagna, Germania, Svizzera e Bruxelles.

Vedremo se la tessitura di rapporti internazionali gli permetterà di portare a casa aiuti concreti e di vincere il braccio di ferro con il “patto dei corrotti” ed i suoi alleati.

Israele ed il conflitto armato

E a proposito di ingombranti presenze internazionali, in prima fila c’è ancora quella di Israele, rivendicata nel passato da Benjamín Netanyahu, che aveva sottolineato le “eccellenti relazioni” tra i due Paesi “fin da quando il Guatemala aveva sostenuto la creazione dello Stato di Israele”. L’assistenza militare israeliana era iniziata ufficialmente nel 1971. Dal 1975 aveva fornito gli aerei Aravaet e diversi tipi di armamento (cannoni, armi leggere, etc.) che gli Stati Uniti avevano smesso di fornire per le drammatiche violazioni dei diritti umani. Quando nel 1977 Carter interruppe totalmente la vendita di armi, Tel Aviv prese definitivamente l’iniziativa e la “diplomazia Uzi” (in riferimento al celebre fucile d’assalto israeliano) svolse un ruolo preponderante.

Nella lunga e sanguinosa guerra civile (dagli anni ’60 fino al 1996), l’addestramento di Israele alle FF.AA. guatemalteche è stato decisivo per realizzare un vero e proprio genocidio, in particolare delle popolazioni Maya. Ma la repressione era stata feroce anche contro sospetti oppositori del governo, esiliati di ritorno, studenti e accademici, dirigenti della sinistra, sindacalisti, religiosi, giornalisti ed anche i “bambini di strada”. Il Guatemala ha anche il triste record di essere stato il primo Paese dell’America Latina ad inaugurare la pratica della “sparizione forzata” dei suoi oppositori. Si stima che dal 1966 fino al termine della guerra vi siano stati dai 40.000 ai 50.000 desaparecidos. Secondo le Nazioni Unite, circa 200.000 civili furono uccisi o “sparirono” durante il conflitto, a mano dei militari, della polizia o dei servizi di sicurezza.

A quasi 30 anni dalla fine del conflitto armato, sono ferite profonde, ancora aperte nella società.

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/il-guatemala-a-una-svolta/

Come la CIA destabilizza il mondo

di Jeffrey D. Sachs

La portata del continuo caos derivante dalle operazioni della CIA andate male è sbalorditiva. In Afghanistan, Haiti, Siria, Venezuela, Kosovo, Ucraina e molto altro ancora, le morti inutili, l’instabilità e la distruzione scatenate dalla sovversione della CIA continuano ancora oggi. I media tradizionali, le istituzioni accademiche e il Congresso dovrebbero indagare su queste operazioni al meglio delle loro possibilità e chiedere la pubblicazione di documenti per consentire una responsabilità democratica.

La CIA ha tre problemi fondamentali: i suoi obiettivi, i suoi metodi e la sua mancanza di responsabilità. I suoi obiettivi operativi sono quelli che la CIA o il Presidente degli Stati Uniti definiscono essere nell’interesse degli Stati Uniti in un determinato momento, indipendentemente dal diritto internazionale o dalle leggi statunitensi. I suoi metodi sono segreti e doppi. L’assenza di responsabilità significa che la CIA e il Presidente gestiscono la politica estera senza alcun controllo pubblico. Il Congresso è uno zerbino, uno spettacolo secondario.

Come ha detto un recente direttore della CIA, Mike Pompeo, parlando del suo periodo alla CIA: “Ero il direttore della CIA. Mentivamo, imbrogliavamo, rubavamo. Avevamo interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano”.

La CIA fu istituita nel 1947 come successore dell’Office of Strategic Services (OSS). L’OSS aveva svolto due ruoli distinti durante la Seconda guerra mondiale, l’intelligence e la sovversione. La CIA assunse entrambi i ruoli. Da un lato, la CIA doveva fornire informazioni al governo degli Stati Uniti. Dall’altro, la CIA doveva sovvertire il “nemico”, cioè chiunque il presidente o la CIA definissero tale, utilizzando un’ampia gamma di misure: assassinii, colpi di stato, inscenare disordini, armare gli insorti e altri mezzi.

Quest’ultimo ruolo si è rivelato devastante per la stabilità globale e per lo Stato di diritto statunitense. Un ruolo che la CIA continua a perseguire anche oggi. In effetti, la CIA è un esercito segreto degli Stati Uniti, capace di creare scompiglio in tutto il mondo senza alcuna responsabilità.

Quando il Presidente Dwight Eisenhower decise che l’astro nascente della politica africana, il democraticamente eletto Patrice Lumumba dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), era il “nemico”, la CIA cospirò nel suo assassinio nel 1961, minando così le speranze democratiche dell’Africa. Non sarebbe stato l’ultimo presidente africano abbattuto dalla CIA.

Nei suoi 77 anni di storia, la CIA è stata chiamata a rispondere pubblicamente solo una volta, nel 1975. In quell’anno, il senatore dell’Idaho Frank Church guidò un’indagine del Senato che rivelò la scioccante furia della CIA in fatto di assassinii, colpi di stato, destabilizzazione, sorveglianza, torture ed “esperimenti” medici in stile Mengele.

La denuncia da parte del Comitato Church delle scioccanti malefatte della CIA è stata recentemente riportata in un superbo libro del reporter investigativo James Risen, The Last Honest Man: The CIA, the FBI, the Mafia, and the Kennedys-and One Senator’s Fight to Save Democracy.

Quel singolo episodio di svista si verificò a causa di una rara confluenza di eventi.

L’anno prima del Comitato Church, lo scandalo Watergate aveva rovesciato Richard Nixon e indebolito la Casa Bianca. Come successore di Nixon, Gerald Ford non era stato eletto, era un ex membro del Congresso ed era riluttante ad opporsi alle prerogative di supervisione del Congresso. Lo scandalo Watergate, su cui aveva indagato la Commissione Ervin del Senato, aveva inoltre dato potere al Senato e dimostrato il valore della supervisione del Senato sugli abusi di potere dell’Esecutivo. In particolare, la CIA era da poco guidata dal direttore William Colby, che voleva ripulire le operazioni della CIA. Inoltre, il direttore dell’FBI J. Edgar Hoover, autore di illegalità pervasive esposte anche dalla commissione Church, era morto nel 1972.

Nel dicembre 1974, il giornalista investigativo Seymour Hersh, allora come oggi un grande reporter con fonti all’interno della CIA, pubblicò un resoconto delle operazioni illegali di intelligence della CIA contro il movimento antiguerra statunitense. Il leader della maggioranza del Senato dell’epoca, Mike Mansfield, un leader di carattere, nominò Church per indagare sulla CIA. Church stesso era un senatore coraggioso, onesto, intelligente, indipendente e intrepido, caratteristiche che scarseggiano cronicamente nella politica statunitense.

Se solo le operazioni disoneste della CIA fossero state consegnate alla storia come risultato dei crimini denunciati dalla Commissione Church, o almeno avessero portato la CIA sotto lo stato di diritto e la responsabilità pubblica. Ma non è stato così. La CIA ha avuto l’ultima risata – o meglio, ha fatto piangere il mondo – mantenendo il suo ruolo preminente nella politica estera degli Stati Uniti, compresa la sovversione all’estero.

Dal 1975, la CIA ha condotto operazioni segrete di sostegno ai jihadisti islamici in Afghanistan, che hanno distrutto completamente l’Afghanistan e dato origine ad Al-Qaeda. La CIA ha probabilmente condotto operazioni segrete nei Balcani contro la Serbia, nel Caucaso contro la Russia e in Asia centrale contro la Cina, tutte con l’impiego di jihadisti sostenuti dalla CIA. Negli anni 2010, la CIA ha condotto operazioni mortali per rovesciare la Siria di Bashir al-Assad, sempre con jihadisti islamici. Per almeno 20 anni, la CIA è stata profondamente coinvolta nella fomentazione della crescente catastrofe in Ucraina, compreso il violento rovesciamento del Presidente Viktor Yanukovych nel febbraio 2014, che ha innescato la devastante guerra che ora sta travolgendo l’Ucraina.

Cosa sappiamo di queste operazioni? Solo le parti che gli informatori, alcuni intrepidi reporter investigativi, una manciata di coraggiosi studiosi e alcuni governi stranieri sono stati disposti o in grado di raccontarci, con tutti questi potenziali testimoni che sapevano di poter incorrere in una severa punizione da parte del governo statunitense. La responsabilità dello stesso governo americano è stata scarsa o nulla, così come la supervisione o la limitazione imposta dal Congresso. Al contrario, il governo è diventato sempre più ossessivamente segreto, perseguendo azioni legali aggressive contro la divulgazione di informazioni classificate, anche quando, o soprattutto quando, tali informazioni descrivono le azioni illegali del governo stesso.

Di tanto in tanto, un ex funzionario statunitense vuota il sacco, come quando Zbigniew Brzezinski ha rivelato di aver indotto Jimmy Carter a incaricare la CIA di addestrare jihadisti islamici per destabilizzare il governo dell’Afghanistan, con l’obiettivo di indurre l’Unione Sovietica a invadere quel Paese.

Nel caso della Siria, abbiamo appreso da alcuni articoli del New York Times nel 2016 e nel 2017 delle operazioni sovversive della CIA per destabilizzare la Siria e rovesciare Assad, come ordinato dal Presidente Barack Obama. Ecco il caso di un’operazione della CIA terribilmente sbagliata, in palese violazione del diritto internazionale, che ha portato a un decennio di caos, a un’escalation della guerra regionale, a centinaia di migliaia di morti e a milioni di sfollati, eppure non c’è stato un solo riconoscimento onesto di questo disastro guidato dalla CIA da parte della Casa Bianca o del Congresso.

Nel caso dell’Ucraina, sappiamo che gli Stati Uniti hanno svolto un importante ruolo segreto nel violento colpo di Stato che ha fatto cadere Yanukovych e che ha trascinato l’Ucraina in un decennio di spargimenti di sangue, ma a tutt’oggi non ne conosciamo i dettagli. La Russia ha offerto al mondo una finestra sul colpo di Stato intercettando e poi pubblicando una telefonata tra Victoria Nuland, allora Vicesegretario di Stato americano (ora Sottosegretario di Stato) e l’Ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt (ora Vicesegretario di Stato), in cui si tracciava il governo post-golpe. Dopo il colpo di Stato, la CIA ha addestrato segretamente le forze operative speciali del regime post-golpe che gli Stati Uniti avevano contribuito a portare al potere. Il governo statunitense ha taciuto sulle operazioni segrete della CIA in Ucraina.

Abbiamo buone ragioni per credere che siano stati gli agenti della CIA a distruggere il gasdotto Nord Stream, come ha affermato Seymour Hersh, che ora è un reporter indipendente. A differenza del 1975, quando Hersh lavorava per il New York Times, quando il giornale cercava ancora di chiedere conto al governo, il Times non si degna nemmeno di esaminare la testimonianza di Hersh.

Chiedere alla CIA di rendere conto pubblicamente è ovviamente una lotta in salita. I presidenti e il Congresso non ci provano nemmeno. I media tradizionali non indagano sulla CIA, preferendo invece citare “alti funzionari senza nome” e l’insabbiamento ufficiale. I media mainstream sono pigri, subornati, timorosi degli introiti pubblicitari del complesso militare-industriale, minacciati, ignoranti o tutte queste cose? Chi lo sa.

C’è un piccolo barlume di speranza. Nel 1975, la CIA era guidata da un riformatore. Oggi la CIA è guidata da William Burns, uno dei principali diplomatici americani di lunga data. Burns conosce la verità sull’Ucraina, poiché è stato ambasciatore in Russia nel 2008 e ha informato Washington del grave errore di spingere l’allargamento della NATO all’Ucraina. Data la statura e i risultati diplomatici di Burns, forse sosterrebbe l’urgente necessità di un’assunzione di responsabilità.

La portata del continuo caos derivante dalle operazioni della CIA andate male è sbalorditiva. In Afghanistan, Haiti, Siria, Venezuela, Kosovo, Ucraina e molto altro ancora, le morti inutili, l’instabilità e la distruzione scatenate dalla sovversione della CIA continuano ancora oggi. I media tradizionali, le istituzioni accademiche e il Congresso dovrebbero indagare su queste operazioni al meglio delle loro possibilità e chiedere la pubblicazione di documenti per consentire una responsabilità democratica.

L’anno prossimo ricorre il 50° anniversario delle audizioni del Comitato Church. A cinquant’anni di distanza, con il precedente, l’ispirazione e la guida dello stesso Church Committee, è urgente aprire le tende, rivelare la verità sul caos guidato dagli Stati Uniti e dare inizio a una nuova era in cui la politica estera degli Stati Uniti diventi trasparente, responsabile, soggetta allo stato di diritto sia interno che internazionale e diretta alla pace globale piuttosto che alla sovversione di presunti nemici.

FONTE: https://www.acro-polis.it/2024/02/13/come-la-cia-destabilizza-il-mondo/

Gaza: un sito documenta le atrocità israeliane contro i palestinesi

https://israel-massacres.com

Intento genocida: Nelle loro stesse parole

Alti funzionari israeliani, tra cui il Primo Ministro, il Presidente e il Ministro della Difesa, hanno usato pubblicamente un linguaggio disumanizzante e totalizzante sui palestinesi, segnalando il loro intento di distruggere e sfollare la popolazione di Gaza, imponendo un assedio implacabile e privandola intenzionalmente delle condizioni di vita necessarie alla sopravvivenza umana. Forse l’aspetto più inquietante è che Netanyahu ha citato la storia biblica di “Amalek” per giustificare le uccisioni di Gaza. Gli Amaleciti erano una nazione condannata allo sterminio totale nella Bibbia, come menzionato in 1 Samuele 15:3 “Ora andate, attaccate gli Amaleciti e distruggete totalmente tutto ciò che appartiene loro. Non risparmiateli; mettete a morte uomini e donne, bambini e lattanti, bestiame e pecore, cammelli e asini”.

Queste raccolte di dichiarazioni di leader e opinionisti israeliani, sia del passato che del presente, non sono affatto esaustive e rivelano l’intento genocida che sta dietro l’attuale attacco militare contro i palestinesi.

AVVERTENZA: il sito web contiene contenuti estremamente cruenti e si consiglia la discrezione degli utenti.

Massacri di civili: Nessun luogo è sicuro

Il 10 ottobre, il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane ha annunciato di aver sganciato “centinaia di tonnellate di bombe”, poiché “l’enfasi è sui danni e non sulla precisione”. In realtà, in meno di un mese dall’inizio della campagna di bombardamenti, Israele ha sganciato più di 25.000 tonnellate di esplosivo sulla Striscia di Gaza, equivalenti a due bombe nucleari, secondo l’Euro-Med Human Rights Monitor.

I palestinesi sono stati uccisi a migliaia, mentre case, scuole, ospedali, rifugi, moschee, chiese, campi profughi e vie di “evacuazione” sono stati bombardati senza pietà. I video e le immagini grafiche che seguono presentano solo una parte delle tragiche perdite e sofferenze. Purtroppo, anche il giorno successivo porta con sé altre orribili perdite e patimenti.

La valutazione degli esperti:
Crimini di guerra e genocidio israeliano

Importanti personalità e dipartimenti delle Nazioni Unite, esperti di diritto internazionale e organismi mondiali per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch hanno rilasciato in cui affermano che Israele sta commettendo diversi crimini di guerra contro i palestinesi, che vanno dal trasferimento forzato della popolazione civile, alla punizione collettiva, all’uso sproporzionato della forza.
Alcuni hanno messo in guardia da un genocidio in atto o addirittura da un genocidio vero e proprio, viste le dichiarazioni di intenti degli israeliani, unite all’assedio totale, alla distruzione e alle uccisioni sul campo.


https://israel-massacres.com

Israel’s ongoing apocalyptic military campaign against Gaza comes on top of its 75+ years of persecution, displacement, and terrorism of Palestinians.

It has resulted in mass destruction, displacement of over 90% of the Gazan population, and the deaths and maiming of tens of thousands of civilians, mostly women and children.

Below we document what many authorities are calling war crimes, ethnic cleansing and genocide. Our aim is to give a voice to the voiceless, and raise awareness of the need for international action to ensure Palestinian people are finally free of brutal occupation and colonialization.

WARNING: This website contains extremely graphic content and viewer discretion is advised.

Civilian Massacres: Nowhere is Safe

On October 10, the Israel Defense Forces spokesperson announced dropping “hundreds of tons of bombs,” as “the emphasis is on damage and not on accuracy.” In fact, in less than one month after the onset of its bombing campaign, Israel dropped more than 25,000 tons of explosives on the Gaza Strip, equivalent to two nuclear bombs, according to the Euro-Med Human Rights Monitor.

Palestinians have been killed in their thousands, when homes, schools, hospitals, shelters, mosques, churches, refugee camps and “evacuation” routes have been mercilessly bombed. The following graphic videos and images present just a fraction of the tragic loss and suffering. Unfortunately, even day brings further similar horrific loss and limbs.

The Assessment of Experts:

Israeli War Crimes and Genocide

Leading UN figures and departments, international law experts, as well as worldwide human
rights bodies like Amnesty International and Human Rights Watch have released statements
asserting that Israel is committing various war crimes against the Palestinians, ranging from
forceable transfer of the civilian population, to collective punishment, to disproportionate use
of force. Some have warned of a genocide in the making or even an actual genocide, given
the statements of intent of the Israeli leaders, combined with the total siege, destruction, and
killing on the ground.

Palestinian Steadfastness: Strength Through Faith

Having already endured years of living in the largest open-air prison in the world that is Gaza, the Palestinians have now had to experience further displacement, destruction of their properties, and the loss of multiple family members in the indiscriminate bombing campaign, Nevertheless, inspired by their faith, they have remained steadfast and resilient in the face of such adversity, refusing to be cowered and determined to stand firm on their land.

The videos in this section inspire us to have hope with them, despite the desperation of the situation.

FONTE: https://israel-massacres.com/

Il neocolonialismo del premier Meloni

di Monica Di Sisto

Il “Piano Mattei” tra pomposa propaganda e misera realtà.

“Signora presidente del Consiglio, sul piano Mattei avremmo auspicato di essere consultati”. Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, ha aperto con queste parole il proprio intervento al Vertice Italia-Africa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha promosso sotto i propri diretti auspici con ministri e capi di Stato del continente africano.

Faki, dopo aver ascoltato le proposte della presidente del Consiglio culminate nel cosiddetto “Piano Mattei”, di cui molto si parla ma che non è dato conoscere nemmeno al Parlamento italiano come documento ufficiale comprensivo di progetti e cifre specifiche, ha precisato che “l’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione. È necessario passare dalle parole ai fatti, non ci accontentiamo di promesse che poi non sono mantenute”.

“Per me i partiti politici sono come i taxi: li prendo perché mi conducano dove voglio, io pago la corsa e scendo”: è una delle frasi più celebri che si attribuiscono a Enrico Mattei, dirigente pubblico fondatore di imprese (all’epoca di Stato) come Eni, Saipem e Agip Gas. E a chi scrive la presidenza Meloni sembra l’ennesimo taxi di passaggio che alcune imprese e gruppi di interessi italiani e transnazionali – noti e meno noti – prenderanno, addebitando la corsa al contribuente col pretesto di un viaggio in Africa che non è certo sarà nemmeno raggiunta. Quindi il presidente Faki fa bene ad essere un po’ preoccupato. E noi con lui.

I fondi che finanzieranno il cosiddetto Piano Mattei ammontano a cinque miliardi e mezzo di euro, ma non sono “soldi freschi” ma già promessi: una parte consistente, circa tre miliardi di euro, vengono dal Fondo italiano per il clima, la restante parte dal bilancio, esiguo, degli interventi di Cooperazione allo sviluppo. A mezzo stampa stiamo apprendendo, per voce degli assegnatari dei progetti, che serviranno a coltivare semi oleosi per i biocarburanti, a insegnare agli africani a fare i mercatini contadini come li facciamo in Italia, a costruire impianti con cui liberare i cereali dalle tossine, e poi infrastrutture energetiche con cui l’Europa potrà continuare a estrarre energia dalla sponda sud del Mediterraneo. Ci sono alcune nostre imprese che sistemeranno delle scuole, altre che pianteranno dei pannelli.

Siamo comunque sempre nel regno selle dichiarazioni e delle ipotesi, perché alle associazioni italiane che fanno progetti di cooperazione lo Stato chiede, per somme anche piccolissime, progetti dettagliati, preventivi, bilanci e accurate descrizioni degli interventi con tanto di numero di beneficiari, previsioni di ricadute e lettere di istituzioni e organizzazioni dei Paesi interessati che garantiscano la necessità e bontà delle proposte. Ai promotori dei progetti del Piano Mattei, niente: non un bando, non una gara, nessun percorso trasparente e verificabile da parte del cittadino-contribuente. Se non ne sappiamo nulla noi, figuriamoci il presidente Faki.

Uno dei primi incidenti diplomatici dell’attuale presidente del Consiglio è stato quello di scambiare un comico-imitatore proprio per il presidente Faki, e di essere registrata mentre pensava di tessere importanti relazioni diplomatiche. Ora siamo noi cittadini ad ascoltare l’imitazione un po’ pomposa, ma decisamente rabberciata, di un vero piano di cooperazione internazionale. E poco importa che la presidente conservatrice della Commissione europea, Ursula von der Leyen, accompagnata dall’altrettanto conservatrice presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, si siano precipitate a lodare il “Piano che non c’è”. In campagna elettorale, lo sappiamo, ogni imitazione vale.

Ma è il franco richiamo del chadiano Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana – “Quello vero”, come ha detto Giorgia Meloni, non quello imitato dai due comici russi nella finta telefonata a Palazzo Chigi – a richiamare alla realtà.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-03-2024/3058-il-neocolonialismo-del-premier-meloni-di-monica-di-sisto

GAZA: “Lasciamogli mangiare la terra”

La fase finale del genocidio israeliano a Gaza, una fame di massa orchestrata, è iniziata. La comunità internazionale non intende fermarlo.

di Chris Hedges

Non c’è mai stata alcuna possibilità che il governo israeliano accettasse una pausa nei combattimenti proposta dal Segretario di Stato Antony Blinken, tanto meno un cessate il fuoco. Israele è sul punto di dare il colpo di grazia nella sua guerra contro i palestinesi di Gaza: la fame di massa. Quando i leader israeliani usano il termine “vittoria assoluta”, intendono la decimazione totale, l’eliminazione totale. Nel 1942 i nazisti affamarono sistematicamente i 500.000 uomini, donne e bambini del ghetto di Varsavia. Questo è un numero che Israele intende superare.

Israele, e il suo principale protettore, gli Stati Uniti, tentando di chiudere l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (UNRWA), che fornisce cibo e aiuti a Gaza, non solo stanno commettendo un crimine di guerra, ma sono in flagrante sfida alla Corte Penale Internazionale (ICJ).

La corte ha ritenuto plausibili le accuse di genocidio mosse dal Sud Africa, che includevano dichiarazioni e fatti raccolti dall’UNWRA. Ha ordinato a Israele di rispettare sei misure provvisorie per prevenire il genocidio e alleviare la catastrofe umanitaria. La quarta misura provvisoria invita Israele a garantire misure immediate ed efficaci per fornire assistenza umanitaria e servizi essenziali a Gaza.

I rapporti dell’UNRWA sulle condizioni a Gaza, di cui mi sono occupato come reporter per sette anni, e la documentazione degli attacchi israeliani indiscriminati illustrano che, come ha affermato l’UNRWA, “le ‘zone sicure’ dichiarate unilateralmente non sono affatto sicure. Nessun posto a Gaza è sicuro”.

Il ruolo dell’UNRWA nel documentare il genocidio, così come nel fornire cibo e aiuti ai palestinesi, fa infuriare il governo israeliano. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha accusato l’UNRWA, dopo la sentenza, di aver fornito false informazioni alla Corte internazionale di giustizia. Già obiettivo israeliano da decenni, Israele ha deciso che l’UNRWA, che sostiene 5,9 milioni di rifugiati palestinesi in tutto il Medio Oriente con cliniche, scuole e cibo, doveva essere eliminata. La distruzione dell’UNRWA da parte di Israele ha un obiettivo politico oltre che materiale.

Le accuse israeliane, prive di prove, contro l’UNRWA, secondo cui una dozzina dei 13.000 dipendenti avevano legami con coloro che hanno compiuto gli attacchi in Israele il 7 ottobre hanno funzionato. Ha visto 16 grandi donatori, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Italia, Paesi Bassi, Austria, Svizzera, Finlandia, Australia, Canada, Svezia, Estonia e Giappone, sospendere il sostegno finanziario all’agenzia di soccorso da cui quasi tutti i palestinesi in Gaza dipendono per il cibo. Israele ha ucciso 152 lavoratori dell’UNRWA e danneggiato 147 installazioni dell’UNRWA dopo gli attacchi all’interno di Israele da parte di Hamas e altri gruppi di resistenza il 7 ottobre, che hanno ucciso circa 1.200 israeliani. Israele ha anche bombardato i camion dei soccorsi dell’UNRWA.

Più di 27.708 palestinesi sono stati uccisi a Gaza, circa 67.000 sono rimasti feriti e almeno 7.000 sono dispersi, molto probabilmente morti e sepolti sotto le macerie.

Secondo le Nazioni Unite, più di mezzo milione di palestinesi – uno su quattro – stanno morendo di fame a Gaza. La fame sarà presto onnipresente. I palestinesi di Gaza, 1,7 milioni dei quali sono sfollati interni, non solo non hanno cibo sufficiente, ma neanche acqua pulita, ripari e medicine. Ci sono poca frutta e verdure. C’è poca farina per fare il pane. La pasta, insieme a carne, formaggio e uova, sono scomparse. I prezzi del mercato nero per prodotti secchi come lenticchie e fagioli sono aumentati di 25 volte rispetto ai prezzi prebellici. Un sacco di farina al mercato nero è salito da 8 a 200 dollari.

Il sistema sanitario a Gaza, con solo tre dei 36 ospedali di Gaza rimasti parzialmente funzionanti, è in gran parte crollato. Circa 1,3 milioni di sfollati palestinesi vivono per le strade della città meridionale di Rafah, che Israele ha designato come “zona sicura”, ma che ha iniziato a bombardare. Le famiglie tremano sotto le piogge invernali sotto fragili teloni in mezzo a pozze di liquami grezzi. Si stima che circa il 90% dei 2,3 milioni di abitanti di Gaza siano stati costretti ad abbandonare le proprie case.

“Non c’è stato alcun caso, dopo la Seconda Guerra Mondiale, in cui un’intera popolazione sia stata ridotta alla fame estrema e alla miseria con tale velocità”, scrive Alex de Waal, direttore esecutivo della World Peace Foundation presso la Tufts University e autore di “Mass Starvation : La storia e il futuro della carestia”, nel Guardian. “E non c’è stato un caso in cui l’obbligo internazionale di fermarlo sia stato così chiaro”.

Gli Stati Uniti, in passato il maggiore contribuente dell’UNRWA, hanno fornito all’agenzia 422 milioni di dollari nel 2023. La separazione dei fondi garantisce che le consegne di cibo dell’UNRWA, già scarse a causa dei blocchi da parte di Israele, verranno in gran parte interrotte entro la fine di febbraio o l’inizio di marzo.

Israele ha dato ai palestinesi di Gaza due scelte. O ve e andate o o morirete.

Ho seguito la carestia in Sudan nel 1988 che costò la vita a 250.000 persone. Ci sono striature nei miei polmoni, cicatrici dovute allo stare in mezzo a centinaia di sudanesi che stavano morendo di tubercolosi. Ero forte e sano e ho combattuto il contagio. Loro erano deboli ed emaciati e non ce la facevano. La comunità internazionale, come a Gaza, ha fatto poco per intervenire.

Il precursore della fame – la sottoalimentazione – colpisce già la maggior parte dei palestinesi di Gaza. Coloro che muoiono di fame non hanno abbastanza calorie per sostenersi. In preda alla disperazione le persone cominciano a mangiare foraggio animale, erba, foglie, insetti, roditori e persino terra. Soffrono di diarrea e infezioni respiratorie. Strappano minuscoli pezzetti di cibo, spesso avariati, e lo razionano.

Ben presto, mancando abbastanza ferro per produrre emoglobina, una proteina contenuta nei globuli rossi che trasporta l’ossigeno dai polmoni al corpo, e mioglobina, una proteina che fornisce ossigeno ai muscoli, insieme alla mancanza di vitamina B1, diventano anemici. Il corpo si nutre di se stesso. I tessuti e i muscoli deperiscono. È impossibile regolare la temperatura corporea. I reni si bloccano. Crollo del sistema immunitario. Organi vitali – cervello, cuore, polmoni, ovaie e testicoli – si atrofizzano. La circolazione sanguigna rallenta. Il volume del sangue diminuisce. Malattie infettive come il tifo, la tubercolosi e il colera diventano un’epidemia, uccidendo migliaia di persone.

È impossibile concentrarsi. Le vittime emaciate soccombono allo stress mentale ed emotivo e all’apatia. Non vogliono essere toccati o spostati. Il muscolo cardiaco è indebolito. Le vittime, anche a riposo, sono in uno stato di insufficienza cardiaca virtuale. Le ferite non guariscono. La vista è compromessa a causa della cataratta, anche tra i giovani. Alla fine, sconvolto da convulsioni e allucinazioni, il cuore si ferma. Questo processo può durare fino a 40 giorni per un adulto. I bambini, gli anziani e i malati muoiono a ritmi più rapidi.

Ho visto centinaia di figure scheletriche, spettri di esseri umani, muoversi tristemente a un ritmo glaciale attraverso l’arido paesaggio sudanese. Le iene, abituate a mangiare carne umana, rapivano abitualmente i bambini piccoli. Mi trovavo davanti a gruppi di ossa umane sbiancate alla periferia di villaggi dove dozzine di persone, troppo deboli per camminare, si erano sdraiate in gruppo e non si erano mai più alzate. Molti erano i resti di intere famiglie.

Nella città abbandonata di Maya Abun, i pipistrelli penzolavano dalle travi della chiesa della missione italiana sventrata. Le strade erano ricoperte di ciuffi d’erba. La pista di atterraggio sterrata era fiancheggiata da centinaia di ossa umane, teschi e resti di braccialetti di ferro, perline colorate, cestini e brandelli di vestiti. Le palme erano state tagliate a metà. La gente aveva mangiato le foglie e la polpa all’interno. Correva voce che il cibo sarebbe stato consegnato con gli aerei. La gente aveva camminato per giorni fino alla pista di atterraggio. Aspettarono, aspettarono e aspettarono. Nessun aereo è arrivato. Nessuno ha seppellito i morti.

Ora, da lontano, guardo ciò accadere in un’altra terra, in un altro tempo. Conosco l’indifferenza che ha condannato i sudanesi, soprattutto dinka, e che oggi condanna i palestinesi. I poveri, soprattutto quando sono di colore, non contano. Possono essere uccisi come le mosche. La fame a Gaza non è un disastro naturale. È il piano generale di Israele.

Ci saranno studiosi e storici che scriveranno di questo genocidio, credendo falsamente che possiamo imparare dal passato, che siamo diversi, che la storia può impedirci di essere, ancora una volta, barbari. Terranno conferenze accademiche. Diranno “Mai più!” Si loderanno per essere più umani e civili. Ma quando arriva il momento di parlare apertamente di ogni nuovo genocidio, timorosi di perdere il loro status o la loro posizione accademica, correranno come topi nelle loro tane. La storia umana è una lunga atrocità per i poveri e i vulnerabili del mondo. Gaza è un altro capitolo.

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/let-them-eat-dirt?utm_source=substack&publication_id=778851&post_id=141506330&utm_medium=email&utm_content=share&utm_campaign=email-share&triggerShare=true&isFreemail=true&r=1tqdxn

Riflessioni parziali intorno al cuore dello sterminio

Situato nella regione del Brandeburgo 80 Km. a nord est di Berlino, il campo di Ravensbrück è stato costruito, tra i primi, nel 1939 per ospitare donne tedesche asociali e delinquenti comuni, e poi donne dei paesi progressivamente occupati dai nazisti, zingare, ebree, oppositrici al regime, omosessuali, testimoni di Geova. A Ravensbrück sono state immatricolate 132.000 donne e decine di migliaia di loro hanno perso la vita, eliminate tramite fucilazione o tramite camera a gas, o morte per malattia, stenti, lavoro, fame, freddo, o a seguito degli esperimenti medici di cui erano le cavie. (A. Laurenzi)

Nel gennaio del 2016 fui invitato a una iniziativa organizzata da Ambra Laurenzi, figlia e nipote di deportate nel campo di Ravensbrück, per la Giornata della Memoria. Ambra, presidente del Comitato internazionale di Ravensbrück, aveva da poco pubblicato uno struggente libro fotografico su quel campo e sulla sorte delle oltre centomila donne che vi erano passate. Quelli che seguono sono appunti provvisori e parziali preparati per quell’occasione.

Ravensbrück, libro fotografico di Ambra Laurenzi

Sfogliando il libro di foto di Ambra Laurenzi, sul campo di Ravensbrueck, mi colpiscono alcune cose:

La prima è la malinconica e quasi fragile bellezza del luogo, un luogo, mi viene da pensare, che come tutti i luoghi e malgrado ciò che gli umani vi hanno praticato o vi praticano, appartiene a ciò che gli indios Aymara e Quechua della Bolivia, chiamano Patchamama, o madre terra.

La seconda, che il campo è riservato a sole donne: che delle 150 mila donne che vi sono transitate, tra detenute politiche, criminali comuni, prostitute ed ebree, circa 90.000 vi sono morte. Stando alle stime disponibili, nei campi in territorio tedesco, in ordine di grandezza, ne sono morte di più solo a Sachsenhausen (100 mila).

La terza, che contiguo al campo vi era uno stabilimento tessile della Texlead (una delle aziende di proprietà delle SS che, sui campi, stavano costruendo il loro impero economico) e uno della Siemens, grande azienda privata che si avvalse, come molte altre, del lavoro coatto delle prigioniere e dei prigionieri dei campi.

Un luogo di fragile bellezza violentato per organizzare una violenza verso donne e madri, secondo procedure scientifiche che mirano a ottimizzarne l’annientamento identitario (prima di quello fisico), in quanto condizione necessaria per estrarne il massimo di profitto (produttivo ed economico) finché non sopraggiunga la loro morte, che è causata generalmente dalle stesse condizioni di lavoro e dalla malnutrizione.

Il fatto che si tratti di un campo di concentramento per sole donne, amplifica la sensazione di violenza e di sfruttamento. Una violenza e uno sfruttamento perpetrato su ciò che vi è di più sacro in quanto depositario non solo del presente, ma anche del futuro, il corpo femminile.

Il fatto che si tratti di recluse in gran parte “politiche” o “criminali e prostitute” provenienti da vari paesi e solo in parte di ebree, deve far ricordare la genesi dei campi di concentramento della Germania nazista che furono inaugurati per togliere di mezzo gli oppositori politici: comunisti, socialisti, anarchici e sindacalisti innanzitutto, e poi dei soggetti “asociali”; all’inizio (1933) gli “ospiti” dei campi non erano ebrei, né polacchi, o italiani, ma tedeschi. Come a dire che una volta depurata la cosiddetta razza ariana, dagli elementi critici o da quelli che costituivano “un costo sociale” (fannulloni, mendicanti, senzatetto, ecc.), la via era pienamente aperta verso lo sterminio.

In effetti, il primo campo creato dai nazisti fu quello di Dachau, in territorio tedesco, nel sud della Baviera a 20 km da Monaco, aperto il 22 marzo del 1933, un mese dopo l’incendio del Reichstag. E’ qui che viene posta per primo la scritta: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Lo slogan tante volte ricordato, non è solo un cinico espediente per convincere chi entrava nei campi di una possibile libertà futura se si fosse rassegnato al lavoro coatto, ma anche un programma operativo: i campi servono essenzialmente per massimizzare il profitto dal lavoro umano, minimizzandone, anzi annullandone i costi.

Soltanto 5 anni più tardi, nell’agosto del 1938 vi arrivano 11 mila ebrei tedeschi e austriaci, dopo la Notte dei cristalli, il pogrom contro i negozi ebrei. Nel 1939 vi arrivano gli zingari Sinti e Rom. Nel 1940 vi vengono deportati 13 mila prigionieri polacchi. Alla fine del 1941 diventa anche campo di sterminio, come peraltro tutti gli altri campi, in contemporanea con l’operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica. Lo sterminio è da attuarsi comunque, innanzitutto, attraverso la selezione imposta dalle condizioni disumane del lavoro schiavistico e dalla denutrizione, e poi parallelamente con l’uso dei gas. Quanto alle prime esecuzioni di massa in questo campo esse riguardano persone ritenute di razza inferiore: tra questi gli ebrei, ma anche i polacchi, i russi, gli zingari, gli oppositori politici e religiosi, gli inabili al lavoro. Tra i primi a subire l’annientamento di massa vi sono 4.000 prigionieri di guerra russi, nel 1942.

Il fatto che gran parte delle donne del campo di Ravensbrueck prima di approdare al loro destino di morte dovessero rendere le loro residue giornate e energie al dio della produttività tedesca, ci da un’importante informazione sulla logica e sul metodo che improntava lo sterminio: prima di esso, tutto ciò che poteva essere estratto dai corpi di queste donne, in quanto miniere di energia e di intelligenza, doveva essere estratto; ciò vale per tutti gli internati dei campi.

Quindi, la procedura contemplava una ragione contabile perfino più rilevante all’annientamento in sé: quella di un profitto capitalistico in cui, per dirla con Marx, il plusvalore assoluto non contemplava alcun costo per la riproduzione della forza lavoro. I territori da espropriare erano i corpi. E, teoricamente, ove la forza degli internati avesse consentito una produttività media accettabile e un profitto nettamente superiore ai costi organizzativi e di mantenimento, vi è da supporre che l’annientamento sarebbe stato posticipato nel tempo. Viceversa, andavano subito annientati tutti i soggetti non immediatamente produttivi, come vecchi, bambini, handicappati, ecc..

“I nazisti, colossali imprenditori di manodopera schiava, li consideravano bocche inutili da sfamare, letteralmente “zavorra umana” (ballastexistenzen) da far sparire. Nella logica criminale nazista, qualunque prigioniero considerato un “peso morto”, cioè inutile e costoso all’economia del Reich, doveva essere condannato a morte immediata; prima lo si eliminava e più si risparmiava.”

Questo ragionamento può applicarsi anche alla cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei d’Europa, che si afferma in contemporanea all’invasione dell’Unione Sovietica. Gli ebrei dell’Europa dell’est andavano sterminati in quanto la conquista e “arianizzazione” totale del Lebensraum (lo spazio vitale della Germania) che si estendeva dalla Polonia agli Urali contemplava la schiavizzazione dei popoli slavi e la eventuale cooptazione delle loro elites dentro la “razza ariana”.

In questo progetto non potevano essere contemplati gli ebrei in quanto comunità razziale specifica che si riteneva culturalmente (oltre che, secondo loro, geneticamente) diversa dagli altri popoli presenti nell’area. Il fatto che la componente ebraica nelle società centro-europee fosse storicamente collocata nell’ambito della piccola borghesia, attive nel settore commerciale, con una spiccata propensione individuale, generalmente laica, con una consistente percentuale di intellettuali e di burocrati al proprio interno, caratterizzava queste comunità come refrattarie ad una ristrutturazione sociale guidata dal grande capitale tedesco che nell’edificazione del nuovo ordine richiedeva una funzione di comando e di adesione totale da parte delle elìtes e, parimenti, una subalternità totale da parte delle masse, di cui, quelle presenti nei paesi satelliti dovevano servire a sostenere in modo subalterno lo sviluppo del Reich (paesi periferici ad ovest, a sud e a est, come la Boemia, l’Ungheria, l’Ucraina, la Polonia, la Romania e la Bulgaria), mentre per le masse russe era prevista la funzione di erogatori di lavoro schiavistico, in quanto sottorazza (Untermenschen).

Proprio per ciò lo spazio fino agli Urali era da colonizzare con l’invio di contingenti di contadini tedeschi / ariani che avrebbero dovuto dirigere la colonizzazione servendosi del lavoro schiavistico delle popolazioni locali.

Alcuni hanno visto in ciò delle analogie con la conquista degli spazi originari delle popolazioni indiane del nord e del sud America nella “occidentalizzazione” di quelle enormi distese di terre. Processi storici di durata secolare che sono passati sotto i nomi di “conquista dell’Eldorado” a sud e di “conquista dell’ovest” a nord. Vi morirono tra i 50 e i 100 milioni di indigeni. Come la conquista delle Americhe non contemplava la possibilità di sussistenza di razze conflittuali o incapaci di assumere la cultura occidentale caratterizzata dal principio di appropriazione e redditività capitalistica delle terre, anche ciò che poteva ostacolare l’edificazione del grande Reich tedesco dall’Atlantico agli Urali andava eliminato.

In più il buco demografico aperto con la loro eliminazione, avrebbe consentito una migliore e più facile “colonizzazione” degli elementi ariani tedeschi nei nuovi territori da controllare.

La conquista dell’est euroasiatico prevedeva tempi da guerra lampo, in sintonia con i livelli tecnologici raggiunti in occidente: ciò che altri avevano fatto nel corso di cento anni, andava fatto in pochissimi anni e non si poteva andare per il sottile. E’ la tempistica del progetto di conquista che informa ogni altra scelta, ivi inclusi i massacri di circa 2 milioni di russi operati nelle retrovie dell’esercito tedesco nei villaggi e nelle città già conquistate dai tedeschi nell’avanzata verso Mosca e Stalingrado, operazione che non risponde ad alcuna logica militare, ma invece prepara lo sviluppo successivo e imminente del progetto di colonizzazione. Il buco demografico che si crea con queste operazioni, serviva a rendere più rapida la successiva colonizzazione.

Analogamente, lo sterminio nei campi e la progressione del lavoro schiavo prevede la costruzione di imponenti fabbriche ad est, come quella di Auschwitz, della IG Farben, che all’epoca è il più grande complesso chimico al mondo e che viene realizzato già in avanzato territorio polacco.

Nel progetto di sterminio industriale degli ebrei (e dei russi nelle retrovie del fronte) si impone dunque un obiettivo di natura politica che va oltre quello dell’immediato sfruttamento scientifico del lavoro schiavistico e coatto: fino al 1942, quindi per 9 anni, prevale la logica della produzione a costo zero e parallelamente dello “scarto” per usare un termine di Papa Francesco. Lo scarto, chi non è sufficientemente produttivo, va eliminato subito, ma chi è redditizio può sussistere, almeno finché le energie lo sorreggono. Poi, vi si innesta già il programma di edificazione del nuovo ordine del dopoguerra, che, se funziona, durerà “mille anni”.

Non si deve dimenticare che dal 42 al 45 il lavoro schiavistico si accentua ulteriormente con la nascita di un grande numero di sottocampi nei quali, secondo gli accordi tra le SS (a cui era affidata la responsabilità dei campi e che miravano anche alla costruzione di un loro autonomo impero economico) e le grandi imprese private, i prigionieri possono essere affittati alle aziende che ne facciano richiesta, al prezzo di 6 marchi al giorno per i lavoratori specializzati e di 4 marchi per i manovali. I continui trasferimenti di migliaia di internati da campo a campo, risponde a queste necessità e richieste.

Nella storia degli universi concentrazionari, i campi di concentramento non furono inventati dai nazisti; prima di loro già gli americani, durante la guerra di secessione e gli spagnoli, durante la repressione nell’isola di Cuba, li avevano sperimentati e siamo alla fine dell’800; nei primi anni del ‘900, anche gli inglesi, nella seconda guerra boera in Sud Africa, li avevano praticati; successivamente, vi si esercitano i sovietici, con i Gulag, riprendendo una tradizione zarista ma mutuandola in un aspetto della “lotta di classe” contro gli elementi resistenti appartenenti ad alcuni ambiti delle classi borghesi (all’inizio i medi proprietari terrieri che si oppongono alla ripartizione delle terre nei Kolkoz). Il fascismo italiano invece li sperimenta in Libia, negli anni ’30, verso i nomadi arabi nord africani, mentre invece in Etiopia sperimenta l’annientamento con i gas.

La casistica dei campi è ampia quanto è ampio l’occidente.

L’esperimento nazista, all’inizio, riproduce e ottimizza cose imparate da altre esperienze; ma vi inserisce la funzione di lavoro schiavistico per conto terzi e poi, nel 1942, con la Conferenza di Wannsee, tutti i campi di concentramento diventano allo stesso tempo anche campi di sterminio di massa. Anche se soltanto alcuni hanno la funzione precipua di sterminio: Treblinka, Majdanek, Chelmno, Belzek e Birkenau in Polonia, Maly Trostenets in Bielorussia e Jasenovac in Croazia. Gli altri mantengono fino alla fine della guerra la prevalente funzione di estrazione di valore dal lavoro coatto dei prigionieri.

Per quanto riguarda la dislocazione territoriale, soltanto nei campi in territorio polacco, (Auschwitz-Birckenau, Treblinka, Belzec, Chelmno, Sobibor e Varsavia, Lublino-Majdanek, Gross-Rosen) vengono uccisi tra i 4 e i 4,5 milioni di persone. Altri due grandi campi sono quello di Jasenovac in Croazia e di Maly Trostenets, in Bielorussia, dove vengono annientati un altro milione di persone.

Mentre nei campi in territorio tedesco e austriaco e ceco, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau, Sachsenhausen, Flossenbuerg, Kaufering, Mauthausen, Mittelbau-Dora, Neuengamme, Theresienstadt, e Ravensbrueck, ne muoiono 450.000. La relazione è di 10 a 1. E’ dunque la conquista dell’est che guida lo sterminio.

Il genocidio indiano nelle Americhe è giustificato con le classiche ragioni ideologiche di superiorità razziale, ma in realtà è una conseguenza dell’incapacità di trasferire in tempo reale alle masse di indigeni la cultura organizzativa e produttiva dei vincitori. Siccome la cultura dei colonizzatori europei è improntata alla redditività da lavoro mercantilista all’inizio e capitalistica poi, appare più produttivo l’annientamento degli indios (popolazione resistente o non compatibile col modello di civilizzazione esterno) e la sua sostituzione con gli schiavi deportati dall’Africa. (La deportazione nera,  “black holocaust” o olocausto africano è la più grande della storia; si trattò di 12-15 milioni di africani deportati verso i paesi dei Caraibi fino al sud degli Usa; fu operata da Portogallo, Regno Unito, Spagna, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia in collaborazione con i mercanti brasiliani, nord americani e africani).

Lo sterminio indigeno non necessita di campi, che sarebbero stati ingestibili sia per l’arretratezza della logistica, sia per l’enorme ampiezza dei territori. Si fa sul luogo di conquista, in tempo reale; e lo si fa in tempi mediamente lunghi, quelli indotti dal livello di sviluppo tecnologico determinato. La sostituzione successiva con i neri africani deportati avviene in campi di lavoro a cielo aperto: le piantagioni di caffè, di canna da zucchero, di cotone, ecc.

A metà del ‘900, invece, nello spazio ristretto dell’Europa e con una disponibilità di tecnologia avanzata sotto tutti i profili (logistica, organizzativa, psicologica, chimica, ecc.), il trasferimento di grandi masse di persone e il loro annientamento nei campi, con il Zyklon-B prodotto dalla stessa IG-Farben, è gestibile. In tempi ridottissimi, in linea con quelli previsti dalla guerra lampo di Hitler. Il lavoro schiavo vi può essere organizzato secondo la logica di un taylorismo estrattivo portato all’asintoto e con la riduzione totale dell’umano a merce-lavoro. Insomma sia l’organizzazione del lavoro quanto i metodi e le procedure di annientamento vi sono ottimizzati in termini industriali e, come visto, con il coinvolgimento dei massimi livelli del capitale industriale tedesco.

Nel 1944, al culmine della sua capacità produttiva, solo la IG-Farben, (il più grande conglomerato chimico al mondo, che incorporava le attuali Hochst, Basf, Bayer e Agfa), si serviva di oltre 80.000 lavoratori schiavi dei campi di concentramento. Analogamente fanno altri grandi Konzerne tedeschi, come la Krupp, che si distingue per la durezza delle condizioni a cui sottopone i lavoratori schiavi dei campi. Anche i Konzerne delle SS, la DEST (Cave e materiali di costruzione) e la DAW (Lavorazione di legno e ferro), oltre alla Texlead (produzione tessile e abbigliamento), si esercitano, anzi nascono sul lavoro schiavo nei campi.

La compenetrazione tra ragione ideologico-politica e ragione economica in queste vicende e il coinvolgimento diretto del capitalismo tedesco (e in parte di altri paesi) appare uno degli aspetti più inquietanti, una questione centrale che conferma la funzione strategica dello sterminio e dell’olocausto nella guerra imperialistica e nei progetti della Germania nazista.

Forse ne è la caratteristica precipua. Perché sul piano dell’annientamento in sé, anche sotto il profilo dei tempi di esecuzione, la bomba americana a Hiroshima e Nagasaki gli è superiore: il 6 e il 9 agosto del 1945, circa 200.000 persone, quasi tutti civili, vengono annientate in modo istantaneo e senza alcuna selezione se non quella fatta a priori nella scelta di sperimentare la bomba verso un popolo orientale, “giallo”, quindi non di razza bianca e che “rifiutava di arrendersi”. Un popolo che a sua volta considerava i cinesi una razza inferiore e che nella conquista della Manciuria aveva causato quasi 20 milioni di morti, un’entità inferiore solo ai morti russi, stimati tra i 25 e i 30 milioni.

L’altra cosa che continua a creare grande inquietudine a oltre 70 anni dai fatti che ricordiamo è ciò che potremmo chiamare il fattore identitario; la vicenda ebraica e quella del popolo Rom, ma in generale di tutti i deportati, possono essere riassunti in questo: ciò che non corrisponde al paradigma imperante (o all’ideologia dominante) deve essere marginalizzato, eliminato, annientato o, nel migliore dei casi, usato come merce. I Rom in quanto popolo nomade in uno spazio organizzato da popoli stanziali e gli ebrei in quanto popolo che non può essere riassunto e conformato dentro confini culturali nazionali, poiché la diaspora ebraica ha costruito nella storia, uno spazio inter-nazionale.

Queste identità “spurie”, secondo gli aggressori, si opponevano allo spazio indentitario nazionale (e imperiale) puro -o da purificare- che costituisce, al tramonto della modernità, il luogo di costruzione della potenza nella lunga guerra tra le potenze imperialistiche e tra i loro modelli capitalistici.

C’è da riflettere se, nell’ottica della potenza, ove si imponesse un nuovo paradigma connotato da un’ideologia globale omologata (come quella scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dal successivo crollo dell’Unione Sovietica), potrebbero essere gli elementi che si ostinano a permanere su indentità territoriali limitati o locali o che tentano di riaprire uno spazio di operatività non subalterno, ad essere marginalizzate e tendenzialmente distrutte.

Questa seconda casistica annovera già decine di esempi che si sono susseguiti dopo la II° guerra mondiale soprattutto nei continenti del sud del mondo (il lebensraum dei paesi del nord) dove i diritti umani sono stati calpestati in modo continuo e in misura solo relativamente minore rispetto ai tempi dello sterminio: l’oriente indocinese, l’Africa, l’America Latina, sono stati i campi di battaglia di una guerra che ha prodotto oltre 20 milioni di morti, in maggioranza civili, dagli anni ’50 ad oggi.

Nel gennaio 2016 ricorrono i 25 anni dall’inizio della guerra infinita decretata dalla famiglia Bush in Medio Oriente e in generale nei paesi arabi per il controllo del petrolio. Da 65 anni è in corso la guerra israelo-palestinese che contempla massacri, campi profughi, deportazioni, colonizzazioni e controllo del più grande campo a cielo aperto ad oggi esistente: quello di Gaza.

Di nuovo l’Europa è stata toccata al suo interno da queste vicende nell’esperienza di distruzione di un paese multietnico e plurinazionale come la Jugoslavia e più recentemente, di nuovo verso il “lebensraum” euroasiatico, in Ucraina.

Torna alla memoria il “Deutsches Requiem” di J.L.Borges, con una Germania sconfitta il cui compito non era quello di vincere, ma di aprire la strada ad un’epoca di violenza implacabile e permanente.

Questioni identitarie locali confliggono con le sottostanti (o sovrastanti) ragioni geopolitiche del capitale imperialistico in crisi e determinano la rinascita di un razzismo globale con innumerevoli variazioni di gradi e di intensità verso culture più lontane e verso etnie o paesi più vicini. A quello contro gli islamici si accompagna, in Europa, quello sottile e velato verso i popoli del sud che si giustifica con deludenti parametri economici, o quello rinascente verso una Russia non più comunista, ma “asiaticamente”, quindi costitutivamente, diversa.

Solo una cosa sembra non venir messa in seria discussione, o almeno gran parte dei poteri sono impegnati a frenarne l’evidenza: quella per cui la rendita finanziaria, il profitto deciso a priori, ha diritto di rimanere intatto, integro; e non può essere scalfito: si tratta di una superiorità gerarchica, quasi genetica riservata al cuore algoritmico del capitalismo del XXI secolo e ai suoi centri vitali, che mira al suo recepimento e alla sua estensione in ogni contesto planetario, ivi incluso a ciò che è già capitalistico, ma ancora refrattario alla compiuta e definitiva finanziarizzazione.

I suoi esiti più visibili sono le nuove imponenti migrazioni, digerite e trasferite dal sistema mediatico come un dato naturale che, come ogni catastrofe naturale, crea paure e sindromi di accerchiamento. Il terreno è fertile per nuove esplosioni o implosioni. Olocausti in scala minore stanno già avvenendo. Quelli maggiori non li vediamo o siamo costretti a dimenticarli rapidamente.

La guerra è in atto e i suoi variabili esiti possono essere solo immaginati. Bisogna essere vigili, oltre i nomi e le categorie conosciute o quelle che hanno acquisito l’egemonia, senza farsi abbagliare dagli slogan rivisti e corretti del “lavoro che rende liberi” o di “a ciascuno il suo”. “Se fate i bravi vi salverete”, è, come per il progetto di sterminio nazista, la menzogna regina.

Gennaio 2016

Rodolfo Ricci

di Ambra Laurenzi:

Unione europea: torna il patto stupido

di Roberto Musacchio

Definito, ad un certo punto e a danni fatti, stupido dallo stesso Romano Prodi, il patto di stabilità è stato sospeso durante la lunga crisi del Covid. A confermare che non era così intelligente da risultare utile durante una crisi molto grave, e che anzi andava messo da parte per non nuocere al da farsi.

Ora invece torna in vigore, nella versione voluta da Germania e Francia e “accettata” anche dagli ex sovranisti del governo italiano. Una versione che conferma l’abracadabra del monetarismo, quella ideologia che insieme a mercatismo e liberismo forma il ricettario magico di Maastricht, l’ordoliberismo.

Definisco spesso questa Unione europea come “Europa Reale”, a significare una impalcatura rigida scevra di ogni “falsificazione”, per dirla con il liberale Popper, o verifica dei fatti, per stare sul popolare. Una cosa così assomiglia per forza a un regime, per altro ancien perché privo degli elementi che definiscono le democrazie liberali a partire dal famoso motto “no taxation without representation”.

Infatti la Ue, con Maastricht e il braccio armato del patto e delle regole della austerità, definisce praticamente il tutto delle allocazioni delle risorse dei cittadini. E lo fa attraverso un sistema intergovernativo che prescinde dai parlamenti.

Ma torniamo al patto. Oltre ad essere figlio di una ideologia, esso si fonda su un metodo, il funzionalismo, che inverte i criteri democratici storici partendo non dal soggetto, i cittadini, ma dalla funzione ideologica, per creare non una identità condivisa ma regole meccaniche. Trattati e non Costituzione. Obiettivi ideologici e non diritti. Patto di stabilità e non politiche economiche e sociali. Ne viene fuori una sorta di “mostruosità” post e ademocratica, la Ue, deprivata dei connotati tipici delle stesse democrazie liberali.

La gestione della moneta “comune” è un esempio macroscopico di tale difformità, tanto più significativo visto il ruolo di unificazione che le è stato delegato. Ebbene questa moneta è gestita da una sorta di Banca Stato, la Bce, che non ha nessuna delle caratteristiche proprie di una banca centrale, ad esempio la Fed degli Usa. Non solo perché non risponde a nessuno se non all’ideologia, ma perché quella ideologia fa sì che non esistano politiche economiche e sociali (che dovrebbero essere il fine delle monete) ma solo conti, in astratto, e mercati. Una moneta che, di fatto, in questo modo non è unica perché in realtà ha valori diversi a seconda degli Stati (e dei soggetti economici) cui viene “prestata”.

L’esistenza degli spread certifica questi dati di fatto, perché è come se il dollaro costasse di più al Texas che alla California: un assurdo. E il più grande processo di redistribuzione delle ricchezze verso imprese e finanza del trentennio è avvenuto non a caso nell’Unione europea.

A falsificare l’ideologia di Maastricht e dei suoi funzionalismi, a partire dal patto, c’è ormai una verifica che parte dal 1992. Ebbene, in 32 anni non è proceduta nessuna armonizzazione sociale, anzi. I debiti si sono accumulati nonostante ci siano Paesi che, come l’Italia, abbiano prodotto quasi sempre ingenti attivi primari che sono finiti a remunerare i veri signori di Maastricht e cioè il capitale finanziario, i profitti e i surplus esportativi tedeschi (vietati dai trattati ma accettati).

Anche durante la sospensione del patto le politiche contro le crisi, sanitaria ma economica e sociale, hanno favorito finanza e profitti. Come avvenuto con l’austerità che ha ripagato i debiti delle banche e innalzato la gabbia dell’austerità. E avviene con le guerre che si pagheranno con gli sforamenti consentiti dal nuovo patto e che poi saranno risarciti dai cittadini.

A complemento di questa mostruosità nella gestione della moneta c’è il Mes, una sorta di banco privato dotato però di “poteri di pignoramento”. Una assurdità, che sarebbe impensabile negli Usa, che invece dalla Banca di Stato si vada da un organismo a statuto privatistico. Una mostruosità post statuale che chiama mostruosità post politiche. Per cui i sovranisti di Meloni firmano il ritorno del patto che costerà all’Italia lacrime e sangue (ancora) e il partito di Maastricht, il Pd, chiede il Mes.

D’altronde, se l’Italia ha il peggior trend salariale d’Europa qualche responsabilità la politica che ha prodotto i tanti governi tecnici ce l’ha per forza. E l’attacco alla Costituzione arriva non a caso da lontano.

Sarebbe ora di finirla col cavallo ruffiano del conflitto tra “europeisti” e “sovranisti” prendendo atto che purtroppo nell’Unione europea sono in realtà molto, troppo uniti. E riproporre finalmente la dialettica tra democrazia socialmente connotata e ideologismo mercatista (e bellico).

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-01-2024/3017-unione-europea-torna-il-patto-stupido-di-roberto-musacchio

Il Toni Negri meno conosciuto e il sindacato

di Francesco Barbetta

Ho avuto l’onore di conoscere Toni Negri, ed è molto importante ricordare la sua figura di comunista su un giornale legato alla Cgil. Toni era molto attento alle novità e alle proposte provenienti da questa organizzazione. Seguiva con molta attenzione gli scioperi e le vertenze del nostro paese. Negli ultimi anni era rimasto particolarmente colpito, ad esempio, dalla vertenza dell’ex Gkn, di cui mi chiedeva costanti aggiornamenti.

Credo sia giusto ricordarlo a partire dalla sua sterminata riflessione teorica, in particolare dall’argomento dello sciopero e della sua necessaria reinvenzione nell’epoca del capitalismo cognitivo. Partirò dal volume collettivo “Sindacalismo sociale. Lotte e invenzione istituzionali nella crisi europea” (a cura di A. De Nicola e B. Quattrocchi, DeriveApprodi 2016).

Per Negri lo sciopero è un’astensione dallo sfruttamento capitalistico che assume la forma di un attacco diretto alla valorizzazione capitalista. Si tratta sempre di un’azione volta a fare del male al padrone, una diserzione dal capitale. Tuttavia non è sempre uguale, perché il soggetto che sciopera e il comando capitalista sono storicamente determinati.

Oggi, davanti ai processi d’automatizzazione e l’affermazione del lavoro cognitivo, come dobbiamo trasformare lo sciopero? Bisogna partire dai processi produttivi che rendono sempre più “astratto” il lavoro e che sono figli di un’organizzazione cooperativa sempre più autonoma e determinata dal lavoratore ma parassitata dal capitale. Questa è una differenza decisiva rispetto ai processi cooperativi imposti dal padrone e analizzati da Marx. Il padrone diventa, progressivamente, una figura politica che vigila sull’estrazione del valore, e tenta di ingabbiare quegli algoritmi e quei linguaggi nati dalla cooperazione dei lavoratori.

In questo contesto emerge il concetto di sciopero sociale. Si tratta di una sottrazione dal lavoro in un contesto in cui il capitale parassita delle relazioni produttive create dal lavoratore. Scioperare, però, nel momento in cui si è sempre al lavoro perché tutta la nostra vita viene messa a valore, non può tradursi solo in questo modo. Negri afferma che bisogna recuperare quell’indipendenza propria di queste relazioni e anticipare un futuro libero dalla miseria e dal comando capitalista. Questo processo intreccia inevitabilmente la classica lotta per l’appropriazione di una parte del profitto e quella per modificare gli attuali modelli di riproduzione della società. In poche parole, oltre agli aumenti del salario bisogna tenere contro del welfare e della sua reinvenzione. Parliamo del terreno su cui si sviluppano proposte centrali per il nostro futuro, come un reddito universale di base.

In “Assemblea” (M. Hardt e A. Negri, Ponte alle Grazie 2018) chiarisce il concetto come segue: “Il sindacalismo sociale rovescia il rapporto tradizionale tra lotte economiche e lotte politiche, che costituiscono un’altra versione del rapporto tra strategia e tattica. Normalmente si considerano le lotte economiche e sindacali (specialmente quelle sul salario) come parziali e tattiche e quindi bisognose di un’alleanza e di una guida da parte delle lotte politiche guidate dal partito, che si pensava avessero un respiro strategico e complessivo. L’alleanza tra lotte economiche e politiche proposta dal sindacalismo sociale rimescola i compiti di strategia e tattica, dal momento che movimenti economici non si mettono in relazione con un potere costituito ma con un potere costituente, non con un partito politico ma con un movimento sociale. Una simile alleanza dovrebbe favorire i movimenti sociali consentendogli di appoggiarsi alla struttura organizzativa stabile e sviluppata del sindacato, dando alle lotte dei poveri, dei precari e dei disoccupati una portata sociale e una continuità che altrimenti non avrebbero. In cambio, l’alleanza non dovrebbe solo allargare la sfera sociale dei sindacati, estendendo le lotte sindacali oltre i salari e il luogo di lavoro per affrontare tutti gli aspetti della vita della classe lavoratrice, concentrando l’attenzione dell’organizzazione sindacale sulla forma di vita della classe, ma anche rinnovare i ‘metodi’ dei sindacati, permettendo alle dinamiche antagoniste dell’attivismo dei movimenti sociali di rompere le strutture sclerotiche delle gerarchie sindacali e le loro logore forme di lotta”.

Una riflessione molto utile per discutere insieme dei rapporti tra Cgil e movimenti, come avrebbe voluto Toni.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-01-2024/3023-il-toni-negri-meno-conosciuto-e-il-sindacato-di-francesco-barbetta

L’amara “vittoria” cilena nel secondo referendum costituzionale

di Marco Consolo

Domenica scorsa, per la seconda volta in pochi mesi, il popolo cileno è stato chiamato alle urne per decidere se approvare o meno una proposta di testo costituzionale, dopo anni di tentativi di trasformare la Magna Carta del Paese ereditata dalla dittatura civile e militare di Pinochet.

Il nuovo testo è stato respinto con il 55,7% dei voti e ciò significa che rimane in vigore la Costituzione di Pinochet, varata nel 1980 e parzialmente emendata dai governi di centro-sinistra post-dittatura. La partecipazione è stata dell’84,5%, con il 5% di schede nulle o bianche. C’è da sottolineare che il nuovo testo era addirittura peggiore dell’attuale, nonostante un apparente maquillage su alcuni punti.


Un passo indietro

Come si è arrivati a questo paradossale risultato ? A questa “vittoria” che lascia la bocca amara a chi si è battuto in tutti questi anni, pagando un alto prezzo di morti, di centinaia di persone con danni oculari irreversibili, di carcere e repressione ?

Come si ricorderà, dopo la “rivolta sociale” iniziata nel 2019 e la formazione di una “Convenzione costituzionale” eletta dal popolo cileno, il primo tentativo di approvare una nuova Costituzione marcatamente “di sinistra” è stato sonoramente bocciato nel 2022 dal 62% degli elettori. Naufragato il primo tentativo, i partiti presenti in Parlamento hanno raggiunto un accordo per iniziare un nuovo processo, questa volta non attraverso una “Convenzione costituzionale”, ma con l’elezione di un organo molto più ristretto, un “Consiglio costituzionale” di 51 persone, con il compito di redigere la nuova proposta oggi sottoposta a referendum.

In quella occasione, con la reintroduzione del voto obbligatorio, il partito più votato è stato il Partito Repubblicano (35,4 %), un’organizzazione neo-fascista guidata dall’ex candidato presidenziale José Antonio Kast, un nostalgico della dittatura di Pinochet. Insieme al 21 % dei voti delle altre formazioni di destra (Uniòn Democratica Independiente, Renovaciòn Nacional, Evopoli, Democratas), ciò ha permesso una schiacciante maggioranza neo-fascista e di centro-destra nel Consiglio Costituzionale. Sull’analisi di quel voto, rimando a quanto scritto in precedenza [1].

Quella maggioranza ha scritto una proposta costituzionale ancor più reazionaria, privatizzatrice, religiosa, mercantilista. Un testo che approfondiva il modello neoliberale adottato dalla dittatura di Augusto Pinochet (e “migliorato” dal centro-sinistra nella post-dittatura) e che rifletteva gli interessi espressi dalla maggioranza del Consiglio Costituzionale. Una sorta di “Costituzione Pinochet 2.0.”, con una particolare enfasi sulla difesa della proprietà privata, l’identità nazionale, la famiglia. Per quanto riguarda i diritti delle donne, la legge che oggi consente l’aborto (limitato a tre motivi) avrebbe potuto essere annullata. Nell’ambito della sanità, costituzionalizzava l’attuale sistema sanitario privato, mentre sulle pensioni riproponeva il sistema pensionistico privato. E sul versante dei diritti del lavoro, limitava il diritto di sciopero con un enorme passo indietro per i lavoratori e le lavoratrici. Negazionista sulla necessità di affrontare il cambiamento climatico e il riscaldamento globale, il testo lo era allo stesso modo nei confronti dei diritti delle popolazioni originarie e la necessità di concedere loro un serio riconoscimento costituzionale.

A questo quadro si aggiunga il fatto che in campagna elettorale hanno regnato apatia, disinformazione e disaffezione. La critica diffusa alla campagna è stata quella di essere mediocre, violenta, disinformativa, elementare, di trattare più l’attualità che le questioni costituzionali.

Sul risultato ha influito non poco la rabbia e la stanchezza di un settore di cittadini, soprattutto nei confronti della politica, dello “strabismo istituzionalista”, dei problemi economici (la difficoltà di arrivare a fine mese), della corruzione, della crescente criminalità e di una ondivaga gestione delle questioni migratorie. Ed ècosì che, al di là dello “zoccolo duro” della base sociale di alcuni partiti, rabbia e stanchezza si sono concretizzati in un voto estremamente volatile, di cui non è chiaro il perimetro, ma che certamente fa la differenza.

La destra ha fatto di tutto per trasformare il referendum sulla proposta di testo costituzionale in un voto contro il governo, cercando di trarre vantaggio dalle difficoltà in cui si trova l’esecutivo. Una strategia aggressiva di scontro che, in questa occasione, non ha pagato.


Qualche doloroso paradosso

Questo voto lascia dietro di sé una lunga lista di paradossi.

Il più grave è che, nonostante una immensa mobilitazione popolare della cosiddetta “rivolta sociale” del 2019, nonostante la repressione ed il tributo di sangue pagato, il Paese ritorna alla casella di partenza, come se non fosse successo quasi nulla.  O meglio, come se tutto questo non fosse servito a nulla, con il risultato di una enorme frustrazione nei settori più coscienti.

Il secondo paradosso è che quest’ultimo processo costituzionale è stato guidato dalla destra neo-fascista e da quella tradizionale, ovvero da chi non aveva nessuna intenzione di cambiare la Costituzione di Pinochet e di dare maggiori diritti al popolo cileno.

Il terzo è che tra i “vincitori” del processo elettorale di domenica 17 dicembre ci sono le destre e l’oligarchia cilena, in uno schema “win-win” a loro esclusivo vantaggio. Infatti, se fosse passato il nuovo testo avrebbero vinto la lotteria, ma anche con questa “sconfitta” rimane in vigore quella di Pinochet. Un risultato non da poco, che le destre, nonostante la sconfitta, cercano di rivendere, con notevole faccia tosta, come un voto di appoggio all’attuale Costituzione della dittatura.

Il quarto è che con questo voto si chiude la porta del processo costituente per un lungo periodo. Sia il Presidente Boric, che le forze di governo (compreso il Partito Comunista), hanno dichiarato senza mezzi termini che non ci sarà un terzo processo costituzionale durante i due anni che mancano alla fine del mandato di questo governo. La loro lettura è che la popolazione è stanca dei temi costituzionali, lo ha vissuto come “tempo perso” e i problemi quotidiani che deve affrontare segnano un’urgenza che ammette poco altro.

E più che a vincere, il voto è servito a difendere la debole democrazia nel Paese e i diritti ottenuti dalla fine della dittatura.


I contraccolpi immediati

La sconfitta della proposta costituzionale sta già provocando malumori e tensioni interne all’opposizione, con l’intensificarsi della disputa egemonica tra i partiti della destra tradizionale di Chile Vamos (UDI, RN, Evópoli), il Partito Repubblicano ed altri gruppi di estrema destra.

Ciò potrebbe avere un impatto anche nelle alleanze per le prossime elezioni amministrative dell’ottobre 2024 e in quelle presidenziali del 2025.

L’intransigenza dei repubblicani di Kast e la loro sconfitta di fatto ne indeboliscono il capitale politico, favorendo altre candidature interne alle destre. Tuttavia, nonostante la sconfitta, il risultato del 44,2% rappresenta un importante bagaglio di voti che permette all’estrema destra neo-fascista di rimanere in gioco.

Per quanto riguarda i due grandi blocchi delle forze di governo, ovvero Apruebo Dignidad (Partido Comunista, Frente Amplio, Acción Humanista, Federación Regionalista Verde) ed il Socialismo Democrático (Partido Socialista, Partido por la Democracia, Partido Radical, Partido Liberal) si tratta di una boccata d’ossigeno in una fase complicata e tutta in salita.

Prima della scadenza elettorale, il Presidente Boric aveva invitato a diffondere le “buone notizie”, dato che “abbiamo buone ragioni per essere ottimisti… ma sembra che le buone notizie non abbiano rating”. “In Cile non tutto è negativo”, e lo ha esemplificato con la distruzione di 25.000 armi sequestrate, il recupero di spazi pubblici alla criminalità organizzata, i progressi di un impianto di desalinizzazione a Coquimbo, il successo dei Giochi panamericani e Para-panamericani da poco svoltisi in Cile, oltre all’aumento del salario minimo a 500.000 pesos (circa 520 euro), l’approvazione del Bilancio 2024, l’azzeramento dei ticket sanitari.

In queste ore, i dirigenti dei partiti al governo affermano di voler ripartire dall’agenda sociale, di insistere in un programma di trasformazioni, di difesa dei diritti sociali, di cambiamenti nell’economia, di approfondire la democrazia e fermare l’avanzata dell’estrema destra. Ma le destre, che hanno la maggioranza nel parlamento cileno, non hanno nessuna intenzione di fare sconti ed hanno già annunciato una dura opposizione su tutti i fronti.

Nel frattempo, in attesa di tempi migliori, la battaglia costituzionale è sospesa.

[1]  https://marcoconsolo.altervista.org/cile-cronaca-di-una-sconfitta-annunciata/

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/una-vittoria-amara-in-cile/

Palestina. Uscire fuori dal tunnel: una proposta per la pace

La Palestina è stata già un Mandato britannico, oggi per la Striscia di Gaza si può resuscitare una sorta di Mandato affidato alle Nazioni Unite.

di Domenico Gallo

Qualsiasi reazione alla catastrofe che stiamo vivendo non può che partire da una rivisitazione del discorso pubblico. Deve essere respinta come totalmente falsa la narrazione dominante di uno Stato democratico costretto a stroncare un terrorismo diabolico che minaccia la sua stessa esistenza. Per quanto le incursioni compiute da Hamas il 7 ottobre possano facilmente essere assunte nella categoria del terrorismo e ricadere nel catalogo dei crimini contro l’umanità, non si può ignorare il fatto che esiste un popolo oppresso e uno Stato oppressore. Il diritto internazionale riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli soggetti ad una dominazione coloniale o a forme di apartheid, che può essere esercitato anche ricorrendo alla lotta armata. Tuttavia il panorama del conflitto israelo-palestinese, è assolutamente differente da tutti gli altri casi storici in cui vi è una dominazione coloniale o un’occupazione straniera. Quando c’è un’occupazione militare o un dominio coloniale, la resistenza armata può costringere la Potenza coloniale o occupante a riportare in patria il suo esercito e a restituire la libertà al popolo oppresso. In questo caso è assolutamente impossibile. Qui vi sono due popoli che convivono nello stesso territorio, che va dalle rive del Giordano al mar Mediterraneo, e dovranno continuare a convivere qualunque sviluppo politico dovesse esserci in futuro (due Stati, un Stato federale, una Confederazione, un solo Stato binazionale). Per questo la lotta armata non si può fare perché si risolve in una serie di atrocità che renderebbero impossibile la convivenza, pregiudicando ogni futura soluzione politica. Hamas è un partito politico, presente nella società palestinese che esercita la resistenza all’oppressione con il ricorso al martirio. Spinge le persone ad affrontare e a subire il martirio per procurare il massimo del danno possibile al proprio nemico. Quello che è successo dal 7 ottobre in poi, dimostra che la strategia del martirio non produce nessun risultato politico utile per gli oppressi, provoca soltanto distruzione e morte, fino a livelli inimmaginabili, mentre la risposta di Israele che rilancia la strategia del martirio moltiplicandola per cento, non garantisce né la pace, né la sicurezza al popolo israeliano.

Quando si parla di guerra al terrorismo o comunque si definisce come “guerra”, la tempesta di fuoco che Israele ha scatenato contro Gaza, bisogna considerare che la morte di civili o combattenti non costituisce mai l’obiettivo della guerra, ma soltanto un prezzo da pagare per conseguire l’obiettivo politico che si vuole perseguire con la guerra. Invece, in questo caso la morte di civili e combattenti più che un costo sembra l’obiettivo della guerra.

Dobbiamo chiederci qual è il reale obiettivo politico che Israele vuole perseguire con la guerra, cosa vuole ottenere?

Orbene, oltre una tremenda vendetta, non è assolutamente chiaro quali siano gli obiettivi di Israele. Il dichiarato intento di eradicare Hamas e di eliminare tutti i suoi miliziani è un obiettivo impossibile ed assurdo. Impossibile perché non vi è un forte di Hamas da espugnare, non vi sono delle divisioni da affrontare e sconfiggere sul campo di battaglia. I miliziani di Hamas sono rifugiati in una selva che è la sfortunata popolazione della Striscia. Per eliminarli tutti bisognerebbe disboscare la selva. E’ quello a cui Israele sta dedicando attivamente, bombardando in modo massiccio ed indiscriminato, facendo sfollare 1.700.000 persone, attaccando gli ospedali, togliendo il cibo, l’acqua, l’energia, i medicinali alla popolazione e spegnendo le comunicazioni. Non si possono eliminare i miliziani di Hamas senza compiere un vero e proprio genocidio. Dal punto di vista della sicurezza di Israele è un obiettivo assurdo perché, dopo aver inflitto delle sofferenze così atroci, nulla può escludere che i giovani sopravvissuti alle bombe israeliane, alla fame, alla sete, alle malattie, alla morte dei loro genitori o dei loro coetanei, non sentano il bisogno di prendere le armi e di rimpiazzare i miliziani eliminati.

Le caratteristiche di questa operazione militare la rendono molto diversa dagli altri conflitti che abbiamo vissuto. Basti pensare che in 78 giorni di bombardamenti sulla ex Jugoslavia, la NATO ha provocato la morte di circa 600/700 civili, a fronte degli oltre 18.000 morti provocati da Israele in poco più di 60 giorni, mentre la Russia in 20 mesi di conflitto ha provocato la morte di circa 600 fanciulli, a fronte dei 6.500 uccisi nella Striscia di Gaza in soli due mesi. Questi numeri rendono evidente che quello in corso a Gaza è un genocidio, anche in senso tecnico-giuridico. La condotta di Israele, rientra nel concetto di “genocidio” come definito dalla Convenzione ONU del 9 dicembre 1948 per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio. L’art. 2 della Convenzione recita:

“Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

a) uccisione di membri del gruppo;

b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale (..)”

Quello che qualifica come genocidio i fatti indicati ai punti a), b) e c) è l’intenzione di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, quali sono indubbiamente gli abitanti che popolano la striscia di Gaza. E’ difficile capire quali siano le reali intenzioni di Israele, però quando un ministro del governo Netanyahu, Amichai Eliyahu, esponente del partito “potere ebraico” sostiene che l’utilizzo della bomba atomica su Gaza è, a suo giudizio, “una delle possibilità in campo”, questa dichiarazione getta oscuri presagi sull’operazione spade di ferro. Comunque l’obiettivo massimo, esplicitato anche in documenti ufficiali, come quello del Ministero dell’intelligence del 13 ottobre, ribadito dalla Ministra Gila Gamliel sulle pagine del Jerusalem Post, è quello di espellere due milioni di palestinesi verso l’Egitto, cioè di realizzare una seconda e molto più grave Nakba. Anche questo, come l’obiettivo di eliminare tutti i miliziani di Hamas è un obiettivo impossibile da realizzare, però lo sforzo di Israele di perseguire questi due obiettivi irrealistici si traduce in un crescendo di distruzioni destinate a rendere impossibile la vita a Gaza.

A Gaza è calato l’inferno sopra una popolazione di oltre due milioni di persone. Di fronte ad una situazione così orribile si sbiadiscono e scompaiono le ragioni e i torti di una parte o dell’altra. E’ per tutti evidente che non si può invocare il diritto di difesa di Israele per giustificare attacchi ad un gruppo nazionale così massicci ed estesi che possono sfociare in un genocidio. Il genocidio è un affronto all’umanità in quanto tale ed è la principale minaccia alla pace ed alla coesistenza pacifica fra le Nazioni La comunità internazionale, tutti gli Stati hanno il dovere di agire per fermare il massacro e ristabilire la pace. Invece non solo non vengono applicate sanzioni di alcun tipo per fermare Israele, ma non si ha nemmeno il coraggio di invocare il cessate il fuoco per non disturbare i piani del governo israeliano. L’Italia e l’Unione Europea balbettano di tregua umanitaria, di far passare i convogli con i generi di prima necessità per la popolazione, di aumentare gli aiuti a Gaza. Ma a cosa serve una tregua, se poi i combattimenti sono destinati a riprendere, a lasciare libera la morte di mietere il campo? Il silenzio della politica ci rende complici. Quando ogni 10 minuti muore un bambino a Gaza, il fattore tempo è essenziale. Dobbiamo pretendere che il nostro Paese e le Istituzioni europee di cui facciamo parte chiedano a voce alta il cessate il fuoco ed esercitino su Israele delle pressioni non inferiori a quelle operate sulla Russia, per ottenere lo stop di ogni massacro. Bisogna dare il massimo sostegno politico all’iniziativa del Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, che l’altro ieri ha ulteriormente sollecitato l’intervento del Consiglio di Sicurezza per dichiarare il cessate il fuoco, invocando per la prima volta l’art. 99 della Carta. Il fatto che gli USA ieri sera abbiano posto di nuovo il veto ad una risoluzione sul cessate il fuoco li rende complici, pienamente corresponsabili del massacro in corso.

Il cessate il fuoco interrompe la fase cruenta della guerra, può favorire il rilascio degli ostaggi ma non assicura la pace. Dobbiamo guardare oltre, bisogna pensare agli scenari del dopo conflitto. Netanyahu ha comunicato l’intenzione di rioccupare Gaza per garantire la sicurezza di Israele. Soltanto gli Stati Uniti, che sono da sempre complici di Israele, hanno avuto qualcosa da obiettare. E’ assurdo che l’Europa non profferisca verbo. La rioccupazione della Striscia di Gaza da parte di Israele sarebbe il modo migliore per continuare la guerra dopo la guerra e rendere il conflitto permanente. Come si può pensare che dopo aver seminato lutti in tutte le famiglie, dopo aver trasformato in sfollati un milione e settecentomila persone, dopo aver distrutto il 60% delle abitazioni e gli impianti indispensabili per la vita civile, l’esercito israeliano possa amministrare il territorio e tenere sotto controllo la popolazione superstite di Gaza?

Dopo i disastri che ha combinato non può essere consentito ad Israele di restare arbitro della vita e della morte degli abitanti di Gaza.

Contestualmente al cessate il fuoco occorre progettare un intervento immediato per gestire la situazione nella Striscia di Gaza. A questo punto deve intervenire la Comunità internazionale attraverso l’ONU per definire lo status giuridico di Gaza, almeno con una soluzione transitoria. Se si vuole impedire che il conflitto continui anche dopo che la fase bellica sia cessata, se si vuole realmente garantire la sicurezza di Israele e dei suoi cittadini, c’è una sola soluzione: la Striscia di Gaza deve essere sottratta al controllo di Israele. Israele deve abbandonare quel territorio che ha distrutto e ridotto ad un cumulo di macerie, sottoponendo l’intera popolazione a sofferenze indicibili. Ciò può avvenire con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza, adottata a norma del Cap. VII della Carta, come in passato avvenne per il Kosovo, che fu distaccato dalla Serbia e sottoposto ad una amministrazione ad interim delle Nazioni Unite, in virtù della Risoluzione 1244 del 10 giugno 1999. La Palestina è stata già un Mandato britannico, oggi per la Striscia di Gaza si può resuscitare una sorta di Mandato affidato alle Nazioni Unite. Un’amministrazione civile e militare dell’ONU dovrebbe liberare gli ostaggi, se ancora sequestrati, e procedere al disarmo di Hamas e della Jihad islamica, che potrebbero restare attivi come partiti politici assieme ad altri, impedire che dal territorio della Striscia possano partire atti di ostilità contro Israele, affrontare tutte le emergenze causate dalla guerra, rimettere in funzione le strutture sanitarie, ripristinare le telecomunicazioni, i collegamenti aerei e marittimi della Striscia con il resto del mondo, avviare la ricostruzione e ogni altro programma indispensabile per consentire alla popolazione civile di superare i traumi prodotti dai massacri e dalle privazioni causate dai lunghi anni di assedio a cui sono stati sottoposti. L’Amministrazione dell’ONU dovrebbe promuovere la creazione, in attesa di una soluzione definitiva, di una sostanziale autonomia e autoamministrazione della Striscia di Gaza. Non sarebbe un libro dei sogni. Netanyahu ha già dichiarato che non accetterà mai la presenza di una forza militare esterna ma il suo governo ha le ore contate, è destinato a cadere non appena cesserà il conflitto. Anche gli Stati Uniti si sono detti contrari alla rioccupazione di Gaza da parte di Israele. Su questo principio, se sostenuto dall’opinione pubblica internazionale, non dovrebbe essere impossibile realizzare una convergenza dei paesi titolari del diritto di veto al Consiglio di Sicurezza. Quando questa follia bellica sarà finita, bisogna fare tutto il possibile per impedire che la guerra continui dopo la guerra.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2023/12/uscire-fuori-dal-tunnel-una-proposta-per-la-pace/

ISRAELE E I PALESTINESI: LETTERA APERTA A MARCO TRAVAGLIO

ISRAELE E I PALESTINESI: LETTERA APERTA A MARCO TRAVAGLIO

Caro Dottor Travaglio, nutro per lei una grande stima e la seguo sempre sul suo giornale e nei vari talk show televisivi; ma proprio per questo sono rimasto piuttosto perplesso nel leggere il suo libro su Israele e i Palestinesi, ed anche preoccupato per l’effetto che può avere sui molti lettori che sicuramente lo leggeranno, a causa di alcuni contenuti molto discutibili e fuorvianti. Non discuto sulle opinioni e le analisi individuali che ognuno può fare per proprio conto; ma non si può transigere sulla verità o falsità dei dati di fatto.

Per brevità mi limito solo ad alcuni punti fondamentali. Nel narrare l’esodo dei tre quarti degli Arabi dalle terre occupate dalle milizie ebraiche nel 1948, lei sposa le storielle che sono state alimentate per anni dalla propaganda israeliana per nascondere lo scheletro nell’armadio che è alla base della nascita dello stato di Israele. Gli Arabi sarebbero fuggiti perché “spinti dall’orrore della guerra, in parte istigati dai governi arabi a fuggire” (pag. 39)

Mi meraviglio che lei non conosca e non citi le opere degli storici israeliani “revisionisti” che hanno avuto modo di studiare tutta la documentazione desecretata dagli archivi israeliani negli anni ’80, compresi i diari di Ben Gurion. Mi riferisco in particolare allo splendido libro “La pulizia etnica della Palestina” del noto storico Ilan Pappé, già professore all’università di Haifa e che oggi insegna all’università di Exeter in Inghilterra. Pappé ricorda e dimostra con ampia documentazione che alla base dell’esodo degli Arabi vi fu uno spietato piano di pulizia etnica (cosiddetto Piano Dalet) studiato a tavolino dai Sionisti negli anni precedenti e poi attuato con estrema brutalità e cinismo dalle ben organizzate milizie ebraiche sotto la direzione del “socialista” Ben Gurion. Attenzione! In questo caso sono importanti le date. La pulizia etnica iniziò già alla fine del 1947 e continuò fino al maggio del 1948, cioè già 6 mesi prima della proclamazione dello stato di Israele (14 maggio) e quindi anche prima del susseguente intervento (debole e scoordinato) degli stati arabi, quando la pulizia etnica e l’occupazione della maggior parte della Palestina già era stata fatta.

Il segnale per l’inizio dell’operazione di evacuazione forzata, operata con massacri di interi villaggi, bombardamenti di interi quartieri cittadini come ad Haifa, sgomberi sotto minaccia delle armi, accompagnamento di intere comunità alla frontiera caricate su camion, fu la risoluzione dell’ONU 181/1947 nel novembre del 1947. Questa risoluzione, contenente una proposta di spartizione della Palestina, peraltro non vincolante e senza che fosse stata minimamente consultata la popolazione araba maggioritaria nel paese favorevole ad uno stato unico interetnico e interreligioso, era sotto molti aspetti assurda e di difficilissima attuazione. Basti dire che fu assegnato il 56% del territorio agli Ebrei che all’epoca erano solo un terzo della popolazione residente e che quasi tutti i distretti assegnati al futuro stato ebraico erano a maggioranza di popolazione araba, con la sola eccezione del distretto di Tel Aviv! Ben Gurion e gli atri dirigenti sionisti capirono, molto lucidamente dal loro punto di vista, che per far sorgere Israele era necessario cacciare preventivamente la maggior parte degli arabi palestinesi per permettere la colonizzazione. E così fu fatto, ad imitazione dei nordamericani che cacciavano i pellerossa per avere spazio per i coloni.

Anche altri storici israeliani hanno ricordato questi fatti, tra cui anche Benny Morris che lei cita in bibliografia, ma senza però ricordarne l’opera principale che lo rese inviso all’establishment sionista: “La nascita del problema dei profughi palestinesi revisionato” (1988). Morris fu anche licenziato dal “Jerusalem Post” e imprigionato per obiezione di coscienza; ma poi è stato “perdonato” ed è divenuto professore all’università di Beer Sheba per alcune sue successive dichiarazioni del tipo: si c’è stata la pulizia etnica, ma è stato un “male necessario”. Necessario a chi? Non certo ai Palestinesi, ma certamente necessario per poter far nascere Israele. La politica di pulizia etnica dell’intera Palestina (sogno mai smentito dai Sionisti) è andata avanti in varie fasi e con diverse modalità per 75 anni. Oggi si manifesta con la progressiva colonizzazione forzata della Cisgiordania e la progressiva espropriazione dei suoi abitanti, e con la grande operazione di pulizia etnica in corso a Gaza dove già un milione e 700.000 Palestinesi hanno dovuto lasciare le proprie case e dirigersi verso la frontiera egiziana sotto l’incalzare dei bombardamenti. Credere alla storiella che l’uccisione di quasi 15000 persone, in maggioranza bambini e donne, la distruzione sistematica di case, scuole, ospedali, sia fatta per stanare qualche piccolo gruppo di guerriglieri di Hamas (pag. 14) è un insulto all’intelligenza. Sulla questione di Gaza consiglio di leggere anche il libro di Pappè “Ultima fermata Gaza” e quello di Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi: “Gaza e l’industria israeliana della violenza”, che parlano anche dei massacri avvenuti negli ultimi 20 anni.

Meraviglia anche che nel libro, già dal retrocopertina, lei accrediti l’altra storiella propagandistica alimentata dai Sionisti sul fatto che la colonizzazione della Palestina sarebbe un “ritorno” degli Ebrei dispersi 2000 anni orsono nella cosiddetta “diaspora”. Vi fu nell’antichità una parziale diaspora, sia volontaria in cerca di fortuna ad Alessandria e Roma, sia forzata dalle deportazioni seguite alle rivolte antiromane del 68/70 e del 135 d.c. Tuttavia il nucleo principale degli antichi abitanti della Palestina si è mantenuto ed è in buona parte alla base dell’attuale popolazione palestinese, convertitasi prima al Cristianesimo e poi all’Islam. Mi meraviglia che lei ignori il best-seller di un altro noto storico israeliano, professore all’università di Tel Aviv, Shlomo Sand: “L’invenzione del popolo ebraico”. In questo noto libro Sand contesta il mito della diaspora e del “ritorno”, ricordando che gli Ebrei moderni sono frutto di conversioni di intere popolazioni. Gli Askenaziti europei discendono da una popolazione nord-caucasica abitante nella Russia meridionale (i Cazari), mentre i Sefarditi discendono dalla conversione di tribù berbere, trasferitesi in Spagna insieme agli Arabi (con cui andavano perfettamente d’accordo) e poi cacciate dai re cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, nel 1492. Il progetto nazionalista e colonialista sulla Palestina ad opera dei Sionisti askenaziti (che peraltro rappresentano un ramo secondario e minoritario della grande tradizione ebraica) deve essere visto come un’impresa coloniale europea in Medio Oriente. La maggior parte degli Askenaziti in Russia e Polonia erano in realtà socialisti e comunisti e lottavano per una rivoluzione sociale collettiva che liberasse anche loro.

Infine vorrei contestare un’altra storiella propagandistica molto sfruttata: quella secondo cui a Camp David nel 2000 fu offerta da Barak ai Palestinesi una soluzione imperdibile che essi rifiutarono (pag. 78). In realtà fu offerto ai Palestinesi solo il 73% di quel già modestissimo 22% del territorio occupato dagli Israeliani con la guerra del 1967, cioè il 16% complessivo!. Le colonie ebraiche non sarebbero state smantellate. Il territorio palestinese sarebbe stato diviso in varie zone staccate, non comunicanti. I confini esterni e lo spazio aereo dello staterello palestinese (rigorosamente demilitarizzato) sarebbero rimasti sotto il controllo israeliano. La “capitale” palestinese sarebbe stato il villaggio di Abu Dis presso Gerusalemme, città che restava tutta sotto il controllo di Israele dopo l’annessione anche di Gerusalemme Est. Inoltre Il diritto al ritorno dei profughi (in accodo la nota risoluzione dell’ONU 194/1948) non era riconosciuto, forse perché il ritorno porterebbe ad una popolazione palestinese di 12 milioni di persone contro i 7 milioni di Ebrei israeliani. In altre parole era come offrire ai pellerossa di Toro Seduto e Cavallo Pazzo una piccola riserva controllata dai “bianchi”. Anche su questo si può leggere l’articolo di Ilan Pappé: “Il processo di pace è da sempre in un vicolo cieco” (16 ottobre 2020) , pubblicato anche in Italia dalla rivista Jacobin.

Le amare parole di Pappé ci fanno riflettere sul fatto che la pace è lontana. La soluzione “due stati”, ipocritamente portata avanti dagli Occidentali, è ormai impraticabile perché il processo di colonizzazione è andato troppo avanti. Sarebbe auspicabile un unico stato plurietnico e multiconfessionale con uguali diritti per tutti; ma questo comporterebbe un grande passo indietro da parte degli Israeliani, come quello che fecero i Bianchi del Sudafrica permettendo la nascita di uno stato multietnico. Purtroppo nel 2018 Israele ha ribadito il suo carattere rigidamente confessionale con la legge costituzionale che afferma che Israele è lo stato dei soli Ebrei, dove solo gli Ebrei godrebbero della piena cittadinanza. Questa affermazione rende ridicola anche l’affermazione che Israele sarebbe “l’unica democrazia del Medio Oriente”, visto che questa presunta democrazia non si applica ad un’altra popolazione (già più numerosa della popolazione di fede ebraica anche senza i profughi: sette milioni e mezzo contro 7 milioni) oppressa, occupata militarmente, scacciata, espropriata e colonizzata da 75 anni.

Cordiali Saluti,

Vincenzo Brandi

Roma 24 novembre 2023, Vincenzo Brandi

brandienzo1940@libero.it


LA TESTIMONIANZA DI VERA PEGNA

FONTE: L’Antidiplomatico

L’orrore, l’orrore

Gli attacchi genocidi di Israele, che uccidono centinaia di palestinesi al giorno, tra cui circa 160 bambini, si sono estesi al bombardamento dei restanti ospedali di Gaza.

di Chris Hedges

DOHA, Qatar: sono nello studio del servizio arabo di Al Jazeera e sto guardando una diretta da Gaza City. Il reporter di Al Jazeera che si trovava nel nord di Gaza, a causa dell’intenso bombardamento israeliano, è stato costretto ad evacuare nel sud di Gaza. Ha lasciato indietro la sua telecamera. L’ha puntata sull’ospedale Al-Shifa, il più grande complesso medico di Gaza. È notte. I carri armati israeliani sparano direttamente verso il complesso ospedaliero. Lunghi lampi rossi orizzontali. Un attacco deliberato a un ospedale. Un crimine di guerra deliberato. Un massacro deliberato dei civili più indifesi, compresi i malati e i neonati. Poi il segnale si interrompe.

Ci sediamo davanti ai monitor. Siamo in silenzio. Sappiamo cosa significa. Niente corrente. Niente acqua. Niente internet. Niente forniture mediche. Ogni neonato in incubatrice morirà. Ogni paziente in dialisi morirà. Tutti i pazienti in terapia intensiva moriranno. Tutti quelli che hanno bisogno di ossigeno moriranno. Tutti quelli che hanno bisogno di un intervento chirurgico d’emergenza moriranno. E cosa accadrà alle 50.000 persone che, cacciate dalle loro case a causa degli incessanti bombardamenti, si sono rifugiate nel terreno dell’ospedale? Conosciamo la risposta anche a questo. Anche molti di loro moriranno.

Non ci sono parole per esprimere ciò di cui siamo testimoni. In cinque settimane di orrore questo è uno dei vertici dell’orrore. L’indifferenza dell’Europa è già abbastanza grave. La complicità attiva degli Stati Uniti è insondabile. Nulla giustifica tutto questo. Niente. E Joe Biden passerà alla storia come un complice del genocidio. Che i fantasmi delle migliaia di bambini che ha partecipato all’assassinio lo perseguitino per il resto della sua vita.

Israele e gli Stati Uniti stanno inviando un messaggio agghiacciante al resto del mondo. Il diritto internazionale e umanitario, compresa la Convenzione di Ginevra, sono pezzi di carta privi di significato. Non si applicavano in Iraq. Non si applicano a Gaza. Polverizzeremo i vostri quartieri e le vostre città con bombe e missili. Uccideremo selvaggiamente le vostre donne, i bambini, gli anziani e i malati. Istituiremo dei blocchi per organizzare la fame e la diffusione di malattie infettive. Voi, le “razze minori” della terra, non contate nulla. Per noi siete parassiti da estinguere. Noi abbiamo tutto. Se cercate di portarci via qualcosa, vi uccideremo. E non saremo mai ritenuti responsabili.

Non siamo odiati per i nostri valori. Siamo odiati perché non abbiamo valori. Siamo odiati perché le regole valgono solo per gli altri. Non per noi. Siamo odiati perché abbiamo abrogato a noi stessi il diritto di compiere massacri indiscriminati. Siamo odiati perché siamo senza cuore e crudeli. Siamo odiati perché siamo ipocriti, perché parliamo di protezione dei civili, di stato di diritto e di umanitarismo mentre spegniamo la vita di centinaia di persone a Gaza al giorno, tra cui 160 bambini.

Israele ha reagito con indignazione e sdegno morale quando è stato accusato di aver bombardato l’ospedale arabo cristiano al-Ahli di Gaza, causando centinaia di morti. Israele ha affermato che il bombardamento è stato causato da un razzo errante lanciato dalla Jihad islamica palestinese. Non c’è nulla nell’arsenale di Hamas o della Jihad islamica che avrebbe potuto replicare l’enorme potenza esplosiva del missile che ha colpito l’ospedale. Chi di noi si è occupato di Gaza ha sentito questo ritornello di Israele così tante volte da risultare risibile. Si incolpano sempre Hamas e i palestinesi per i loro crimini di guerra, cercando ora di sostenere che gli ospedali sono centri di comando di Hamas e quindi obiettivi legittimi. Non forniscono mai prove. L’esercito e il governo israeliano mentono come se respirassero.

Medici Senza Frontiere, che ha personale che lavora ad Al-Shifa, ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che pazienti, medici e infermieri sono “intrappolati negli ospedali sotto il fuoco”. Ha chiesto al “governo israeliano di cessare questo assalto senza tregua al sistema sanitario di Gaza”.

“Nelle ultime 24 ore, gli ospedali di Gaza sono stati bombardati senza sosta. Il complesso ospedaliero di Al-Shifa, la più grande struttura sanitaria dove il personale di MSF sta ancora lavorando, è stato colpito più volte, compresi i reparti di maternità e ambulatoriali, causando diversi morti e feriti”, si legge nella dichiarazione. “Le ostilità intorno all’ospedale non sono cessate. Le équipe di MSF e centinaia di pazienti sono ancora all’interno dell’ospedale di Al-Shifa. MSF ribadisce con urgenza i suoi appelli a fermare gli attacchi contro gli ospedali, per un cessate il fuoco immediato e per la protezione delle strutture mediche, del personale medico e dei pazienti”.

Altri tre ospedali nel nord di Gaza e a Gaza City sono circondati dalle forze israeliane e dai carri armati, in quello che un medico ha detto ad Al Jazeera essere un “giorno di guerra contro gli ospedali”. Anche l’ospedale indonesiano avrebbe perso la corrente. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA) riferisce che 20 dei 36 ospedali di Gaza non funzionano più.

Il cinismo di Israele e Washington lascia senza fiato. Non ci sono differenze di intenti. Washington vuole solo che si faccia in fretta. Corridoi umanitari? Pausa nei bombardamenti? Si tratta di dispositivi che facilitano lo spopolamento totale del nord di Gaza. La manciata di camion di aiuti autorizzati a passare il confine di Rafah con l’Egitto? Un espediente di pubbliche relazioni. L’obiettivo è uno solo: uccidere, uccidere, uccidere. Più veloce è, meglio è. I funzionari di Biden non fanno altro che parlare di ciò che avverrà dopo che Israele avrà terminato la sua decimazione di Gaza. Sanno che il massacro di Israele non finirà finché i gazesi non vivranno all’aperto senza riparo nella parte meridionale della striscia e moriranno per mancanza di cibo, acqua e cure mediche.

Gaza, prima dell’incursione di Israele, era uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta. Immaginate cosa accadrà con 1,1 milioni di gazesi del nord ammassati su oltre 1 milione nel sud. Immaginate cosa accadrà quando malattie infettive come il colera diventeranno un’epidemia. Immaginate le devastazioni della fame. La pressione aumenterà per fare qualcosa. E questo qualcosa, spera Israele, sarà spingere i palestinesi oltre il confine, nel Sinai, in Egitto. Una volta lì, non faranno più ritorno. La pulizia etnica di Gaza da parte di Israele sarà completa. Inizierà la pulizia etnica della Cisgiordania.

Questo è il sogno demenziale di Israele. Per realizzarlo, renderanno Gaza inabitabile.

Chiedetevi: se foste un palestinese a Gaza e aveste accesso a un’arma, cosa fareste? Se Israele uccidesse la tua famiglia, come reagiresti? Perché vi interesserebbe il diritto internazionale o umanitario quando sapete che si applica solo agli oppressi, non agli oppressori? Se il terrore è l’unico linguaggio che Israele usa per comunicare, l’unico che apparentemente capisce, non rispondereste con il terrore?

L’orgia di morte di Israele non schiaccerà Hamas. Hamas è un’idea. Questa idea si nutre del sangue dei martiri. Israele ne sta fornendo ad Hamas in abbondanza.

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/the-horror-the-horror

Traduzione: Cambiailmondo

Sterminare tutte le bestie

Tutti i progetti coloniali dei coloni, compreso Israele, raggiungono un punto in cui abbracciano il massacro e il genocidio all’ingrosso per sradicare una popolazione nativa che si rifiuta di capitolare.

di Chris Hedges

Durante l’assedio di Sarajevo, quando lavoravo per il New York Times, non abbiamo mai sopportato il livello di bombardamenti a tappeto e il blocco quasi totale di cibo, acqua, carburante e medicine che Israele ha imposto a Gaza. Non abbiamo mai sopportato centinaia di morti e feriti al giorno. Non abbiamo mai sopportato la complicità della comunità internazionale nella campagna di genocidio serba. Non abbiamo mai sopportato che Washington intervenisse per bloccare le risoluzioni sul cessate il fuoco. Non abbiamo mai sopportato le massicce spedizioni di armi dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali per sostenere l’assedio. Non abbiamo mai sopportato i resoconti della stampa da Sarajevo che venivano regolarmente screditati e respinti dalla comunità internazionale, nonostante 25 giornalisti fossero stati uccisi durante la guerra dalle forze serbe assedianti. Non abbiamo mai sopportato che i governi occidentali giustificassero l’assedio come il diritto dei serbi a difendersi, anche se le forze di pace dell’ONU inviate in Bosnia erano in gran parte un gesto di pubbliche relazioni, inefficace a fermare il massacro fino a quando non sono state costrette a rispondere dopo il massacro di 8.000 uomini e ragazzi bosniaci a Srebrenica.

Non intendo minimizzare l’orrore dell’assedio di Sarajevo, che mi fa venire gli incubi a distanza di due decenni. Ma quello che abbiamo subito – tre o quattrocento proiettili al giorno, quattro o cinque morti al giorno e due dozzine di feriti al giorno – è una minuscola frazione della morte e della distruzione su larga scala a Gaza. L’assedio israeliano di Gaza assomiglia più all’assalto della Wehrmacht a Stalingrado, dove oltre il 90% degli edifici della città fu distrutto, che a Sarajevo.

Venerdì la Striscia di Gaza ha subito l’interruzione di tutte le comunicazioni. Niente Internet. Nessun servizio telefonico. Niente elettricità. L’obiettivo di Israele è l’uccisione di decine, probabilmente centinaia di migliaia di palestinesi e la pulizia etnica di quelli che sopravvivono verso i campi profughi in Egitto. È un tentativo di Israele di cancellare non solo un popolo, ma anche l’idea di Palestina. È una copia carbone delle massicce campagne di massacro razziale di altri progetti coloniali dei coloni, che hanno creduto che la violenza indiscriminata e su vasta scala potesse far scomparire le aspirazioni di un popolo oppresso, a cui hanno rubato la terra. E come altri autori di genocidi, Israele intende tenerli nascosti.

La campagna di bombardamenti di Israele, una delle più pesanti del XXI secolo, ha ucciso più di 7.300 palestinesi, di cui quasi la metà bambini, oltre a 26 giornalisti, operatori sanitari, insegnanti e personale delle Nazioni Unite. Circa 1,4 milioni di palestinesi di Gaza sono stati sfollati e si stima che 600.000 siano senza casa. Moschee, 120 strutture sanitarie, ambulanze, scuole, condomini, supermercati, impianti di trattamento dell’acqua e delle acque reflue e centrali elettriche sono stati ridotti in macerie. Ospedali e cliniche, privi di carburante, medicinali ed elettricità, sono stati bombardati o stanno chiudendo. L’acqua pulita sta finendo. Gaza, alla fine della campagna israeliana di terra bruciata, sarà inabitabile, una tattica che i nazisti utilizzavano regolarmente quando dovevano affrontare la resistenza armata, anche nel ghetto di Varsavia e poi nella stessa Varsavia. Quando Israele avrà finito, Gaza, o almeno Gaza come la conoscevamo, non esisterà più.

Non solo le tattiche sono le stesse, ma anche la retorica. I palestinesi vengono definiti animali, bestie e nazisti. Non hanno il diritto di esistere. I loro figli non hanno diritto di esistere. Devono essere cancellati dalla terra.

Lo sterminio di coloro di cui rubiamo la terra, di cui saccheggiamo le risorse e di cui sfruttiamo il lavoro è codificato nel nostro DNA. Chiedetelo ai nativi americani. Chiedetelo agli indiani. Chiedetelo ai congolesi. Chiedetelo ai Kikuyu in Kenya. Chiedetelo agli Herero in Namibia che, come i palestinesi a Gaza, sono stati uccisi a colpi di pistola e portati in campi di concentramento nel deserto dove sono morti di fame e di malattie. Ottantamila di loro. Chiedetelo agli iracheni. Chiedetelo agli afghani. Chiedetelo ai siriani. Chiedetelo ai curdi. Chiedetelo ai libici. Chiedete alle popolazioni indigene di tutto il mondo. Loro sanno chi siamo.

Il volto distorto e coloniale di Israele è il nostro. Noi fingiamo il contrario. Ci attribuiamo virtù e qualità civilizzatrici che sono, come in Israele, giustificazioni inconsistenti per privare un popolo occupato e assediato dei suoi diritti, per confiscare la sua terra e per usare l’imprigionamento prolungato, la tortura, l’umiliazione, la povertà forzata e l’omicidio per tenerlo soggiogato.

Il nostro passato, compreso quello recente in Medio Oriente, è costruito sull’idea di sottomettere o spazzare via le razze “inferiori” della terra. A queste razze “inferiori” diamo nomi che incarnano il male. ISIS. Al Qaeda. Hezbollah. Hamas. Usiamo insulti razzisti per disumanizzarle. “Haji”, “Negro della sabbia”, “Cammelliere”, “Ali Baba”, “Spalatore di sterco”. E poi, poiché incarnano il male, perché sono meno che umani, ci sentiamo autorizzati, come ha detto Nissim Vaturi, membro del parlamento israeliano per il partito di governo Likud, a cancellare “la Striscia di Gaza dalla faccia della terra”.

Naftali Bennett, ex primo ministro israeliano, in un’intervista a Sky News del 12 ottobre ha detto: “Stiamo combattendo i nazisti”, in altre parole, il male assoluto.

Per non essere da meno, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha descritto Hamas in una conferenza stampa con il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, come “i nuovi nazisti”.

Pensateci. Un popolo, imprigionato nel più grande campo di concentramento del mondo per sedici anni, a cui vengono negati cibo, acqua, carburante e medicine, privo di un esercito, di un’aviazione, di una marina, di unità meccanizzate, di artiglieria, di comando e controllo e di batterie missilistiche, viene massacrato e affamato da uno dei militari più avanzati del pianeta, e loro sono i nazisti?

Esiste un’analogia storica. Ma non è quella che Bennett, Netanyahu o qualsiasi altro leader israeliano vogliono riconoscere.

Quando coloro che sono occupati rifiutano di sottomettersi, quando continuano a resistere, abbandoniamo ogni pretesa di missione “civilizzatrice” e scateniamo, come a Gaza, un’orgia di massacri e distruzione. Ci ubriachiamo di violenza. Questa violenza ci rende folli. Uccidiamo con sconsiderata ferocia. Diventiamo le bestie che accusiamo di essere gli oppressi. Smascheriamo la menzogna della nostra millantata superiorità morale. Sveliamo la verità fondamentale sulla civiltà occidentale: siamo gli assassini più spietati ed efficienti del pianeta. È solo per questo che dominiamo i “miserabili della terra”. Non ha nulla a che fare con la democrazia, la libertà o la liberazione. Questi sono diritti che non intendiamo mai concedere agli oppressi.

“L’onore, la giustizia, la compassione e la libertà sono idee che non hanno riscontri”, ci ricorda Joseph Conrad, autore di “Cuore di tenebra”. “Ci sono solo persone che, senza sapere, capire o provare sentimenti, si inebriano di parole, le ripetono, le gridano, immaginando di crederci senza credere in nient’altro che nel profitto, nel vantaggio personale e nella propria soddisfazione”.

Il genocidio è al centro dell’imperialismo occidentale. Non è un fenomeno esclusivo di Israele. Non è un’esclusiva dei nazisti. È l’elemento costitutivo della dominazione occidentale. Gli interventisti umanitari che insistono sul fatto che dovremmo bombardare e occupare altre nazioni perché incarniamo la bontà – sebbene promuovano l’intervento militare solo quando è percepito come nel nostro interesse nazionale – sono utili idioti della macchina da guerra e degli imperialisti globali. Vivono in una favola alla Alice nel Paese delle Meraviglie, dove i fiumi di sangue che produciamo rendono il mondo più felice e migliore. Sono le faccine sorridenti del genocidio. Potete guardarli sui vostri schermi. Potete ascoltarli declamare la loro pseudo-moralità alla Casa Bianca e al Congresso. Hanno sempre torto. E non se ne vanno mai.

Forse siamo ingannati dalle nostre stesse bugie, ma la maggior parte del mondo vede noi e Israele con chiarezza. Capiscono le nostre tendenze genocide, la nostra ipocrisia e il nostro moralismo. Vedono che i palestinesi, in gran parte senza amici, senza potere, costretti a vivere in squallidi campi profughi o nella diaspora, negati alla loro patria ed eternamente perseguitati, subiscono il tipo di destino un tempo riservato agli ebrei. Questa è forse la tragica ironia finale. Coloro che un tempo avevano bisogno di essere protetti dal genocidio ora lo commettono.

FONTE: https://substack.com/

Traduzione: Cambiailmondo.org

Palestina. Testimonianze e posizioni delle comunità ebraiche anti sioniste, per la pace e la giustizia

a cura di Enrico Vigna

Discorso del rabbino Dovid Feldman di Neturei Karta a una manifestazione per la Palestina al Brooklyn College a New York City.

“…Contrariamente a quanto crede la gente, l’ebraismo è completamente diverso dal sionismo! Gli ebrei sanno che Dio li punirà per aver formato uno stato e per il possesso della terra, essi devono e vogliono solo vivere in pace tra le nazioni. Per questo stanno protestando, come noi in America, per fermare l’occupazione e liberare la Palestina…Siamo profondamente turbati mentre assistiamo ai lunghi decenni di spargimento di sangue da entrambe le parti del conflitto. Se vogliamo davvero trovare una soluzione vera e una pace duratura, dobbiamo affrontare la causa del problema alla radice, ovvero l’occupazione criminale in corso della Palestina. Preghiamo per una fine pacifica e totale dell’intera occupazione e poi potremo assistere ancora una volta alla bella pace che c’era una volta. Questo sarà a favore del popolo palestinese oppresso e porterà sicurezza e tranquillità al popolo ebraico…”, queste le parole del rabbino Feldman.


Ponendo fine all’occupazione israeliana, si porrà fine a tutto lo spargimento di sangue in Palestina

Dichiarazione di Neturei Karta International – 9 ottobre2023

Lo Stato di Israele e la sua ideologia sionista hanno provocato un atroce spargimento di sangue arabo ed ebraico. Lo scoppio della guerra la scorsa settimana, è un’altra manifestazione dei semi macchiati di sangue, che il sionismo continua a seminare quotidianamente. Gli ebrei antisionisti ritengono ancora una volta il movimento sionista responsabile degli ultimi tragici eventi subiti sia dagli arabi che dagli ebrei.

Per 75 anni lo Stato di Israele ha oppresso e terrorizzato il popolo palestinese, uccidendo spietatamente uomini, donne e bambini mentre gli rubavano la loro terra e si prendevano le loro case. Nel suo continuo sforzo di raggiungere le sue aspirazioni sioniste e colonialiste, lo Stato di Israele ha privato un intero popolo dei diritti umani fondamentali e ha attualizzato un sistema di apartheid sotto il quale i palestinesi non hanno alcun controllo, nemmeno della loro vita quotidiana.

Una delle credenze religiose ebraiche fondamentali è che gli ebrei sono in esilio decretato divinamente. Durante questo esilio è proibito creare un proprio Stato. Inoltre la Torah vieta di uccidere e rubare. Il sionismo va contro a tutte queste credenze fondamentali. Non dobbiamo stancarci mai di affermarlo o sottolinearlo abbastanza, “IL SIONISMO NON È IL GIUDAISMO. Fin dalla sua nascita, masse di ebrei religiosi, sia in Palestina che all’estero, si opposero fortemente e respinsero il movimento sionista e l’esistenza dello Stato di Israele. Leader ebrei religiosi hanno espresso in termini non dubbi, che lo stato di Israele va contro all’ebraismo ed è pericoloso per tutti gli abitanti della Terra Santa, hanno avvertito che la sua esistenza sarebbe stata catastrofica e avrebbe portato solo a spargimenti di sangue.

Ebrei e arabi hanno vissuto in pace in Palestina per secoli, come in tutte le altre terre arabe. Come ebrei siamo e siamo stati estremamente grati per l’ospitalità che ci è stata concessa in tutto il passato.Il conflitto attuale non è in alcun modo dovuto alle differenze religiose, contrariamente alla narrazione sionista, che cerca di creare un solco tra ebrei e arabi. Questa fiducia storica, anzi amicizia, rispetto pacifico e convivenza è stata distrutta dal sionismo e dall’occupazione sionista della Palestina e per decenni è stata l’ostacolo alla pace.

La sola e unica e soluzione è riconoscere la radice della causa e lavorare per uno smantellamento pacifico e totale dello Stato di Israele, restituire il controllo della terra ai suoi abitanti autoctoni e ripristinare tutti i loro diritti. Solo così possiamo aspettarci un ripristino della pace storica che esisteva prima del sionismo.”.


Lunedì 16 ottobre gli ebrei a Gerusalemme hanno marciato per protestare contro l’occupazione sionista alzando bandiere palestinesi. In reazione il regime sionista ha arrestato i manifestanti, saccheggiato case e vandalizzato una sinagoga.


Il 9 ottobre a Liverpool in GB, si è svolto un meeting organizzato dal Partito laburista locale con il rabbino Elhanan Beck, portavoce di Neturei Karta UK, l’accademico, autore e giornalista televisivo palestinese Dr Azzam Tamimi e Pete Gregson, presidente di Palestina Democratica e patrocinatore del gemellaggio con Gaza.

L’incontro si è svolto come evento collaterale alla Conferenza del Lavoro. I temi affrontati sono stati: capire perchè molti ebrei ortodossi non riconoscono Israele e cosa dovrebbe esistere al suo posto, uno stato, una Palestina per tutti i suoi popoli? E gli eccessi del mandato britannico e della perdita della libertà di parola in Israele. Qui il video in inglese: https://youtu.be/LrxF9IxMZts


Gli ebrei antisionisti di Neturei Karta hanno incontrato e abbracciato, come segno di pace e fraternità il presidente iraniano Raisi alla conferenza delle Nazioni Unite

I rabbini ebrei antisionisti hanno stretto la mano al presidente iraniano Ebrahim Raisi durante l’assemblea generale delle Nazioni Unite in settembre 2023 e hanno discusso della differenza tra sionismo ed ebraismo. L’organizzazione ebraica Naturei Karta si oppone al sionismo e all’occupazione israeliana della Palestina per motivi teologici, e spesso protesta contro i politici dello stato sionista quando viaggiano all’estero.


Jewish Voice for Peace e IfNotNow: tutti in strada a sostenere e partecipare per la giustizia

Gli ebrei dicano basta al genocidio contro i palestinesi”

Mercoledì pomeriggio, migliaia di ebrei americani e amici si sono presentati a Capitol Hill per chiedere un cessate il fuoco a Gaza e la fine del genocidio israeliano dei palestinesi. È stata la più grande protesta ebraica in solidarietà con i palestinesi nella storia degli Stati Uniti, secondo la scrittrice e attivista Naomi Klein, intervenuta all’azione. Mentre un enorme folle protestava all’esterno, centinaia di ebrei, tra cui due dozzine di rabbini, hanno tenuto un sit-in all’interno di uno degli edifici del Campidoglio, cantando ‘Non nel nostro nome’ e ‘Cessate il fuoco adesso’. Abbiamo cantato, abbiamo gridato e abbiamo fatto sentire la nostra voce. Almeno 300 sono stati gli arrestati. Quando le è stato chiesto perché fosse venuta, la rabbina Linda Holtzman, membro del Consiglio rabbinico di JVP, ha detto semplicemente: ‘Dove non c’è giustizia, devo essere una voce a favore della giustizia’…Niente elettricità, niente cibo, niente acqua, niente carburante. Tutto è chiuso. ‘Stiamo combattendo animali e agiamo di conseguenza’. Questa promessa, del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, è un appello diretto all’uccisione di massa e all’allontanamento forzato di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case. L’esercito israeliano si sta preparando per una massiccia invasione di terra di Gaza. I leader israeliani e americani stanno disumanizzando i palestinesi con una retorica al vetriolo che richiama alla mente i giorni più isterici della guerra al terrorismo di Bush. Sappiamo dove questo porterà: a un genocidio.. Molti di noi piangono i nostri amici e i nostri cari israeliani e palestinesi. Proviamo dolore e sofferenza, cercando di elaborare una settimana di orribile violenza che ha lasciato così tante persone ferite, traumatizzate, rapite o uccise. Ma ci rifiutiamo di lasciare che il nostro dolore venga utilizzato come arma per giustificare l’omicidio di altri palestinesi. Come ebrei americani, chiediamo ora un cessate il fuoco.

Nessun genocidio in nostro nome. La gravità di questo momento non può essere sottovalutata. Siamo tutti impegnati a fare tutto il possibile per prevenire un genocidio a Gaza e abbiamo bisogno del vostro aiuto per attivare tutta la nostra base. Mentre si diffondono notizie di violenza e perdita di vite umane palestinesi e israeliane, dobbiamo essere chiari: questo è il risultato diretto di decenni di occupazione israeliana e di apartheid su milioni di palestinesi. Da quando è iniziata quest’ultima escalation di violenza, i funzionari del governo israeliano, compreso il primo ministro Netanyahu, hanno apertamente dichiarato la loro intenzione di devastare Gaza, senza riguardo per la vita dei civili, compresi gli ostaggi israeliani. Nonostante ciò, l’amministrazione Biden ha già iniziato a inviare maggiore sostegno militare al governo israeliano, che dovrebbe includere munizioni per aerei da combattimento e altre armi. L’invio di armi e sostegno militare al governo israeliano quando i suoi leader dichiarano pubblicamente le loro intenzioni violente sta consapevolmente facilitando la punizione collettiva e i crimini di guerra. Gli Stati Uniti già inviano ogni anno 3,8 miliardi di dollari in finanziamenti militari incondizionati all’esercito israeliano, e questo sostegno all’oppressione sistematica dei palestinesi da parte di Israele ha contribuito a spianare la strada alla violenza di questo momento. Agire immediatamente per dire al Congresso: gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi su una soluzione politica e sulla riduzione dell’escalation, non alimentare la violenza inviando più armi all’esercito israeliano. La complicità degli Stati Uniti nell’occupazione, nel blocco e nell’apartheid di Israele deve finire…”.


Convivenza o non esistenza. Fine dell’occupazione. Porre fine all’apartheid

Dichiarazione dei Socialisti Ebraici, 12 ottobre 2023

Il Gruppo dei Socialisti Ebrei è a favore di un futuro di pace e di coesistenza per tutti i popoli di Israele e Palestina… Il nostro obiettivo immediato deve essere quello di salvare vite umane e chiediamo uno scambio di ostaggi senza indugio. Sosteniamo pienamente il diritto di resistere all’occupazione, all’oppressione e all’assedio di Gaza. Siamo ugualmente contrari agli attacchi contro i civili. La nostra opposizione agli atti di terrore contro i civili e alle punizioni collettive si applica ugualmente sia che tali crimini siano commessi da individui, movimenti di resistenza o eserciti statali. L’assedio di Gaza, il blocco dell’accesso ai rifornimenti di base e il bombardamento che ha provocato lo sfollamento di oltre 330.000 persone sono un affronto al diritto internazionale e all’umanità.

Sabato mattina il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ha dichiarato lo stato di guerra in risposta all’azione dei combattenti della resistenza di Gaza. Questo stato di guerra contro le aspirazioni palestinesi all’uguaglianza e alla libertà dall’occupazione esiste da decenni. Quando Israele ha approvato la Legge sullo Stato nazionale nel 2018, ha inserito nelle sue “Leggi fondamentali” pratiche discriminatorie di lunga data.

Quando razzisti e fascisti apertamente dichiarati sono stati accolti nel governo israeliano dopo le elezioni del novembre 2022, l’oppressione dei palestinesi è aumentata di intensità. I coloni nella Cisgiordania occupata hanno compiuto pogrom impunemente. Centinaia di civili palestinesi sono stati uccisi, molti altri feriti, arrestati e imprigionati, e le case sono state demolite nel 2023 prima dei terribili eventi del 7 ottobre. Come socialisti ebrei siamo contro il fascismo ovunque.

I palestinesi e gli organismi israeliani per i diritti umani sono stati attaccati, così come i tentativi di sostenere i palestinesi a livello internazionale attraverso attività pacifiche di boicottaggio. Gli israeliani che si sono schierati al fianco dei palestinesi nelle proteste contro l’occupazione e l’apartheid hanno dovuto affrontare un’oppressione sempre più violenta da parte delle autorità israeliane.

Siamo dalla parte di quei giovani israeliani che, in numero senza precedenti, rifiutano il servizio militare per motivi politici. Fanno parte di un futuro che può costruire una convivenza basata sulla giustizia, sull’uguaglianza e sulla libertà. Ma questo può essere raggiunto solo se si mette fine all’occupazione, alla colonizzazione e alle pratiche di apartheid che riflettono valori di supremazia razzisti e fascisti.


Gaza sull’orlo del baratro: cessare il fuoco adesso! 12 ottobre 2023 

Independent Jewish Voices Canada (IJV) 

IJV chiede un cessate il fuoco e un cambiamento sistemico in Palestina-Israele

“…La situazione in Palestina-Israele sta diventando sempre più pericolosa, con vittime totali che ammontano ormai a migliaia. La situazione è ora così terribile che alcunimettono in guardia da un potenziale genocidio a Gaza. Funzionari canadesi si sono espressi a sostegno del “diritto all’autodifesa” di Israele e hanno chiesto che rispetti il diritto internazionale, ma Justin Trudeau e Mélanie Joly devono ancora condannare o chiedere la fine degli attacchi israeliani contro i palestinesi a Gaza. Mentre Israele continua ad intensificare i bombardamenti e l’assedio di Gaza, che dura da 16 anni, tagliando cibo, carburante, aiuti vitali e acqua, il governo canadese deve fare ciò che è giusto: chiedere un cessate il fuoco immediato e la fine del conflitto come punizione collettiva dei palestinesi. Mai più significa mai più, per chiunque. Il momento di parlare è adesso. Le morti civili causate dall’offensiva di Hamas sono una conseguenza, seppur inaccettabile, di 75 anni di condizioni inaccettabili…Israele deve essere ritenuto responsabile dei suoi decenni di crimini contro l’umanità, crimini che hanno messo i palestinesi in una posizione in cui la punizione violenta e la morte sembrano giustizia. Per decenni, i civili di Gaza sono stati sottoposti a massacri di routine, restrizioni sull’elettricità, sulle cure mediche e sull’acqua, hanno affrontato bombardamenti e hanno vissuto sotto un blocco soffocante. Nell’ultimo anno, i palestinesi sono stati presi di mira dal governo israeliano più di destra della sua storia, che ha intensificato i suoi attacchi contro di loro…

L’IJV chiede al Canada di esigere immediatamente un cessate il fuoco. Ma ciò non basta a garantire un futuro più promettente per tutti nella Palestina occupata: l’apartheid israeliano, l’occupazione e il colonialismo dei coloni sono le questioni di fondo che devono essere affrontate per procedere verso un futuro per la regione in cui tutti possano prosperare. Se questi problemi rimangono irrisolti, temiamo che Israele non sarà soddisfatto finché non avrà soddisfatto un desiderio senza fondo di vendetta sproporzionata, come è stato dimostrato più e più volte…Il Canada deve chiedere un cessate il fuoco, condannare l’apartheid israeliano e lavorare per una soluzione pacifica che sostenga il diritto alla vita e alla libertà di tutti…”..


La posizione dei Fronti popolari e di Resistenza palestinesi, laici, rivoluzionari, comunisti e progressisti, rispetto alla guerra in corso.

A cura di Enrico Vigna

In merito alla tragica situazione creatasi in conseguenza dell’attacco della resistenza palestinese di Gaza contro Israele, è importante sottolineare e far conoscere che, mentre tutti i media occidentali insistono incessantemente, sulla necessaria guerra e distruzione di Hamas, assimilandolo all’ISIS o a Al Qaeda, come fosse un corpo separato dal popolo palestinese, qui documento quali altre forze, comuniste, socialiste, popolari sono in campo in questa guerra denominata “Diluvio di Al Aqsa”, con le loro dichiarazioni e posizioni. C Qui è dimostrato attualmente che lo scontro non è tra Hamas e Israele, ma tra il popolo palestinese nelle sue varie sfaccettature e componenti, e lo stato sionista israeliano.

Occorre, per dovere di cronaca, premettere che, nella realtà, Hamas (Movimento di Resistenza Islamico) è il movimento di Resistenza nazionale palestinese più votato nelle ultime elezioni tenutesi, dove aveva votato il 74,6% degli aventi diritto, con l’impedimento al voto per altri milioni di palestinesi della diaspora o dei territori occupati, a cui lo stato sionista non permise di esercitare il loro diritto. Questi i dati per il Consiglio Legislativo Palestinese:

la Lista Cambiamento e Riforma (Hamas) ha ottenuto la maggioranza assoluta dei consiglieri, con 74 seggi (44%); nel distretto di Gaza ha ottenuto 15 seggi su 24 (6 a Fatah e 3 a indipendenti), mentre in Cisgiordania e Gerusalemme est, ha ottenuto 30 seggi su 42 (11 a Fatah e 1 ad un indipendente), naturalmente questo può piacere o no, ma se non si prende atto di questo, la realtà viene accomodata a letture e interpretazioni distorte e utilizzata a fini distorti o meglio funzionali alle “guerre infinite”, così care agli egemonismi unipolari del mondo.

Così come, con questo metodo NON si dice che in Palestina e a Gaza, esistono e lottano storicamente da decenni, Movimenti palestinesi di resistenza e liberazione nazionale, che hanno sempre avuto un ruolo primario di avanguardia politica laica, rivoluzionaria e progressista in quelle terre. Qui sono documentate le loro posizioni ed il loro ruolo in questa ultima operazione militare.

Da questa ennesima tragedia in terra palestinese, emergono due dati che hanno prodotto questa nuova battaglia: il primo è che tutto questo, compreso la morte di civili innocenti è la conseguenza di oltre 75 anni di occupazione brutale, violenta, terrorista e barbarica dell’entità sionista. Il secondo è la responsabilità del governo fascista israeliano guidato da Netanyiahu, che ha esasperato il processo di nuove occupazioni e la cacciata violenta della popolazione araba, sfidato i credenti di fede musulmana con l’occupazione della Moschea di Al Aqsa a Gerusalemme, picchiando e arrestando con retate gli stessi credenti, negando e sotterrando così le possibilità di dialogo e negoziato, bensì inasprendo le tensioni e provocando sentimenti di odio e rabbia in milioni di palestinesi, arabi e musulmani. Se si cerca e VUOLE la pace, c’è ormai una unica possibilità: il rispetto e l’attuazione integrale dei diritti del popolo palestinese ad esistere, vivere e scegliere il proprio destino politico e storico, liberamente e senza l’occupazione militare delle proprie terre, così come il diritto inalienabile al RITORNO, per i milioni di palestinesi esuli e rifugiati.

Come ha detto un anziano leader palestinese: “…il primo giorno che finirà l’occupazione della nostra terra, sarà il primo giorno che regnerà la pace…”.


Comunicato delle Brigate Martire Abu Ali Mustafa, l’ala militare delFronte Popolare per la Liberazione della Palestina – 07 ottobre 2023

Brigate Martire Abu Ali Mustafa: la battaglia del “Diluvio di Al-Aqsa” è la battaglia del popolo palestinese e di tutte le forze della resistenza.

Alla luce delle gesta valorose compiute dagli eroi della resistenza nei nostri territori occupati, degli atti di dignità e fierezza che oggi rinnovano e dell’epopea eroica che stanno portando avanti, noi delle Brigate Martire Abu Ali Mustafa affermiamo quanto segue:

1. Questa eroica battaglia segna l’inizio della sconfitta del nemico sionista e della sua dipartita dalla nostra terra, obiettivo che non sarà mai cancellato dalla consapevolezza e dalla coscienza della nazione araba.

2. Dichiariamo lo stato di massima allerta tra le fila dei nostri combattenti e lavoriamo sul campo su diversi assi insieme ai nostri compagni di sangue e d’armi.

3. Siamo al fianco dei nostri fratelli delle Brigate Al-Qassam e di tutte le forze della resistenza e ci uniamo a loro in questa battaglia che sarà scolpita nella storia.

4. Chiediamo a tutte le forze di resistenza dentro e fuori la Palestina di prendere posizione nella trincea dello scontro che ora si deve estendere in tutta la regione.

Gloria ai martiri, vittoria alla resistenza,
ciò che verrà sarà più grande

Brigate Martire Abu Ali Mustafa,
Palestina occupata
7-10-2023


Fronte popolare: questo è un giorno in cui vengono ripristinate la natura del conflitto e la dignità della nazione araba – 07 ottobre 2023

Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina annuncia che le tenaci montagne della resistenza si sono mosse unite in risposta all’appello della Palestina, all’appello di Gerusalemme e di Al-Aqsa, in cui viene ripristinata la natura del conflitto e la dignità degli arabi, con la nazione restaurata, determinata a ottenere una vittoria strategica su questo nemico, in una battaglia che aprirà la porta del ritorno e ridisegnerà la storia della Palestina e della regione.

Il Fronte Popolare invita il nostro eroico popolo in tutta la Palestina a partecipare attivamente alla battaglia del “Diluvio di Al-Aqsa”. Sia con la sua posizione politica che con gli strumenti che possiede, per attaccare l’esercito nemico e i suoi coloni, tagliare le sue vie di rifornimento, sabotare le sue installazioni vitali e inseguire gli sgomenti invasori sionisti, di fronte agli attacchi della Resistenza e delle loro azioni di assalto ovunque nella terra di Palestina.

Il Fronte ha rimarcato il suo appello rivolgendolo a tutti coloro che portano armi, in particolare ai membri dei servizi di sicurezza, a impegnarsi nella battaglia del popolo palestinese contro il nemico e a fare la scelta di dignità per ogni palestinese libero che lotta per liberarsi dell’occupazione e raggiungere gli obiettivi e i diritti di tutto il nostro popolo.

Il Fronte ha affermato che il momento della battaglia, che coincide con la gloriosa Guerra d’Ottobre del 1973, è un appello al popolo della nazione araba e ai popoli della regione affinché prendano una posizione netta nel conflitto generale con il nemico sionista e in questa particolare battaglia, e per svolgere il loro dovere accanto ai figli dei rivoluzionari combattenti nella Palestina occupata.”.

Dipartimento Centrale d’Informazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina


FRONTE DEMOCRATICO PER LA LIBERAZIONE DELLA PALESTINA

Dichiarazione dell’Ufficio Politico del Fronte Democratico, 9 ottobre 2023

L’operazione “Diluvio di Al Aqsa” è stata un fatto imprevedibile e ha rappresentato un colpo fatale al sistema militare e di sicurezza dell’occupante e per l’occupazione.

Ciò che la resistenza ha ottenuto è un risultato molto grande e avrà ripercussioni sul governo occupante. L’occupante ha pagato un pesante prezzo a seguito dell’operazione “ Diluvio di Al Aqsa”, in termini di prigionieri, feriti e morti.

L’occupante non ha compreso finora, che i messaggi di resistenza erano arrivati a un punto estremo. Dobbiamo ora basarci su ciò che hanno ottenuto le ali militari delle varie Brigate combattenti, espressione di TUTTE le fazioni delle Resistenza Nazionale palestinese.

Salutiamo la valorosa Resistenza nel suo coraggioso confronto con le forze di occupazione, nel rifiuto dell’ingiustizia storica inflitta al nostro popolo dall’assedio di Gaza, dagli insediamenti illegali, dalla giudaizzazione di Gerusalemme, dai ripetuti attacchi alla Moschea di Al-Aqsa e dalla politica di omicidi, arresti e posti di blocco, messi in atto fino ad ora.”


Dichiarazione di “Abu Khaled“, portavoce militare delle Brigate di Resistenza Nazionale (Forze del Martire Omar Al-Qasim), l’ala militare del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, 8 ottobre 2023

Comunichiamo che noi, delle Brigate della Resistenza Nazionale (le forze del martire Omar Al-Qasim) stiamo scrivendo un’epopea eroica senza precedenti, in difesa del nostro popolo palestinese e della sua gloria, che ha rivelato la fragilità del sistema di sicurezza e difesa del nemico e il suo esercito sconfitto. Confermiamo che i nostri combattenti sono tuttora impegnati in scontri insieme ai loro compagni di tutte le fazioni palestinesi. Duri scontri e attacchi in siti sionisti all’interno dei nostri territori occupati nel 1948, come parte dell’eroica operazione “Al-Aqsa Flood”.


Unione dei Comitati d’Azione delle Donne palestinesi

L’Unione dei Comitati d’Azione delle Donne palestinesiha denunciato i pesanti bombardamenti di strutture residenziali e palazzi in tutte le aree della Striscia di Gaza, e l’alto tasso di feriti e martiri tra cui donne e bambini.L’UCADP ha affermato la sua dichiarazione sul diritto a difendere le nostre terre occupate con tutte le forme di resistenza popolare globale per porre fine all’occupazione e raggiungere la libertà, che porta al diritto al ritorno e all’autodeterminazione.

L’Unione delle donne palestinesi ha inoltre invitato la comunità internazionale, le Nazioni Unite e tutte le istituzioni internazionali, giuridiche e umanitarie a esercitare pressioni a livello regionale per fermare la guerra, garantire protezione al nostro popolo, fermare gli attacchi sionisti da parte dei criminali di estrema destra del governo, denunciare l’occupazione come responsabile dei crimini commessi contro il nostro popolo e presentare casi nei tribunali internazionali.

Chiediamo inoltre a tutto il nostro popolo di mobilitare tutte le energie popolari in tutti i campi, villaggi e città a sostegno del nostro popolo e della nostra causa.

Lunga vita alla nostra valorosa resistenza.Gloria ed eternità ai nostri martiri.Guarigione per i nostri feriti”.


Dichiarazione rilasciata dal Partito Comunista Palestinese – 14 ottobre 2023

Le masse del nostro popolo sono in lotta da 75 anni contro l’occupazione della terra di Palestina, gli occupanti hanno cercato e continuano a cercare di fissare l’immagine dell’invincibile soldato sionista e dell’indistruttibile stato usurpatore. Da 75 anni non sono ancora riusciti nel loro intento. Il nostro popolo arabo palestinese dimostra quotidianamente con il sangue e il fuoco, di essere un popolo che non può e non vuole essere sconfitto, non importa quante vittorie temporanee il nemico ottenga, essi sanno che non vogliono alternative alla propria patria, la Palestina, nella quale vivono e nella quale muoiono, e nella quale sognano di ritornare, non importa quanto tempo ci vorrà. Non c’è alternativa alla Palestina se non la Palestina, mentre i sionisti comprendono profondamente che la loro presenza su questa terra è temporanea. Il “Diluvio di Al-Aqsa” ha registrato i più alti significati umani nel cammino della nostra lotta di liberazione nazionale per le masse del nostro popolo, , e ha dimostrato a ogni angolo del mondo che il nostro popolo ha rappresentato e rappresenta, nel corso degli anni della sua lotta, il “detonatore” della dignità araba, che i reazionari arabi hanno sempre voluto soffocare e trattenere per decenni. Pertanto, non sorprende che il nostro popolo trovi tutta questa unità e alleanza. Dai malvagi paesi occidentali guidati dall’imperialismo americano e dalla loro ansia di restaurare ciò che è stato causato dall’operazione di Al-Aqsa, per cercare di contenerne le conseguenze a livello regionale alla luce dell’attuale equilibrio di potere, che ha obiettivi diversi perseguiti da questa entità usurpatrice. Le masse del nostro grande popolo palestinese sono le più coscienti tra coloro che pensano che l’imperialismo e il nemico sionista non accetteranno facilmente la loro terribile sconfitta, ma difenderanno con tutte le forze il loro progetto imperialista nella regione, già hanno praticato e attueranno altri terribili massacri contro il nostro popolo, nel tentativo di sottometterlo. Pertanto, la battaglia attuale tra il nostro popolo indifeso e il più grande arsenale militare del mondo è… una battaglia per l’esistenza, non una battaglia per i confini, ed è la chiave delle battaglie della prossima liberazione. Anche il nostro nemico inevitabilmente si rende conto, che la sua battaglia contro il popolo palestinese è la battaglia per l’esistenza su questa terra. Ogni palestinese in terra di Palestina è un chiodo nella bara dello stato di occupazione sionista. Pertanto, non sorprende che gli obiettivi della sua battaglia contro il nostro popolo, oggi abbia tra gli obiettivi: ricreare lo scenario di sfollamento e creare una nuova catastrofe per il nostro popolo, ma questo nemico, con la sua mentalità criminale, non si è reso conto e non si renderà conto che il nostro popolo ha capito la lezione ed è determinato a far sì che non vi siano più spostamenti dopo oggi, e che il tempo delle battute d’arresto è passato, dopo la battaglia di Al-Aqsa. Sosteniamo il nostro eroico popolo, oh nostro popolo valoroso dell’orgogliosa Gaza, i massacri commessi contro di voi da questa occupazione fascista indicano un fallimento strategico e irreversibile. Questo nemico si vendica su bambini e donne per ripristinare il suo dominio, che è stato irrimediabilmente distrutto. Questo nemico fascista, che con la sua brutalità e il suo razzismo ha oltrepassato tutti i confini, ha tagliato l’acqua, l’elettricità, il cibo e le cure nel disperato tentativo di mettervi in ginocchio, e l’occupazione ha deciso di bombardare gli ospedali. , tutto questo davanti agli occhi di tutto il mondo. I massacri commessi rivelano la portata della disinformazione e dell’inganno mediatico utilizzati dallo sconfitto esercito sionista che, dopo aver lanciato infidi appelli al nostro popolo affinché lasciasse le proprie case, lo ha direttamente preso di mira commettendo crimini atroci che rimarranno una testimonianza del suo terrorismo. e brutalità. Noi del Partito Comunista Palestinese chiediamo a tutte le masse del nostro popolo arabo palestinese, in tutte le località in Cisgiordania, nell’interno e nella diaspora, di unirsi con la Striscia di Gaza e accendere un fuoco sotto i piedi degli occupanti sionisti e lanciare la resistenza in tutte le sue forme, per fermare i massacri a cui è esposto il nostro popolo nella Striscia di Gaza. Chiediamo inoltre alle masse della nostra nazione, alla Lega Araba e ai popoli liberi del mondo, di organizzare manifestazioni di milioni di uomini in solidarietà con il nostro popolo sanguinante. Gloria ed eternità ai martiri. Pronta guarigione ai feriti. Vergogna e disonore a tutti coloro che hanno trascurato e tradito. Saremo certamente vittoriosi.. Il PCP.


Le Milizie palestinesi appoggiano “ Diluvio di Al Aqsa” contro l’occupante

Secondo l’agenzia Prensa Latina del 7 ottobre, sono molte le varie Milizie palestinesi che sostengono l’operazione militare lanciata dalla Striscia di Gaza contro Israele, sottolineando che essa rientra nella lotta per la liberazione nazionale.

Siamo parte di questa battaglia e i nostri combattenti resteranno fianco a fianco con i loro fratelli delle Brigate Al-Qassam fino alla vittoria finale“, ha affermato Abu Hamza, portavoce delle Brigate Al-Quds.

Le Brigate Al-Nasser Salah al-Din, del Movimento di Resistenza Popolare, si sono espresse in termini simili. “Uniti in una unica trincea in questi giorni gloriosi del nostro popolo“, ha dichiarato il gruppo.

La Fossa dei Leoni, una delle milizie più attive in Cisgiordania, ha invitato i suoi membri alla mobilitazione totale e ad “…attaccare immediatamente ovunque le forze di occupazione e i loro coloni… I nostri militanti devono agire immediatamente e con urgenza. Tutti i combattenti devono serrare i ranghi e andare all’attacco…”, ha affermato il gruppo armato.


Appello del Partito Popolare Palestinese

APPELLO ai partiti, movimenti, forze di sinistra, progressiste e di solidarietà, a tutte le persone libere nel mondo, agli amici del nostro popolo, che si impegnino per far cessare la brutale aggressione e occupazione contro il popolo, con tutti mezzi possibili.

Con questo appello il PPP chiede alle persone e ai popoli liberi del mondo di attivarsi presso tutti gli organismi politici e internazionali per fermare la sanguinosa guerra di aggressione e occupazione israeliana, contro il nostro popolo assediato nella Striscia di Gaza. Ora per ora continuano i criminali bombardamenti indiscriminati su case, ospedali, luoghi di culto, strutture civili, che stanno provocando migliaia di morti, tra cui bambini, donne e anziani inermi…Un vero e proprio sterminio, una città che viene attaccata con logica di raderla al suolo.

Il partito Popolare Palestinese si rivolge al mondo per denunciare tutto questo e le responsabilità degli Stati Uniti come complici di queste atrocità criminali. Noi siamo fermamente al fianco della nostra gente e del popolo di Gaza, in questa guerra di resistenza e liberazione nazionale contro l’occupazione e l’aggressione israeliana, che dura da 75 anni…”. PPP


Vice Segretario Generale dei Comitati Popolari:Le fazioni della resistenza sono unite sul campo e non abbiamo altra scelta che continuare lo scontro con il nemico sionista

Il vice segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Jamil Mezher, ha confermato che l’incontro tripartito, tra i leader di Hamas, Jihad e del Fronte Popolare, avvenuto a fine settembre, è stato un momento importante, in quanto il governo dell’occupazione continua arrogantemente a portare avanti le violazioni brutali degli accordi e le violazioni contro i luoghi sacri palestinesi, con continue minacce di voler liquidare la causa palestinese. 

Mezher ha sottolineato, in un’intervista su Al-Mayadeen, che “…l’unità dei combattenti della resistenza sul campo è fondamentale e di grande importanza, in particolare per non permettere di frammentare e dividere le fazioni della resistenza palestinese, rimarcando che l’escalation della resistenza e la decisione delle principali forze di intensificarla di fronte ai crimini sionisti è di enorme importanza, e noi siamo d’accordo per l’intensificazione della resistenza, poiché ci troviamo di fronte ad uno stato di scontro totale con il nemico che occupa la nostra terra…”. Ha anche sottolineato che ”… l’unità sul campo è importante, e che riunire e moltiplicare gli elementi di forza è importante per affrontare l’occupazione, e questa è una missione strategica per il Fronte Popolare…”, sottolineando la necessità di rafforzare l’unità sul campo e discutere la formazione di un nodo di riferimento per tutti i combattenti della resistenza, indipendentemente dalla loro affiliazione, quindi discutendo della formazione di un fronte di resistenza unificato sul campo. Il vice segretario generale del Fronte popolare ha anche affermato che le opzioni negoziali e di soluzione sono state tentate molte volte e hanno portato sempre e solo ulteriori delusioni e battute d’arresto al popolo palestinese, sottolineando che l’opzione della resistenza e dell’unità nazionale e sul campo, che rafforza il popolo palestinese e le persone sulla loro terra, è l’unica strada per la vittoria sul nemico sionista.


Haitham Abdo: il Diluvio di Al-Aqsa deve costituire un incentivo affinché il popolo della nostra nazione si impegni nella battaglia decisiva per ripristinare i propri diritti , ottobre 2023

Il dirigente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina in Libano, Haitham Abdo, ha affermato che gli eroici risultati ottenuti dal popolo palestinese e dalle sue forze di resistenza nella battaglia del Diluvio di Al-Aqsa devono costituire una motivazione per tutti i figli del popolo palestinese, al di là delle appartenenze a forze e componenti: “… Deve essere un incentivo per tutte le persone onorevoli e libere della nostra nazione a impegnarsi nella battaglia per ripristinare i pieni diritti della nostra nazione, e in primo luogo per liberare la Palestina e i suoi luoghi santi dalla lordura dell’occupazione, realizzando le sue ambizioni di sbarazzarsi del dominio delle potenze coloniali e investendo le sue capacità e ricchezza al servizio delle aspirazioni dei popoli della nostra nazione verso un futuro luminoso per le generazioni future…”. Così si è espresso durante la manifestazione di solidarietà indetta dal Partito Comunista Libanese a sostegno del popolo palestinese e della sua coraggiosa resistenza a Beirut, con la partecipazione di rappresentanti dei partiti e delle fazioni popolari libanesi e palestinesi. “…L’entità usurpatrice sionista, nel tentativo di cancellare e porre fine alla causa palestinese, intensifica le sue pratiche brutali e la continua aggressione, prendendo di mira civili, alberi e pietre, profanando luoghi santi, giudaizzando la terra, intensificando gli insediamenti, la politica delle esecuzioni sul campo, l’assalto a città, villaggi e accampamenti e con la politica dell’assedio. L’oppressione, utilizza le sue campagne di arresti casuali e le sue pratiche brutali contro i prigionieri del nostro popolo nelle carceri e nei centri di detenzione sionisti, ma nonostante tutte queste circostanze e pratiche, ecco che il nostro popolo e le sue brigate combattenti stanno scrivendo oggi un’epopea eroica di orgoglio e dignità, sorprendendo i leader dell’occupazione e i suoi apparati militari e di sicurezza, lanciando loro un sonoro schiaffo e infliggendo loro una terribile sconfitta: sono stati presi d’assalto i forti e i siti militari, i combattenti del nostro popolo sono anche riusciti a prendere il controllo di molte caserme, siti militari e insediamenti e dichiarando guerra, per la prima volta nella storia del conflitto arabo-sionista, sulla terra della Palestina storica e nel cuore degli insediamenti sionisti, imbrattando il naso dei sionisti con il fango della sconfitta, e attaccando i suoi insediamenti, città e paesi con migliaia di missili e proiettili benedetti, inviando all’inferno dozzine di ufficiali dell’esercito sionista, i suoi soldati e le mandrie di coloni, ferito centinaia di soldati dell’esercito di occupazione e dei suoi coloni, sono stati catturati, sequestrate armi e munizioni dell’esercito nemico, distrutti i suoi veicoli e mezzi corazzati, confermando con la sua fermezza, resistenza e i sacrifici dei suoi figli, la possibilità di ottenere la vittoria completa sullo Stato occupante. ..”. Abdo ha sottolineato che “…ciò che è accaduto la mattina del Diluvio di Al Aqsa, quando il nostro popolo, il popolo libero della nostra nazione e il mondo si sono svegliati con le notizie, le scene e le immagini riportate dai media, hanno scaldato i cuori di tutto il nostro popolo, della nostra nazione e di ogni popolo libero del mondo. I risultati militari e di sicurezza raggiunti dagli uomini della resistenza nelle arene dell’eroismo e dell’onore, hanno invece svegliato i leader dell’occupazione, i loro servizi di sicurezza, le greggi dei suoi coloni, e i suoi alleati e sostenitori, hanno invece avuto la notizia dell’umiliazione, della disgrazia e del collasso nella battaglia del Diluvio di Al-Aqsa, che è stata combattuta, gestita ed eseguita con tutta precisione e abilità dalle ali militari delle fazioni della resistenza palestinese in uno scenario unificato che ha ripristinato lo spirito della nazione la cui volontà avevano sempre cercato di spezzare, e lo spirito di resistenza cercato di uccidere in essa. Invitiamo tutti i membri del popolo palestinese, in tutta la storica terra della Palestina, a partecipare attivamente a questa battaglia, ciascuno con le capacità che possiede, e anche i membri dei servizi di sicurezza palestinesi a partecipare alla battaglia del popolo palestinese contro il nemico…”. Concludendo, si è rivolto a tutti i nemici del popolo e della nazione palestinese, affermando che la guerra è dispiegata, che ciò che sta arrivando sarà ancora più grande e che la resistenza continuerà finché durerà l’occupazione, rivolto ai popoli liberi del mondo ha detto: “…Il popolo palestinese rimarrà come lo avete conosciuto, alto e resistente, alzando la bandiera della resistenza fino alla liberazione e alla vittoria, promettiamo al nostro popolo che nel nome dei nostri martiri, ne preserveremo il sangue e i sacrifici, per raggiungere gli obiettivi per i quali essi sono stati martirizzati…”

A cura di Enrico Vigna, SOS Palestina/CIVG, 21 ottobre 2023

Ecuador, la seconda a destra

di Marco Consolo *

Nel ballottaggio delle elezioni presidenziali anticipate svoltesi in Ecuador domenica scorsa ha vinto la “novità” milionaria di Daniel Noboa con il 52%, contro il 48% di Luisa Gonzalez, la candidata della Revoluciòn Ciudadana (RC), vicina all’ex Presidente Rafael Correa, con uno scarto di 395.000 voti. Leggermente aumentata la partecipazione (82,4%) rispetto alle elezioni del 2021, mentre è diminuito di quasi la metà il voto nullo, che comunque resta alto (7,75).

Come si ricorderà, l’attuale Presidente, il banchiere Guillermo Lasso, aveva sciolto in anticipo il parlamento, per evitare un giudizio politico per corruzione nei suoi confronti.

Daniel Noboa è un rampollo di una famiglia milionaria, mandato a studiare negli Stati Uniti, con formazione in economia aziendale presso l’Università di New York, oggi imprenditore accusato di evasione fiscale. Suo padre Alvaro, l’uomo più ricco del Paese, che ha fatto dell’esportazione di banane il pilastro portante dell’azienda di famiglia, è stato battuto ben 5 volte nelle elezioni presidenziali. Sarà quindi un vero e proprio pollo d’allevamento dell’establishment ad occupare Palazzo Carondelet, una di quelle ruote di scorta che le élite dei Paesi della regione hanno sempre a portata di mano.

Alla sua vittoria ha contribuito la moglie Angela Lavinia Albonesi, di padre italiano, infuencer con grande esperienza di reti digitali, già modella, bionda e con gli occhi azzurri, in un Paese con una forte presenza di popoli originari.

Alcune ragioni del voto

Il nuovo Presidente è stato il “terzo incomodo” in un Paese polarizzato tra il “correismo” e la destra tradizionale, che è passato dall’essere un candidato marginale prima del primo turno a un candidato da prendere sul serio. E con i suoi 35 anni, sarà il Presidente più giovane dell’America Latina.

Noboa è riuscito ad installare la narrativa del “cambio” e di un progetto che, secondo le sue parole, è “giovane e nuovo”, anche se di nuovo sembra esserci ben poco. Come è avvenuto in circostanze simili in altri Paesi della regione, il nuovo somiglia molto al vecchio continuismo neo-liberista.

I mezzi di disinformazione di massa sono stati tutti a favore di Noboa, praticamente senza alcun contrappeso. La loro campagna d’odio, insieme alle accuse a Revolución Ciudadana di responsabilità per l’omicidio del candidato presidenziale Villavicencio, ha funzionato. Il mantra “è tutta colpa di Correa” ripetuto all’infinito, insieme all’utilizzo degli “infuencers”, ed alla disinformazione diffusa anche nelle “reti sociali” con gli algoritmi dell’odio, ha fatto breccia in parte del Paese.

Si è trattato quindi più di un voto anti-Correa che pro-Noboa e fa riflettere il dato delle regioni più povere del Paese, dove ha vinto la destra, in particolare nella Sierra centrale.

Capitolo a parte, quello dei popoli originari e del “movimento indigeno”, protagonista delle importanti mobilitazioni degli ultimi anni la cui divisione ha pesato sul risultato. Una parte ha deciso un “voto nullo ideologico ” rivendicando un’autonomia totale dalla sfera politica. Un’altra parte ha negoziato posti di sottogoverno con Noboa, mentre un altro settore ha semplicemente taciuto in attesa di potersi presentare alle nuove elezioni del 2025. E’ utile ricordare che, alle elezioni del 2021, il candidato Yaku Perez (crollato dal 19,3% al 3,9%) è stato l’alfiere del “voto nullo ideologico” al ballottaggio, salvo poi dichiarare che era “meglio un banchiere che una dittatura”, con la chiara indicazione di voto a favore di Lasso seguita da una parte del suo elettorato.

Un governo di transizione

Noboa non ha ancora presentato la sua squadra di governo e in queste ore sta negoziando con il resto dei candidati che lo hanno appoggiato al ballottaggio. Ma si tratta di un governo di transizione solo per i prossimi mesi, dato che la legge elettorale fissa le nuove elezioni a maggio del 2025, data in cui si sarebbe completato il mandato  dell’attuale Presidente, che va casa con il 15% di approvazione.

La governabilità non sarà facile, visto che al primo turno Revolución Ciudadana ha ottenuto il 33,6% dei voti, confermandosi come la prima forza politica, con 48 deputati a cui si aggiungono i 6 della circoscrizione estera. In particolare, l’Assemblea Nazionale, la cui composizione è data dal voto al primo turno, vede quindi una maggioranza della Revolución Ciudadana con 54 parlamentari su un totale di 137. Al secondo posto il Movimento Construye (28) seguito dallo storico Partido Social Cristiano (14). Il partito del neo-Presidente Noboa, Acción Democrática Nacional, è solo quarto con 13 seggi, mentre il partito “indigeno” Pachakutik si riduce nettamente da 24 a 4.

Il nuovo Presidente dovrà affrontare problemi di urgente complessità. Innanzitutto, la questione sicurezza con l’incubo diffuso della violenza, cresciuta a dismisura con una vera e propria epidemia di narcotrafficanti, bande locali e scontri armati quotidiani.  La criminalità organizzata controlla il sistema penitenziario con una sanguinosa guerra tra bande. A questa si aggiunge la violenza del narcotraffico internazionale, che nei territori si muove come un vero e proprio Stato parallelo, in particolare al confine con la Colombia e sulla costa del Pacifico.

Non ultima la violenza politica, che ha colpito anche Fernando Villavicencio, candidato presidenziale ucciso pochi giorni prima della scadenza elettorale. Il suo sicario diretto e altri 7 colombiani accusati di complicità nell’omicidio, sono stati eliminati senza andare troppo per il sottile (6 di loro sono stati impiccati in carcere), prima che potessero dichiarare sui mandanti.

Importante e sentito è naturalmente il tema del lavoro e dell’occupazione giovanile, al centro delle promesse elettorali di Noboa, (e che spiega in parte l’appoggio di questa generazione), nonché la promessa di una pensione minima di 450 dollari a pensionati.

La sanità è un tema chiave, in un Paese duramente colpito dalla pandemia del Covid19 anche per l’incapacità del governo di Lenin Moreno di affrontarla. È ancora fresca la memoria dei cadaveri abbandonati a decine nelle strade.

La violenza va a braccetto con il riciclo dei capitali narco e la corruzione, che si è estesa a macchia d’olio ai massimi livelli, anche grazie ad un sistema finanziario che ne è parte attiva.

E dopo il recente voto al referendum che impedisce l’estrazione petrolifera nella zona del Parco Yasunì, nel bilancio dello Stato non saranno più disponibili circa 1500 milioni di dollari.

La Revolución Ciudadana

In questi anni, la Revoluciòn Ciudadana dell’ex Presidente Rafael Correa è riuscita a sopravvivere e a consolidarsi come partito, nonostante la persecuzione mediatica e giudiziaria che ha costretto lo stesso Correa ed altri dirigenti a rifugiarsi all’estero per evitare la prigione. Il suo ex-vicePresidente, Jorge Glass, anch’egli accusato ingiustamente, ha passato 5 anni in carcere in condizioni di grave pericolo per la sua incolumità.

Anche il tradimento di Lenin Moreno, eletto Presidente con i voti del correismo e passato armi e bagagli con la destra più oltranzista, ha avuto il suo peso nella divisione interna al movimento che originariamente si chiamava Alianza País.

Territorialmente, oltre ad avere eletto diversi sindaci e “prefetti regionali” (a partire dalla capitale Quito e dalla regione di Pichincha in cui si trova) RC mantiene la sua forza, in particolare sulla costa (Esmeralda, Manabì, Los Rios e Guayas) e nelle regioni amazzoniche (Sucumbìos e Orellana), ma non riesce a crescere significativamente in consensi ed in quanto ad alleanze. Non c’è dubbio che questa seconda sconfitta, dopo quella del 2021, dovrebbe essere oggetto di una profonda riflessione.

Fin qui l’Ecuador, mentre sul versante latino-americano l’Argentina andrà al voto presidenziale il prossimo 22 ottobre con un preoccupante panorama di possibile vittoria delle forze più reazionarie.

Quito 16-10-2023

*Osservatore internazionale invitato dal Consiglio Nazionale Elettorale

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