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Diritti sociali diritti umani

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Libertà di espressione e censura mediatica

di Marco Consolo

Lo scorso 2 maggio, Nasser Abu Baker, Presidente del Sindacato dei Giornalisti della Palestina, ha ricevuto a Santiago del Cile il “Premio Mondiale della libertà di Stampa” dell’UNESCO (l’Agenzia dell’ONU), intitolato a Guillermo Cano. A nome di tutti-e i-le giornalisti-e palestinesi, Abu Baker ha ricordato le più di 135 vittime tra i-le colleghi-e che documentavano il genocidio israeliano a Gaza.

L’immediata rappresaglia mediatica israeliana è stata la chiusura di Al Jazeera ed il furto delle sue apparecchiature. Per i più smemorati, nel 2021, con un bombardamento, Israele aveva raso al suolo il grattacielo sede di Al Jazeera e dell’ Associated Press a Gaza.

Argentina e Telesur

In America Latina, la capa del Comando Sud degli Stati Uniti, la sorridente generale Laura Richardson, nella sua recente visita in Argentina aveva puntato il dito sui canali TV di Russia Today e di TeleSUR. La loro “colpa” è quella di avere un diverso punto di vista sul declinante strapotere USA nella regione.  Detto (ordinato) e fatto. Il 3 maggio, in Argentina, il “fedele scudiero” neo-sionista Milei ha oscurato il segnale di TeleSUR, nella griglia della Televisione Digitale Aperta. Poche settimane fa, il presidente Milei aveva già chiuso TELAM, la storica agenzia pubblica di notizie.

Nel 2018, il governo degli Stati Uniti ha silenziato diversi media, come il canale turco TRT World, quello russo Russia Today America, due canali cinesi CGTN1 e CGTN2, un canale sudcoreano Arirang, e poi Africa Today, France 24, TeleSUR, la tedesca Deutsche Welle,  in quanto “agenti stranieri”. Più recentemente il governo statunitense ha chiuso Press TV e sta dando l’assalto alla cinese TikTok (con 170 milioni di utenti negli States), mentre la “democratica” Unione Europea ha da tempo oscurato il segnale di Russia Today.

Per non rimanere indietro, la piattaforma X di Elon Musk ha censurato l’iraniana Hispan TV ed altri media “scomodi”.

E nell’Italia del governo neo-fascista, la RAI si è trasformata in “Tele Meloni”, umiliando il servizio pubblico, chi ci lavora e i-le cittadini-e.

Censura mediatica, democrazia e libertà di espressione

Il veto dei canali russi in Occidente o la costrizione a riferire su temi sensibili come il conflitto in Ucraina, il massacro in corso a Gaza, la pandemia del COVID-19 o la corruzione, hanno evidenziato il modo in cui i “latifondi mediatici” cercano di censurare e manipolare, mentre pretendono dare lezioni al mondo sui diritti e le libertà.

In nome del genocidio e della guerra, del turbo-liberismo e delle “magnifiche sorti” del capitalismo, censurano la tanto declamata libertà di espressione. Hanno paura di voci fuori dal coro, tra le altre quella dello stesso Papa, evidentemente non abbastanza “arruolato”. Nella battaglia mediatica per conquistare i cuori e le menti, la voce del padrone, “il pensiero unico del Ministero della Verità” non ammette controcanto, solo i cori ipocriti e stonati dei suoi sostenitori.

Nel mondo al rovescio, avanza la censura mediatica in nome della “democrazia” e della “libertà di espressione”.

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/liberta-di-espressione-e-censura-mediatica/

UCRAINA: diritti civili e umani sacrificati alla nuova mobilitazione e alla prosecuzione della guerra

30 Aprile 2024: Si apprende in queste ore, da fonti di informazione ucraine e polacche che sono in corso colloqui tra Kiev e Bruxelles per decidere sul trasferimento dei cittadini in età di leva in Ucraina che si trovano nei paesi UE; lo ha dichiarato il vice primo ministro e ministro della Difesa polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz dopo una riunione del governo polacco, auspicando che la decisione sia presa a livello europeo.

“L’Ucraina”, secondo il settimanale tedesco Bild, “non ha abbastanza soldati per fermare Putin”. Questo il titolo con cui è uscito un articolo della Bild che contiene commenti di militari ucraini e portavoce occidentali che criticano la leadership ucraina per aver “ritardato la mobilitazione”. Nello stesso articolo si suggerisce di abbassare il limite di età per la mobilitazione.

L’articolo contiene commenti di militari ucraini e portavoce occidentali che criticano la leadership ucraina che suggeriscono che il limite di età per la mobilitazione dovrebbe essere abbassato. Allo stesso tempo, viene riferito che il 15% degli uomini in età di leva è già ora nell’esercito.

“Stiamo resistendo, ma abbiamo un problema. Una volta dicevo che il problema più grande era la carenza di proiettili d’artiglieria, ma oggi è la carenza di risorse umane”, ha detto Dmytro Kukharchuk, un ufficiale della 3ª Brigata indipendente.

Un marine ucraino con il nome di battaglia “Military Explorer” lamenta che “dopo che il presidente ha rimandato la mobilitazione per così tanto tempo”, l’Occidente ora “fornisce armi ed equipaggiamento, ma nessuno è addestrato ad usarli”.

Singoli portavoce dell’Occidente affermano inoltre che: “A parte il lento e insufficiente sostegno militare, finanziario e politico da parte dell’Occidente, il grande dilemma dell’Ucraina è la mobilitazione”. Uno dei compiti principali di Zelensky è quello di creare una strategia e un modello di mobilitazione che porti a una maggiore equità, prevedibilità e mantenga un alto valore di combattimento. Un sistema del genere non esiste ancora in Ucraina”, ha detto l’esperto di difesa dell’UE Roderich Kiesewetter.

L’ex funzionario del Ministero della Difesa tedesco e attuale esperto militare, Nico Lange, afferma che la leadership ucraina ha “perso molto tempo in discussioni tattiche” e invita Zelensky a mostrare “leadership”.

“Per quanto onorevole sia l’idea ucraina di non arruolare i giovani, il carico di lavoro fisico è elevato, l’equipaggiamento e le munizioni sono molto pesanti, e i giovani soldati se la caveranno meglio di molti quarantacinquenni che si incontrano ora sul fronte”, ha affermato.

Mentre secondo il il deputato Kamelchuk, circa 15mila militari avrebbero disertato, l’ex parlamentare ucraino Ihor Lutsenko, ora comandante di una compagnia di droni d’attacco, ha annunciato la formazione di un’unità UAV femminile e il Ministro dell’Economia Yulia Sviridenko ha dichiarato che l’Ucraina sta cercando di coinvolgere più donne nel processo di sminamento.

“Il Consiglio dei Ministri cerca di garantire la realizzazione professionale e l’integrazione sociale delle donne, dei veterani e delle veterane, delle persone colpite da rischi di esplosione e delle persone con disabilità attraverso il coinvolgimento nel lavoro di sminamento”, ha dichiarato Sviridenko. “Questa iniziativa”, spiega, “è un ulteriore passo verso una politica di ‘parità di genere’ in Ucraina”.

Nel frattempo le truppe russe stanno avanzando su tutto il fronte orientale e l’obiettivo principale sarebbe quello di prendere la città di Kostiantynivka che è il punto di rifornimento per le truppe ucraine su gran parte del fronte orientale.

La guerra a Gaza ha ridotto l’attenzione su ciò che sta realmente accadendo in Ucraina, né i governi e i media occidentali hanno interesse a far conoscere gli sviluppi interni al paese che ha già perso, dal 2014 ad oggi oltre due terzi della sua popolazione, in gran parte profuga in Russia e in Europa occidentale.

Il sacrificio imposto al popolo ucraino dalla Nato e dai governi occidentali, in accordo con la leadership politica locale, con l’obiettivo di mettere al tappeto la Russia, si sta rivelando una vera catastrofe anche dal punto di vista umanitario. Mentre l’irresponsabile narrazione continua a concentrarsi, in Italia e in Europa, sulla legittimità della “resistenza” ucraina e sulla indispensabile prosecuzione nel rifornimento di armamenti.

Ma il clima interno nel paese è decisamente cambiato e le misure di ulteriore pressione sulla popolazione per mandare uomini al fronte sta diventando insopportabile. Il Ministro degli Esteri Kuleba ha imposto la sospensione dei servizi consolari – documenti,, ecc. – per coloro che si trovano all’estero e sono in età di coscrizione (25-60 anni). Allo stesso tempo la compressione dei diritti civili e umani viene affermata ormai senza ritegno. Lo testimoniano diversi reportage, tra cui quelli che seguono, tratti da СТРАНА.ua (“Strana”) che riportiamo di seguito.

Di ciò che sta davvero accadendo in Ucraina non sembra esserci traccia su giornali e tv. E sarà da vedere in che modo si comporterà l’Europa liberale e libertaria rispetto alla stretta autoritaria in corso.

Il richiamo d’oltremare. Come il divieto dei servizi consolari influenzerà il corso della guerra e della mobilitazione

In Ucraina, uno dei temi principali degli ultimi giorni è la decisione del Ministero degli Affari Esteri di interrompere la fornitura di servizi consolari alle persone soggette al servizio militare fino all’entrata in vigore della legge sulla nuova procedura di mobilitazione, nonché la decisione del Consiglio dei Ministri di vietare il rilascio di passaporti stranieri al di fuori dell’Ucraina agli uomini tra i 18 e i 60 anni.

Ciò ha provocato una grave spaccatura all’interno della società. Le autorità, attraverso il Ministro degli Esteri Kuleba, hanno di fatto dichiarato che tutti gli ucraini che si trovano all’estero e non vogliono tornare in Ucraina durante la guerra sono traditori.

Gli ucraini all’estero si sono duramente indignati. Gli ucraini in patria si sono divisi in due campi. Alcuni gongolano per il fatto che anche coloro che sono “fuggiti all’estero” ora si sentiranno male. Altri sottolineano che tali approcci potrebbero incoraggiare milioni di ucraini a tagliare per sempre i ponti con il loro Paese. Si teme inoltre che tali misure drastiche vengano prese non solo all’estero, ma anche all’interno del Paese. Nel complesso, gli esperti ritengono che tutto ciò aumenti l’ansia nella società per l’ulteriore corso degli eventi.

Strana ha analizzato le conseguenze politiche che tutto ciò ha già causato e potrebbe causare.

In anticipo sulla legge

Abbiamo già analizzato in dettaglio le sfumature dell’introduzione delle restrizioni sui servizi consolari, che potete leggere qui e nel canale Telegram “Politica del Paese”.

In breve, dal 23 aprile il Ministero degli Affari Esteri ha vietato alle missioni diplomatiche di accettare nuove domande da parte di uomini in età di mobilitazione per azioni consolari, tra cui il rilascio e la ricezione di passaporti.

Il Ministero degli Esteri ha dichiarato in un comunicato che si tratta di una misura temporanea in attesa dell’entrata in vigore, il 18 maggio, della legge “Sulla modifica di alcuni atti legislativi dell’Ucraina su alcune questioni relative al servizio militare, alla mobilitazione e alla registrazione militare” adottata dalla Verkhovna Rada l’11 aprile.

La legge stabilisce che gli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni che soggiornano all’estero avranno pieno accesso ai servizi consolari dopo l’entrata in vigore della legge solo se confermeranno i loro dati nel database della registrazione militare. Allo stesso tempo, il Ministero degli Affari Esteri riconosce che il meccanismo di conferma previsto dalla legge non è ancora del tutto pronto. A quanto pare, si tratta della versione dell’armadio elettronico dei coscritti, che funzionerà, a giudicare dalle dichiarazioni del Ministero della Difesa, nel secondo trimestre (molto probabilmente, più o meno nello stesso periodo in cui funzionerà la legge sulla “mobilitazione”). Ricordiamo che dopo l’entrata in vigore della legge sulla mobilitazione più severa, gli uomini soggetti al servizio di leva dovranno confermare le loro credenziali in un modo o nell’altro entro 60 giorni e portare sempre con sé un tesserino militare.

Ma fino ad allora le missioni diplomatiche non accetteranno i militari di leva, a meno che non abbiano fatto richiesta di servizi consolari prima del 23 aprile o si siano trovati in una situazione di emergenza all’estero.

In seguito, il Consiglio dei Ministri ha emesso un decreto che vieta il rilascio di passaporti agli uomini in età di leva in qualsiasi luogo al di fuori dell’Ucraina.

Le voci degli insoddisfatti

Come scrive “Strana”, la società è venuta a conoscenza di questa iniziativa del Ministero degli Affari Esteri (le autorità) per caso – dalla lettera “trapelata” ai rappresentanti diplomatici firmata dal primo viceministro degli Affari Esteri Andrei Sibiga, recentemente nominato, in cui si dà istruzione di non fornire servizi consolari agli uomini.

È scoppiato uno scandalo, in cui le autorità hanno dovuto giustificarsi. Tuttavia, il Ministero degli Esteri si è immediatamente assunto la paternità dell’iniziativa. Inoltre, il capo del Ministero degli Esteri Dmytro Kuleba ha effettivamente definito traditori tutti i militari ucraini arruolati all’estero.

“Come appare ora: un uomo in età di leva è andato all’estero, ha mostrato al suo Stato che non si preoccupa della sua sopravvivenza, e poi viene e vuole ricevere servizi da questo Stato. Non funziona così. Il nostro Paese è in guerra”, ha scritto Kuleba sulla sua pagina Facebook.

Nelle ambasciate – almeno in Europa – intanto si registrano agitazioni e litigi con il personale, a cui viene chiesto di rilasciare documenti presumibilmente pronti.

Nella società si sono formati due grandi gruppi di sostenitori e oppositori di regole consolari più severe. Il primo gruppo comprende le persone in guerra e i loro parenti, amici e suoceri, così come le persone che sostengono misure severe contro gli evasori (che includono indistintamente tutti gli uomini attualmente all’estero).

La seconda è più interessante: non ci sono solo coloro che hanno affrontato le restrizioni nelle ambasciate, ma anche coloro che sono insoddisfatti della decisione stessa. Mettono in dubbio la sua legalità. E tra questi ci sono anche deputati del popolo.

“In base a quali norme vengono bloccati i servizi consolari? Le autorità violano la legge, la Costituzione e i trattati internazionali! Come possono pretendere che la gente rispetti la legge quando loro stessi la violano?”. – Ha dichiarato il deputato Dmytro Razumkov (non affiliato), che guida l’associazione di opposizione dei deputati “Politica ragionevole” nella Rada.

Un membro della commissione parlamentare “difesa”, Solomiya Bobrovska (Golos), ha definito la decisione di Kuleba “semi-legale” in un commento ai media, ritenendo che abbia “un risultato, un’adeguatezza e un contenuto discutibili”.

Il deputato Volodymyr Vyatrovych ha affermato che il vantaggio è “solo per la Russia”.

“Solo il nostro nemico trae vantaggio dalla spaccatura tra gli ucraini lungo qualsiasi linea, e dalla restrizione dei diritti di alcuni cittadini ucraini, e dal declino del livello di sostegno internazionale per l’Ucraina, e dal disastro demografico, che si adatta perfettamente ai loro piani per distruggere gli ucraini come nazione”, scrive Vyatrovych.

Egli definisce la risoluzione di Kuleba “arbitraria”. E osserva che nessuna legge, compresa la nuova legge sulla mobilitazione, vieta ai cittadini di ottenere passaporti all’estero.

Vyatrovych è sicuro che nessuno si arruolerà nell’esercito sotto questa pressione. Al contrario, interromperanno i contatti con la loro patria, aggravando la “catastrofe demografica” già esistente.

“Il rifiuto dello Stato di rilasciare passaporti o di fornire servizi consolari ai propri cittadini è un disprezzo per la democrazia e i diritti umani. Nemmeno la Russia fa una cosa del genere. Questo è un modo diretto per peggiorare l’atteggiamento verso il nostro Stato in Occidente, e quindi per ridurre il livello di sostegno, da cui dipende in modo critico la nostra sopravvivenza”, scrive il deputato.

La società accumula negatività

In generale, si può parlare di un aggravamento della già difficile situazione della mobilitazione. Le autorità sono ovviamente pronte a portarla avanti in modo rigido, indipendentemente dalle conseguenze politiche e di altro tipo. Ma forse non ha ancora affrontato quelle più gravi.

“Ora mobiliteranno persone che per la maggior parte non vogliono andare in guerra. Va detto che se l’Occidente non avesse fornito nuovi pacchetti di aiuti militari, la mobilitazione sarebbe diventata un problema colossale. In base agli attuali sviluppi, non porterà a una crisi politica, ma vediamo come sarà condotta, se e quanti eccessi ci saranno. In generale, questo è un altro passo nella direzione dell’impopolarità del governo”, commenta a Strana il politologo Ruslan Bortnik.

vAllo stesso tempo, richiama l’attenzione sull’iniziativa del Ministero degli Esteri in questa materia. “Il Ministero degli Esteri ha deciso di fare giochi politici, per dimostrare, come il governo e il parlamento, il suo sostegno alla linea generale delle autorità”, ha detto l’esperto.

L’analista politico Andrei Zolotaryov ha definito la decisione del Ministero degli Esteri sui servizi consolari come un elemento delle attività di uno “Stato militare-poliziesco”.

“Il rapporto tra Stato e cittadini non è a senso unico. Dobbiamo guardare non solo ai doveri dei cittadini, ma anche a come lo Stato adempie ai propri. È necessaria una sorta di equilibrio. E ultimamente queste relazioni hanno iniziato ad assomigliare al comportamento di un signore feudale con i suoi sudditi”, commenta Zolotarev a Strana.

Le autorità rischiano non solo perdite di reputazione, prevede.

E non è nemmeno detto che molti cittadini ucraini all’estero “metteranno i loro passaporti in uno scaffale lontano”.

“A causa di questa politica, la mobilitazione appare agli occhi dei cittadini con i colori più scuri. Vedono che le autorità sono pronte a prendere le misure più severe. Ne vedremo le conseguenze in termini di calo del rating del presidente, del governo e delle autorità in generale. La negatività si sta accumulando nella società e può concretizzarsi in aggressioni. Stiamo già sentendo i campanelli d’allarme. Non sarebbe esagerato dire che ora molte persone stanno pensando a come vivere meglio, a come uscire dalla “fossa” attuale. E per alcuni questa scelta non è legata all’Ucraina. Probabilmente le autorità se ne rendono conto decidendo di aumentare il numero di guardie di frontiera contemporaneamente alla cancellazione dei servizi consolari”, ha detto Zolotariov.

Anche il politologo Bortnik richiama l’attenzione sui punti di vista opposti sulla necessità di servire. “Si percepisce la spaccatura della società a questo proposito. Sia i sostenitori che gli oppositori della mobilitazione della forza sono, ovviamente, ostaggio della situazione. Ma la divisione tra chi ha servito e chi no, tra chi ha aiutato al fronte e chi si è “seduto fuori” può manifestarsi per molto, molto tempo dopo la guerra, aumentando il conflitto nella società”, ritiene l’esperto.

Tuttavia, le conseguenze possono essere più ampie. Tra cui l’atteggiamento della popolazione nei confronti delle prospettive della guerra e delle opzioni per la sua fine. Gli esperti ritengono che ciò potrebbe colpire il morale della società e aumentare il numero di coloro che sono favorevoli a terminare la guerra il prima possibile.

FONTE: https://strana.news/articles/analysis/463048-vlijanie-zapreta-na-konsulskie-usluhi-na-khod-vojny-i-mobilizatsii-v-ukraine.html

Articolo del 26 Aprile 2024

(Traduzione: cambiailmondo.org)

L’Ucraina ha dichiarato al Consiglio d’Europa che non rispetterà tutti i diritti umani durante la guerra

Il 4 aprile 2024, l’Ucraina ha presentato al Consiglio d’Europa una dichiarazione scritta sulla deroga parziale all’osservanza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà.

La notizia è riportata sul sito web del Consiglio.

La dichiarazione afferma che durante la legge marziale, i diritti umani sanciti da una serie di articoli della Costituzione possono essere limitati. Tra questi, il diritto a libere elezioni.

Gli articoli della Costituzione soggetti a restrizioni garantiscono:

– L’inviolabilità del domicilio (articolo 30);

– Segretezza della corrispondenza, delle conversazioni telefoniche e di altri scambi epistolari
(art. 31);

– Non interferenza nella vita privata e familiare (art. 32);

– Libertà di movimento, libera scelta del luogo di residenza e diritto di lasciare e tornare liberamente nel territorio ucraino (art. 33);

– Il diritto alla libertà di pensiero e di parola, alla libera espressione di opinioni e convinzioni, e il diritto di raccogliere, conservare, utilizzare e diffondere liberamente le informazioni (art. 34);

– Il diritto di partecipare alla gestione degli affari pubblici, ai referendum, il diritto di eleggere ed essere eletti liberamente negli organi di governo statali e locali e la parità di accesso ai servizi pubblici (art. 38);

– Il diritto di tenere riunioni, comizi, marce e dimostrazioni e il diritto di sciopero (artt. 39 e 44);

– Il diritto di possedere, usare e disporre dei propri beni (art. 41);

– Il diritto all’imprenditorialità e al lavoro (artt. 42 e 43);

– Il diritto all’istruzione (art. 53).

Il documento elenca inoltre le misure applicate in Ucraina che, durante la legge marziale, possono essere considerate una deroga alla Convenzione per la protezione dei diritti umani e al Patto internazionale sui diritti civili e politici. In particolare:

– L’alienazione forzata di proprietà private o comunali per le esigenze dello Stato;
l’imposizione del coprifuoco;

– Regimi speciali di ingresso e uscita, restrizioni alla circolazione dei cittadini, degli stranieri e degli apolidi e alla circolazione dei mezzi di trasporto,

– Ispezione degli effetti personali dei cittadini, dei trasporti, dei bagagli, delle merci, degli uffici e delle abitazioni;

– Divieto di assemblee pacifiche, riunioni, marce, dimostrazioni e altri eventi;

– Divieto o restrizione nella scelta del luogo di soggiorno o di residenza;

– Divieto per i cittadini iscritti nei registri militari o speciali di cambiare il luogo di residenza o di soggiorno senza un’adeguata autorizzazione;

– Istituzione di una tassa militare per le persone fisiche e giuridiche.

Il Ministro della Giustizia Denys Malyuska ha commentato la lettera dell’Ucraina al Consiglio d’Europa sulla restrizione dei diritti umani. Secondo il ministro, si tratta di una pratica comune per un Paese belligerante: dopo il 24 febbraio 2022, l’Ucraina aveva già inviato al Consiglio d’Europa avvertimenti sulla restrizione dei diritti, mentre nell’attuale lettera l’elenco di tali restrizioni è stato ridotto.

“Abbiamo inviato un messaggio sulla possibilità di applicare restrizioni ad alcuni diritti quasi immediatamente dopo l’introduzione della legge marziale nel 2022 – questo fa parte dei nostri obblighi internazionali (tali messaggi sono stati inviati dal 2015). Non si tratta di una novità: è quello che fanno tutti i Paesi in guerra. E nell’aprile del 2024 abbiamo nuovamente chiarito l’elenco delle restrizioni esistenti e lo abbiamo ridotto”, ha scritto Maliushka su Facebook.

FONTE: https://strana.news/news/463353-ukraina-podala-v-sovet-evropy-pismennoe-zajavlenie-o-chastichnom-otstuplenii-ot-sobljudenija-evropejskoj-konventsii.html

Articolo del 28 Aprile 2024

(Traduzione: cambiailmondo.org)

COLONIALISMO: come la Palestina divenne dipendente da Israele

100 ANNI Dal mandato britannico a oggi: l’estrazione di valore a favore dell’economia israeliana, aiutata da leggi e forza militare, ha impoverito i palestinesi e li ha messi alla mercé del “vicino”

di Clara Mattei (da Il Fatto Quotidiano, 29/04/24)

Nel suo magistrale libro Jaccuse (Fuoriscena), in cui mette in luce la violenza strutturale della colonizzazione e la violazione di diritti umani perpetrata da Israele, la special rapporteur delle Nazioni Unite Francesca Albanese riproduce la giornata tipo di un lavoratore palestinese: “Alle 7.30 ti svegli, vuoi fare una doccia ma l’acqua la devi comprare da Mekorot, l’azienda idrica di Israele, che ha preso il controllo dell’80% delle risorse idriche della West Bank.
Alle 8.30 sali in auto per andare al lavoro, in un percorso simbolico, come può essere quello da Betlemme a Ramallah. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha una rete di 97 check-point fissi e centinaia di posti di blocco ‘volanti, che compaiono e scompaiono senza preavviso.
Lunghe code, controllo documenti, spesso chiusure — collettive o verso singole persone senza spiegazioni. Ogni lavoratore palestinese deve muoversi da casa con largo anticipo.
In pausa pranzo, per comprare un panino o fare la spesa, si usa solo lo shekel israeliano, non avendo Mai avuto una moneta palestinese.
Magari devi tare benzina, solo da gestori israeliani, che hanno il totale controllo delle risorse energetiche. Se lavori con l’estero, qualsiasi viaggio tu voglia fare, per qualsiasi motivo, dipende dall’autorizzazione che ti sarà eventualmente concessa da Israele, che controlla tutti i punti di accesso e di uscita dalla Palestina”.

QUESTA IMMAGINE è emblematica di una ultra-decennale storia di oppressione economico-politica, che gli economisti critici chiamano “teoria della dipendenza”: la vicinanza geografica tra Israele e Palestina ne è un caso da manuale. L’idea fondamentale è quella per cui lo “sviluppo” delle nazioni ricche non accade in maniera indipendente, ma deriva dall’attiva creazione di “povertà” in quelle povere. La struttura economica della periferia (Palestina) è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro (Israele). Prova ne sia il Pil di Israele: il doppio di quello palestinese nel 1967, oltre 14 volte tanto nel 2022 (in valori assoluti oggi e quasi 20 volte quello palestinese).
L’economia palestinese ha perso nel tempo un‘autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola. L’estrazione di valore è dunque oggi tutta a favore dello Stato ebraico, che ne beneficia in un doppio senso: Riceve risorse naturali, materie prime e forza lavoro da un lato; ha a disposizione un mercato per le proprie merci dall’altro. La Palestina deve infatti importare i più costosi beni finiti sviluppando un deficit commerciale che ne aumenta la vulnerabilità economica e monetaria: negli ultimi cinquant’anni il 75-80% di tutti i beni importati ed esportati dalla Palestina sono stati scambiati con l’economia israeliana; nel 50% dei casi impor palestinese ha riguardato beni in passato prodotti in Palestina (abbigliamento, calzature, bibite, mobili, eccetera).

Per studiare il fenomeno della dipendenza economica palestinese, e quanto sia inscindibile da chiare decisioni politiche, dobbiamo fare un passo indietro e guardare agli anni del mandato britannico (1922-1947). La Gran Bretagna, in collaborazione con le organizzazioni sioniste del tempo (Palestine Jewish Colonization Association, The Jewish National Fund, The Palestine Land Development Company e via elencando), ebbe un ruolo cruciale nel plasmare l’economia dell’area in direzione capitalistica: facilitò la crescita dell’industria israeliana e la proletarizzazione dei palestinesi, allontanandoli dalla terra che costituiva la base della loro economia di sussistenza.

La terra acquistata dalle organizzazioni sioniste fu censita come “terra soltanto per ebrei’, non più vendibile ai non ebrei. Gli inglesi favorirono, inoltre, grandi donazioni e investimenti per le industrie ebraiche.
E ancora: l’impero britannico richiese le tasse agricole in denaro, causando l’indebitamento dei contadini palestinesi e costringendoli a prendere denaro in prestito, rendendoli cosi pià dipendenti dal mercato. D’altro canto, la Gran Bretagna assicurò fondamentali concessioni sulle risorse naturali alle compagnie ebraiche: la Rutenberg Electricity Company (1922), la la Atlit Salt Company (1929) e la Palestine Potash Company (1929),società – quest’ultima – di estrazione mineraria.
LA POLITICA DISEGUALE dei dazi giocò poi un ruolo fondamentale per creare le condizioni dipendenza palestinesi. Gli inglesi mandatari abolirono i dazi sulle merci prodotte da ebrei e sulle importazioni di materie prime, mentre imposero alte tariffe sulle merci che potevano competere con I’industria ebraica. Il trattamento opposto fu riservato all’industria araba, con l’imposizione di alte tariffe sul sapone e l’olio di oliva, i loro primari settori economici. Non solo: la “open border policy”, già sperimentata in India, comportò che i contadini palestinesi non fossero più in grado di competere coi prodotti agricoli importati, aumentando il loro debito e portandoli a vendere le terre a grandi proprietari terrieri.
Venticinque anni dopo, al momento del piano di partizione del 1947 e della guerra del 1948 – la Nakba, “la catastrofe” degli arabi, durante la quale ”80% della popolazione palestinese divenne profuga e più di 700 villaggi furono distrutti – il peso dell’economia ebraica era molto più forte della sua controparte araba: la quota ebraica della produzione nazionale era del 53%, ma quella della produzione industriale dell’89% e gli investimenti in capitale I’88% di quelli totali.
Il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica fu però l’occupazione del 1967, in cui la Palestina fu ridotta al 22% del territorio rispetto alla Palestina del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Tra le varie ordinanze militari emesse da Israele si possono ricordare quelle che stabilirono la chiusura di tutte le banche operanti in Cisgiordania tranne due, poste sotto supervisione israeliana; o l’impossibilità di importare nuove macchine (l’unica opzione era acquistarle di seconda mano); o ancora quelle che misero in atto una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni, in vigore ancora oggi, che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale. Tra il 2016 e il 2018, le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% dei permessi di costruzione nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania.

Da allora la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori per proteggere l’agricoltura israeliana.
Ogni commercio col resto del mondo deve passare attraverso Israele ed essere gestito da personale israeliano: qualsiasi Merce importata o esportata da singoli o da imprese palestinesi passa dalla dogana israeliana, che può bloccare e tutto e che da anni trattiene i dazi doganali invece di girarli come da Accordi di Oslo all’Autorità nazionale palestinese. Per di più le autorità israeliane hanno proibito gli investimenti da Israele – o dall’estero – nell’economia palestinese e l’esercito israeliano ha esercitato il pieno controllo sui bilanci in Cisgiordania e Gaza, compresa la tassazione e la raccolta: i palestinesi sono stati costretti a pagare imposte sul reddito dal 3 al 10% più alte rispetto a quelle applicate agli israeliani per la stessa fascia di reddito.

L’OCCUPAZIONE MILITARE ha confiscato nel tempo vaste aree di terre pubbliche e private palestinesi per la costruzione di insediamenti e riserve naturali.
Alla meta degli anni 80, il 39% della Cisgiordania e circa il 31% della Striscia di Gaza erano state Mappate come terre statali israeliane: secondo il gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, durante i primi 36 anni di occupazione Israele sequestro quasi 200mila ettari di terre palestinesi affittandole a enti, associazioni e privati per la costruzione di insediamenti.

Le confische di terreni e le restrizioni al commercio e agli investimenti causarono il collasso dell’agricoltura palestinese, che un tempo impiegava gran parte della forza lavoro autoctona: nel 1967 l’economia agricola nei Territori assorbiva quasi il 40% della forza lavoro, nel 1993 degli Accordi di Oslo meno del 20%. Comunità autosufficienti videro scomparire i loro mezzi di sostentamento e il risultato fu una diffusa “proletarizzazione” della società palestinese: molti passarono dall’essere lavoratori autonomi nell’agricoltura locale a salariati nell’economia israeliana. Nei primi vent’anni dell’occupazione, la percentuale di individui che cercavano lavoro all’interno di Israele o dei suoi insediamenti aumentò in modo esponenziale: da pressoché zero prima del 1967 a circa il 40% nel 1987, quando scoppio la Prima Intifada.

IL LAVORO PALESTINESE serve Israele in molteplici modi. La presenza di un grosso esercito industriale di riserva riduce i costi dei salari e garantisce sufficiente estrazione di plusvalore per l’industria israeliana.
Come ha detto un imprenditore al giornale Haaretz: “E quasi impossibile licenziare un lavoratore israeliano o spostarlo senza il suo permesso e un aumento del salario, invece un lavoratore arabo è eccezionalmente mobile, può essere licenziato senza preavviso e spostato da un luogo all’altro. Non fanno scioperi, non presentano richieste.

La riduzione dei costi di produzione permette di vendere merci a prezzi migliori: è dunque un vantaggio competitivo rispetto all’estero, Palestina compresa, ma come spiega Ibrahim Shikaki, professore di economia al Trinity College in Connecticut, l’esercito industriale di riserva palestinese aiuta anche a togliere potere contrattuale ai lavoratori israeliani.

Come già fu in Sud Africa, i palestinesi sono autorizzati a lavorare solo per il datore di lavoro indicato sul loro permesso (che contiene i dettagli di entrambi), a viaggiare solo nell’area del loro lavoro e devono rientrare entro un determinato orario, pena l’arresto. I permessi sono carte biometriche necessarie per attraversare i check-point, in alcuni dei quali Israele ha implementato per i palestinesi il riconoscimento facciale automatico con l’intelligenza artificiale.

I flussi di lavoro palestinese verso Israele hanno coinvolto negli anni fino al 40% dei lavoratori della Striscia di Gaza e il 30% di quelli della Cisgiordania, dove ancora oggi sono più di 200mila: “Una volta che si sottrae una cosi massiccia forza lavoro a un’economia, non può che conseguirne miseria”, spiega al Fatto il professor Shikaki, i cui studi mostrano chiaramente che il tasso di disoccupazione palestinese è ormai strettamente correlato al ciclo economico di Israele. Con un corollario non da poco: “Oggi poi, sotto le bombe e col blocco totale delle frontiere, non si può neppure più lavorare..”.

FONTE. Il Fatto Quotidiano, 29 Aprile 2024

Libertà accademica I ragazzi lo sanno: la ricerca va decolonizzata (cioè de-sionizzata)

di IAIN C HAMBERS

Forse, di fronte a uno Stato che persegue la pulizia etnica con intenzioni genocide, che rifiuta il diritto internazionale e si considera al di sopra delle decisioni delle Nazioni unite comportandosi come uno «Stato canaglia», è giunto il momento di parlare di come affrontare direttamente Israele. Se appartiene all’Occidente moderno e democratico, come sostiene, ha bisogno di una seria riforma o altrimenti di essere messo in quarantena.

La questione non deve essere semplicemente dominata dalle relazioni internazionali, richiede una risposta etica e democratica. Siamo chiari. Il sionismo, in quanto impresa esplicitamente coloniale – e i suoi fondatori non hanno avuto remore a riconoscerlo – non può essere democratico nelle sue intenzioni. La protezione del suo dominio etnocratico richiede la purezza razziale e l’apartheid, ora incarnati nel suo apparato giuridico e nella sua costituzione.

L’opposizione a questa critica di Israele, invariabilmente etichettata come antisemitismo, è essa stessa un attacco alla democrazia e alla ricerca della giustizia storica nell’analisi sociale e politica.

In questo momento, l’ideologia sionista e la sua occupazione militare della Palestina stanno perseguendo, come in tutti i colonialismi, l’eliminazione dei nativi, proprio come in precedenza nell’imperium anglofono del Nord America, dell’Australia e del Sudafrica.

La formazione violenta delle identità occidentali produce storie taciute e geografie dimenticate. Tuttavia, come ci insegnano i palestinesi, queste storie resistono e persistono.

All’Orientale di Napoli il 23 aprile scorso si è tenuto un importante seminario su «Israele, l’industria delle armi e il ruolo dell’università». Tra i contributi, c’era la presentazione dell’accademica israeliana Nurit Peled el-Hanan sul genocidio simbolico dei palestinesi nei libri scolastici israeliani. In questi testi, controllati e approvati dal ministero dell’Istruzione israeliano, non ci sono singoli palestinesi, ma solo una categoria anonima e disumanizzata chiamata arabi.

Tra i palestinesi non ci sono scienziati, artisti, accademici o politici, ma solo un gruppo etnicamente distinto che minaccia la vita di Israele con il suo sottosviluppo e il suo terrorismo: il nemico del moderno Israele e del progetto sionista di civiltà occidentale. Questa semiotica pedagogica, come ha illustrato in dettaglio Nurit Peled el-Hanan, è centrale nei meccanismi di razzializzazione di uno Stato di apartheid, nella sua educazione fascista (parole sue) e nel suo dominio militare sui colonizzati. Dire la verità al potere in questo modo ha un prezzo.

Nurit Peled el-Hanan è stata recentemente sospesa dal suo incarico universitario. Oggi le università israeliane si dichiarano esplicitamente sioniste. Insistono sul fatto che il loro ruolo è quello di difendere il sionismo e la narrativa dello Stato etnonazionalista. Alla faccia della scientificità e della neutralità accademica.

Ora, questa narrazione non è limitata a un piccolo ma potentissimo Stato del Mediterraneo orientale. È stata adottata per decenni in tutto l’Occidente. Anzi, è stata storicamente coltivata fin dalle prime mappature del mondo all’inizio del XIX secolo, soprattutto da parte della Londra imperiale.

Quello che l’intellettuale palestinese Edward Said, formatosi a Princeton e Harvard, ha definito in tempi più recenti «orientalismo», si è sedimentato nel senso comune dei pronunciamenti politici e culturali in Europa e Nord America: dalla Casa Bianca agli studi televisivi e ai giornali. Contestare questa configurazione di conoscenza e la sua gestione del globo significa inevitabilmente impegnarsi in una discussione con la nostra società e con la creazione di noi stessi.

Come ha detto acutamente James Baldwin: «Proprio nel momento in cui inizi a sviluppare una coscienza, devi trovarti in guerra con la tua società».
Mi piace pensare che questo sia un riassunto preciso di quello che è il lavoro critico e analitico. È anche il momento in cui si devono fare i collegamenti impensabili, ormai che la cortina di fumo liberale evapora e assistiamo all’esercizio brutale del potere nudo, tra il campo di sterminio di Gaza e l’esecuzione giuridica dei migranti nel Mediterraneo.

La conclusione è che le istituzioni occidentali, gli enti governativi, le agenzie di ricerca e le università, insieme alla più ovvia partecipazione dei produttori di armi, delle aziende tecnologiche e dei servizi finanziari, sono parte integrante di un apparato coloniale. Se la trasformazione del conflitto in capitale è una cosa, sostenuta in modo ipocrita dalla ricerca del benessere economico, la sua analisi critica è un’altra. Gli studenti qui in Italia e, soprattutto, nei campus americani, stanno giustamente insegnando ai loro insegnanti e amministratori quest’ultima prospettiva. Per evocare Hannah Arendt, stanno tirando fuori dai denti della storia ufficiale una narrazione più onesta e democratica della condizione umana.

FONTE: Il Manifesto del 27.04.2024

Yanis Varoufakis: Il discorso che mi ha fatto bandire dalla Germania

Olaf Kosinsky, CC BY-SA 3.0 DE , via Wikimedia Commons

Oggi, a Yanis Varoufakis è stato vietato non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a videoconferenze sulla politica ospitate in Germania. Ecco l’appello per l’umanità e la giustizia in Palestina che lo ha portato al bando.

di Yanis Varoufakis

Oggi, il ministero degli Interni tedesco ha emesso contro di me un “betätigungsverbot”, un divieto di qualsiasi attività politica, non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a eventi Zoom ospitati nel paese. Non posso nemmeno avere un mio video registrato riprodotto agli eventi tedeschi.

I problemi sono iniziati sul serio ieri, quando la polizia tedesca ha fatto irruzione in una sede di Berlino per sciogliere il nostro congresso sulla Palestina, ospitato dal Movimento per la Democrazia in Europa 2025 (DiEM25). Giudicate voi stessi che tipo di società sta diventando la Germania se la sua polizia mette al bando i sentimenti riportati di seguito.

Congratulazioni e ringraziamenti di cuore per essere qui – nonostante le minacce, nonostante la polizia corazzata fuori da questa sede, nonostante la panoplia della stampa tedesca, nonostante lo Stato tedesco, nonostante il sistema politico tedesco che ti demonizza per essere qui.

“Perché un congresso palestinese, signor Varoufakis?” mi ha chiesto recentemente un giornalista tedesco. Perché, come disse una volta Hanan Ashrawi, “non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che sono messi a tacere ci parlino della loro sofferenza”.

Oggi, la ragione di Ashrawi è diventata tristemente più forte, perché non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che vengono messi a tacere, anch’essi massacrati e affamati, ci parlino dei massacri e della fame.

Ma c’è anche un’altra ragione: perché un popolo orgoglioso e rispettabile, il popolo tedesco, viene condotto lungo una strada pericolosa verso una società senza cuore, essendo costretto ad associarsi a un altro genocidio compiuto in suo nome, con la sua complicità.

Non sono né ebreo né palestinese. Ma sono incredibilmente orgoglioso di essere qui tra ebrei e palestinesi – per unire la mia voce per la pace e i diritti umani universali con le voci ebraiche per la pace e i diritti umani universali, con le voci palestinesi per la pace e i diritti umani universali. Essere qui insieme oggi è la prova che la convivenza non solo è possibile, ma che esiste già.

“Perché non un congresso ebraico, signor Varoufakis?” mi ha chiesto lo stesso giornalista tedesco, immaginando che facesse il furbo. Ho accolto con favore la sua domanda.

Perché se un singolo ebreo viene minacciato, ovunque, solo perché è ebreo, indosserò la Stella di David sul bavero e offrirò la mia solidarietà, qualunque sia il costo, qualunque sia il costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Quindi cerchiamo di essere chiari: se gli ebrei fossero sotto attacco, in qualsiasi parte del mondo, sarei il primo a sollecitare un congresso ebraico in cui registrare la nostra solidarietà.

Allo stesso modo, quando i palestinesi vengono massacrati perché sono palestinesi – secondo il dogma secondo cui per essere morti e palestinesi devono essere stati Hamas – indosserò la mia kefiah e offrirò la mia solidarietà a qualunque costo, a qualunque costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Con questo in mente, ho risposto alla domanda del giornalista tedesco con alcune delle mie:

  • Due milioni di ebrei israeliani, che furono cacciati dalle loro case e rinchiusi in una prigione a cielo aperto ottant’anni fa, sono ancora tenuti in quella prigione a cielo aperto, senza accesso al mondo esterno, con cibo e acqua minimi, senza alcuna possibilità? di una vita normale o di viaggiare ovunque, pur essendo bombardato periodicamente per questi ottant’anni? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono fatti morire di fame intenzionalmente da un esercito di occupazione, mentre i loro figli si contorcono sul pavimento, urlando dalla fame? NO.
  • Ci sono migliaia di bambini ebrei feriti senza genitori sopravvissuti che strisciano tra le macerie di quelle che erano le loro case? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono bombardati dagli aerei e dalle bombe più sofisticati del mondo? NO.
  • Gli ebrei israeliani stanno vivendo un totale ecocidio di quella piccola terra che possono ancora chiamare propria, senza un solo albero sotto il quale possano cercare ombra o di cui possano gustare i frutti? NO.
  • I bambini ebrei israeliani vengono uccisi oggi dai cecchini per ordine di uno stato membro delle Nazioni Unite (ONU)? NO.
  • Oggi gli ebrei israeliani vengono cacciati dalle loro case da bande armate? NO.
  • Israele sta lottando per la propria esistenza oggi? NO.

Se la risposta a una qualsiasi di queste domande fosse sì, oggi parteciperei a un congresso di solidarietà ebraica.

Oggi ci sarebbe piaciuto avere un dibattito dignitoso, democratico e reciprocamente rispettoso su come portare la pace e i diritti umani universali a tutti – ebrei e palestinesi, beduini e cristiani – dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo con persone che la pensano diversamente da noi. noi.

Purtroppo l’intero sistema politico tedesco ha deciso di non permetterlo. In una dichiarazione congiunta alla quale partecipano non solo la CDU-CSU (Unione Cristiano-Democratica-Unione Cristiano-Sociale della Baviera) e il FDP (Partito Democratico Libero), ma anche l’SPD (Partito Socialdemocratico), i Verdi e, sorprendentemente, due leader del partito Die Linke (La Sinistra), lo spettro politico tedesco ha unito le forze per garantire che un dibattito così civile, sul quale possiamo essere piacevolmente in disaccordo, non abbia mai luogo in Germania.

Dico loro: volete metterci a tacere, metterci al bando, demonizzarci, accusarci. Pertanto non ci lasci altra scelta se non quella di rispondere alle tue ridicole accuse con le nostre razionali accuse. Hai scelto questo, non noi.

Ci accusate di odio antisemita. Ti accusiamo di essere il migliore amico dell’antisemita equiparando il diritto di Israele a commettere crimini di guerra con il diritto degli ebrei israeliani a difendersi.

Ci accusate di sostenere il terrorismo. Ti accusiamo di equiparare la legittima resistenza a uno stato di apartheid alle atrocità contro i civili che ho sempre e sempre condannerò, chiunque le commetta: palestinesi, coloni ebrei, la mia stessa famiglia, chiunque. Vi accusiamo di non riconoscere il dovere del popolo di Gaza di abbattere il muro della prigione a cielo aperto in cui è stato rinchiuso per ottant’anni – e di equiparare questo atto di abbattere il muro della vergogna, che non è più difendibile di fu il Muro di Berlino, con atti di terrore.

Ci accusate di banalizzare il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Vi accusiamo di banalizzare gli ottant’anni di pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele e l’erezione di un ferreo sistema di apartheid in tutto Israele-Palestina. La accusiamo di banalizzare il sostegno a lungo termine di Benjamin Netanyahu a Hamas come mezzo per distruggere la soluzione dei due Stati che lei sostiene di favorire. Vi accusiamo di banalizzare il terrore senza precedenti scatenato dall’esercito israeliano sulla popolazione di Gaza, in Cisgiordania. e Gerusalemme Est.

Lei accusa gli organizzatori del congresso di oggi di essere, cito testualmente, “non interessati a parlare delle possibilità di coesistenza pacifica in Medio Oriente nel contesto della guerra a Gaza”. Sei serio? Hai perso la testa?

Vi accusiamo di sostenere uno Stato tedesco che è, dopo gli Stati Uniti, il più grande fornitore delle armi che il governo Netanyahu usa per massacrare i palestinesi come parte di un grande piano per realizzare una soluzione a due Stati e una coesistenza pacifica tra ebrei e Palestinesi, impossibile. La accusiamo di non aver mai risposto alla domanda pertinente a cui ogni tedesco deve rispondere: quanto sangue palestinese dovrà scorrere prima che il suo giustificato senso di colpa per l’Olocausto venga lavato via?

Cerchiamo quindi di essere chiari: siamo qui a Berlino con il nostro congresso palestinese perché, a differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li sta perpetrando. Perché ci opponiamo all’apartheid nella terra di Israele-Palestina, non importa chi abbia il sopravvento, proprio come ci siamo opposti all’apartheid nel Sud americano o in Sud Africa. Perché sosteniamo i diritti umani universali, la libertà e l’uguaglianza tra ebrei, palestinesi, beduini e cristiani nell’antica terra di Palestina.

A differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, noi condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li perpetra.

E così abbiamo ancora più chiare le domande, legittime e maligne, a cui dobbiamo essere sempre pronti a rispondere:

Condanno le atrocità di Hamas?

Condanno ogni singola atrocità, chiunque ne sia l’autore o la vittima. Ciò che non condanno è la resistenza armata a un sistema di apartheid concepito come parte di un programma di pulizia etnica a combustione lenta ma inesorabile. In altre parole, condanno ogni attacco ai civili e, allo stesso tempo, celebro chiunque rischi la propria vita per abbattere il muro.

Israele non è forse impegnato in una guerra per la sua stessa esistenza?

No non lo è. Israele è uno stato dotato di armi nucleari con forse l’esercito tecnologicamente più avanzato del mondo e con la panoplia della macchina militare statunitense alle sue spalle. Non c’è simmetria con Hamas, un gruppo che può causare gravi danni agli israeliani ma non ha alcuna capacità di sconfiggere l’esercito israeliano, o anche solo di impedire a Israele di continuare ad attuare il lento genocidio dei palestinesi sotto il sistema di apartheid che è stato eretto con sostegno di lunga data da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

Gli israeliani non sono forse giustificati a temere che Hamas voglia sterminarli?

Certo che lo sono! Gli ebrei hanno subito un Olocausto che è stato preceduto da pogrom e da un radicato antisemitismo che ha permeato per secoli l’Europa e le Americhe. È naturale che gli israeliani vivano nel timore di un nuovo pogrom se l’esercito israeliano dovesse piegarsi. Tuttavia, imponendo l’apartheid ai propri vicini e trattandoli come subumani, lo Stato israeliano sta alimentando il fuoco dell’antisemitismo e rafforzando palestinesi e israeliani che vogliono solo annientarsi a vicenda. Alla fine, le sue azioni contribuiscono alla terribile insicurezza che divora gli ebrei in Israele e nella diaspora. L’apartheid contro i palestinesi è la peggiore autodifesa degli israeliani.

E l’antisemitismo?

È sempre un pericolo chiaro e presente. E deve essere sradicato, soprattutto tra le fila della sinistra globale e tra i palestinesi che lottano per le libertà civili palestinesi in tutto il mondo.

Perché i palestinesi non perseguono i loro obiettivi con mezzi pacifici?

Loro fecero. L’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) riconobbe Israele e rinunciò alla lotta armata. E cosa hanno ottenuto in cambio? Umiliazione assoluta e pulizia etnica sistematica. Questo è ciò che ha nutrito Hamas e lo ha elevato agli occhi di molti palestinesi come l’unica alternativa a un lento genocidio sotto l’apartheid israeliano.

Cosa si dovrebbe fare adesso? Cosa potrebbe portare la pace in Israele-Palestina?

  • Un cessate il fuoco immediato.
  • Il rilascio di tutti gli ostaggi: quelli di Hamas e le migliaia detenuti da Israele.
  • Un processo di pace, sotto la guida delle Nazioni Unite, sostenuto dall’impegno della comunità internazionale a porre fine all’apartheid e a salvaguardare pari libertà civili per tutti.
  • Per quanto riguarda ciò che dovrà sostituire l’apartheid, spetta a israeliani e palestinesi decidere tra la soluzione dei due Stati e la soluzione di un unico Stato federale laico.

Amici, siamo qui perché la vendetta è una forma pigra di dolore.

Siamo qui per promuovere non la vendetta ma la pace e la coesistenza in tutto Israele-Palestina.

Siamo qui per dire ai democratici tedeschi, compresi i nostri ex compagni di Die Linke, che si sono coperti di vergogna abbastanza a lungo – che due errori non fanno una cosa giusta – e che permettere a Israele di farla franca con i crimini di guerra non migliorerà la situazione l’eredità dei crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Al di là del congresso di oggi, in Germania abbiamo il dovere di cambiare il discorso. Abbiamo il dovere di persuadere la stragrande maggioranza dei tedeschi perbene che ciò che conta sono i diritti umani universali. Questo mai più significa mai più per nessuno. Ebrei, palestinesi, ucraini, russi, yemeniti, sudanesi, ruandesi: per tutti, ovunque.

In questo contesto, sono lieto di annunciare che il partito politico tedesco MERA25 di DiEM25 sarà sulla scheda elettorale delle elezioni del Parlamento Europeo del prossimo giugno, cercando il voto degli umanisti tedeschi che desiderano un membro del Parlamento Europeo che rappresenti la Germania e che chieda all’UE complicità nel genocidio, una complicità che è il più grande dono dell’Europa agli antisemiti in Europa e oltre.

Saluto tutti voi e suggerisco di non dimenticare mai che nessuno di noi è libero se uno di noi è in catene.

DISCORSO DEL DR. GHASSAN ABU SITTAHALLA SUA NOMINA DI RECTOR DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW

Dr. Ghassan Abu-Sittah during his address at the University of Glasgow following his landslide victory as Rector with 80% of the vote, April 11, 2024. (Photo: The University of Glasgow)

L’11 aprile, il dottor Ghassan Abu-Sittah è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione schiacciante con l’80% dei voti.

Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del Dr. Abu-Sittah.

“Ogni generazione deve scoprire la sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati gli arti.
Hanno votato per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e 12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

All’inizio del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale globale sta esaminando la gestione delle popolazioni in eccesso.
Si sono schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da cecchino – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.

Quindi, in realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata ceduta da uno dei precedenti rettori dell’Università di Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dell’Università di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920, mio nonno Sheikh Hussain costruì una scuola con i suoi soldi nel piccolo villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì ha gettato le basi per una relazione che ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio 1nonno furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.

L’anno dopo la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti della sua generazione, si è trasferito nel Golfo per aiutare a costruire il sistema sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.
E fu così che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone al freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come viene modellata la vita delle persone e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel 1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto il genocidio svolgersi.

Tutto quello che sapevo sulle guerre era paragonato a niente di quello che vedevo. Era la differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza, metà dei quali erano bambini. Dopo il mio coming out, gli studenti dell’Università di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come rettore. Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.

Che cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative, sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo. 400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori e presidi e due rettori di università.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto dell’iceberg è costituito da un asse di genocidio. Questo asse del genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari con il paracadute.
Ho anche scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.

  1. I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i quali i bambini palestinesi rimangono insopportabili. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla barbarie di Israele.
  2. Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel prendersi cura del proprio avanzamento personale”.
  3. I terzi sono gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera sull’apatia e non può esistere senza di essa”

Nell’aprile del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e devastare la natura.

Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.
Allora, qual è il nostro piano, questo “selvaggio” e i suoi complici?

Faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.
Il denaro del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.
Ci batteremo per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.
Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.
Combatteremo con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione del popolo palestinese.

Solo questa settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista antisionista ebreo, per antisemitismo.

Durante il volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complicato conta di più”.

90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?” Bene, la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro mondo per cui lottare.

È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari di domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid, sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.
Uno degli scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia famiglia possiamo piangere per i nostri cari.

Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla.

Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish, “Alla nostra terra, ed è un premio di guerra, la libertà di morire per il desiderio e l’incendio e la nostra terra, nella sua notte insanguinata, è un gioiello che brilla per il lontano sul lontano e illumina ciò che è al di fuori di esso…

Quanto a noi, dentro, soffochiamo di più!” E così voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby Sands, “La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

FONTE: https://mondoweiss.net/2024/04/dr-ghassan-abu-sittah-tomorrow-is-a-palestinian-day/

La lunga notte della Repubblica

di Domenico Gallo

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006.

La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni.

Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017).

Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”

(Intervento al convegno del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che si è tenuto il 23 aprile a Roma. Un estratto è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano del 24 aprile con il titolo: Una tempesta perfetta contro la Costituzione)    

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/la-lunga-notte-della-repubblica/

Annotazioni su Black Marxism, con uno o due occhi sulla Sardegna

di Enrico Lobina

Avvertenza

Non ho una conoscenza organica e completa degli studi postcoloniali. Ritengo molto utile conoscerli e studiarli perché ci permettono di fare passi in avanti rispetto al “marxismo bianco”, che ha ancora di più ristretto la capacità di lettura della società di Marx ed Engels. La società ha bisogno di chiavi di lettura, e gli studi postcoloniali lo sono. Anche perché poi, noi, il mondo lo vogliamo cambiare, lo vogliamo più giusto rispetto ad oggi.

“Black marxism – genealogia della tradizione radicale nera” è un libro uscito in lingua inglese nel 1983, e pubblicato per la prima volta in lingua italiana nel 2023, dalla casa editrice Edizioni Alegre. L’autore è Cedric J. Robinson, docente universitario statunitense, e punto di riferimento dei “black studies”. Robinson è venuto a mancare nel 2016.

La traduzione del libro è di Emanuele Gianmarco, e la prefazione e postfazione sono di Miguel Mellino, il quale in questi decenni molto si è prodigato per popolarizzare gli studi postcoloniali in Italia.

Anche perché, proprio in Italia, per ragioni varie, gli studi postcoloniali non hanno suscitato l’interesse, accademico e non solo, registrato in altri paesi dell’Europa occidentale[1]. Rispetto ad un tema che nel libro viene trattato (il sistema schiavistico delle repubbliche marinare), per esempio, Mellino scrive: “non può non colpire, infatti, l’assenza in Italia, diversamente che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, di una ricerca storica sul proprio coinvolgimento nella genesi e nello sviluppo del sistema schiavistico globale moderno. Difficile non interpretare oggi una simile assenza o rimozione, sulla traccia del lavoro di Gloria Wekker, come parte di una tradizionale innocenza bianca italiana”[2].

Il libro, di circa 700 pagine, reinterpreta la storia dell’Europa e degli Stati Uniti, ed in definitiva del mondo non asiatico, alla luce di elementi colpevolmente dimenticati, secondo l’autore, dal pensiero marxista fino a quel momento egemone.

Robinson struttura il libro in parti diverse. Una prima parte è dedicata alla nascita ed alle vicissitudini del radicalismo europeo, al cui interno colloca sicuramente il marxismo, ma anche il nazionalismo.

Già in questa prima parte appare un concetto fondamentale, che sarà una pietra miliare dell’analisi sociale, ancora oggi estremamente utile, per il quale rimarrà famoso probabilmente per sempre: il capitalismo razziale.

Prima di affrontare questo concetto, soffermiamoci su quello di razzialismo. Il razzialismo è una delle caratteristiche più profonde dell’ordinamento della società europea. Non è legato al colore della pelle, in quanto è stato rivolto a tanti popoli che si è inteso dominare e sfruttare, già a partire dal Medioevo. Determinate caste o classi hanno sfruttato ed espropriato i popoli più disparati in nome di una superiorità. Uno degli esempi più conosciuti è quello del popolo irlandese, ma ci potremmo soffermare su tanti altri contesti. Per Robinson:

“Ci sono almeno quattro momenti che dobbiamo tenere a mente nella storia del razzialismo europeo; per due di questi le origini vanno ricercate nella dialettica dello sviluppo europeo, per gli altri due no:

  1. L’ordinamento razziale della società europea a partire dal suo periodo formativo, che si estende nelle epoche medievali e feudali sotto forma di ‘sangue’, credenze e leggende razziali;
  2. La dominazione islamica (ovvero araba, persiana, turca e africana) della civiltà mediterranea e il conseguente ritardo della vita culturale e sociale europea: il Medioevo dei cosiddetti Secoli bui;
  3. L’incorporamento dei popoli africani e asiatici e del Nuovo mondo nel sistema globale emerso dal tardo feudalesimo e col capitalismo mercantile;
  4. La dialettica del colonialismo, della schiavitù piantocratica e della resistenza dal sedicesimo secolo in avanti, e la formazione della manodopera industriale e della manodopera di riserva.

Per convenzione si tende ormai a iniziare l’analisi del razzismo nelle società occidentali con il terzo momento; ignorando interamente il primo e il secondo e facendo i conti solo in parte col quarto”[3].

La necessità di aggiungere l’aggetto “razziale” al sostantivo “capitalismo” è dato dalla sostanziale sottovalutazione, da parte del marxismo bianco, di questi aspetti. Il capitalismo si impone perché è capitalismo razziale, e la schiavitù e la razzializzazione non sono orpelli di uno sviluppo capitalistico, bensì intrinseci alle dinamiche sia di accumulazione originaria che di espansione dello stesso.

Questo concetto arriva sino ai giorni nostri, a società razzializzate in cui la natura proteiforme della società, per riprendere alcuni termini di Franz Fanon, è razzializzata al suo interno, all’interno di quella che una volta era la “metropoli” della colonia. Oggi la segmentazione razziale del lavoro si vive nella ristorazione e nell’industria meccanica dell’Europa e degli Stati Uniti, nell’agricoltura e nella pastorizia. Il colonialismo è formalmente scomparso, ma la razzializzazione è onnipresente.

Il capitalismo senza razzializzazione non sarebbe stato. Il marxismo bianco, compreso quello italiano, quello togliattiano per intenderci, ha obliterano il tema, spesso con l’obiettivo di diventare “forza nazionale”[4].

Si tratta di arricchire e completare una analisi marxista. Come scrive Angela Davis, citata da Mellino nell’introduzione, “‘il termine ‘capitalismo razziale’ […] è stato proposto dal politologo Cedric Robinson come una critica alla tradizione marxista, fondata su quella che egli chiamava la tradizione radicale nera, io credo che tale concetto possa essere anche generativo per continuare a tenere queste due tradizioni intellettuali e attiviste che si sono storicamente intrecciate in una tensione davvero produttiva. Se il nostro scopo sarà cercare di mettere in luce i diversi modi in cui il capitalismo e razzismo si sono storicamente intrecciati, dalle epoche coloniali e dalla schiavitù fino al presente […], non staremo allora operando una semplice distensione del marxismo (per dirla con Fanon), bensì continuando a sviluppare in modo critico le sue intenzioni’. Da questo punto di vista, Black Marxim, soprattutto negli scenari europei, offre notevoli spunti per una decolonizzazione tanto del maxismo occidentale quanto dell’antirazzismo bianco”[5].

Questi ragionamenti sono utili alla Sardegna? Ne sono convinto. Se è vero che è stata prestata poca attenzione al razzismo intra-europeo, è altrettanto vero che, quanto meno a partire dal 1720, è stata prestata poca attenzione al razzismo piemontese verso la Sardegna e i sardi, ritenuti essere inferiori, sostanzialmente sub-umani e, quindi, oggetto di razzializzazione.

Saltando velocemente all’oggi, il politicamente corretto impone che questi termini non si utilizzino più, e che la razzializzazione produttiva si realizzi ma non entri in un discorso pubblico, ma il tema a mio parere rimane. L’Italia ha molti problemi, ed uno è questo: una unificazione nazionale che si è costruita con una sostanziale subordinazione del sud al nord, che oggi si esplica con una emigrazione massiccia di forza lavoro, qualificata e non, per la quale si sono spesi miliardi di euro al Sud e che, successivamente, va a creare plusvalore al Nord[6]. Con tanti saluti alle varie ideologie della CGIA di Mestre e dei loro amici ed alla ideologia del “residuo fiscale”, che oggi partorisce l’autonomia differenziata.

Ma torniamo al libro.

La seconda parte del volume “Le radici del radicalismo nero” è la parte in cui l’analisi storica è più consistente, soprattutto riguardo l’Europa, e su cui sicuramente i modernisti ed i medievalisti più potranno scrivere e dire. L’obiettivo centrale di Robinson, riuscito, è dimostrare che il pensiero radicale nero ha radici, origini, autonome e non dialoganti, quanto meno per secoli, con il pensiero radicale europeo, il quale ha tra le altre cose avuto come risultato il marxismo.

Robinson, anche qua con un aggiornamento necessario, dà voce a chi voce non aveva, gli schiavi e gli africani non schiavizzati, i quali sono stati categorizzati come “negri”, per affermare il loro carattere “sub-umano”.

Robinson passa in rassegna le forme massive di resistenza alla schiavitù, di cui si hanno tracce documentaria già a partire dal seicento, e le localizza territorialmente lungo il continente americano.

Emergono novità eclatanti, quanto meno per il sottoscritto, e mi limito a riportarne una:

“Di continuo, nei rapporti, nelle memorie, nei resoconti ufficiali, nelle testimonianze dirette, nelle vicende di ciascun episodio di questa tradizione, dal sedicesimo secolo fino agli eventi riportati sui quotidiani di un mese fa, di una settimana fa, un aspetto è sempre stato presente e ricorrente: l’assenza di una violenza di massa. Gli osservatori occidentali, spesso sinceri nella loro meraviglia, hanno rimarcato più e più volte come nei moltissimi avvicendamenti fra i neri e i loro oppressori […] i neri abbiano impiegato solo saltuariamente il livello di violenza che essi stessi (gli occidentali) ritenevano adatti all’occasione. Se pensiamo che nel Nuovo mondo del diciannovesimo secolo i circa sessanta bianchi rimasti uccisi nell’insurrezione di Nat Turner abbiano comportato uno degli episodi più gravi di tutto il secolo; se pensiamo che nelle enormi sollevazioni schiavili del 1831 in Giamaica – un paese in cui 300mila schiavi sopravvivevano al dominio di 30mila bianchi – furono accertate soltanto quattordici vittime bianche, quando paragoniamo rivolta dopo rivolta le fortissime e spesso indiscriminate rappresaglie di una civilissima classe padronale (l’impiego del terrore) alla scala di violenza adottata dagli schiavi (e dai loro discendenti oggi) si ha quantomeno l’impressione che in questi popoli così brutalmente oltraggiati esista un ordine diverso e condiviso delle cose”[7].

La seconda parte è propedeutica alla terza, “Radicalismo nero e teoria marxista”, in quanto “La memoria della renitenza nera alla schiavitù e ad altre forme di oppressione, più in dettaglio, è stata metodicamente rimossa o distorta a beneficio di storiografie egemoni razzializzanti ed eurocentriche. La summa di tutto questo è stata la disumanizzazione dei neri” e “la considerazione accordata alla politica rivoluzionaria delle masse nere ha la sua fonte nel radicalismo ‘bianco’”.

Tutta la terza parte è volta, tramite l’esame di alcuni intellettuali di riferimento, a smontare quest convinzione profonda, presente nel marxismo bianco e, più in generale, nelle organizzazioni di classe del XX secolo, ed anche del XXI sui due lati dell’oceano atlantico.

Gli intellettuali esaminati sono William Edward Brughardt Du Bois, abbreviato W.E.B. Du Bois, Cyrill Lionel Robert James, abbreviato C.L.R. James, e Richard Wright.

Robinson discute anche la parabola intellettuale di professori e dirigenti rivoluzionari, che abbracciarono il marxismo e spesso terminarono per acquisire una coscienza più profonda, un pensiero radicale nero.

Robinson lungo tutto il volume, e specialmente in questa terza parte, presenta il dato di fatto che l’élite nera accettò la razzializzazione dei neri, e la usò per potersi ritagliare uno spazio sociale, o di rendita o di intermediazione[8].

Du Bois è stato un grandissimo studioso, ed ha scritto parole non emendabili sulla schiavitù:

“Nelle primissime pagine di Black Reconstruction Du Bois individua subito quale sia per lui la contraddizione fondamentale di tutta la storia americana, quella che avrebbe sovvertito l’ideologia fondante del paese, distorto le sue istituzioni, traumatizzato i rapporti sociali e la formazione delle classi, fino a disorientarne, nel ventesimo secolo, anche i ribelli e rivoluzionari:

sin dal giorno della sua nascita l’anomalia della schiavitù ha infettato una nazione che affermava l’uguaglianza fra tutti gli uomini e ambiva a fondare ogni suo potere di governo sul consenso dei governati. In mezzo a questo coro di proclami vivevano più di mezzo milione di schiavi neri, quasi un quinto di tutti gli abitanti della giovane nazione.

È stato il lavoratore nero, pietra angolare del nuovo sistema economico e del mondo moderno, a portare la guerra civile nell’America del diciannovesimo secolo. Era lui la causa sottintesa, a prescindere da qualsiasi tentativo di individuare nel potere nazionale e in quello dell’Unione le radici del conflitto”[9].

Attraverso le figure dei tre intellettuali citati si esamina anche la storia del rapporto tra il comunismo ortodosso statunitense, ed il Comintern, e la questione nera, o negra, come scriveva allora proprio il Comintern.

Secondo Robinson, “Dopo il 1922, la tutela e la formazione dei quadri neri in Unione Sovietica vennero prese piuttosto seriamente”.

A fine 1928 la “questione negra americana” venne inserita nel rapporto congressuale dal titolo “tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e nelle semi-colonie”. Insomma, il comunismo “ufficiali”, si accetti questa definizione per semplificazione, si accorse della questione negra e la affrontò seriamente.

Ma non bastò. La Terza Internazionale, nel frattempo ideologicamente, politicamente ed organizzativamente egmonizzata dallo stalinismo, non compì quegli sforzi teorici e non ebbe la necessaria dose di coraggio che sarebbe stata necessaria per affrontare, per esempio, quanto scriveva C.L.R. James[10] riguardo Haiti. Nelle parole di Robinson

“Il capitalismo aveva prodotto la sua negazione storica e sociale in entrambi i due poli della sua espropriazione: l’accumulazione capitalistica aveva prodotto il proletariato nel centro manifatturiero; l’accumulazione originaria aveva posto le basi sociali per le masse rivoluzionarie della periferia. Ma ciò che distingueva le formazioni di queste due classi rivoluzionarie era la fonte dei loro sviluppi ideologici e culturali. Mentre il proletariato europeo si era formato attraverso le idee della borghesia  […] ad Haiti e presumibilmente altrove, fra le popolazioni schiave, gli africani avevano costruito la loro propria cultura rivoluzionaria:

E comunque non c’è bisogno di istruzione e di incoraggiamento per coltivare sogni di libertà. Nei riti notturni Voodoo, il loro culto africano, gli schiavi danzavano solitamente al ritmo del canto preferito: […]

Giuriamo di distruggere i bianchi e tutto ciò che posseggono; moriremo piuttosto che infrangere questo voto […]

Siamo davanti a qualcosa di lontanissimo dal modo in cui Marx ed Engels avevano concepito la forza trasformativa e razionalizzante della borghesia. Implicava (e James non se ne accorse) che la cultura, il pensiero e l’ideologia borghese fossero irrilevanti per lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria fra i neri e gli altri popoli del Terzo mondo. Significava rompere con la catena evoluzionistica implicita nel materialismo storico e nella sua dialettica chiusa”[11].

Il lavoro di Robinson, letto a 40 anni dalla sua pubblicazione, per un pubblico italiano oggettivamente lontano da quelle realtà e da quei dibattiti, è importante. Si destruttura la storiografia americana e occidentale. Si pone a critica la tradizione intellettuale socialista ed il marxismo, organizzato e non.

Il movimento radicale nero ha ricreato, con l’impatto con la schiavitù ed il dominio razziale, una chimica collettiva, e personale, che è diventato un movimento sociale (vedi i recenti movimenti Black lives Matter), i quali non affondano le loro radici nel radicalismo europeo.

La categoria di capitalismo razziale resta utilissima, innanzitutto in Europa, sia per il passato che per il presente: “Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale”[12].

Esiste, in altri termini, un vincolo strutturale tra capitalismo e razzismo, che per esempio l’antirazzismo borghese europeo, che poi è quello praticato dalle cosiddette sinistre, non vede.

Ciò non toglie che “Black marxism”, che è un libro del 1983, non vada aggiornato, soprattutto nelle sue analisi storiche, e non sono io in grado di farlo, riguardo ad una messe enorme di studi che hanno approfondito ed introdotto novità riguardo ad una miriade di fenomeni storici analizzati dalla studioso.

Per concludere sul libro ““Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale” e “la questione al cuore del testo: ciò che manca nel marxismo storico, si potrebbe dire, è un’interrogazione più radicale delle origini della civiltà occidentale, così come della sua appartenenza culturale, come movimento teorico-politico, al campo della filosofie europea”.[13]

Postilla – E l’Asia?

L’Asia è completamente assente dal libro di Robinson. È comprensibile. India, Cina, Viet Nam e Giappone, e l’insieme del continente (Russia esclusa) hanno vissuto tra settecento e novecento parabole coloniali diverse rispetto al capitalismo razziale dell’Africa e soprattutto delle Americhe. Non che a quei paesi non si possa adattare il concetto di capitalismo razziale, o che non siano paesi razzializzati, in modi completamente diversi rispetto a quanto possiamo immaginare[14].

La risposta durante il novecento, e questa forse è la ragione del silenzio di Robinson, il quale alla fine aveva comunque un tema ben definito da affrontare, del comunismo asiatico è stata nei fatti diversa rispetto a quella del comunismo ortodosso. In Cina e Viet Nam, infatti, da una parte si aveva una conformazione sociale molto diversa rispetto al capitalismo razzializzato nordamericano ed europeo, perché si aveva un regime coloniale molto duro e con un consenso largo, seppur passivo, tra le élite. Dall’altra, il comunismo cinese e vietnamita è riuscito a far sposare, convivere, e poi far vincere, le loro rispettive “tradizioni radicali” autoctone, con una elaborazione marxista originale, anch’essa autoctona. Da qua la loro vittoria e, probabilmente, la capacità di sopravvivere, insieme al Kerala ed altre realtà, alla caduta del Muro di Berlino



[1] E forse questa è anche una delle ragioni per cui, come da ultimo ha scritto Salvatore Cannavò su Jacobin, “La seconda repubblica si è mangiata la sinistra”. https://jacobinitalia.it/la-seconda-repubblica-si-e-mangiata-la-sinistra/

[2] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 772

[3] Idem, p. 168-169

[4] Per esempio Togliatti ed il PCI decisero di porre in secondo piano, e di non fare emergere come grande questione politica generale, i temi posti sia dall’occupazione delle terre a fine anni quaranta e durante gli anni cinquanta, sia le battaglie contro la emigrazione che, per esempio, vide in Calabria protagonista un gigante del comunismo italiano novecentesco italiano come Paolo Cinanni. Si preferì calcare la mano sul “vento del Nord”, e sostanzialmente non contrastare adeguatamente le emigrazioni di massa dei contadini, mezzadri e semi-proletari del sud Italia, i quali andarono a costituire un segmento lavorativo, parzialmente razzializzato, il quale costituì un serbatoio di manodopera fondamentale per il “miracolo economico italiano”. I “margini” non divennero centrali nell’intervento politico del PCI. Di Paolo Cinanni si veda “Che cos’è l’emigrazione – scritti di Paolo Cinanni”, edito dalla FILEF nel 2016, scaricabile al link https://filef.info/index.php/2017/07/04/che-cose-lemigrazione-scritti-di-paolo-cinanni-e-ora-scaricabile-on-line/

[5] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 18

[6] Sulla emigrazione giovanile qualificata sarda, con qualche riferimento ai costi dell’emigrazione dal sud Italia, cfr. http://www.enricolobina.org/wp/2018/02/04/emigrazione-giovanile-qualificata-in-sardegna-lo-studio/

[7] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 400

[8] Non è successa la stesa cosa per i sardi? La cosiddetta sinistra politica e sindacale sarda, e gli stessi Riformatori Sardi, non sono o aspirano ad essere una élite di mediazione, una membrana che media gli interessi capitalistici italiani per renderli digeribili ai sardi, al contrario della destra, la quale è molto più diretta nella gestione del potere?

Chiaramente questo tema andrebbe approfondito con molta attenzione, al di là dei riferimenti contemporanei. Varrebbe la pena utilizzare la lente di Robinson per discutere della razzializzazione, per esempio, nel settore delle miniere. Consiglio l’articolo di Andria Pili “Capitalismo globale e ordine bianco” rintracciabile qui: https://www.filosofiadelogu.eu/2022/capitalismo-globale-e-ordine-bianco-di-andria-pili/ e, più in generale, tutta l’elaborazione di Filosofia de Logu, https://www.filosofiadelogu.eu/.

[9] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 459.

[10] C.L.R. James è l’autore del libro “I giacobini neri”.

[11] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 614-615.

[12] Idem, p. 722

[13] Idem, pp. 733-735

[14] Chi ha studiato un po’ la Cina sa, anche senza aver studiato il cinese, che il termine straniero in cinese, “lao wai”, è un termine dispregiativo, l’equivalente di “barbaro straniero”.

FONTE: http://www.enricolobina.org/situ/annotazioni-su-black-marxism-con-uno-o-due-occhi-sulla-sardegna/

Gli Usa e il “metodo Giacarta”: il massacro delle popolazioni come politica estera

di Piero Bevilacqua

Chi legge il libro di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta, La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (Einaudi, 2021) ne uscirà con una visione rovesciata della storia mondiale dopo il 1945, e con l’animo sconvolto. È successo anche a me, storico dell’età contemporanea, e testimone del mio tempo, a cui tanti fatti e vicende qui raccontate erano noti. L’autore è un prestigioso giornalista americano, che è stato corrispondente del Washington Post, del Los Angeles Times, del Financial Times, ha scritto per il New York Times e tanti altri giornali americani e inglesi. Già questa appartenenza al giornalismo USA, per quel che racconta di gravissimo in danno dei governi del proprio paese, costituisce una prima garanzia di imparzialità e obiettività. D’altra parte non sarebbe la prima volta. Quello dei giornalisti americani che scavano nelle carte segrete e denunciano le malefatte dei loro governanti è un fenomeno non raro, che fa onore a quei professionisti. È sintomatico dell’onestà di fondo dell’animo e della cultura antropologica di gran parte del popolo americano, comunque ormai ampiamente manipolati. È così clamorosa la contraddizione con gli ideali democratici della loro formazione, che non pochi giornalisti, allorché scoprono azioni omicide segrete del loro Stato, sono spinti a una ribellione morale che li porta a intraprendere vaste indagini e a scrivere libri come questi.

Ma l’autorevolezza del Metodo Giacarta si fonda sullo scrupolo scientifico di Bevins, sulla vastità e rilevanza documentaria delle sue fonti, che sono carte desecretate degli archivi americani e di vari paesi del mondo, pubblicazioni di altri studiosi, registrazioni dirette di riunioni segrete, telegrammi, testimonianze rese dai protagonisti e soprattutto dai sopravvissuti ai massacri ecc. Grazie a questi materiali l’autore ci fa entrare spesso direttamente nel tabernacolo del potere americano, facendoci assistere a conversazioni inquietanti, come quella del 1963, in cui John Kennedy ordina agli uomini della sua amministrazione, che lo informano sulla condotta non gradita del presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem: «fatelo fuori». «Diem venne rapito insieme a suo fratello. I due vennero uccisi a colpi i pistola e a pugnalate nel retro di un furgone blindato». E non meno sconcertanti sono le informazioni che si ricevono su personaggi ai quali, ad esempio, è andata per decenni la nostra simpatia umana e politica. Non si può rimanere indifferenti quando si apprende che dopo il fallito tentativo USA di invadere Cuba alla Baia dei Porci, nel 1961, Robert Kennedy «suggerì di far esplodere il consolato americano per giustificare l’invasione».

Ma in che cosa consiste il rovesciamento della storia ufficiale, da tutti accettata, degli ultimi 70-80 anni di storia mondiale? In breve, a partire dal dopoguerra, gli USA mettono in atto una strategia sempre più perfezionata per controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi che si stavano liberando del colonialismo della Gran Bretagna, della Francia e dell’Olanda. Giova ricordare che in quei paesi, quasi ovunque, si affermano in quegli anni forze politiche nazionaliste che tentano di recuperare e gestire le proprie risorse, con processi di nazionalizzazione, ad esempio delle compagnie petrolifere (come fa in Indonesia il presidente Sukarno), delle miniere, delle piantagioni ecc. A queste riforme di solito si accompagnano programmi di alfabetizzazione della popolazione, costruzione di scuole pubbliche, distribuzione delle terre ai contadini, riforme agrarie. Tali strategie riformatrici di governi che intendono affacciarsi allo sviluppo economico dopo la guerra, seguono una politica equidistante tra Washington e Mosca, anche se talora sono appoggiati dai partiti comunisti nazionali. Ma essi sono guardati con sospetto e ostilità dagli USA che tramano segretamente per il loro rovesciamento. Talora è proprio la scoperta di tale ostilità che porta i dirigenti nazionalisti a guardare con favore e a chiedere appoggio a Mosca o a diventare comunisti, come accadde a Fidel Castro, dopo la fallita invasione americana di Cuba nel 1961.

Spesso a dare il via ai progetti dei colpi di stato sono le pressioni sulle amministrazioni americane delle compagnie petrolifere, o dei grandi proprietari terrieri, che vedono anche semplicemente contrastato il loro vecchio modello di sfruttamento coloniale delle risorse locali. Nel 1954 in Guatemala è il caso della United Fruit Company, sospettata di frodare il fisco. La pretesa del Governo guatemalteco di far rispettare gli obblighi fiscali alla ditta monopolista costò cara al Guatemala. Dopo due falliti colpi di Stato, «la Cia piazzò casse di fucili con l’effige della falce e del martello in modo che fossero “scoperti” e costituissero la prova della infiltrazione dei sovietici». Da li cominciò l’ingerenza armata degli USA, con varie vicende e campagne di terrorismo psicologico, di diffamazione dei comunisti come agenti di Mosca, a cui qui non possiamo neppure accennare. Il colpo di Stato si concluse con l’insediamento di Castillo Armas, il favorito degli USA. «In Guatemala tornò la schiavitù. Nei primi mesi del suo governo, Castillo Armas istituì il Giorno dell’anticomunismo e catturò e uccise dai tre ai cinquemila sostenitori di Arbenz» (il presidente deposto, che aveva avviato la riforma agraria).

Qui davvero è impossibile dar conto delle trame ingerenze messe in atto da tutte le amministrazioni USA degli ultimi 70 anni per controllare i paesi che uscivano dalle antiche colonizzazioni europee, spesso con l’aiuto del Regno Unito, maestro secolare di dominio coloniale, che in tanti casi rese onore alla sua tradizione sanguinaria. Lo fecero spesso con colpi di Stato poche volte falliti, ma spesso ripetuti fino al finale cambio di regime: in Iran (1953), Guatemala (1954), Indonesia (1958 e 1965), Cuba (1961), Vietnam del Sud (1963), Brasile (1964), Ghana (1966), Cile (1973) e un numero incalcolabile di sabotaggi, uccisioni, condizionamenti delle politiche del vari governi. Senza mettere nel conto la guerra contro il Vietnam, scatenata con il falso pretesto dell’“incidente del Tonchino”, che provocò 3 milioni di morti, oltre ai vasti bombardamenti con gli elicotteri dei villaggi contadini «in Cambogia e Laos [dove] ne morirono molti di più». Ricordo che dopo il colpo di stato in Brasile non ci furono più elezioni per 25 anni e la violenta dittatura di Suharto, in Indonesia, durò 32 anni.

Gli strumenti di queste politiche erano – come scrive lapidariamente Bevins – «esercito e finanza». I capi di tanti eserciti nazionali si erano formati spesso nelle scuole militari degli USA, e comunque venivano corrotti da ingenti finanziamenti americani, donazioni e vendite di armi, manovrati dalla Cia. In tante realtà si creò una scissione tra i governi indipendenti, che spesso venivano economicamente strozzati dai sabotaggi commerciali e finanziari, e i sistematici finanziamenti segreti forniti agli eserciti. Ma il cemento ideologico più determinante, e forse in assoluto la leva più potente che rese possibile l’intero progetto, fu la propaganda anticomunista, con tutto il repertorio di orrori fasulli di cui venivano ritenute responsabili le forze che vi si ispiravano. La minaccia del comunismo, oltre ad essere una formidabile arma di controllo sociale interno dei gruppi dirigenti americani, fu il fondamento psicologico e culturale, potremmo definirlo egemonico, su cui i vari golpisti riuscirono a coinvolgere nei massacri anche pezzi di popolazione civile. Uno strumento di persuasione di massa reso possibile dal fatto che in quasi tutti i paesi “attenzionati” dagli USA, la stampa era in mano ai grandi proprietari terrieri, o alle compagnie petrolifere, ostili alle riforme agrarie e alle nazionalizzazioni, in grado di imbastire campagne di falsificazione su larga scala, fondate su racconti di storie inventate, riprese dalle radio, talora trasformati in film e documentari.

Che cosa è il Metodo Giacarta? In breve. L’Indonesia, il quarto paese più popoloso del pianeta, che ospitava il terzo più grande Partito comunista del mondo (PKI), sostenuto da milioni di militanti, non poteva restare indipendente. Dopo vari tentativi falliti, uno riuscì e fu il più sanguinoso dei piani messi in atto dagli USA. Il pretesto definitivo fu un oscuro episodio ancora oggi non chiarito. Alcuni militari sequestrarono cinque generali dell’esercito indonesiano che poi furono trovati uccisi. Fu lanciata allora una campagna su larga scala di terrore psicologico, attraverso la stampa, la radio, i comizi. Venne sparsa la voce che i cinque uomini fossero stati oggetto di sevizie, mutilati dei genitali e poi massacrati, mentre alcune donne danzavano nude intorno a loro, svolgendo riti satanici. Nel 1987, quando tutto era ormai dimenticato, venne alla luce che la storia era un falso, i generali, secondo l’autopsia fatta eseguire allora da Suharto, il golpista a servizio degli USA che estromise il presidente Sukarno, aveva rivelato che erano tutti morti per colpi di arma da fuoco, eccetto uno, ucciso da una lama di baionetta, probabilmente durante il sequestro nel suo appartamento. Quel che seguì a Giacarta e in tutte le isole dell’arcipelago, dopo quella provocazione e quella campagna di caccia ai terroristi comunisti, è difficile da immaginare e da raccontare: «Le persone non venivano ammazzate nelle strade, non venivano giustiziate ufficialmente, le famiglie non erano sicure che fossero morte: venivano arrestate e poi scomparivano nel cuore della notte». Solo giorni dopo, come si vide ad esempio nel fiume Serayu, «gli omicidi di massa divennero evidenti: i corpi ammassati erano così tanti da ostacolare il corso del fiume e il tanfo che emanavano era orribile». In proporzione agli abitanti, l’isola che che subì la quota maggiore di uccisioni fu Bali, il 5% della popolazione, oltre 80 mila persone finite a colpi di machete. Non andò bene alle indonesiane: «Circa il 15% delle persone prese prigioniere furono donne. Vennero sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere», ad alcune «tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque». Alla fine i morti complessivi, secondo calcoli necessariamente sommari, si aggirarono tra 500 mila e 1 milione di persone, mentre un altro milione venne rinchiuso nei campi di concentramento. Il PKi, cui non poté essere addebitata nessuna sommossa o violenza, venne sterminato. A compiere i massacri furono i militari indonesiani, le squadre armate dei proprietari terrieri, bande di persone comuni assoldate o sobillate dalla propaganda. «Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi». Più tardi il Tribunale internazionale del Popolo per il 1965 convocato all’Aja nel 2014, dichiarò i militari indonesiani colpevoli di crimini contro l’umanità, e stabili che il massacro era stato realizzato allo scopo di distruggere il Partito comunista e «sostenere un regime dittatoriale violento» e che esso venne realizzato con il supporto degli USA, del Regno Unito e dell’Australia. Dopo il 1965 il Metodo Giacarta venne teorizzato da molti dirigenti filoamericani dell’Asia e dell’America Latina e usato anche come parola d’ordine con cui venivano terrorizzati i dirigenti comunisti e i politici nazionalisti che proponevano riforme e nazionalizzazioni. Venivano minacciati facendo circolare la voce: «Giacarta sta arrivando» .

Alcune considerazioni per concludere. Noi conosciamo da tempo molte delle operazioni, spesso ben documentate, condotte dagli USA in giro per il mondo almeno a partire dal dopoguerra. Nel voluminoso William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti (Fazi, 2003, ed. orig. Killing Hope. U.S. Military and CIA Interventions Sine World War II, 2003, che meglio rispecchia contenuto del volume e intenzioni dell’autore), se ne trova, da oltre 20 anni, un repertorio vastissimo e di impeccabile serietà storiografica. Ma il libro di Bevins ha qualcosa in più. Esso non mostra soltanto come gli USA abbiano condotto una politica estera fondata sulla violazione sistematica del diritto internazionale, spesso calpestando il diritto alla vita di milioni di persone. Non è solo questo, che sarebbe sufficiente per illuminare di luce meridiana le ragioni dell’attuale “disordine” mondiale. Il Metodo Giacarta mostra che cosa ha prodotto quella guerra segreta, che ha impedito l’emancipazione dei popoli usciti dal dominio coloniale e la nascita di un terzo polo mondiale dei paesi cosiddetti “non allineati”: cioè equidistanti rispetto a Washington e Mosca. Il grande progetto di mutua cooperazione avviato con la Conferenza di Bandung nel 1955, di cui Sukarno era stato uno dei protagonisti, si dissolse. I paesi del Sud del mondo vennero ricacciati nella loro subalternità che in tanti casi si è protratta fino quasi ai nostri giorni.

Perciò Bevins può scrivere, alludendo ai colpi di stato in Brasile e Indonesia: «La cosa più sconvolgente, e la più importante per questo libro, è che i due eventi in molti altri paesi portarono alla creazione di una mostruosa rete internazionale volta allo sterminio di civili – vale a dire al loro sistematico omicidio di massa – e questo sistema ebbe un ruolo fondamentale nel costruire il mondo in cui viviamo oggi». È, infatti, il nostro tempo che questo libro rende comprensibile. Alla luce di quanto accaduto, le guerre intraprese dagli USA, da soli o con la Nato, ispirate alla retorica delle lotta al terrore o all’esportazione della democrazia, in Jugoslavia, Afganistan, Iraq, Libia, Siria e ora in Ucraina, non sono una svolta aggressiva della politica estera USA nel nuovo millennio, ma la continuazione coerente del perseguimento del proprio dominio globale, da mantenere con ogni possibile mezzo.

FONTE: https://volerelaluna.it/mondo/2024/04/22/gli-usa-e-il-metodo-giacarta-il-massacro-delle-popolazioni-come-politica-estera/

Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.
C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota aut o m at i c o ” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata .
Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen.

La concorrenza fra le due persone è finta. A chi legga il discorso dell’ex presidente del Consiglio, tutto verrà in mente tranne che un pensatore e un protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione , dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.
Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa“. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).
Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 20 Aprile 2024

“Israele ha ucciso operatori umanitari a Gaza per fermarci”: il racconto di Oscar Camps (Open Arms) a Fanpage

Òscar Camps, fondatore e direttore della Ong Proactiva Open Arms, in un’intervista a Fanpage.it ripercorre il bombardamento con cui l’esercito israeliano ha ucciso sette operatori umanitari che stavano portando alimenti a Gaza. Ora i viaggi si sono fermati: “Non posso mettere a rischio la vita dei miei operatori, se non c’è un cessate il fuoco”.

A cura di Elena Marisol Brandolini

Òscar Camps è un soccorritore, attivista e imprenditore catalano, fondatore e direttore della Ong spagnola Proactiva Open Arms. Assieme alla Ong americana World Central Kitchen dello chef spagnolo José Andrés, Open Arms ha realizzato una missione a Gaza, aprendo per la prima volta, dopo trent’anni, un corridoio marittimo, per portare viveri alla popolazione palestinese. In questa occasione, sette attivisti della WCK sono rimasti uccisi sotto le bombe sganciate dagli israeliani, mentre portavano a termine l’operazione di sbarco dei viveri sulla Striscia. Ne parliamo con Camps, presso gli uffici della sua Ong, nel porto di Badalona.

Ci racconta la sua missione via mare a Gaza?

Pensavo che bisognasse fare qualche cosa per aiutare la popolazione palestinese, ma non sapevo come. Alla fine dello scorso novembre, mi telefonò José Andrés, con lui e la sua Ong, World Central Kitchen, avevamo fatto una missione in Ucraina al principio della guerra, partendo dalla Romania, attraversando il Mar Nero e risalendo il Danubio. Ed era andata molto bene, avevamo fatto quattro viaggi per portare viveri alla popolazione.

E nel caso di Gaza come avete operato?

Andrés voleva fare qualcosa anche a Gaza, mi disse che lì aveva 60 cucine con 300 persone che vi lavoravano per offrire pasti caldi. Era già intervenuto prima in occasione dell’attentato di Hamas e poi, quando sono cominciati i bombardamenti su Gaza, si era spostato sulla Striscia. Ma i camion di viveri non potevano entrare via terra e allora mi propose di allestire una via marittima. Cominciò quindi a muovere tuti i suoi contatti diplomatici, era stato consulente di Obama e ora lo è di Biden alla Casa Bianca, in materia alimentare; Andrés è una persona molto conosciuta, è stato presente in tutti i conflitti in giro per il mondo. Si mise quindi a cercare la maniera di ottenere i permessi per aprire una via marittima. Il 20 dicembre, il ministro degli Esteri israeliano annunciava l’apertura di un corridoio umanitario marittimo dal porto di Larnaca a Cipro fino a Gaza. Pensammo allora che avremmo potuto utilizzare quel corridoio per fare entrare i viveri nella Striscia e cominciammo a prepararci per il viaggio. Noi eravamo in Italia in quel momento, ci avevano bloccati da venti giorni a Crotone.

Cosa aveva mosso Israele ad annunciare l’apertura del corridoio?

Non era stato certo per i contatti di Andrés, capimmo solo più avanti come fosse andata. Appena ci lasciarono partire da Crotone, viaggiammo alla volta di Larnaca con tutti i viveri a bordo. Arrivati, chiedemmo del corridoio, parlammo col governo di Cipro, Andrés andò in Israele a incontrare il ministro degli Esteri. E ci rendemmo conto che era un corridoio finto, perché aveva un porto di uscita ma non di attracco a Gaza, ossia il corridoio non esisteva. E qui cominciò la prima difficoltà: dovevamo fare un progetto per sbarcare sulla spiaggia i viveri. Dal momento che noi siamo esperti di spiagge, abbiamo allestito un progetto di carico, trasporto e sbarco sulla spiaggia, che includeva la costruzione di un piccolo frangiflutti per poter portare una piattaforma flottante trainata da Open Arms con 200 tonnellate di viveri, accostarla al frangiflutti e da lì scaricare i viveri con i camion. Allora, mettemmo in campo tutta la pressione politica necessaria.

In che modo?

José Andrés andò in Giordania per incontrare il re, dicendogli che stavamo presentando un progetto per rendere effettivo il corridoio di Israele e chiedendone il sostegno. Andò a cercare l’appoggio anche degli Emirati Arabi e degli Stati Uniti, conseguendo una pressione diplomatica tale che Israele ci propose di presentargli il progetto. Ci furono molte riunioni, rimanemmo un mese a Larnaca per preparare tutto e alla fine Israele autorizzò la missione: d’altronde non potevano fare altrimenti, perché avevano annunciato il corridoio. Andrés, allora, inviò gente sua a Gaza per realizzare il frangiflutti, mentre Israele cercava di rendere difficile l’operazione con ispezioni continue, rallentando i tempi dei lavori. Magari pensavano che non ne saremmo stati capaci e invece ci riuscimmo.

Come si arriva all’attentato in cui vengono uccisi sette cooperanti della WCK?

Non appena Israele approva il progetto, Biden annuncia che una Ong e gli Stati Uniti avrebbero fatto un porto: rimaniamo molto sorpresi, perché il porto lo avevamo costruito noi… Allora, Ursula von del Leyen arriva a Cipro e, senza neppure passare a salutarci, informa in conferenza stampa che il corridoio umanitario europeo sarà presto in funzione… Ossia, tutti si ascrivono il merito dell’operazione. Facciamo il primo viaggio e rientriamo con l’idea di farne altri. A quel punto, gli Emirati Arabi affittano un’imbarcazione, la Jennifer, con 600 tonnellate di viveri per partecipare alla missione. Ovviamente, in una situazione del genere, conta molto l’elemento meteorologico, perché col mare cattivo diventa impossibile sbarcare i viveri. Appena il tempo si ristabilisce ci muoviamo tutti per il secondo viaggio, con l’Open Arms, la Jennifer e un altro rimorchiatore ad accompagnarci.

Prima però va rimesso a posto il frangiflutti che era stato danneggiato dal maltempo e Andrés invia dei lavoratori apposta a Gaza. Ricominciano le difficoltà messe in atto per rallentare i lavori da parte delle autorità israeliane, che ci avevano contingentato i tempi dell’operazione. Comunque ci riusciamo, la Jennifer rimane in acque internazionali e noi entriamo con la piattaforma a Gaza con i viveri, la svuotiamo e torniamo a ricominciare, per finire col trasportare tutte le tonnellate di cibo. Ossia, il corridoio comincia a essere aperto stabilmente, vi è la presenza di altri paesi, con una quantità di viveri consistente: a quel punto, credo che Israele si renda conto che è un processo che si va consolidando. Finiamo di scaricare i viveri e mentre ce ne stiamo andando verso le acque internazionali per un altro carico, cominciano a bombardare gli operatori della WCK che erano rimasti a terra, ammazzandoli tutti.

Avete assistito alla tragedia?

Non l’abbiamo vista ma l’abbiamo sentita, eravamo in mare, abbiamo sentito il bombardamento e le grida per radio, hanno sganciato tre bombe…

Hanno ucciso intenzionalmente?

Certo, hanno attaccato prima la terza macchina dove c’era il personale addetto alla sicurezza, erano state rispettate tutte le richieste avanzate dalla autorità israeliane, la rotta era stabilita, avevano i passaporti di tutti noi, tutto era in regola, eravamo in zona di controllo dell’esercito israeliano. Avrebbero potuto attaccare loro come noi, che eravamo molto vicini. Hanno bombardato la macchina come avrebbero potuto bombardare la nostra imbarcazione.

Perché lo hanno fatto?

Io credo che volessero fermare tutto. Aprire una via umanitaria per mare e non metterci un porto è già un modo per generare una falsa aspettativa, poi arrivano questi da Badalona e risolvono il tema del porto mancante, riescono a sbarcare i viveri nonostante le difficoltà una, due volte… Quando l’operazione si va consolidando, bombardano e finisce tutto.

Pensate di tornarci?

Non posso mettere a rischio la vita dei miei operatori, se non c’è un cessate il fuoco. Questa via non era la soluzione, era solo una via in più. La soluzione è un cessate il fuoco e la pace. E adesso è tutto fermo.

E la WCK?

Hanno fermato tutto. Loro a Gaza hanno dei collaboratori locali, il resto è tutto fuori ormai. E a Cipro io ho l’imbarcazione e ci sono ancora tonnellate di cibo non distribuito, dovremo vedere cosa farne.

Conosceva le persone che sono state uccise?

Sì, avevamo lavorato insieme. Eravamo a Cipro all’inizio per preparare tutto e poi avevamo viaggiato verso il frangiflutti. Quando erano a Gaza già non ci vedevamo più, ma ci parlavamo per telefono.

Le è parso sufficiente il cordoglio espresso dalle cancellerie europee e dagli Stati Uniti per la strage?

Non capisco come la presidente della Commissione possa venire a Larnaca ad annunziare che rappresentiamo la prova pilota del corridoio umanitario europeo e quando poi vengono uccisi gli operatori umanitari della prova pilota europea, si limiti a esprimere le condoglianze. Mi sembra un livello di ipocrisia così alto che mi defrauda.

Borrell ha detto che Israele sta utilizzando la fame come un’arma di guerra, che ne pensa?

Quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio pensato per eliminare il massimo di gente possibile, davanti alla passività degli Stati. Non posso capacitarmi che si ammazzino oltre 30.000 persone, che si permetta in pieno secolo XXI a uno Stato di comportarsi così. Ci sono norme che il diritto internazionale impone anche alle guerre.

Che ne pensa del cessate il fuoco che si sta discutendo all’Onu?

Credo che la situazione richieda un intervento, se non si arriva al cessate il fuoco. Va fermata immediatamente. La Spagna vende armi a Israele, tutti esprimono cordoglio ma vendono armi, c’è un alto grado di cinismo e di ipocrisia nella classe politica mondiale. Incriminare Netanyahu per crimini di guerra non è un’assurdità, a lui interessa far crescere il conflitto per mantenersi nel potere. La stessa società israeliana sarebbe dovuta intervenire. È una vergogna globale.

continua su: https://www.fanpage.it/politica/israele-ha-ucciso-operatori-umanitari-a-gaza-per-fermarci-il-racconto-di-oscar-camps-open-arms-a-fanpage/
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L’aziendalizzazione delle politiche di gestione del Servizio Idrico Integrato: il caso del Basso Valdarno

Il caso del Basso Valdarno dove Acque Spa, società a capitale pubblico-privato, gestisce il servizio con logiche manageriali tese alla massimizzazione dei profitti

di Andrea Vento

Il progressivo affermarsi delle politiche neoliberiste durante gli anni ’90 del XX secolo ha comportato per il nostro Paese, non solo una massiccia campagna di privatizzazione di aziende pubbliche strategiche (energetiche, bancarie, siderurgiche, meccaniche, telefoniche ecc..) ma ha anche determinato un graduale passaggio della fornitura di fondamentali servizi per la cittadinanza come rifiuti e acqua da una gestione pubblica al servizio della collettività, ad una caratterizzata da criteri manageriali con finalità di profitto. Questa profonda trasformazione ha praticamente accomunato, , le tre tipologie di società che in quegli anni avevano assunto la gestione del servizio idrico integrato nei neo costituiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in tutto il territorio nazionale1.

La gestione del servizio riguarda le infrastrutture: la proprietà dei beni costituenti la dotazione del Servizio Idrico appartiene allo Stato, alle Province e ai Comuni. Il gestore ne dispone per concessione gratuita e ne usufruisce del possesso.

Il comune può gestire il Servizio Idrico direttamente (in economia) oppure decidere di affidarlo, secondo quanto previsto dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi del settembre 2014, per cui il Servizio idrico Integrato può essere assegnato in gestione attraverso:

• concessione a soggetti privati che abbiano vinto una gara di appalto;

• affidamento a società mista pubblico privato (con progressiva imposizione del gestore unico per ogni ATO, scelto tra coloro che già gestiscono il servizio del 25% della popolazione (art. 7 comma 1 lettera d e lettera i dello Sblocca Italia) vale a dire le grandi aziende e le multiutilities, anche appositamente create;

• affidamento a società per azioni a completo capitale pubblico partecipate dai comuni e/o da enti e società pubbliche locali;

• affidamento in house alla propria società a capitale interamente pubblico.

Ne consegue che il Servizio Idrico in Italia può essere gestito da società interamente pubbliche, da società private o da società miste pubblico/privato. La popolazione italiana nel 2018 risultava servita per:

• il 53% da società totalmente pubbliche;

• il 32% a maggioranza / controllo pubblici;

• il 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio (cosiddetta «gestione in economia»);

• il 2% da società interamente privata;

• l’1% è da società miste a maggioranza privata2.

Soprattutto al Centro Italia, e in Toscana in particolare, il modello societario prescelto per la gestione è risultato quello delle società a capitale misto pubblico-privato ma con management espresso dalla parte privata, tramite affidamento diretto della gestione da parte dell’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (AATO), l’Autorità Idrica Toscana3. Ciò, nonostante il primo referendum sul tema della acqua del giugno 2011 prevedesse, si legge sul sito del Ministero dell’Interno, “L’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali ad operatori privati”4. In sostanza lo schiacciante esito favorevole del 95%, espresso dal 55% degli aventi diritto al voto, che ha imposto il ritorno della gestione del servizio idrico integrato in mano pubblica e con criteri a beneficio della collettività è rimasto in pratica inapplicato, salvo alcune rare eccezione di amministratori locali virtuosi che hanno proceduto in tale direzione. Come nel caso della Giunta De Magistris a Napoli tramite la creazione di Acqua Bene Comune, sorta nel 2013 dalla trasformazione di ARIN, Spa totalmente partecipata dal comune di Napoli, in Azienda Speciale comunale5.

Ed appurato che il secondo quesito referendario relativo alla determinazione delle tariffe del servizio idrico integrato, anch’esso approvato con percentuali analoghe, contemplasse “L’abrogazione parziale delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, il cui importo prevede anche la remunerazione del capitale investito dal gestore”, vale a dire una rendita finanziaria garantita pari al 7% del capitale investito, benefit che non ha in pratica eguali in altri comparti, si sarebbe dovuto procedere alla sottrazione della determinazione delle tariffe dalle logiche del mercato e del profitto, a prescindere dalle tipologie di società che forniscono il servizio.

Il caso dell’Ato Toscana 2 del Basso Valdarno

Dalla nostra analisi relativa alle trasformazioni subite, dalla fine del secolo scorso, dal servizio idrico integrato (SII) del Basso Valdarno, emerge come a seguito del parziale processo di privatizzazione e soprattutto di passaggio alla gestione manageriale, siano stati introdotti profondi cambiamenti rivelatisi particolarmente penalizzanti per gli utenti. Infatti, da un servizio erogato con basse tariffe direttamente dalle amministrazioni comunali, la prima trasformazione è avvenuta con la creazione di società municipalizzate, vale adire Società per azioni controllate interamente dai Comuni. Per poi procedere al successivo passaggio in direzione della radicale trasformazione della finalità gestionali, con la creazione della società a capitale misto pubblico-privato e l’assegnazione diretta del servizio a partire dal 1 gennaio 2002, senza gara di appalto ad Acque Spa.

Acque Spa: cenni storici e composizione societaria

Acque Spa è una società a capitale misto pubblico-privato alla quale, dall’inizio del 2002, l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale ha affidato in forma esclusiva la gestione del servizio idrico integrato di 55 comuni del Basso Valdarno (ATO Toscana 2) distribuiti su 5 province, Pisa, Firenze, Pistoia, Lucca e Siena, ai quali da allora fornisce i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione ad una popolazione che attualmente ammonta a circa 800.000 persone.

La società monopolista sorse il 17 dicembre 2001 dalla concentrazione di cinque società pubbliche operanti su di un vasto territorio che dall’entroterra della Toscana settentrionale arriva fino alla costa tirrenica: Gea di Pisa, Publiservizi di Empoli (Fi), Cerbaie di Pontedera (Pi), Coad di Pescia (Pt) e Acqapur di Capannori (Lu), prevedendo l’ingresso nel capitale sociale di soggetti privati con una importante quota di minoranza. In linea con gli impegni stabiliti dalla convenzione di affidamento del servizio, Acque Spa nel 2003 ha espletato, a suo dire, una gara ad evidenza pubblica a livello europeo per la selezione di un partner privato, che si è conclusa con l’aggiudicazione del 45% del capitale sociale da parte di Abab SpA. Società, con sede a Roma in piazzale Ostiense 2, costituita appositamente in data 21 dicembre 2003 da Acea S.p.A., Ondeo Services Società Anonima di diritto francese (ora Suez Environnement S.A.), Monte dei Paschi di Siena S.p.A., SILM Società Italiana per Lavori Marittimi S.p.A., Ondeo Degremont S.p.A. (ora Degremont S.p.A.) e dal Consorzio Toscano Costruzioni C.T.C. s.c.a.r.l. e, come si apprende dalla visura camerale6, avente per “oggetto l’assunzione e la gestione della partecipazione di minoranza di Acque Spa”.

Carta 1: il territorio dell’ATO Toscana 2 del Basso Valdarno

Il capitale sociale di Abab spa, che nel 2024 ammonta ad 8 milioni di euro, dopo varie modifiche registrate negli anni, attualmente, secondo il sito ufficiale di Acque Spa7, risulta controllato da Acea Spa, Suez Italia Spa, Vianini Lavori Spa e CTC Società Cooperativa.

Senza lasciarsi fuorviare dalla poetica denominazione di Abab spa, acronimo di “Acque blu basso Valdarno”, la società ha come classificazione della propria attività economica (Ateco) “Attività delle società di partecipazione” vale a dire rappresenta una holding, una società che controlla il capitale sociale di altre imprese, ed i cui attuali soci meritano di essere brevemente inquadrati per facilitarne la comprensione delle linee strategiche aziendali.

Acea, acronimo di “Azienda comunale energia e ambiente”, è l’ex municipalizzata del comune di Roma che “nel corso del tempo è cresciuta sino a diventare una multiutility di riferimento del panorama italiano”8 con partecipazioni azionarie in molte ex aziende pubbliche locali di servizi e dal 2000 operante anche all’estero. Divenuta di fatto una multinazionale, attualmente opera nella fornitura di servizi legati ad acqua, gas, rifiuti, energia e mobilità sostenibile, e risulta la prima azienda del settore a livello italiano9.

Suez Italia Spa è la divisione italiana di Suez Environnement, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti, dietro Veolia Environnement, entrambe società a controllo francese.

In origine la società Suez era una compagnia franco-belga nata nel 1997 dalla fusione della Compagnia del Canale di Suez (Belgio) e della Lyonnaise des Eaux (Francia) che si è fusa per incorporazione con Gaz de France (energia) nel 2008, dando vita al gruppo GDF Suez, divenuto poi Engie nel 2015. Contestualmente alla fondazione di GDF Suez nel 2008, le attività di Suez nel settore idrico sono state cedute ad una nuova società che ha preso appunto denominazione di Suez Environnement, controllata al 35% da Engie

Vianini Lavori Spa è invece una società del gruppo Caltagirone fondata a Roma nel 1908, che opera nei settori dell’ingegneria civile e nell’industria dei manufatti in cemento ed ha numerose partecipazioni in aziende italiane ed estere, in vari comparti. Nonostante il suo core business sia nell’ingegneria, nell’edilizia e nelle opere infrastrutturali, ha ampliato il suo raggio di azione in altri settori ritenuti redditizi, come quello della gestione del ciclo delle acque.

Il Consorzio Toscano Cooperative – C.T.C è una società cooperativa nata a Firenze nel 1980, attiva, come da codice Ateco, nella “Costruzione di edifici residenziali e non residenziali”10, e nonostante si legga nella presentazione11 che “Il consorzio è retto e disciplinato dai principi di mutualità senza fini di speculazione privata”, continua a mantenere una proficua quota del capitale di Abab dalla sua fondazione che, in qualità di Spa che rappresenta una forma societaria che per peculiarità proprie persegue la massimizzazione dei profitti12.

La parte pubblica pur controllando il 55% del capitale di Acque Spa, ha una partecipazione suddivisa fra varie società e enti locali: Cerbaie Spa il 16,26%, Acquapur Spa il 5,04%, Gea Servizi Spa il 12,27%, il comune di Chiesina Uzzanese lo 0,31%, quello di Crespina – Lorenzana lo 0,25% e Alia Servizi Ambientali Spa il 19,31% (grafico 1). Quest’ultima, prima multiutility toscana dei servizi pubblici locali, opera nei settori ambiente, ciclo idrico integrato ed energia, ed è stata fondata il 26 gennaio 2023 dalla fusione per incorporazione da parte di Alia Servizi Ambientali Spa di tre società pubbliche della Toscana Centro-Settentrionale: Publiservizi Spa, Consiag Spa e Acqua Toscana Spa.

La nuova società multiservizi risulta al momento partecipata da 66 comuni tra l’Empolese – Val d’Elsa e le province di Firenze, Prato e Pistoia, con le quote ripartite tra i principali Comuni nella seguente modalità: Firenze (37,1%), Prato (18,1%), Pistoia (5,54%), Empoli (3,4%) mentre altri comuni toscani detengono il rimanente 35,9%. Tuttavia sin dalla sua fondazione la nuova multiutility è risultata accompagnata da un programma di apertura al capitale privato e di quotazione in borsa sul modello di Acea13, come puntualmente esposto dal suo Amministratore delegato Alberto Irace, non casualmente amministratore delegato di Acea in carica dal 2014, al termine del quale la parte privata entrerà nella società fino ad una quota massima del 49%, tramite un aumento di capitale sociale14, che non è difficile immaginare possa riguardare anche Acea stessa.

Emerge il paradosso che una multiutility a totale capitale pubblico sia affidata nella conduzione strategica all’Amministratore delegato della principale società nazionale del settore, nota per i suoi criteri di gestione all’insegna della remunerazione degli azionisti, sollevando quindi non infondate perplessità sulla compatibilità con la tutela dell’utenza e della risorsa idrica che dovrebbero essere i principi cardine dell’interesse colletivo.

Grafico 1: la composizione del capitale sociale di Acque Spa

Il management di Acque Spa

Pur controllando la parte pubblica nel suo insieme il 55% del capitale sociale di Acque Spa, la componente privata, in virtù del rappresentare il socio di maggioranza relativa col 45%, riesce ad esprimere il management dell’azienda e a dettarne le linee gestionali. Dall’ultimo rinnovo del Consiglio di amministrazione di fine 2023 è uscita infatti la riconferma ad Amministratore delegato di Fabio Trolese, manager espressione di Acea, già in carica dal 2020, mentre la parte pubblica continua a mantenere cariche prevalentemente di rappresentanza e di controllo come la Presidenza, assegnata all’ex sindaco di Pontedera (Pi) Simone Millozzi, e la vicepresidenza, attribuita ad Antonio Bertolucci, già consigliere comunale e assessore al Comune di Capannori (Lu)15 e da tempo membro del Cda della stessa azienda.

I compensi percepiti dai membri del Consiglio di amministrazioni risultano molto elevati e, in genere, superiori rispetto a quelle di società analoghe, tant’è che il Presidente riceve un compenso lordo di 72.000 euro, il Vicepresidente 26.000 euro, l’Amministratore delegato 67.000 euro e i consiglieri, tre per parte pubblica e altrettanti per quella privata, 21.000 euro ciascuno. Per un totale annuo del 2023 pari a 291.000 euro.

Per avere un termine di paragone con una società toscana che presta lo stesso servizio fra le province di Arezzo e di Siena e dalla analoga struttura a capitale misto pubblico (53,84%) – privato (46,16%), come Nuova Acque Spa, il Presidente viene remunerato con 32.536 lordi e i restanti otto Consiglieri, dei quali uno adempie al ruolo di Amministratore delegato e altro quello di Vicepresidente, solamente 4.648 euro lordi, con l’aggiunta di un gettone di presenza per ogni Consiglio d’amministrazione di 300 euro16.

Tabella 1: comparazione compensi lordi in euro del Cda di Acque Spa e di Nuova Acque Spa.

CaricheCompensi Cda Acque Spa in euroCompensi Cda Nuova Acque Spa in euro
Presidente72.00032.536
Vicepresidente26.0004.648
Amministratore delegato67.0004.648
Consiglieri (n° 6)21.0004.648
Totale compensi lordi Cda291.000101.720
Gettone di presenza riunioni CdaNon previsto300

Compensi indubbiamente eccessivi per una azienda senza particolari rischi di impresa che agisce ad affidamento diretto in regime di monopolio, fornendo un bene primario indispensabile per l’esistenza umana e del quale ne impone le condizioni tariffarie in modo unilaterale finendo per appesantire l’entità delle bollette a carico della cittadinanza.

L’impennata delle tariffe e la rimodulazione degli scaglioni di consumo

Al fine di quantificare l’impatto dell’aumento dei costi della fornitura idrica integrata sulle casse delle famiglie abbiamo effettuato uno studio sull’entità sia delle tariffe che delle fasce di consumo fissate dai 2 gestori che si sono succeduti nel corso degli ultimi 25 anni nei comuni del Basso val d’Arno. Nella tabella 1 riportiamo inizialmente le tariffe applicate, per la sola fornitura idrica, nell’anno 2001 dalla società Gea Spa, a completo controllo pubblico, e, successivamente, quelle di Acque Spa, società mista pubblico-privato, fra il 2002 e il 2013, mentre nella penultima riga troviamo gli esorbitanti aumenti percentuali intercorsi fra il 2001 e il 2013. Nell’ultima, invece, sono riportati gli incrementi registrati fra il 2011 e il 2013, vale a dire nel periodo successivo all’effettuazione dei Referendum del giugno 2011, i cui risultati disponevano, oltre al ritorno del servizio in mano pubblica, anche l’eliminazione della remunerazione del capitale investito.

Il passaggio, fra il 2001 e il 2002, della gestione dalla società pubblica Gea Spa, costituita il 15 giugno 1995 mediante trasformazione dell’allora Consorzio Azienda Servizi Ambientali Area Pisana, ad Acque Spa ha comportato in un solo anno un aumento di 3 volte della Tariffa agevolata sino ad 80 mc di consumo e di 5,5 volte della quota fissa, mentre la Tariffa base è quasi raddoppiata e l’Eccedenza 1 aumentata “solo” del 50%, con l’Eccedenza 2 che invece beneficia di una diminuzione della tariffa. Una dinamica tariffaria non solo in rapida ascesa ma anche estremamente penalizzante per le basse fasce di consumo, come i pensionati, i nuclei familiari poco numerosi e in genere chi consuma poca acqua (tab.2).

Allargando l’arco temporale del raffronto rileviamo come fra il 2001 e il 2013, ultimo anno di uniformità delle fasce di consumo, la Tariffa agevolata sia aumentata vertiginosamente del 615%, mentre le altre in misura sensibilmente minore, con la quota fissa addirittura del 1.280%. Una politica tariffaria chiaramente orientata non solo all’incremento dei profitti, con ricadute negative sull’intero panorama degli utenti ma che infierisce sulle fasce sociali più deboli come i pensionati che, consumando in genere poca acqua, hanno visto lievitare in modo insostenibile sia il costo della fornitura idrica sia quello della quota fissa che colpisce trasversalmente tutti gli utenti a prescindere dal consumo e dal reddito.

Rileviamo infine come Acque Spa e i sindaci dell’ATO 2 conniventi con tali politiche, non solo non hanno proceduto all’attuazione degli esiti dei due referendum sull’acqua del 2011, ma hanno continuato incurantemente ad aumentare le tariffe, tant’è che nei due anni successivi le varie fasce di consumo e la quota fissa sono aumentati fra l’11 e il 13%. Con buona pace della cancellazione del 7% di rendita finanziaria sul capitale investito, procedimento che poteva essere attuato anche senza il ritorno della gestione del servizio idrico totalmente in mano pubblica.

Tabella 2: tariffe della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 (residenti) fra 2001 e 2013



Tariffe in euro della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 periodo 2001-2013
PeriodoGestoreTariffa agevolata al mc (0-80)Tariffa base al mc (81-200)Tariffa I eccedenza al mc (201-300)Tariffa II eccedenza al mc (oltre 300)Quota fissa annua
2001GEA Spa0,1560,3750,6251,2512,784
2002Acque Spa0,5140,6860,9321,11915,493
2009Acque Spa0,8671,1571,5731,88826,395
2011Acque Spa0,9841,3131,7842,14129,891
2013Acque Spa1,1161,4892,0242,42838,44

Aumento 2001-2013
615,38%297,06%223,84%94,08%1.280,74%

Aumento 2011-2013
11.34%13,40%11,34%11,34%12,87%

Dal 2014 Acque Spa ha attuato una rimodulazione delle fasce di consumo con una drastica riduzione da 80 a 30 mc di quella soggetta a Tariffa agevolata, accompagnata da ulteriori aumenti generalizzati delle tariffe negli anni successivi (tab. 3), diabolico combinato disposto che ha impattato negativamente sulla quasi totalità degli utenti.

Tuttavia, restringendo la fascia di consumi a Tariffa agevolata a soli 30 mc/annui, maggiori penalizzazioni vengono subite dalle famiglie con uno o due compenti, alle quali viene applicata in prevalenza la Tariffa base. Ugualmente subiscono marcati aumenti le utenze con i consumi più frequenti, vale a dire le famiglie di 3-4 persone che consumano in media fra 100 e 200 mc annui e che passano da una tariffa di 2,429 euro/mc del 2013 a 3,613 nel 2017 (tab 3).

Il malcontento generato da una politica tariffaria di tale aggressività costringe nel 2018 Acque Spa ad innalzare la fascia di consumo a Tariffa agevolata a 55 mc.

Tabella 3: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2017



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche 1 anno 2017
Tariffe

Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 30 mc0,2260,2340,9161,376
Base da 30 a 90 mc1,7360,2340,9162,886
I eccedenza da 90 a 200 mc2,4630,2340,9163,613
II eccedenza oltre 200 mc3,4610,2340,9164,611
Quota fissa56,35

Tabella 4: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2020



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2020


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,9420,2540,9942,190
Base da 56 a 135 mc1,8850,2540,9943,133
Eccedenza oltre 135 mc3,0450,2540,9944,293
Quota fissa61,17

Tabella 5: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2023



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2023


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,6360,7901,2532,679
Base da 56 a 135 mc1,2720,7901,2533,315
Eccedenza oltre 135 mc2,9350,7901,2534,978
Quota fissa60,21

Dall’analisi della dinamica tariffaria e dai criteri di rimodulazione delle fasce di consumo, risulta quindi palese che la strategia aziendale attuata dal management di Acque Spa si ispiri alla massimizzazione del profitto, con entrambe tese a penalizzare le utenze con consumi più bassi, come i pensionati e i nuclei mono o bi-personali, e coloro che cercano di attuare comportamenti virtuosi orientati alla riduzione dell’utilizzo della risorsa idrica.

Anche per questo riteniamo necessario che la tematica del rispetto della volontà popolare espressa tramite le consultazioni del giugno 2021 sia portata, soprattutto dai movimenti e dai partiti che sostennero il Sì ai due referendum, al centro dei programmi delle imminenti elezioni europee e amministrative di molti comuni italiani. Un messaggio di coerenza che sicuramente contribuirebbe a riavvicinare gli elettori, sempre più disinnamorati da questa politica, ai seggi.

Andrea Vento – 9 aprile 2024

Comitato comunale per l’Acqua pubblica di San Giuliano Terme (Pisa)

NOTE:

1 Gli ATO Acqua sono stati originariamente istituiti dalla Legge del 5 gennaio 1994 n. 36 “Disposizioni in materie di risorse idriche” che ha riorganizzato i servizi idrici aggregando sotto un’unica autorità (L’autorità di Ambito) i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, ivi comprese le relative tariffe.

2 Rapporto Servizio idrico in Italia del marzo 2019, realizzato da Utilitalia la federazione che riunisce 450 aziende di servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’energia elettrica e del gas operanti in Italia.

3 https://www.autoritaidrica.toscana.it/it/page/ait

4 Per i testi e gli esiti elettorali dei referendum dell’12 e 13 giugno 2011: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/altri_speciali_2/referendum_2011/index.html

5 https://www.abc.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=113

6 https://www.ufficiocamerale.it/2460/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa

https://atoka.io/public/it/azienda/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa/1ab8f6f855d1

7 https://cittadinoinformato.it/acque_spa/?doing_wp_cron=1711984551.6514940261840820312500

8 https://www.gruppo.acea.it/conoscere-acea/nostra-storia

9 http://europeanwater.org/it/azioni/focus-per-paese-e-citta/710-acqua-privata-frosinone-e-provincia-si-ribellano-revocato-il-contratto-con-acea

10 https://registroaziende.it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa-firenze

11 https://atoka.io/public/it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa/270196460d42

12 La gestione deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci. https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_per_azioni_(ordinamento_italiano)

13https://www.ilsole24ore.com/art/pronta-varo-multiutility-toscana-l-obiettivo-e-borsa-AEzqHKWB

https://www.arezzonotizie.it/attualita/corte-conti-no-quotazione-borsa-multiutility.html

https://www.utilitalia.it/notizia/dbe68738-6095-4d3d-8dfc-6c28ab59d9e9

14 Irace (Ad multiutility Toscana): l’obiettivo è la quotazione nell’aprile 2024

https://www.milanofinanza.it/news/irace-ad-multiutility-toscana-obiettivo-e-quotazione-aprile-2024-202302101958398899?refresh_cens

15 https://www.acque.net/wp-content/uploads/cv_bertolucci_antonio.pdf

16 https://nuoveacque.it/chi-siamo/#

L’oasi felice cilena: destre e poteri forti

di Marco Consolo

C’era una volta un’oasi felice (l’ex presidente Sebastian Piñera dixit), una specie di castello incantato, idilliaco e magico. Un Paese di cui molti si vantavano per essere un esempio di onestà e trasparenza, dove la corruzione non arrivava in Parlamento, meno tra le Forze Armate, i Carabineros, gli imprenditori e tra i professionisti meno esposti come gli avvocati. Si guardava con una certa superiorità e un po’ di disprezzo fuori dai confini di un “Paese civile” come il Cile, circondato da vere e proprie “Repubbliche delle banane”. Un Paese che nella narrazione interessata della dittatura civile e militare di Pinochet, anche grazie alla sua “mano dura” aveva messo al bando il “malcostume” della corruzione nelle istituzioni pubbliche e la criminalità organizzata. Le Forze Armate, i Carabineros e la Chiesa cattolica erano le istituzioni che più godevano di credibilità da parte dei cittadini.

Poi, piano piano, il miraggio è svanito, la realtà ha superato l’immaginazione e il castello incantato è cominciato a crollare, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie di quella parte della magistratura cilena non legata a doppio filo con il potere e grazie ai procedimenti dagli stessi Stati Uniti e dalla Spagna. All’inizio, le inchieste misero in luce i numerosi e milionari conti bancari all’estero del dittatore (a partire dal “Caso Riggs” [1]) e la trama di corruzione nelle FF.AA..

Poi, negli anni, i vertici apicali sia delle FF.AA. che dei Carabineros sono stati travolti da inchieste giudiziarie note come “Milicogate” [2] e Pacogate” [3], per appropriazione indebita di fondi pubblici, uso improprio di fondi riservati, arricchimento illecito, sottrazione dei fondi pensioni interni all’istituzione con l’inganno, etc.

Da ultima, la Chiesa cattolica ha iniziato a perdere colpi e credibilità per i numerosi scandali di pedofilia coperti dalle gerarchie locali (e non solo) con la migrazione di molti fedeli verso le Chiese evangeliche, in diversi casi vere e proprie “sette personali” di qualche predicatore in cerca di adepti e fondi.

Ma in queste settimane, è scoppiato uno scandalo che non ha precedenti, visto che non si tratta di qualche “mela marcia”. I massimi vertici delle due istituzioni principali di pubblica sicurezza, ovvero la Polizia di Investigazioni (PDI) e Carabineros,  sono sotto i riflettori, proprio quando la campagna contro il “dilagare della delinquenza” è il cavallo di battaglia della destra locale. Il Direttore Generale della PDI, Sergio Muñoz, si è appena dimesso, travolto da intercettazioni telefoniche in cui si è scoperto che filtrava informazioni riservate su procedimenti giudiziari in corso a Luis Hermosilla, un avvocato di lungo e complesso corso, ben collocato nel potere politico, finanziario e giudiziario.

Ed il Generale Ricardo Yáñez, a capo dei Carabineros, traballa per le accuse relative alla violazione dei diritti umani durante la “rivolta sociale” del 2019. Rimane in sella almeno fino al prossimo 7 maggio, data in cui saranno probabilmente formalizzate le accuse nei suoi confronti. Mentre il governo di Gabriel Boric non si pronuncia formalmente e non lo rimuove, Partito Comunista e Frente Amplio (entrambi parte integrante del governo) ne chiedono a gran voce le dimissioni. Ma andiamo con ordine.

La “porta giratoria”

Anche in Cile, le “porte giratorie” garantiscono influenza e potere. Alla fine del proprio mandato, pochi privilegiati passano allegramente a ricoprire cariche nel settore privato o anche in quello pubblico. Gli ex comandanti in capo delle Forze Armate, dopo aver gestito informazioni sensibili, spesso “arrotondano” la pensione ed i loro numerosi privilegi istituzionali: entrano nei consigli di amministrazione di consorzi privati, rilasciano interviste su temi di sicurezza e politici, ricoprono incarichi pubblici e sono candidati ed eletti, finora sempre nei partiti delle destre. Per chi ha ricoperto posizioni sensibili e di grande responsabilità nel campo della difesa e della sicurezza nazionale non ci sono limiti di tempo o di spazio. Al contrario, sono più che benvenuti.

Diversi ex capi delle Forze Armate e dei Carabineros sono stati eletti a destra in Parlamento, e non bisogna dimenticare i “senatori designati” dalla “costituzione” della dittatura, mantenuti per molti anni dopo il periodo post-dittatoriale.

L’ex capo dell’Aeronautica, Ricardo Ortega Perrier, è stato eletto consigliere costituzionale del Partito Repubblicano, partito nostalgico della dittatura. Prima di lui, l’ex comandante in capo della Marina, Jorge Arancibia, è stato membro della Convenzione costituzionale per l’Unione Democratica Indipendente (UDI) nochè senatore del partito che per anni è stato il “braccio politico” della dittatura. Oscar Izurieta, ex capo dell’esercito, è stato sottosegretario alla Difesa con l’ex presidente Sebastián Piñera. E, dulcis in fundo, un ex comandante in capo, Juan Emilio Cheyre, è stato presidente del Servizio elettorale, promosso da Piñera, con l’approvazione di vari partiti politici.

Per quanto riguarda l’esercito, ad oggi, sei dei sette ex comandanti in capo del periodo post-dittatura sono stati processati per reati finanziari, corruzione e violazione dei diritti umani.

Le uniformi macchiate dei Carabineros

Gli ultimi tre direttori generali dei Carabineros sono stati indagati e/o processati per reati finanziari, frodi e violazioni dei diritti umani. L’attuale direttore dei Carabineros, il Generale Ricardo Yáñez, è sotto accusa per violazione dei doveri d’ufficio in casi di arresto illegale e violazioni dei diritti umani durante la “rivolta sociale”. In uno dei tanti episodi “anomali”, alcuni dirigenti politici e parlamentari dell’opposizione democristiana e di destra hanno fatto visita pubblica al generale nella sede istituzionale per dargli sostegno politico. Il generale ha posato con loro per le foto, in un’operazione mediatica a dir poco anomala per un’autorità di polizia di alto rango e non deliberante.

Gli scheletri nell’armadio della PDI 

Gli ultimi due direttori generali della Polizia di Investigazioni (PDI) sono processati per appropriazione indebita, falsificazione di documenti pubblici, riciclaggio di denaro, fuga di informazioni da casi riservati e riciclaggio di attivi. Ad essi vanno sommati gli ufficiali e i funzionari dei Carabineros indagati e processati per falsificazioni, false testimonianze, irregolarità, abusi, mancato rispetto dei protocolli e violazioni dei diritti umani.

I casi del “Pacogate” e del “Milicogate”, in cui ufficiali, sottufficiali e funzionari dei Carabineros e dell’esercito hanno effettuato operazioni finanziarie fraudolente a spese dell’erario, per importi multimilionari, hanno occupato le prime pagine negli anni scorsi.

Poteri forti, magistratura e Servizio elettorale

La crisi politica ed istituzionale coinvolge anche altri settori, in particolare la magistratura, in un quadro rarefatto i cui contorni vengono alla luce poco a poco. Al centro ci sono i poteri forti, un’oligarchia di poche famiglie che muove i fili del potere, del denaro, della politica, dei mezzi di comunicazione e delle istituzioni. Una élite che piazza loschi personaggi in posti pubblici grazie a quote politiche.

È il caso dell’attuale Procuratore nazionale del Cile, Ángel Valencia Vásquez, fresco di nomina parlamentare piena di polemiche. Già consigliere parlamentare della destra di Renovación Nacional (RN), eletto Procuratore come “terza scelta” dopo che le destre avevano affondato altre due candidature “scomode”. Consulente diretto del senatore di RN Alberto Espina (ex ministro della Difesa nel governo di Sebastián Piñera), Valencia ha lavorato nel suo studio legale, legato alle inchieste giudiziarie dei comuni di Vitacura, Lo Barnechea e Ñuñoa, per casi di irregolarità e corruzione, quando erano in mano a sindaci di destra. Una foto in una cena conviviale, insieme all’ex ministro degli Interni e “colonnello” dell’Unione Democratica Indipendente (UDI), Andrés Chadwick, mostra i rapporti di Valencia con gruppi dell’élite cilena. Facile prevedere il suo scrupolo protettivo verso personaggi di quel settore legati ad atti illeciti. Eclatante il suo recente intervento “a gamba tesa” contro la portavoce del governo, la comunista Camila Vallejo, che ha parlato di una possibile rete di corruzione basata sulle intercettazioni giudiziarie del capo della PDI, mettendola in discussione ed entrando in un dibattito politico. Lungi dall’ “eseguire i corrispondenti atti di indagine”, il Procuratore nazionale appare coprire e servire altri interessi, grazie ai suoi legami con l’élite politica conservatrice.

Ma non è il solo caso. Andrés Tagle Domínguez dal 2021 è il presidente del Consiglio di amministrazione del Servizio elettorale del Cile (Servel), l’organismo incaricato di garantire la trasparenza e il corretto svolgimento delle elezioni. Tagle era membro della Commissione politica della UDI e “l’esperto elettorale” del partito. Durante il governo Piñera è stato consulente per le questioni elettorali della Segreteria della Presidenza, per poi diventare presidente del Servel nel secondo governo Piñera, sostenuto dalla maggioranza di destra del Senato, secondo la logica delle quote politiche binominali. Ingegnere commerciale dell’Università Cattolica, Tagle è stato direttore della potente Corporazione del rame (Codelco), direttore e consulente di aziende e società finanziarie e vicepresidente dell’influente Associazione delle assicurazioni sanitarie private (Isapres). Un uomo legato a doppio filo alle élite politiche e finanziarie del Paese è quindi oggi responsabile del Servizio Elettorale.

Prossime sorprese ?

Le intercettazioni del telefono dell’avvocato Hermosilla hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, confermando il controllo dei “poteri forti”, come élite politica e finanziaria che tira i fili del potere. L’indagine è ancora in corso e ci si aspettano molte altre sorprese potrebbero uscire dalle intercettazioni telefoniche e dalla rete di contatti per gestire e/o disturbare casi giudiziari, intervenire nell’operato di organi dello Stato, influenzare decisioni sulla nomina di giudici, ricevere illegalmente rapporti riservati della polizia.

Finora nei messaggi del suo cellulare appaiono menzionati tutti personaggi legati alla destra economica e politica cilena: l’ex presidente Sebastián Piñera (di cui Hermosilla sosteneva essere l’avvocato), l’ex ministro degli Interni di Piñera, Andrés Chadwick, l’ex sovrintendente Felipe Guevara, l’ex sindaco Raúl Torrealba, alcuni giudici e casi giudiziari relativi a temi come la compravendita dell’azienda mineraria Dominga e del Casinò Enjoy.

Finora, la rivelazione più delicata è che l’ex direttore del PDI, Sergio Muñoz, ha fornito informazioni riservate a Hermosilla. Quest’ ultimo era appena stato coinvolto nella fuga di notizie di una conversazione audio in cui si parlava, tra l’altro, di tangenti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate e della Commissione per il Mercato Finanziario. Nell’audio sono citati più di 50 uomini d’affari e personaggi dell’élite. Le intercettazioni e l’audio di quella conversazione sono un esempio plastico di come funziona la ristretta oligarchia al potere in Cile. Con i cittadini come spettatori, all’oscuro di ciò che accade realmente nei “salotti che contano”.

Liberi tutti

Anche in Cile l’impunità regna campante. Hermosilla è ancora libero, non è nemmeno ricercato per traffico di influenze o gestione illegale di informazioni riservate di polizia. È in buona compagnia, visto che in Cile grandi uomini d’affari e capi di gruppi finanziari processati per casi di corruzione, irregolarità, finanziamento illegale di campagne politiche, continuano a ricoprire le loro cariche. Uno dei casi più eclatanti è quello di Ponce Lerou (genero di Pinochet) presidente per più di venti anni dell’azienda chimica Soquimich (privatizzata con il golpe e regalatagli da Pinochet), coinvolto direttamente in casi di delitti tributari e corruzione (Caso Cascadas [4]). La Soquimich recentemente ha addirittura chiuso accordi strategici con lo Stato per lo sfruttamento del litio, di cui il Cile è tra i principali produttori.

Ad oggi, nessuno di questi grandi uomini d’affari e finanzieri ha scontato pene di carcere, ad eccezione di qualche risoluzione giudiziaria per frequentare “corsi di etica”. Mentre le galere si riempiono come sempre soprattutto di “poveri cristi” (magari colpevoli di commercio ambulante), sono decine i dirigenti di grandi aziende coinvolti in casi di corruzione, concussione, frode e collusione, allegramente a piede libero.

Con l’ombra della criminalità organizzata, del narco-traffico e della corruzione finanziaria che si allunga sul Paese, la Corte Suprema ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che “l’attuale sistema costituzionale e giuridico potrebbe consentire alcuni spazi di opacità”.

Con un governo senza la maggioranza in Parlamento, una quasi inesistente mobilitazione di piazza ed una crisi sociale che non accenna a diminuire, la crisi di credibilità istituzionale  e la destabilizzazione continuano.

NOTE

[1] https://ciperchile.cl/wp-content/uploads/CASO-RIGGS-SENTENCIA.pdf

[2] https://www.theclinic.cl/2019/08/20/milicogate-la-historia-de-la-investigacion-publicada-por-the-clinic-que-noqueo-al-ejercito/

[3] https://cooperativa.cl/noticias/pais/ff-aa-y-de-orden/carabineros/pacogate-fiscalia-pide-mas-de-20-anos-de-carcel-para-exdirectores-de/2023-10-24/070028.html

[4] https://www.ciperchile.cl/2014/10/20/caso-cascada-asi-se-perdio-la-plata-de-los-afiliados-a-las-afp/

Fonte : https://elsiglo.cl/notas-del-reporteo-pais-con-anomalias/


FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/loasi-felice-cilena-destre-e-poteri-forti/

GAZA – Il Cessate il fuoco non è un optional: è un obbligo!

il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco “per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”. Le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamenti su Gaza e facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari

di Domenico Gallo

Il 25 marzo dopo 170 giorni, durante i quali Israele ha messo a ferro e a fuoco la Striscia di Gaza provocando sofferenze inenarrabili alla sua sfortunata popolazione, finalmente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco“per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”, così come il ritorno in libertà immediato e senza condizioni degli ostaggi e un maggiore accesso degli aiuti umanitari a Gaza.

“Non c’è un momento da perdere – ha scritto la Segretaria Generale di Amnesty International Agnés Callamard- le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamentisu Gazafacilitare l’ingresso degli aiutiumanitari.

Israele, Hamas e gli altri gruppi armati devono operare perché il cessate il fuoco duri. Gli ostaggi civili devono tornare immediatamente in libertà. Tutti i palestinesi arbitrariamente detenuti in Israele, compresi i civili arrestati a Gaza, devono essere a loro volta scarcerati”.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono immediatamente esecutive e vincolanti per tutti gli Stati, eccetto – evidentemente – Israele, che non accetta alcun vincolo fondato sulle regole del diritto. Infatti, Netanyahu non ha battuto ciglio ed ha celebrato le prime 24 ore di “cessate il fuoco” con bombardamenti che hanno provocato 76 morti e nei giorni successivi ha continuato come se niente fosse.

Israele, non ha avuto alcuna remora a continuare l’attacco agli ospedali ed a portare nuovamente la morte all’interno dell’Ospedale Al Shifa di Gaza City.

L’esercito israeliano, infatti, ha comunicato (il 28 marzo) di aver ucciso 200 persone in una settimana di operazioni dentro e attorno all’Ospedale.

Ovviamente si trattava di “terroristi”, anche se medici, pazienti, personale sanitario o giornalisti: il fatto stesso che siano stati uccisi è la prova regina della loro qualità di terroristi.

Malgrado i moniti dei suoi stessi alleati, Israele sta continuando i preparativi per l’assalto finale a Rafah, l’ultima città a confine con l’Egitto, dove sono concentrati 1.500.000 palestinesi sfollati dal centro e dal nord di Gaza.

Il rigetto dell’ordine di cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza ed il rifiuto -nei fatti- di adempiere alle misure dettate dalla Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennai, ribadite con l’ordinanza emessa il 28 marzo, pongono lo Stato di Israele in una condizione veramente singolare nell’ordinamento internazionale. Si tratta dello Stato che realizza (e rivendica) la massima ribellione possibile alle regole che governano la vita della Comunità Internazionale, uno Stato fuorilegge, nel senso letterale del termine.

Eppure tutta la comunità degli Stati occidentali, si è mobilitata per “punire” la Russia, nell’adempimento di un imperativo indiscutibile, quello che Stoltenberg/Stranamore, ha definito: “un mondo fondato sulle regole.”

Che fine fa quest’imperativo del “mondo fondato sulle regole”, che giustifica la guerra da remoto che stiamo conducendo contro la Russia col sangue degli ucraini, di fronte all’aperta ribellione di Israele alle regole fondanti della Comunità internazionale che interdicono la violenza brutale ed il genocidio.?

Se Israele non si sente vincolato al rispetto del diritto internazionale, avendo sperimentato almeno 56 anni di violazione delle regole del diritto internazionale, specialmente il diritto umanitario, senza conseguenza alcuna, sono gli altri Stati che devono agire adottando delle misure adeguate, ai sensi del Cap. VII della Carta dell’ONU, per convincere/costringere Netanyahu a rispettare le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e i provvedimenti della Corte internazionale di Giustizia che ha ordinato ad Israele di smettere di uccidere le persone protette e di far soffrire la fame al gruppo etnico palestinese, a rischio di genocidio.

L’Unione europea ha adottato una caterva di sanzioni a danno della Russia per sanzionare la “violazione delle regole”. Ricordiamo sommessamente che in un documento del Parlamento Europeo (29/2/2024) si rinfaccia alla Russia di aver provocato la morte di 520 minori ucraini: il fatto che Israele, in soli cinque mesi di guerra abbia causato la morte di 13.000 minori a Gaza, non ha provocato alcun turbamento nelle bronzee facce dei leader politici italiani ed europei, mentre un silenzio di tomba è caduto di fronte all’aperta ribellione di Israele all’ordine di cessate il fuoco.

Si tratta di uno scandalo che non può essere tollerato oltre.

E’ questo il momento di agire, l’Unione Europea, e tutti i suoi Stati membri devono deliberare delle misure urgenti volte a far valere l’obbligo di cessare il fuoco. Per quanto riguarda l’Italia, la fornitura di armi ad Israele (per 2,1 milioni dall’inizio del conflitto) ed il definanziamento dell’UNRWA ci rendono complici delle stragi compiute dall’esercito israeliano e dello strangolamento della popolazione di Gaza attraverso la privazione dei beni essenziali per la vita.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/il-cessate-il-fuoco-non-e-un-optional-e-un-obbligo/

Senegal, un altro Paese perso alla causa del neocolonialismo occidentale ?

di Giovanni Santini (da Dakar)

Il Senegal ha scelto, in modo plebiscitario, il suo nuovo Presidente. Anche se lo spoglio non è ancora terminato e quindi manca l’ufficialità, la tendenza, a due terzi dei voti scrutinati è ormai chiara: Bassirou Diomaye, rappresentante del partito Pastef ha una superiorità schiacciante, di molto superiore al 50%, che gli permetterebbe di essere eletto al primo turno.

Presentatosi al posto di Ousmane Sonko, capo carismatico del partito che non ha potuto candidarsi per guai giudiziari, sarà con i suoi 44 anni, il più giovane Presidente della storia del Senegal.

I motivi che hanno indotto i senegalesi, in grande maggioranza, a votare un politico quasi sconosciuto fino a pochi mesi fa, sono diversi.

Innanzitutto il rigetto del Presidente uscente, Macky Sall, accentuatosi nelle ultime settimane dopo il maldestro tentativo di quest’ultimo di rimanere al potere ben oltre i limiti temporali previsti dalla Costituzione ed oltre il dissenso , ormai diffuso in tutta la società, per le sue politiche liberiste ed i suoi legami con la Francia. Anche la classe media, moderatamente agiata e benpensante, che lo aveva appoggiato per larga parte dei suoi due mandati, non ne poteva più del suo attaccamento al potere e dei tentativi di eliminare, per via giudiziaria, il principale oppositore, Ousmane Sonko. Le violente proteste seguite a tali tentativi e l’aperta violazione della Costituzione stavano facendo perdere al Senegal la propria fama di Paese pacifico e democratico a cui i senegalesi tengono molto e che costituisce un forte incentivo per gli investimenti stranieri. Nelle strade si respira un senso di liberazione e sul web si moltiplicano i commenti entusiasti per la fine di un incubo.

Ma un elemento altrettanto importante è costituito dalla proposta politica del Pastef, completamente opposta a quella portata avanti in questi anni e che interpreta il diffuso sentimento anticoloniale e segnatamente anti francese che pervade la società senegalese.

L’azione politica del Presidente uscente si era concentrata soprattutto sulla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, con l’intervento di capitali stranieri ma anche di grandi investimenti statali. L’allargamento della rete autostradale, inesistente fino a dodici anni fa; una moderna linea ferroviaria che serve la regione di Dakar; la creazione di un polo amministrativo ed industriale ad una trentina di chilometri dalla capitale per favorirne il decongestionamento; il miglioramento della viabilità della medesima, con la costruzione di viadotti e l’acquisto di autobus ecologici.

Tutti questi investimenti, però, hanno avuto una ricaduta minima sulle condizioni di vita delle famiglie, costrette a fare i conti con un costo della vita crescente in maniera esponenziale rispetto a salari e stipendi stagnanti; laddove, poi, si possa contare su un’entrata fissa a fine mese, visto che gli indici di disoccupazione e lavoro informale sono stati anche loro sempre crescenti negli ultimi anni.

Il malcontento popolare contro l’attuale governo ha raggiunto il culmine negli ultimi mesi quando non solo le bollette di energia elettrica ed acqua, ma anche gli ingredienti basici dell’alimentazione senegalese, come pane, riso e cipolle, hanno subito aumenti drastici.

L’agenda politica del Pastef, che si ispira, come dichiarato dai suoi principali esponenti, ad un “panafricanismo di sinistra”, prevede, in totale rottura con il passato, la rivendicazione della sovranità politica, finanziaria ed economica del Paese; il rifiuto delle ricette neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale a fronte dei propri prestiti, di cui l’ultimo, di 1,8 miliardi di dollari, approvato a giugno 2023, potrebbe essere rinegoziato o addirittura abbandonato dal nuovo governo; la messa in discussione del franco CFA, la moneta di 14 Paesi ex colonie francesi, controllata dalla Francia; la rinegoziazione dei contratti fin qui stipulati con società straniere per lo sfruttamento di petrolio, gas e miniere, che potrebbe cambiare il volto economico del Paese; la lotta alla corruzione che è stata il corollario dei contratti per le grandi opere infrastrutturali e per l’ammodernamento del Paese, stipulati con società straniere, con beneficio di queste ultime e dei politici di turno; una politica sociale per alleviare le difficili condizioni di vita della popolazione, sia urbana che rurale, attraverso, tra l’altro, un controllo dei prezzi dei beni di prima necessità.

Anche nella politica internazionale la discontinuità è evidente. In campagna elettorale Diomaye ha dichiarato che, pur non nutrendo ostilità nei confronti della Francia, il Senegal rivendica il diritto di scegliere i propri partner, non escludendo a priori alcuno Stato, con evidente riferimento alla Russia.

Insomma, è evidente che dopo Mali, Burkina Faso e Niger, il dominio neo coloniale francese in Africa occidentale sta perdendo un ulteriore pezzo, forse il più importante. E questa volta non attraverso un colpo di Stato militare, sia pure appoggiato dalla popolazione, ma per via costituzionale, nel rispetto di quella “democrazia” tanto cara al mondo occidentale, per la cui affermazione non si lesinano guerre e bombe su civili inermi.

Nel caso del Senegal il distacco è sancito dalla volontà popolare, attraverso il più democratico degli esercizi politici, le elezioni.

Chi avrà il coraggio di paventare interventi o ritorsioni, come avvenuto per gli altri Paesi che rifiutano l’appartenenza al vecchio mondo neo coloniale e liberale?

FONTE: http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2024/03/25/il-senegal-altro-paese-perso-alla-causa-del-neocolonialismo-occidentale/

Organizzare la battaglia contro il progetto di sconvolgimento del quadro istituzionale

Sintesi dell’introduzione di Alfiero Grandi al consiglio direttivo del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, del 15/3/2024

“Nell’ultimo consiglio direttivo, dicembre 2023, avevamo messo al centro 2 temi di fondo: Autonomia regionale differenziata e elezione diretta del Presidente del Consiglio su cui il Governo ha presentato in prima persona proposte di legge e sta gestendo direttamente anche le modifiche. Consapevoli che argomenti universali come questi debbono essere oggetto di una formidabile campagna di informazione e di orientamento – tanto più se dovessero evolvere come auspichiamo, soprattutto nel caso del cosiddetto “premierato”, verso consultazioni referendarie che sono l’ultima possibilità per bloccarne l’entrata in vigore – abbiamo indicato nella Via Maestra la sede politica necessaria per affrontare queste sfide.
Per questo abbiamo scritto insieme a Libertà e Giustizia e al Presidente di Salviamo la Costituzione una richiesta a La Via Maestra di affrontare questi temi, cosa che è avvenuta il 3 febbraio 2024 e ha trovato una prima sostanziale condivisione della centralità di questi temi, a cui giustamente sono stati intrecciati altri temi di enorme valore come ad esempio la precarietà, gli incidenti sul lavoro, gli appalti senza regole.

Il 2 marzo scorso una nuova assemblea nazionale de La Via Maestra ha non solo confermato l’orientamento di costruire a livello territoriale dei coordinamenti locali, facendo perno sulla diffusione organizzativa della Cgil ma ha approvato una sintesi conclusiva chiara che indica anche l’uso dei referendum sia nella materia costituzionale (elezione diretta del Presidente del Consiglio) che su Autonomia differenziata e temi sociali di fondo, senza trascurare strumenti diversi come leggi di iniziativa popolare, petizioni e altre iniziative per porre la questione dell’emergenza sanitaria, del rinnovo dei contratti di lavoro, tanto più indispensabile a fronte dell’erosione del potere d’acquisto e dei diritti dei lavoratori.

Noi che abbiamo dall’inizio ritenuto la Via Maestra la sede più opportuna per affrontare battaglie di grande impegno politico e sociale abbiamo anche posto il problema di allargare ulteriormente l’area dei soggetti impegnati e per questo abbiamo chiesto un incontro con la Uil nazionale e proveremo a organizzare iniziative verso i giovani, verso i quali c’è un lavoro ancora insufficiente.

Occorre avere la dimensione politica dello scontro che si prepara, perché se si arriverà ai referendum occorrerà cercare di vincerli, De Coubertin non basta. Per reggere un impegno come questo occorre un movimento che si estende e dura nel tempo perché la destra farà di tutto per assestare i suoi colpi nei momenti a lei più convenienti e oggi non è del tutto chiaro cosa intende fare nei prossimi mesi.

Per di più è in corso un’iniziativa cosiddetta bipartisan che anziché avere al centro i pericoli che rappresentano le iniziative del governo sembra più rivolta a cercare di bloccare il referendum costituzionale, cioè il diritto dei cittadini di esprimersi sulle modifiche della Costituzione, considerato evidentemente il vero avversario.

Dovrebbe essere l’iniziativa del governo sotto accusa ma al contrario è il referendum, cioè il diritto delle elettrici e degli elettori di pronunciarsi e decidere. Questa iniziativa cosiddetta bipartisan per ora è esplicitamente rinviata a dopo le elezioni europee.

Deve essere chiaro che qualunque sia l’intenzione vera del governo il referendum costituzionale può essere evitato solo se una parte dell’opposizione accetta di andare in soccorso della destra e questo per chi dichiara di volere chiarezza e trasparenza sarebbe il massimo del trasformismo politico, da cui non può venire nulla di buono.

A nostro avviso questa iniziativa non fa altro che confermare che c’è ancora molto da fare per informare, chiarire, mobilitare. Siamo convinti che la posta in gioco è enorme. Le destre hanno ottenuto il 44 % dei voti nel 2022, conquistando il 59 % dei deputati e dei senatori, con un premio di maggioranza del 15 %, un’enormità. Questa esagerata maggioranza parlamentare viene oggi usata come una clava per portare avanti un patto scellerato nella maggioranza fondato su due leggi di iniziativa del governo: elezione diretta del Presidente del Consiglio e Autonomia differenziata.

Se andassero in porto gli effetti sarebbero uno sconvolgimento della nostra Costituzione antifascista e della nostra democrazia fondata sul ruolo del parlamento e su un equilibrio tra i poteri dello stato e il loro reciproco controllo.

Democrazia non si riduce a votare ogni 5 anni ma è una complessa e continua dialettica politica e sociale e rispetto dei diritti a partire da quello di manifestare, contraddetto a Pisa nei giorni scorsi.

Occorre preparare e organizzare un movimento all’altezza di una sfida di fondo che riguarda la democrazia e la Costituzione e quindi puntando a vincere i referendum, quando ci saranno, in particolare quello costituzionale.

Per questo occorre coordinare le forze in campo, mobilitare le energie più diverse e perfino distanti, sapendo che un movimento ampio e variegato ha bisogno anche di consapevolezza che si lavora per un obiettivo di fondo comune, superando concorrenzialità inutili e distinguo.

Sul premierato. Non si capisce perché mai settori dell’opposizione dovrebbero entrare in una logica di trattativa (subalterna) in presenza di un ddl del Governo, le cui modifiche sono gestite da emendamenti del governo, senza alcuna possibilità di mettere in discussione la linea di fondo di questa proposta. Del resto è – purtroppo – lo stesso metodo usato da Renzi che portò al referendum del 2016.

L’asse della proposta del governo è un Presidente del Consiglio eletto direttamente, che taglia di netto i poteri del Presidente della Repubblica e riduce il parlamento alla subalternità, anche perché se si ribella, e cade il governo, si torna a votare, quindi vivrebbe sotto un ricatto permanente. E’ una proposta presentata fingendo di cambiare poco, ma in realtà scassa l’assetto fondamentale della nostra Repubblica, tagliando in modo sostanziale i poteri del Presidente della Repubblica, oggi indispensabile figura di garanzia ed equilibrio, e stabilendo un rapporto con il parlamento del tipo “simul stabunt simul cadent”, con il corollario di un’elezione maggioritaria di fedeli di chi viene eletto Presidente del Consiglio, una sorta di guardia del pretorio.

Alla proposta di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, avviando la costruzione di una sorta di capocrazia, occorre contrapporre l’elezione diretta di tutti i deputati e senatori da parte delle elettrici e degli elettori, anziché farli scegliere dall’alto, dai capi, sulla base della loro fedeltà. E’ incredibile che sia chi è capo del partito, della formazione politica europea e presidente del Consiglio che dica sfrontatamente che propone agli elettori di scegliere il Presidente del Consiglio, contrapponendo i vertici dei partiti agli elettori come se lei non fosse segretaria del maggior partito. 

E’ poi curioso che la maggioranza stia lavorando alacremente per aumentare in ogni occasione i poteri della Presidenza del Consiglio, evidentemente in vista di questa modifica della Costituzione.

Con questa modifica la Costituzione del 1948 verrebbe stravolta, cambierebbe il suo impianto democratico ed antifascista e l’Italia si avvierebbe verso una nuova Costituzione e una nuova Repubblica. Del resto la destra al governo sta cercando una nuova legittimazione che la affranchi da domande scomode sul suo rapporto con il passato. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, in futuro con queste modifiche La Russa potrebbe essere il successore di Mattarella e non è uno scherzo.

Costruiamo informazione, orientamento, costruiamo un No di massa e prepariamoci al referendum costituzionale, se in parlamento non si riuscirà a fermare questo provvedimento.

L’altro corno è l’Autonomia regionale differenziata. Rivendico il ruolo importante della nostra proposta di legge di iniziativa popolare per modificare gli articoli 116 e 117 della Costituzione per interrompere in modo netto la possibilità di una interpretazione del titolo V a cui dichiara di agganciarsi la proposta Calderoli. Quando siamo partiti abbiamo avuto resistenze e critiche ma poi grazie al sostegno dei sindacati scuola siamo arrivati a 106.000 firme e la proposta è stata presentata al Senato e grazie ad un regolamento più aperto alle lip abbiamo ottenuto di incardinarlo in commissione e poi di portarlo in aula. Certo la maggioranza lo ha messo in discussione dopo l’approvazione al Senato del ddl Calderoli, ma il suo contributo è stato di fare riflettere tutta l’opposizione, anche quella che non riusciva a fare i conti con formulazioni del titolo V approvato nel 2001 dal centro sinistra. Quando è stata discussa la nostra Lip ormai tutta l’opposizione aveva compreso che solo liberandosi da eredità del passato era possibile opporsi con nettezza al ddl Calderoli, che ad ogni piè sospinto dichiara di volere attuare la Costituzione. Noi abbiamo sempre sostenuto che in realtà non è così ma anche se fosse basta cambiare alcuni punti del titolo V per correggere la situazione.

Ora il testo sull’ A. D. è alla Camera e sono in corso molte audizioni che come già al Senato confermano le peggiori preoccupazioni sul ddl Calderoli. Sta crescendo nel Mezzogiorno la consapevolezza delle conseguenze di questa proposta, con il rischio concreto che la secessione dei ricchi non sia solo uno slogan. Occorre insistere, ma bisogna porsi l’obiettivo di spiegare anche al Nord come è stato fatto già in alcune realtà che la frantumazione del nostro paese e dei diritti dei cittadini è un danno per tutti e prelude alla privatizzazione dei servizi che rispondono a diritti fondamentali  come sanità, scuola, lavoro,ecc. L’obiettivo è fermare l’approvazione della proposta Calderoli, o almeno ritardarla compreso un rinvio al Senato se si riuscirà ad introdurre modifiche. Se l’A.D. dovesse diventare legge ci sarà ancora tanto da fare, Villone si è esercitato con altre proposte importanti, dai ricorsi delle Regioni alla Corte costituzionale a consultazioni popolari che potrebbero promuovere direttamente i comuni che hanno questa previsione nello statuto per allargare il dissenso sull’A. D.. Naturalmente continuando a fare crescere la mobilitazione e le iniziative.

A nostro avviso se dei parlamentari ripresenteranno alla Camera la lip potranno usarla per arricchire le motivazioni e le occasioni di contrasto al ddl Calderoli.

Quando i tempi dei provvedimenti si allungano non è semplice mantenere la mobilitazione in modo continuativo, ma dobbiamo proseguire con impegno e fantasia.

In particolare consideriamo possibile tentare anche la strada del referendum abrogativo del ddl Calderoli che con una furbata è stato connesso alla legge di bilancio ma è in realtà un provvedimento che non c’entra con la spesa, infatti non prevede un intervento a favore delle regioni più deboli e recita più volte che non ci saranno aumenti di spesa, quindi c’è lo spazio per sostenere che un referendum abrogativo è possibile anche prima che intervengano i decreti attuativi.

Premierato e Autonomia regionale differenziata pongono il problema generale che occorre recuperare errori del passato che hanno portato a sottovalutare il ruolo strategico della Costituzione e il valore dell’assetto democratico che essa prevede.

Oggi va rilanciata l’attuazione e la difesa della Costituzione e questo va fatto come ha deciso la Via Maestra, mettendo in collegamento temi sociali e sostanza della democrazia, unificando le iniziative referendarie quando è possibile.

Con questo indirizzo organizzeremo un appuntamento il 23 aprile pomeriggio nella sala Capitolare del Senato, che verrà trasmessa in diretta dalla Tv del Senato, con l’obiettivo di fare sentire forte e chiara la contrarietà a queste proposte e insieme per contribuire a rilanciare un grande movimento sulle questioni di fondo della democrazia in Italia. Non ci rassegniamo al declino della partecipazione, vogliamo contribuire a dimostrare che si può rilanciare il protagonismo dei cittadini.

Infine sulla legge elettorale. Certo, è necessaria una nuova legge elettorale fondata su proporzionale ed elezione diretta dei parlamentari da parte di elettrici ed elettori, ma dobbiamo riconoscere che tuttora ci sono pareri diversi anche dentro l’opposizione, che peraltro ha perso l’occasione che ha avuto prima della vittoria delle destre per cambiare una legge sbagliata ed erratica come il rosatellum. Il maggioritario resiste malgrado le evidenze contrarie anche in una parte dell’opposizione e c’è ancora molto lavoro da fare per superare le difficoltà attuali. Oggi è difficile immaginare di affrontare con un referendum abrogativo il superamento del rosatellum e la discussione sui quesiti mi sembra francamente prematura, tanto più che si rischia di dividere lo schieramento unitario che occorre costruire e rafforzare sulla Costituzione e l’Autonomia differenziata.

Certo occorre evitare di tornare a votare con il rosatellum ma prima occorre fermare l’attacco alla Costituzione e nel frattempo costruire un orientamento che oggi non ha abbastanza forza per affrontare una prova difficile. Non tutto si può affrontare per via referendaria, ci sono altri strumenti da usare, al limite in vista di questo obiettivo, per fare crescere la consapevolezza sull’esigenza di arrivare ad una nuova legge elettorale. Ci sono oggi posizioni interessanti con cui confrontarsi per fare crescere la consapevolezza.

La nostra organizzazione è a rete, non ha sovraordinati, e ovviamente c’è piena libertà di assumere iniziative ma dobbiamo avere la consapevolezza che il coordinamento oggi non avrebbe la forza e le risorse umane e materiali, nemmeno volendo, per andare nella direzione di un referendum abrogativo sulla legge elettorale.
Non manca la convinzione che il problema della legge elettorale è fondamentale per contrastare l’astensionismo ma occorre perseguire l’obiettivo con consapevolezza delle risorse e delle energie disponibili.  

(Alfiero Grandi)

La situazione ad Haiti. Documenti dal fronte interno.  

La polizia antisommossa keniota pattuglia uno slum durante le proteste antigovernative

a cura di Enrico Vigna, 13 marzo 2024

Premetto che questo lavoro è un insieme di documentazioni provenienti da movimenti e realtà haitiane sul campo o di sostegno al popolo haitiano da anni, e non interpretazioni o analisi estemporanee da qui. Soprattutto, molto al di fuori da letture uniformi o lineari, dato il complesso e intricatissimo quadro che la storia haitiana passata e attuale raffigura. 

E’ una resistenza, un processo rivoluzionario o un ennesimo scontro sanguinoso tra attori disgiunti tra loro, ma con interessi momentanei coincidenti? Questa, che sembra una domanda banale è in realtà la riflessione centrale, per ora senza risposta, che si pongono militanti, attivisti, politici e studiosi haitiani nel paese o fuori. Sicuramente, come sempre, saranno gli sviluppi sul campo a dare una risposta. Per ora mettiamo sotto i riflettori questi materiali, documentazioni, denunce, appelli che ci arrivano dai protagonisti e testimoni diretti.


A causa della situazione caotica che il Paese ha vissuto negli ultimi tempi, la lotta del popolo haitiano per un domani migliore, sta vivendo in queste settimane un passaggio cruciale, considerando una indubbia mobilitazione popolare, insieme a violenze dispiegate, ma non solo casuali o spontanee, che sembrano suscitare nelle masse diseredate, speranze di cambiamenti radicali e ricerca straziante di futuro, mentre gettano indubbiamente nel panico i colonizzatori e gestori da Washington e Parigi, di Haiti.

In seguito a manifestazioni popolari di protesta e rabbia, verificatesi negli ultimi mesi la risposta del governo è stata una repressione brutale e criminale sulla popolazione e molti civili sono stati feriti o assassinati dalla polizia.

In particolare la repressione che si è abbattuta sui manifestanti durante la giornata di protesta del 7 febbraio, ha svelato definitivamente il carattere reazionario e duro a morire di questo regime fuorilegge imposto dagli Stati Uniti. Nel tentativo del regime di proteggersi da ogni possibilità di cambiamento popolare rivoluzionario, ha scatenato terrore e violenze indiscriminate nelle piazze e nei quartieri, ecco perché mentre la popolazione civile è stata costretta ad arretrare, tutta la rete, certamente legata al crimine, ma non tutte le bande, hanno reagito e occupato il vuoto di potere sul campo. Questa risposta, controversa e da valutare in profondità, non con categorie precostituite o usuali, ma tenendo conto della realtà devastata socialmente del paese, ha trovato il riconoscimento istintivo e l’appoggio degli umiliati e dei diseredati, di contadini, lavoratori e soprattutto di un gran numero di giovani.

Questa mobilitazione e dimostrazione di forza militare, ha suscitato una potente eco tra le masse diseredate haitiane, può piacere o meno, ma è un dato di fatto oggettivo e concreto, come si può leggere nelle documentazioni qui esposte come informazione. È un’esperienza sociale e politica fuori dagli schemi e nuova, una prova formidabile nel quale le masse immiserite e schiacciate di Haiti si sono identificate senza alcun segno di ritegno o esame. Dimostra la volontà di un popolo da troppi decenni soggiogato e sfruttato in modo disumano e criminale, che chiede cambiamento e la costruzione di una vita dignitosa, in qualsiasi modo. Certo, forse è solo la ricerca di una speranza, anche intrisa di contraddizioni e rischi, che potrebbe nuovamente scemare, ma per essi è necessità, bisogno per sopravvivere. Un popolo, vittima sacrificale, distrutto da decenni di precarietà, disoccupazione, di vita in abitazioni insalubri, se non capanne, servizi pubblici quasi inesistenti, carestie e disastri naturali, sfruttamento smisurato, insicurezza, miseria e sfollamenti forzati, tutte conseguenze dei governi di questi decenni assoggettati al dominio statunitense. Questo è Haiti oggi.

Purtroppo, quasi tutte le componenti politiche, sia interne che internazionali, faticano o non intendono affrontare la situazione creatasi, anche perché, oggettivamente è piena di rischi e nebulosa sul terreno. Ma come qui documento, non tutti si sono astenuti o negati a per dare solidarietà al popolo haitiano.

Un dato è certo, nessuno crede più che le soluzioni verranno dalla classe politica tradizionale locale, che già si prepara a riprendere il controllo con la proposta di una transizione, per ricominciare a dialogare e condividere con l’imperialismo e i suoi discepoli. In particolare i vari Ariel Henry, André Michel, Edmonde Supplice Beauzile, politici asserviti allo straniero che vorrebbero intavolare trattative per un compromesso e una nuova spartizione del paese.

Cercare di comprendere le complessità di Haiti e la sua lotta per un vero cambiamento è molto difficile e composito. Ma il punto fondamentale da comprendere e da cui partire per affrontare la situazione creatasi, è questo: da quando gli Stati Uniti hanno rovesciato il presidente Jean Bertrand Aristide, legittimamente eletto, esattamente nel febbraio di 20 anni fa, Haiti ha vissuto incessanti interferenze elettorali, sfruttamento, invasione e occupazione da parte o per conto del governo degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Il risultato è stato un ingresso incontrollato di armi nordamericane, la proliferazione di paramilitari, il dilagare di bande criminali, disperazione economica, malattie e la costruzione di carceri finanziate dagli Stati Uniti. Haiti è un paese che sta crollando sotto la guida di un governo scelto dagli Stati Uniti e non scelto dal popolo. In queste settimane il paese è praticamente occupato: dall’aeroporto di Port-Au-Prince, ai porti, alle varie istituzioni, banche, depositi di carburante, carceri e con il presidente Ariel Henry, di fatto in esilio fuori dal paese. I manifestanti chiedono le dimissioni di Henry, la cacciata dal paese di tutti i politici e amministratori legati agli USA e corrotti.

Tra settembre 2021 e 2022, si stima che nelle carceri haitiane siano morti di fame tra 80 e 100 detenuti. Nel Penitenziario Nazionale, i detenuti non hanno condizioni vitali e umane minime, l’83% dei prigionieri haitiani sono detenuti in custodia cautelare che non hanno nemmeno visto un giudice, alcuni aspettano da anni senza che vengano formalmente mosse accuse contro di loro. I media asserviti e i portavoce del governo americano cercano di liquidare ciò che sta accadendo in queste settimane, come una crisi causata da “gang violente”, problema reale ma che è solo un aspetto del problema. E’ una grave semplificazione del problema, che serve solo gli interessi di coloro che desiderano sfruttare e controllare Haiti per i propri fini. Ridurre la crisi a un nebuloso conflitto con “gang armate” è un tentativo razzista di utilizzare un linguaggio in codice per stereotipare gli haitiani. Haiti è il prodotto del caos generato dall’occupazione straniera e dai gruppi criminali e paramilitari sponsorizzati dall’oligarchia haitiana e dai leader economici e politici mantenuti al potere con l’aiuto degli USA. Più volte ci sono stati casi in cui i conflitti armati venivano risolti attraverso negoziati locali o territoriali, ma subito dopo la pace rotta veniva rotta da una di queste bande legate a interessi stranieri o di potentati locali corrotti.

Ma l’altro aspetto della storia è che è in corso una massiccia resistenza e mobilitazione popolare. Ad Haiti è in corso una rivolta per cambiare lo stato putrido delle cose e la fine del controllo straniero. Le richieste che il presidente Henry si dimetta, che agli haitiani sia permesso di tenere elezioni sotto il controllo popolare e che le invasioni e le occupazioni sponsorizzate dagli Stati Uniti debbano finire non sono richieste di “gang”, ma del popolo. L’attuale presidente di Haiti, Ariel Henry, è stato scelto nel 2021 dal gruppo CORE, composto da ambasciatori di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Spagna, Unione Europea e Brasile, insieme a rappresentanti dell’Organizzazione degli Stati Americani e delle Nazioni Unite. Era stato scelto per guidare il paese dopo l’assassinio del presidente Jovenal Moise. Henry è implicato nella pianificazione dell’assassinio, in uno scontro di poteri, per questo si è sempre rifiutato di collaborare alle indagini e non bisogna dimenticare che Henry partecipò anche al colpo di stato contro il presidente Aristide, venti anni fa.

Gli Stati Uniti hanno finora sostenuto il governo Henry, ma si rendono conto che la loro strategia è fallita e che il governo Henry probabilmente cadrà con o senza il sostegno degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato statunitense ha ora invitato Henry a dimettersi e ad avviare la transizione verso un nuovo governo. L’onestà dell’appello è dubbia e sembra essere piuttosto un tentativo da parte degli USA, di riprendere il controllo e facilitare la formazione di un nuovo governo che continuerà a fungere da rappresentante del dominio statunitense. Nello stesso momento in cui chiede le dimissioni di Henry, la Casa Bianca preme affinché venga schierata una forza d’invasione multinazionale guidata dal Kenya. Quella forza sarà lì per continuare a garantire l’egemonia statunitense, non per garantire una transizione verso elezioni giuste. Sono state discusse anche le eventualità di schierare un’unità d’élite di Marines americani.

Tuttavia, i piani statunitensi mostrano molteplici crepe. L’amministrazione Biden ha promesso fino a 200 milioni di dollari per sostenere la forza multinazionale, ma i finanziamenti sono stati bloccati dai Repubblicani che mettono in dubbio i costi. Le stime dicono che il prezzo potrebbe salire fino a 500 o seicento milioni di dollari. L’opposizione Repubblicana, che non mette in discussione il ruolo assoggettatore USA, sostiene inoltre che non c’è abbastanza tempo per formare e addestrare sufficientemente una forza d’invasione. Ancora una volta la proposta non è trovare soluzioni negoziali o conciliatorie ma è la metodologia di invasione e interferenza. In effetti, fu l’International Republican Institute (IRI), uno dei quattro istituti principali del National Endowment for Democracy, a coordinare essenzialmente il rovesciamento di Aristide nel 2004. L’IRI e la CIA addestrarono Guy Philippe a guidare il colpo di stato. Dopo il colpo di stato e le sue conseguenze, Phillipe andò negli Stati Uniti. Successivamente venne arrestato con l’accusa di riciclaggio di denaro legato ai narcotrafficanti colombiani. Philippe è stato rilasciato lo scorso novembre dopo sei anni di detenzione e poi rientrato ad Haiti., annunciando la sua intenzione di candidarsi alla presidenza. Anche da parte Democratica c’è stata una certa resistenza alle politiche di Biden. Alcuni rappresentanti alla Camera hanno rilasciato una dichiarazione nel dicembre 2023 invitando il presidente Biden a cambiare rotta, scrivendo che: “…Un altro intervento straniero armato ad Haiti non si tradurrà nella necessaria transizione guidata verso un governo democratico, piuttosto rischia di destabilizzare ulteriormente il paese, mettendo in pericolo più persone innocenti e rafforzando l’attuale regime illegittimo”.

Alla domanda se c’è qualche soluzione praticabile, i vari esponenti politici, militanti haitiani, ribadiscono la necessità primaria e fondamentale di espellere dal paese Stati Uniti, Francia, Canada e i loro alleati, solo questo passaggio difficile e impervio potrà aprire scenari nuovi per il popolo haitiano. Dietro i titoli sensazionalistici e inquietanti dei media occidentali, pervasi di un sottile razzismo, per cui Haiti è ingovernabile e il popolo haitiano non può governarsi da solo, è indirizzato e prepara il terreno a giustificare e legittimare una coalizione militare straniera che intervenga per “ stabilizzare e salvare” dal caos il paese. E’ invece un attacco alla sovranità e all’indipendenza di Haiti e del suo popolo.




Queste le posizioni e documentazioni dalla parte delle forze di resistenza popolari haitiane e quelle solidali con esse


Fanmi Lavalas, il partito dell’ex presidente Aristide, l’unico presidente eletto dal popolo nella storia di Haiti, ha risposto all’aggravarsi della situazione, e della crisi umanitaria e politica ad Haiti denunciando i molteplici interventi e attacchi degli Stati Uniti alla sovranità haitiana, come causa principale di queste crisi, che stanno causando sempre più vittime di, sofferenze e migrazioni forzate dal paese più povero dell’emisfero occidentale. Invita gli haitiani a manifestare e sostenere le parole d’ordine come “Truppe statunitensi/keniote, Ariel Henry/Gangster: fuori da Haiti!”, “Il governo haitiano non eletto è il capo gangster! Autodeterminazione per il popolo haitiano e “Fermare i massacri e i rapimenti”, che sono diventati crimini quotidiani contro le masse di Haiti.

Maryse Narcisse la presidente di FL ha dichiarato: “ Ogni giorno, la polizia haitiana, sotto il comando di Henry, armata e addestrata dall’esercito statunitense, lancia gas, picchia e uccide lavoratori disarmati che partecipano alle grandi proteste contro le condizioni di povertà e il governo. Qualsiasi caos sociale interno, che attanaglia i quartieri haitiani è stato creato dall’intervento degli Stati Uniti…”.

Il portavoce di Fanmi Lavalas, Jodson Dirgène, da parte sua ha dichiarato in un’altra intervista al programma ”Panel Magik”: “…Non possiamo chiedere al primo ministro Ariel Henry di dimettersi, non gli abbiamo mai dato un mandato…”.


Fòrs Revolisyonè G9 an Fanmi e Alye (Forze Rivoluzionarie della Famiglia G9 e alleati)

L’Alleanza G9 Famiglia e Alleati (G9 Fanmi e Alye) è una federazione di nove bande armate. Fondata nel giugno 2020 dall’ex agente di polizia diventato capobanda Jimmy Chérizier, detto “Barbecue”, questa coalizione controlla gran parte delle azioni armate organizzate dentro la rivolta.

L’ex agente di polizia Jimmy Chérizier, è una figura molto controversa e non lineare, sicuramente poco classificabile per ora, in questi mesi è divenuto il punto di riferimento militare ma anche politico all’interno di Haiti. Con un passato rasente e congiunto alla criminalità più dura, è poi diventato famoso per aver fondato G9 and Family (G9 an fanmi – G9), una federazione di nove potenti bande territoriali, radicate soprattutto nella capitale haitiana di Port-au-Prince, ma con ramificazioni anche in altre città dell’isola. Dallo scorso anno G9 si presenta come un’organizzazione politica rivoluzionaria e ha creato una rete di alleanze a livello nazionale denominata “G20”.

Da molti indicato come un efferato criminale, addirittura sanzionato dagli Stati Uniti, negli ultimi anni si è voluto proporre come leader politico rivoluzionario. Da tutti, in questo momento è considerato l’uomo più potente del Paese. Cherizier aveva costruito un forte legame con una delle forze politiche più potenti di Haiti, il partito haitiano Tèt Kale (Parti Haïtien Tèt Kale – PHTK) dell’ex presidente Jovenel Moise, poi dopo il suo assassinio allontanandosene, così come con pezzi della polizia, in particolare con le Forze di sicurezza, arrivando ora ha imporre le dimissioni del presidente Henry e sfidando apertamente lo Stato haitiano. 

In una intervista con la TV statunitense ABC News, Cherizier, ha promesso che la sua Alleanza avrebbe concesso una tregua, se Henry si fosse dimesso, i suoi combattenti avrebbero “fermato automaticamente gli attacchi alle stazioni di polizia…ma la guerra contro lo Stato continuerà fino a che tutte le élite politiche corrotte non saranno eliminate…Il primo passo è rovesciare Ariel Henry e poi inizieremo la vera lotta contro il sistema attuale, il sistema di oligarchi corrotti e politici tradizionali corrotti…Non solo stiamo combattendo contro Ariel Henry, ma stiamo anche combattendo contro chiunque abbia qualche complicità…Il mio messaggio per la comunità internazionale, in particolare per gli Stati Uniti che hanno un rapporto di lunga data con il popolo haitiano, è che dico loro che non possono più continuare a trattare il popolo haitiano come hanno fatto finora… Non siamo in una rivoluzione pacifica. Stiamo facendo una rivoluzione sanguinosa nel paese perché questo sistema è un sistema di apartheid, un sistema malvagio…”.

Cherizier ha anche accennato alle ambizioni presidenziali, dicendo ad ABC News: “Non sono io a decidere se voglio essere presidente o no. Sarà il popolo haitiano a decidere chi dovrà essere il suo presidente, chi dovrà guidare il Paese. Personalmente mi considero un servitore del PaeseAbbiamo deciso di prendere in mano le sorti del Paese. Ciò significa liberare il paese dal 5% delle persone che controllano l’85% della ricchezza del paese…”.

Brian Concannon, direttore esecutivo dell’Istituto per la giustizia e la democrazia di Haiti (IJDH), un istituto statunitense ha dichiarato che: “… il più grande attore criminale di Haiti ha ora un potere significativo nel sistema politico formale. Con il sostegno degli elettori nelle zone della città sotto il suo controllo , in futuro potrebbe addirittura candidarsi per un seggio in parlamento, con grandi margini di vittoria…”.


La Black Alliance for Peace ( Alleanza Nera per la Pace , BAP), sezione Haiti

“…La posizione dell’Alleanza Nera per la Pace è coerente e chiara. Noi sosteniamo gli sforzi del popolo haitiano per affermare la propria sovranità e rivendicare la propria indipendenza.Denunciamo l’attuale attacco imperialista contro Haiti e chiediamo che venga estirpata la presenza dei governanti coloniali stranieri di Haiti…il fallimento della governance nel paese, non è qualcosa di interno ad Haiti, ma è un risultato dello sforzo concertato da parte dell’Occidente per sventrare lo Stato haitiano e distruggere la democrazia popolare ad Haiti… Haiti è attualmente sotto occupazione da parte degli Stati Uniti/ONU e del Core Group, entità straniere che governano effettivamente questo paese. L’occupazione di Haiti è iniziata nel 2004 con il sostegno di Stati Uniti, Francia e Canada al colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto di Haiti.

Il colpo di stato è stato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.Che ha poi istituito una forza militare di occupazione (eufemisticamente chiamata missione di “peacekeeping”), con l’acronimo MINUSTAH. Sebbene la missione MINUSTAH sia ufficialmente terminata nel 2017, l’ufficio ad Haiti è stato ricostituito come BIHUH.BINUH,e continua ad avere un ruolo importante negli affari haitiani….Negli ultimi quattro anni le masse haitiane si sono mobilitate e hanno protestato contro un governo illegale, l’ingerenza imperialista e all’insicurezza da parte di gruppi armati finanziati dalle élite. Tuttavia, queste proteste sono state represse dal burattino installato dagli Stati Uniti. Dal 2021, i tentativi di controllare Haiti da parte degli Stati Uniti si sono intensificati.In quell’anno, il presidente di Haiti, Jovenel Moïse, fu assassinato e Ariel Henry fu insediato dagli Stati Uniti e dal gruppo ristretto delle Nazioni Unite come primo ministro de facto. Sulla scia del l’assassinio di Moïse e l’insediamento di Henry, gli Stati Uniti hanno cercato di costruire una coalizione di stati stranieri disposti a inviare forze militari per occupare Haiti e affrontare il presunto problema delle “gang” di Haiti….I gruppi armati (le cosiddette “gang”), principalmente nella capitale Haiti dovrebbero essere intese come forze “paramilitari”, poiché sono costituite da ex (o attuali) elementi militari e di polizia haitiani.

Molte di queste forze paramilitari sono note per agire per alcune delle élite di Haiti…Quando noi parliamo di “bande”, dobbiamo conoscere che le bande reali e più potenti del mondo sono gli Stati Uniti, il Core Group e l’ufficio illegale delle Nazioni Unite ad Haiti, in quanto sono questi che hanno contribuito a creare l’attuale crisi… Gli attacchi alla sovranità dei neri ad Haiti sono uguali agli attacchi ai neri in tutte le Americhe. Oggi Haiti è importante e vitale per la geopolitica e l’economia degli Stati Uniti.Haiti si trova in una posizione chiave nei Caraibi per la strategia militare e di sicurezza degli Stati Uniti nella regione, soprattutto alla luce dell’imminente confronto tra Stati Uniti e Cina, contesto dell’attuazione strategica del Global Fragilities Act…I BAP, come molte organizzazioni haitiane e di altro tipo, hanno argomentato con coerenza contro un rinnovato intervento militare straniero. Abbiamo chiesto con insistenza la fine dell’occupazione straniera di Haiti.Questo comprende lo scioglimento del Core Group, dell’ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti (BINHU), e la fine della costante ingerenza degli Stati Uniti, insieme ai suoi partner minori, CARICOM e il Brasile. Abbiamo denunciato i governi della Comunità Latinoamericana e Stati dei Caraibi (CELAC) (ad eccezione di Venezuela e Cuba), che sostengono i piani statunitensi per l’intervento armato ad Haiti e la negazione della sovranità haitiana. Abbiamo denunciato i leader della CARICOM…Le soluzioni di Haiti dovrebbero arrivare dal popolo haitiano attraverso un ampio consenso…Abbiamo anche criticato il ruolo del presidente brasiliano Luiz Inácio “Lula” da Silva, non solo per aver continuato il ruolo del Brasile nel Core Group, ma anche per guidarlo insieme al governo criminale degli Stati Uniti. In solidarietà con i movimenti haitiani, abbiamo denunciato l’approvazione delle Nazioni Unite, all’invasione armata straniera e l’occupazione di Haiti, finanziata dagli Stati Uniti e guidata dal Kenya. Noi siamo fermamente convinti che un intervento straniero armato ad Haiti guidato dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, non sia solo illegittimo, ma illegale.Sosteniamo il popolo haitiano e le organizzazioni della società civile che sono stati coerenti nella loro opposizione ai militari armati stranieri…Continueremo a sostenere i nostri compagni mentre lottano per un mondo libero e sovrano Con Haiti. Viva Haiti!”.


La Via Campesina Haiti

Questo comunicato stampa è stato preparato dalle organizzazioni membri di La Via Campesina ad Haiti, tra cui Mouvman Peyizan Nasyonal Kongre Papay (MPNKP), Mouvman Peyizan Papay (MPP), e Tet Kole Ti Peyizan Ayisyen (TK), in collaborazione con il coordinamento regionale delle organizzazioni del sud-est (KROS). Queste organizzazioni formano collettivamente la piattaforma “4 Je Kontre” ad Haiti.

Haiti: appello per la resistenza e la solidarietà con il popolo haitiano per un governo di transizione 16 febbraio 2024

Haiti, 6 febbraio 2024

La piattaforma “4 Je Kontre”, che comprende il Movimento Nazionale Contadino del Congresso Papaye (MPNKP), Tet Kole Tile Peyizan Ayisyen (TK), il Movimento Contadino di Papaye (MPP) e il Coordinamento Regionale delle Organizzazioni del Sud-Est (KROS), coglie questa opportunità per elogiare la resilienza e la determinazione del popolo haitiano contro il regime autoritario del PHTK. Questo regime è guidato dal primo ministro de facto Ariel Henry, da altri membri del governo senza scrupoli, e dai loro alleati nazionali e internazionali. Un’analisi completa della terribile situazione di Haiti rivela che gli atti criminali di bande armate e criminali senza scrupoli persistono, ostacolando la mobilitazione a livello nazionale contro il regime. L’aumento dell’insicurezza è stato documentato nelle aree in cui la popolazione è sottoposta a rapimenti, massacri, incendi di proprietà e stupri di donne e ragazze, tra le altre atrocità.

La popolazione è alle prese con un periodo economicamente difficile, caratterizzato da un costo della vita in ascesa. I beni essenziali continuano ad aumentare di prezzo, mentre il governo de facto di Ariel Henry assegna fondi significativi per finanziare bande e mercenari all’interno della Polizia Nazionale per mantenere la sua presa sul potere. La comunità internazionale, rappresentata dal BINUH, dal Core Group e dalle Nazioni Unite, persiste nel sostenere il governo de facto, adottando tattiche di ritardo per mantenere Ariel al potere, nonostante il diffuso malcontento pubblico e l’insoddisfazione per le istituzioni politiche. Ariel e le sue coorti hanno dichiarato la loro intenzione di rinunciare al potere dopo aver tenuto le elezioni, nonostante vari settori della vita nazionale propongano una soluzione haitiana alla crisi di Haiti. Sfortunatamente, nessun progresso è stato fatto mentre Ariel Henry ostacola tutte le iniziative volte a spostare il suo governo.

Per oltre due anni, Ariel Henry ha sostenuto le elezioni con la premessa che PHTK potrebbe rinnovarsi, condizionando negativamente la popolazione attraverso l’aumento delle tasse, l’aumento dei prezzi del carburante e la dispersione di fondi pubblici a programmi di assistenza sociale inefficaci. Dichiariamo enfaticamente che questa situazione è insostenibile, e dobbiamo sforzarci con veemenza a rovesciare il sistema e tutte le forze di supporto a spese del popolo.

In questo contesto, tutte le organizzazioni membri di “4 Je Kontre” approvano la proposta del Montana, sostenendo una rottura completa e l’istituzione di un governo di transizione a doppia testa, che dovrebbe durare tra i 18 e i 24 mesi. Questo governo mira a spianare la strada istituendo un consiglio elettorale imparziale, libero dall’influenza degli Stati Uniti e da qualsiasi interferenza della comunione internazionale. Inoltre, il governo di transizione dovrà garantire la sicurezza in tutto il territorio nazionale, consentendo la libera circolazione della popolazione.

4 Je Kontre” continuerà fermamente a sostenere tutte le azioni e le richieste positive di altri settori progressisti volti a rovesciare il governo de facto e i suoi alleati.

Lunga vita alla sovranità di Haiti!

Lunga vita alla battaglia del popolo per una soluzione haitiana per Haiti!

Lunga vita alla solidarietà tra tutte le organizzazioni progressiste in lotta per la giustizia sociale!”.


Coalizione Viv Ansanm / Living Together”. Movement – Vivere Insieme

‘Viv Ansanm non riconoscerà nessun governo risultante dalle proposte della Comunità e del Mercato Comune del Caribe (CARICOM)…E’ compito e responsabilità del popolo haitiano eleggere i propri leader che governino il paese…”.

La più grande prigione civile della Repubblica di Haiti è stata occupata da bande armate appartenenti del “Viv AnsannLiving Together”. Movement”, una coalizione di diversi gruppi armati nella capitale Port-au-Prince. Guidati da droni che li informavano della posizione della polizia, gli insorgenti hanno appiccato il fuoco nei dintorni del carcere e poi si sono diretti alla prigione. È diventato virale sui social un video ripreso da un drone con l’immagine del carcere conquistato.


HAITI Libertè

L8° vertice CELAC, tenutosi a Kingstown, Saint Vincent e Grenadine, 1 marzo 2024

La CELAC dovrebbe rivedere la sua posizione su Haiti

Secondo HaitiLibertè, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), ha pronunciato una grave decisione: “…è stato scioccante trovare nel documento finale del Summit Celac, il sostegno al piano di Washington di condurre una guerra contro il popolo haitiano per mantenere di fatto al potere il primo ministro Ariel Henry. La “Dichiarazione di Kingstown”, all’articolo 73, afferma: Chiediamo la rapida ed efficace attuazione della risoluzione 2699 (2023) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, inclusa la creazione delle condizioni di sicurezza necessarie ad Haiti come mezzo per mantenere la libertà ed elezioni eque ad Haiti e gettando le basi per uno sviluppo economico e sociale sostenibile a lungo termine nel paese, rafforzando la sicurezza e affrontando le cause strutturali alla base dell’attuale violenza e vulnerabilità…Questa aberrazione del vertice CELAC, potrebbe essere la conseguenza della posizione del Brasile sullo schieramento di una forza militare nell’isola…Nella sua dichiarazione al vertice, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato: ’Ad Haiti dobbiamo agire rapidamente per alleviare la sofferenza di una popolazione dilaniata dal caos sociale. Il Brasile afferma da anni che il problema di Haiti non è solo un problema di sicurezza, ma soprattutto un problema di sviluppo…’ Inoltre, va ricordato che Lula è stato purtroppo responsabile della guida brasiliana della Missione delle Nazioni Unite per stabilizzare Haiti (MINUSTAH) dal 2004 al 2017, un’occupazione militare straniera responsabile violenze, morti, inquinamento e di un’epidemia di colera ad Haiti… Fortunatamente, al vertice della CELAC, il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato chiaramente l’opposizione del suo paese all’intervento straniero ad Haiti, proprio come Hugo Chavez si era opposto alla MINUSTAH. ‘Non siamo d’accordo con nessun tipo di invasione nascosta, portando truppe da qui o da là. Questa non è la soluzione per Haiti…’. La CELAC dovrebbe rivedere immediatamente la “Dichiarazione di Kingstown” e rimuovere l’Articolo 73, che non fa altro che alimentare il piano di Washington di creare una forza per procura dalla faccia nera per occupare militarmente Haiti ancora una volta, per la terza volta in tre decenni. Il popolo haitiano respinge universalmente gli sforzi evidenti di Washington per salvare il suo burattino Ariel Henry, ora in esilio…”.

Anche Cuba, mantenendo prominente la sua statura politica e morale, con l’intervento del suo presidente Miguel Díaz-Canel Bermúdez, si è dissociato dalla posizione Celac su Haiti: “…Abbiamo tutti l’obbligo morale di offrire ad Haiti una cooperazione sostanziale e disinteressata, non solo per la ricostruzione di alcune aree, ma anche per promuovere in modo globale lo sviluppo sostenibile in tutto il Paese…Cuba parla qui con l’autorità morale che si è guadagnata per aver condiviso con quella nazione sorella, la più vicina geograficamente, grandi dolori e formidabili imprese nel corso dei secoli. Come si espresse nel 1998 il leader storico della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz, e cito: ‘Haiti non ha bisogno di truppe. Non ha bisogno di invasioni di truppe (…) Haiti ha bisogno di invasioni di medici. Haiti ha bisogno di invasioni di milioni di dollari per il suo sviluppo.

(Ricordo che Russia e Cina si erano astenute per l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel voto del 2 ottobre 2023 che autorizzava l’invio di militari nella Missione ad Haiti, ndr)


Partito Comunista del Kenya (CPK)

Combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”

“…Se il governo del Kenya procederà a dispiegare la sua polizia nella nazione caraibica, combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”, ha dichiarato al Peoples Dispatch, Booker Ngesa Omole, segretario nazionale del Partito Comunista del Kenya (CPK ) .

“Qualsiasi decisione da parte di qualsiasi organo o funzionario statale di inviare agenti di polizia ad Haiti… contravviene alla costituzione e alla legge, ed è quindi incostituzionale, illegale e non valida”, aveva stabilito l’Alta Corte del Kenya, il 26 gennaio.

La sentenza ha rappresentato una battuta d’arresto al previsto intervento sponsorizzato dagli Stati Uniti ad Haiti, al quale il Kenya dovrà dare un volto africano schierando un migliaio di agenti di polizia per guidare la missione, il cui obiettivo sarebbe di ripristinare la sicurezza liberando Haiti dalla minaccia delle bande criminali.

Il Kenia dovrebbe inviare un dispiegamento principale di oltre un migliaio di poliziotti, che Booker ha descritto come una “forza estremamente poco professionale, spesso utilizzata dai leader politici locali per svolgere attività criminali, compresi omicidi politici. Ribadiamo che il più grande killer dei giovani in Kenya, non è la malaria ma la polizia. Ogni giorno continuiamo a registrare l’uccisione di numerosi giovani poveri da parte della polizia keniana negli insediamenti della periferia di Nairobi. Questo è il tipo di polizia che gli Stati Uniti hanno scelto per guidare il loro intervento ad Haiti…, ha affermato il leader comunista keniota.

“…Se la polizia keniota avesse voluto seriamente eliminare le bande criminali, lo avrebbe fatto prima qui in Kenya, la polizia ha invece collaborato con bande che sono in contatto con i leader politici. C’è solo una linea sottile tra la polizia keniota e le bande criminali che continuano a terrorizzare i residenti, ad esempio, della provincia nord-orientale o dei quartieri poveri di Nairobi. Questa linea è ancora più sottile ad Haiti, dove molti gangster sono ex membri della polizia nazionale haitiana, che questa missione statunitense guidata dal Kenya, dovrebbe aiutare a ripristinare la legge e l’ordine. Una tale coalizione finirà solo per commettere ancora più crimini ad Haiti, sommandosi alla violenza che quel popolo sta già subendo…Ricordiamo a quei poliziotti che andranno, che devono essere pronti a pagare con la vita, se si lasciano sfruttare per scopi imperialisti da leader politici corrotti…Se pensano che entreranno e spareranno a qualche gangster, sono ingenui: non conoscono la storia di resistenza di Haiti all’imperialismo”, ha dichiarato Booker.


Fonti:

Haitiliberte, Fanmi Lavas, Living Together”. Movement, 4 Je Kontre, Radio Soleil

La aai campesina, BlackAllianceforPeace, Partito Comunista Kenia

A cura di Enrico Vigna, IniizativaMondoMultipolare/CIVG – 16 marzo 2024

Conflitto a Gaza, “due responsabili”. Ucraina, “il coraggio della bandiera bianca”

Incontro con Papa Francesco, che ai microfoni della RSI e ospite a Cliché si esprime sulle due guerre in corso

Lorenzo Buccella (da Rtsi on line)

Papa Francesco è ospite a Cliché, magazine culturale di Lorenzo Buccella in onda sulla Radiotelevisione svizzera (RSI), in una puntata dedicata al bianco (mercoledì 20 marzo), il colore del bene, della luce, ma sul quale errori e sporcizia risaltano maggiormente. Fra le tante sporcizie c’è la guerra: il conflitto in Ucraina e quello in Palestina, sui quali il pontefice si è espresso ai nostri microfoni:

In Ucraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?

“È un’interpretazione. Ma credo che è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, si è offerta per questo. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”.

Anche lei stesso si è proposto per negoziare?

“Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. È il coraggio per non portare il paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto….”.

Come trovare una bussola per orientarsi su quanto sta accadendo fra Israele e Palestina?

“Dobbiamo andare avanti. Tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. Gli irresponsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la “guerra-guerrigliera”, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. È una brutta cosa”.

La colomba è il simbolo della pace, è il segnale che la guerra è finita. Ma poi c’è il dopoguerra, che comunque è un altro momento in cui si devono ricucire tutte queste ferite…

“C’è un’immagine che a me viene sempre. In occasione di una commemorazione dovevo parlare della pace e liberare due colombe. La prima volta che l’ho fatto, subito un corvo presente in piazza San Pietro si è alzato, ha preso la colomba e l’ha portata via. È duro. E questo è un po’ quello che succede con la guerra. Tanta gente innocente non può crescere, tanti bambini non hanno futuro. Qui vengono spesso i bambini ucraini a salutarmi, vengono dalla guerra. Nessuno di loro sorride, non sanno sorridere. È un bambino che non sa sorridere sembra che non abbia futuro. Pensiamo a queste cose, per favore. La guerra sempre è una sconfitta, una sconfitta umana, non geografica”.

Come le rispondono i potenti della terra quando chiede loro la pace?

“C’è chi dice, è vero ma dobbiamo difenderci… E poi ti accorgi che hanno la fabbrica degli aerei per bombardare gli altri. Difenderci no, distruggere. Come finisce una guerra? Con morti, distruzioni, bambini senza genitori. Sempre c’è qualche situazione geografica o storica che provoca una guerra… Può essere una guerra che sembra giusta per motivi pratici. Ma dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi”.

Quale rapporto ha un Papa con l’errore?

“È forte, perché quanto più una persona ha potere corre il pericolo di non capire le scivolate che fa. È importante avere un rapporto autocritico con i propri errori, con le proprie scivolate. Quando una persona si sente sicura di sé stesso perché ha potere, perché sa muoversi nel mondo del lavoro, delle finanze, ha la tentazione di dimenticarsi che un giorno starà mendicando, mendicando giovinezza, mendicando salute, mendicando vita… è un po’ la tentazione dell’onnipotenza. E questa onnipotenza non è bianca. Tutti dobbiamo essere maturi nei nostri rapporti con gli errori che facciamo, perché tutti siamo peccatori”.

FONTE: https://www.rsi.ch/info/mondo/Conflitto-a-Gaza-%E2%80%9Cdue-responsabili%E2%80%9D.-Ucraina-%E2%80%9Cil-coraggio-della-bandiera-bianca%E2%80%9D–2091038.html

Il Guatemala a una svolta ?

di Marco Consolo

Il Guatemala ha da poco concluso il ballottaggio elettorale con la vittoria di Bernardo Arévalo de León alle elezioni presidenziali (con Karin Herrera come vice-presidente) e con l’affermazione del movimento “Semilla” da lui creato, un piccolo partito composto in gran parte da professionisti e ceto medio.

Laureato in sociologia, con una conosciuta carriera diplomatica, Bernardo Arévalo è figlio di Juan José Arévalo, il primo presidente democraticamente eletto (1944-1951) dopo la “rivoluzione del 1944”. Bernardo è stato console in Israele, ambasciatore in Spagna e viceministro degli esteri. In seguito, è stato deputato del partito Semilla, un partito nato come movimento in seguito alle proteste del 2015 che portarono alle dimissioni dell’ex presidente Otto Pérez Molina, poi condannato per corruzione.

Lotta alla corruzione e Lawfare

Nella fragile democrazia guatemalteca, il principale obiettivo dichiarato da Arévalo è la lotta alla corruzione.

Proprio per attaccarne i meccanismi, tra il 2007 ed il 2019 il Paese aveva accolto una Commissione Internazionale Contro l’Impunità (CICIG ), sostenuta dalle Nazioni Unite, ma chiusa dall’ex-presidente Jimmy Morales dopo l’arresto del fratello e del figlio per corruzione. Il Guatemala si era così trasformato da Paese in cui veniva combattuta la corruzione, a uno in cui decine di giudici e procuratori sono stati costretti all’esilio.

Per Arévalo non è stato facile arrivare al governo, anche perché dall’inizio della campagna elettorale, i poteri forti e il “patto dei corrotti” hanno fatto l’impossibile per impedirglielo e rimanere in sella, utilizzando il Lawfare (la guerra giudiziaria) come strumento principale di opposizione e resistenza al cambiamento. Fino all’ultimo istante Semilla ha dovuto difendersi dagli attacchi della Procuratrice generale, Consuelo Porras. Infatti, sin dallo scorso 12 luglio la Procura generale ha avviato una serie di azioni legali contro Arévalo de León e il suo partito, tra cui tre richieste di rimozione dell’immunità del presidente e un tentativo di annullamento della personalità giuridica del Movimento Semilla.

Patto dei corrotti e sanzioni internazionali

Negli ultimi mesi sono fioccate le sanzioni internazionali contro diverse figure del corrotto apparato giudiziario, a cominciare dalla stessa Porras, sanzionata dal governo statunitense “per aver ostacolato la lotta alla corruzione e minato la democrazia in Guatemala”.  Agli Stati Uniti si è aggiunta l’Unione Europea, “per aver tentato di impedire l’insediamento del presidente Bernardo Arévalo e per aver minato la democrazia” con sanzioni anche contro Rafael Curruchiche, capo della Procura speciale contro l’impunità (Feci); il procuratore della Feci, Leonor Eugenia Morales Lazo; il segretario generale della Procura, Ángel Arnoldo Pineda Ávila; e il giudice Fredy Raúl Orellana.

Anche il governo canadese ha annunciato sanzioni contro la procuratrice generale Consuelo Porras e altri tre funzionari per aver “promosso direttamente o indirettamente la corruzione e per aver commesso impunemente gravi violazioni dei diritti umani”.

In un suo paradossale comunicato, la golpista Procura della Repubblica segnala che: “È opportuno ricordare la dichiarazione di Alena Douhan, relatore speciale delle Nazioni Unite sull’impatto negativo delle misure coercitive unilaterali sul godimento dei diritti umani, che ha affermato che sanzioni di questo tipo violano i diritti umani degli individui”.

Con un atteggiamento golpista e di aperta sfida, la procuratrice generale ha comunque dichiarato che non si dimetterà dal suo incarico e che non incontrerà il presidente Arévalo che aveva sollecitato più volte le sue dimissioni.

Sul piano parlamentare, nonostante il tentativo di Porras di negare la personalità giuridica di Semilla, quest’ultima era riuscita a resistere e ad eleggere il presidente del Parlamento,  grazie ad un accordo con altre forze presenti in Parlamento. Peccato che, solo qualche ora dopo, il giovane neo-eletto Presidente è stato costretto a dimettersi, visto che la corrotta Corte Costituzionale ha stabilito che i deputati di Semilla non possono essere considerati un gruppo parlamentare, a seguito della decisione del giudice Fredy Orellana (tra i sanzionati…), che ha ordinato la sospensione della sua personalità giuridica.

E ora ?

Semilla si definisce un movimento politico democratico e plurale, con una identità politica ecologista e progressista, anche se dentro il movimento vi sono anche settori più centristi. E dopo il veto ad hoc del Tribunal Supremo Electoral (TSE)  nei confronti dei candidati presidenziali del Movimento di Liberazione dei Popoli (MLP), la gran parte della sua crescente base elettorale (forte soprattutto tra i popoli originari, ma non solo) ha optato per Semilla. Dal canto suo, la sinistra è riuscita ad eleggere solo una deputata con la lista Winaq (Sonia Gutierrez), confermando una debolezza che viene da lontano.

Per la vittoria di Arevalo, sono state decisive le mobilitazioni a difesa del voto da parte dei popoli originari, degli studenti, delle donne e di altri settori popolari, espressione dello scontento e la rabbia della popolazione per le innumerevoli denunce di  corruzione e i casi di frode elettorale.

Per quanto riguarda il nuovo governo, le nomine dei ministri non brillano certo tutte per “progressismo” o radicalità e molti provengono direttamente dalle organizzazioni padronali dei diversi settori.  In ogni caso, i rapporti di forza non sono certo favorevoli al governo e non sarà facile governare, nonostante l’aperto appoggio al presidente Arevalo degli Stati Uniti, della OEA e dell’Unione Europea. E proprio a Bruxelles, durante una recente visita di Arevalo, il ministro degli Esteri del Guatemala, Carlos Martínez e l’alto rappresentante dell’Unione europea (UE), Josep Borrell, hanno firmato un memorandum d’intesa per un meccanismo di consultazione bilaterale. Nel primo tour nella Unione Europea di Arévalo come presidente, il mandatario ha visitato Francia, Spagna, Germania, Svizzera e Bruxelles.

Vedremo se la tessitura di rapporti internazionali gli permetterà di portare a casa aiuti concreti e di vincere il braccio di ferro con il “patto dei corrotti” ed i suoi alleati.

Israele ed il conflitto armato

E a proposito di ingombranti presenze internazionali, in prima fila c’è ancora quella di Israele, rivendicata nel passato da Benjamín Netanyahu, che aveva sottolineato le “eccellenti relazioni” tra i due Paesi “fin da quando il Guatemala aveva sostenuto la creazione dello Stato di Israele”. L’assistenza militare israeliana era iniziata ufficialmente nel 1971. Dal 1975 aveva fornito gli aerei Aravaet e diversi tipi di armamento (cannoni, armi leggere, etc.) che gli Stati Uniti avevano smesso di fornire per le drammatiche violazioni dei diritti umani. Quando nel 1977 Carter interruppe totalmente la vendita di armi, Tel Aviv prese definitivamente l’iniziativa e la “diplomazia Uzi” (in riferimento al celebre fucile d’assalto israeliano) svolse un ruolo preponderante.

Nella lunga e sanguinosa guerra civile (dagli anni ’60 fino al 1996), l’addestramento di Israele alle FF.AA. guatemalteche è stato decisivo per realizzare un vero e proprio genocidio, in particolare delle popolazioni Maya. Ma la repressione era stata feroce anche contro sospetti oppositori del governo, esiliati di ritorno, studenti e accademici, dirigenti della sinistra, sindacalisti, religiosi, giornalisti ed anche i “bambini di strada”. Il Guatemala ha anche il triste record di essere stato il primo Paese dell’America Latina ad inaugurare la pratica della “sparizione forzata” dei suoi oppositori. Si stima che dal 1966 fino al termine della guerra vi siano stati dai 40.000 ai 50.000 desaparecidos. Secondo le Nazioni Unite, circa 200.000 civili furono uccisi o “sparirono” durante il conflitto, a mano dei militari, della polizia o dei servizi di sicurezza.

A quasi 30 anni dalla fine del conflitto armato, sono ferite profonde, ancora aperte nella società.

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/il-guatemala-a-una-svolta/

Come la CIA destabilizza il mondo

di Jeffrey D. Sachs

La portata del continuo caos derivante dalle operazioni della CIA andate male è sbalorditiva. In Afghanistan, Haiti, Siria, Venezuela, Kosovo, Ucraina e molto altro ancora, le morti inutili, l’instabilità e la distruzione scatenate dalla sovversione della CIA continuano ancora oggi. I media tradizionali, le istituzioni accademiche e il Congresso dovrebbero indagare su queste operazioni al meglio delle loro possibilità e chiedere la pubblicazione di documenti per consentire una responsabilità democratica.

La CIA ha tre problemi fondamentali: i suoi obiettivi, i suoi metodi e la sua mancanza di responsabilità. I suoi obiettivi operativi sono quelli che la CIA o il Presidente degli Stati Uniti definiscono essere nell’interesse degli Stati Uniti in un determinato momento, indipendentemente dal diritto internazionale o dalle leggi statunitensi. I suoi metodi sono segreti e doppi. L’assenza di responsabilità significa che la CIA e il Presidente gestiscono la politica estera senza alcun controllo pubblico. Il Congresso è uno zerbino, uno spettacolo secondario.

Come ha detto un recente direttore della CIA, Mike Pompeo, parlando del suo periodo alla CIA: “Ero il direttore della CIA. Mentivamo, imbrogliavamo, rubavamo. Avevamo interi corsi di formazione. Ti ricorda la gloria dell’esperimento americano”.

La CIA fu istituita nel 1947 come successore dell’Office of Strategic Services (OSS). L’OSS aveva svolto due ruoli distinti durante la Seconda guerra mondiale, l’intelligence e la sovversione. La CIA assunse entrambi i ruoli. Da un lato, la CIA doveva fornire informazioni al governo degli Stati Uniti. Dall’altro, la CIA doveva sovvertire il “nemico”, cioè chiunque il presidente o la CIA definissero tale, utilizzando un’ampia gamma di misure: assassinii, colpi di stato, inscenare disordini, armare gli insorti e altri mezzi.

Quest’ultimo ruolo si è rivelato devastante per la stabilità globale e per lo Stato di diritto statunitense. Un ruolo che la CIA continua a perseguire anche oggi. In effetti, la CIA è un esercito segreto degli Stati Uniti, capace di creare scompiglio in tutto il mondo senza alcuna responsabilità.

Quando il Presidente Dwight Eisenhower decise che l’astro nascente della politica africana, il democraticamente eletto Patrice Lumumba dello Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo), era il “nemico”, la CIA cospirò nel suo assassinio nel 1961, minando così le speranze democratiche dell’Africa. Non sarebbe stato l’ultimo presidente africano abbattuto dalla CIA.

Nei suoi 77 anni di storia, la CIA è stata chiamata a rispondere pubblicamente solo una volta, nel 1975. In quell’anno, il senatore dell’Idaho Frank Church guidò un’indagine del Senato che rivelò la scioccante furia della CIA in fatto di assassinii, colpi di stato, destabilizzazione, sorveglianza, torture ed “esperimenti” medici in stile Mengele.

La denuncia da parte del Comitato Church delle scioccanti malefatte della CIA è stata recentemente riportata in un superbo libro del reporter investigativo James Risen, The Last Honest Man: The CIA, the FBI, the Mafia, and the Kennedys-and One Senator’s Fight to Save Democracy.

Quel singolo episodio di svista si verificò a causa di una rara confluenza di eventi.

L’anno prima del Comitato Church, lo scandalo Watergate aveva rovesciato Richard Nixon e indebolito la Casa Bianca. Come successore di Nixon, Gerald Ford non era stato eletto, era un ex membro del Congresso ed era riluttante ad opporsi alle prerogative di supervisione del Congresso. Lo scandalo Watergate, su cui aveva indagato la Commissione Ervin del Senato, aveva inoltre dato potere al Senato e dimostrato il valore della supervisione del Senato sugli abusi di potere dell’Esecutivo. In particolare, la CIA era da poco guidata dal direttore William Colby, che voleva ripulire le operazioni della CIA. Inoltre, il direttore dell’FBI J. Edgar Hoover, autore di illegalità pervasive esposte anche dalla commissione Church, era morto nel 1972.

Nel dicembre 1974, il giornalista investigativo Seymour Hersh, allora come oggi un grande reporter con fonti all’interno della CIA, pubblicò un resoconto delle operazioni illegali di intelligence della CIA contro il movimento antiguerra statunitense. Il leader della maggioranza del Senato dell’epoca, Mike Mansfield, un leader di carattere, nominò Church per indagare sulla CIA. Church stesso era un senatore coraggioso, onesto, intelligente, indipendente e intrepido, caratteristiche che scarseggiano cronicamente nella politica statunitense.

Se solo le operazioni disoneste della CIA fossero state consegnate alla storia come risultato dei crimini denunciati dalla Commissione Church, o almeno avessero portato la CIA sotto lo stato di diritto e la responsabilità pubblica. Ma non è stato così. La CIA ha avuto l’ultima risata – o meglio, ha fatto piangere il mondo – mantenendo il suo ruolo preminente nella politica estera degli Stati Uniti, compresa la sovversione all’estero.

Dal 1975, la CIA ha condotto operazioni segrete di sostegno ai jihadisti islamici in Afghanistan, che hanno distrutto completamente l’Afghanistan e dato origine ad Al-Qaeda. La CIA ha probabilmente condotto operazioni segrete nei Balcani contro la Serbia, nel Caucaso contro la Russia e in Asia centrale contro la Cina, tutte con l’impiego di jihadisti sostenuti dalla CIA. Negli anni 2010, la CIA ha condotto operazioni mortali per rovesciare la Siria di Bashir al-Assad, sempre con jihadisti islamici. Per almeno 20 anni, la CIA è stata profondamente coinvolta nella fomentazione della crescente catastrofe in Ucraina, compreso il violento rovesciamento del Presidente Viktor Yanukovych nel febbraio 2014, che ha innescato la devastante guerra che ora sta travolgendo l’Ucraina.

Cosa sappiamo di queste operazioni? Solo le parti che gli informatori, alcuni intrepidi reporter investigativi, una manciata di coraggiosi studiosi e alcuni governi stranieri sono stati disposti o in grado di raccontarci, con tutti questi potenziali testimoni che sapevano di poter incorrere in una severa punizione da parte del governo statunitense. La responsabilità dello stesso governo americano è stata scarsa o nulla, così come la supervisione o la limitazione imposta dal Congresso. Al contrario, il governo è diventato sempre più ossessivamente segreto, perseguendo azioni legali aggressive contro la divulgazione di informazioni classificate, anche quando, o soprattutto quando, tali informazioni descrivono le azioni illegali del governo stesso.

Di tanto in tanto, un ex funzionario statunitense vuota il sacco, come quando Zbigniew Brzezinski ha rivelato di aver indotto Jimmy Carter a incaricare la CIA di addestrare jihadisti islamici per destabilizzare il governo dell’Afghanistan, con l’obiettivo di indurre l’Unione Sovietica a invadere quel Paese.

Nel caso della Siria, abbiamo appreso da alcuni articoli del New York Times nel 2016 e nel 2017 delle operazioni sovversive della CIA per destabilizzare la Siria e rovesciare Assad, come ordinato dal Presidente Barack Obama. Ecco il caso di un’operazione della CIA terribilmente sbagliata, in palese violazione del diritto internazionale, che ha portato a un decennio di caos, a un’escalation della guerra regionale, a centinaia di migliaia di morti e a milioni di sfollati, eppure non c’è stato un solo riconoscimento onesto di questo disastro guidato dalla CIA da parte della Casa Bianca o del Congresso.

Nel caso dell’Ucraina, sappiamo che gli Stati Uniti hanno svolto un importante ruolo segreto nel violento colpo di Stato che ha fatto cadere Yanukovych e che ha trascinato l’Ucraina in un decennio di spargimenti di sangue, ma a tutt’oggi non ne conosciamo i dettagli. La Russia ha offerto al mondo una finestra sul colpo di Stato intercettando e poi pubblicando una telefonata tra Victoria Nuland, allora Vicesegretario di Stato americano (ora Sottosegretario di Stato) e l’Ambasciatore americano in Ucraina Geoffrey Pyatt (ora Vicesegretario di Stato), in cui si tracciava il governo post-golpe. Dopo il colpo di Stato, la CIA ha addestrato segretamente le forze operative speciali del regime post-golpe che gli Stati Uniti avevano contribuito a portare al potere. Il governo statunitense ha taciuto sulle operazioni segrete della CIA in Ucraina.

Abbiamo buone ragioni per credere che siano stati gli agenti della CIA a distruggere il gasdotto Nord Stream, come ha affermato Seymour Hersh, che ora è un reporter indipendente. A differenza del 1975, quando Hersh lavorava per il New York Times, quando il giornale cercava ancora di chiedere conto al governo, il Times non si degna nemmeno di esaminare la testimonianza di Hersh.

Chiedere alla CIA di rendere conto pubblicamente è ovviamente una lotta in salita. I presidenti e il Congresso non ci provano nemmeno. I media tradizionali non indagano sulla CIA, preferendo invece citare “alti funzionari senza nome” e l’insabbiamento ufficiale. I media mainstream sono pigri, subornati, timorosi degli introiti pubblicitari del complesso militare-industriale, minacciati, ignoranti o tutte queste cose? Chi lo sa.

C’è un piccolo barlume di speranza. Nel 1975, la CIA era guidata da un riformatore. Oggi la CIA è guidata da William Burns, uno dei principali diplomatici americani di lunga data. Burns conosce la verità sull’Ucraina, poiché è stato ambasciatore in Russia nel 2008 e ha informato Washington del grave errore di spingere l’allargamento della NATO all’Ucraina. Data la statura e i risultati diplomatici di Burns, forse sosterrebbe l’urgente necessità di un’assunzione di responsabilità.

La portata del continuo caos derivante dalle operazioni della CIA andate male è sbalorditiva. In Afghanistan, Haiti, Siria, Venezuela, Kosovo, Ucraina e molto altro ancora, le morti inutili, l’instabilità e la distruzione scatenate dalla sovversione della CIA continuano ancora oggi. I media tradizionali, le istituzioni accademiche e il Congresso dovrebbero indagare su queste operazioni al meglio delle loro possibilità e chiedere la pubblicazione di documenti per consentire una responsabilità democratica.

L’anno prossimo ricorre il 50° anniversario delle audizioni del Comitato Church. A cinquant’anni di distanza, con il precedente, l’ispirazione e la guida dello stesso Church Committee, è urgente aprire le tende, rivelare la verità sul caos guidato dagli Stati Uniti e dare inizio a una nuova era in cui la politica estera degli Stati Uniti diventi trasparente, responsabile, soggetta allo stato di diritto sia interno che internazionale e diretta alla pace globale piuttosto che alla sovversione di presunti nemici.

FONTE: https://www.acro-polis.it/2024/02/13/come-la-cia-destabilizza-il-mondo/

Gaza: un sito documenta le atrocità israeliane contro i palestinesi

https://israel-massacres.com

Intento genocida: Nelle loro stesse parole

Alti funzionari israeliani, tra cui il Primo Ministro, il Presidente e il Ministro della Difesa, hanno usato pubblicamente un linguaggio disumanizzante e totalizzante sui palestinesi, segnalando il loro intento di distruggere e sfollare la popolazione di Gaza, imponendo un assedio implacabile e privandola intenzionalmente delle condizioni di vita necessarie alla sopravvivenza umana. Forse l’aspetto più inquietante è che Netanyahu ha citato la storia biblica di “Amalek” per giustificare le uccisioni di Gaza. Gli Amaleciti erano una nazione condannata allo sterminio totale nella Bibbia, come menzionato in 1 Samuele 15:3 “Ora andate, attaccate gli Amaleciti e distruggete totalmente tutto ciò che appartiene loro. Non risparmiateli; mettete a morte uomini e donne, bambini e lattanti, bestiame e pecore, cammelli e asini”.

Queste raccolte di dichiarazioni di leader e opinionisti israeliani, sia del passato che del presente, non sono affatto esaustive e rivelano l’intento genocida che sta dietro l’attuale attacco militare contro i palestinesi.

AVVERTENZA: il sito web contiene contenuti estremamente cruenti e si consiglia la discrezione degli utenti.

Massacri di civili: Nessun luogo è sicuro

Il 10 ottobre, il portavoce delle Forze di Difesa Israeliane ha annunciato di aver sganciato “centinaia di tonnellate di bombe”, poiché “l’enfasi è sui danni e non sulla precisione”. In realtà, in meno di un mese dall’inizio della campagna di bombardamenti, Israele ha sganciato più di 25.000 tonnellate di esplosivo sulla Striscia di Gaza, equivalenti a due bombe nucleari, secondo l’Euro-Med Human Rights Monitor.

I palestinesi sono stati uccisi a migliaia, mentre case, scuole, ospedali, rifugi, moschee, chiese, campi profughi e vie di “evacuazione” sono stati bombardati senza pietà. I video e le immagini grafiche che seguono presentano solo una parte delle tragiche perdite e sofferenze. Purtroppo, anche il giorno successivo porta con sé altre orribili perdite e patimenti.

La valutazione degli esperti:
Crimini di guerra e genocidio israeliano

Importanti personalità e dipartimenti delle Nazioni Unite, esperti di diritto internazionale e organismi mondiali per i diritti umani come Amnesty International e Human Rights Watch hanno rilasciato in cui affermano che Israele sta commettendo diversi crimini di guerra contro i palestinesi, che vanno dal trasferimento forzato della popolazione civile, alla punizione collettiva, all’uso sproporzionato della forza.
Alcuni hanno messo in guardia da un genocidio in atto o addirittura da un genocidio vero e proprio, viste le dichiarazioni di intenti degli israeliani, unite all’assedio totale, alla distruzione e alle uccisioni sul campo.


https://israel-massacres.com

Israel’s ongoing apocalyptic military campaign against Gaza comes on top of its 75+ years of persecution, displacement, and terrorism of Palestinians.

It has resulted in mass destruction, displacement of over 90% of the Gazan population, and the deaths and maiming of tens of thousands of civilians, mostly women and children.

Below we document what many authorities are calling war crimes, ethnic cleansing and genocide. Our aim is to give a voice to the voiceless, and raise awareness of the need for international action to ensure Palestinian people are finally free of brutal occupation and colonialization.

WARNING: This website contains extremely graphic content and viewer discretion is advised.

Civilian Massacres: Nowhere is Safe

On October 10, the Israel Defense Forces spokesperson announced dropping “hundreds of tons of bombs,” as “the emphasis is on damage and not on accuracy.” In fact, in less than one month after the onset of its bombing campaign, Israel dropped more than 25,000 tons of explosives on the Gaza Strip, equivalent to two nuclear bombs, according to the Euro-Med Human Rights Monitor.

Palestinians have been killed in their thousands, when homes, schools, hospitals, shelters, mosques, churches, refugee camps and “evacuation” routes have been mercilessly bombed. The following graphic videos and images present just a fraction of the tragic loss and suffering. Unfortunately, even day brings further similar horrific loss and limbs.

The Assessment of Experts:

Israeli War Crimes and Genocide

Leading UN figures and departments, international law experts, as well as worldwide human
rights bodies like Amnesty International and Human Rights Watch have released statements
asserting that Israel is committing various war crimes against the Palestinians, ranging from
forceable transfer of the civilian population, to collective punishment, to disproportionate use
of force. Some have warned of a genocide in the making or even an actual genocide, given
the statements of intent of the Israeli leaders, combined with the total siege, destruction, and
killing on the ground.

Palestinian Steadfastness: Strength Through Faith

Having already endured years of living in the largest open-air prison in the world that is Gaza, the Palestinians have now had to experience further displacement, destruction of their properties, and the loss of multiple family members in the indiscriminate bombing campaign, Nevertheless, inspired by their faith, they have remained steadfast and resilient in the face of such adversity, refusing to be cowered and determined to stand firm on their land.

The videos in this section inspire us to have hope with them, despite the desperation of the situation.

FONTE: https://israel-massacres.com/

Moni Ovadia: Il sionismo è l’opposto dell’ebraismo. Il sionismo è antisemitismo. (VIDEO)

FONTE: OttolinaTV

Il neocolonialismo del premier Meloni

di Monica Di Sisto

Il “Piano Mattei” tra pomposa propaganda e misera realtà.

“Signora presidente del Consiglio, sul piano Mattei avremmo auspicato di essere consultati”. Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, ha aperto con queste parole il proprio intervento al Vertice Italia-Africa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha promosso sotto i propri diretti auspici con ministri e capi di Stato del continente africano.

Faki, dopo aver ascoltato le proposte della presidente del Consiglio culminate nel cosiddetto “Piano Mattei”, di cui molto si parla ma che non è dato conoscere nemmeno al Parlamento italiano come documento ufficiale comprensivo di progetti e cifre specifiche, ha precisato che “l’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione. È necessario passare dalle parole ai fatti, non ci accontentiamo di promesse che poi non sono mantenute”.

“Per me i partiti politici sono come i taxi: li prendo perché mi conducano dove voglio, io pago la corsa e scendo”: è una delle frasi più celebri che si attribuiscono a Enrico Mattei, dirigente pubblico fondatore di imprese (all’epoca di Stato) come Eni, Saipem e Agip Gas. E a chi scrive la presidenza Meloni sembra l’ennesimo taxi di passaggio che alcune imprese e gruppi di interessi italiani e transnazionali – noti e meno noti – prenderanno, addebitando la corsa al contribuente col pretesto di un viaggio in Africa che non è certo sarà nemmeno raggiunta. Quindi il presidente Faki fa bene ad essere un po’ preoccupato. E noi con lui.

I fondi che finanzieranno il cosiddetto Piano Mattei ammontano a cinque miliardi e mezzo di euro, ma non sono “soldi freschi” ma già promessi: una parte consistente, circa tre miliardi di euro, vengono dal Fondo italiano per il clima, la restante parte dal bilancio, esiguo, degli interventi di Cooperazione allo sviluppo. A mezzo stampa stiamo apprendendo, per voce degli assegnatari dei progetti, che serviranno a coltivare semi oleosi per i biocarburanti, a insegnare agli africani a fare i mercatini contadini come li facciamo in Italia, a costruire impianti con cui liberare i cereali dalle tossine, e poi infrastrutture energetiche con cui l’Europa potrà continuare a estrarre energia dalla sponda sud del Mediterraneo. Ci sono alcune nostre imprese che sistemeranno delle scuole, altre che pianteranno dei pannelli.

Siamo comunque sempre nel regno selle dichiarazioni e delle ipotesi, perché alle associazioni italiane che fanno progetti di cooperazione lo Stato chiede, per somme anche piccolissime, progetti dettagliati, preventivi, bilanci e accurate descrizioni degli interventi con tanto di numero di beneficiari, previsioni di ricadute e lettere di istituzioni e organizzazioni dei Paesi interessati che garantiscano la necessità e bontà delle proposte. Ai promotori dei progetti del Piano Mattei, niente: non un bando, non una gara, nessun percorso trasparente e verificabile da parte del cittadino-contribuente. Se non ne sappiamo nulla noi, figuriamoci il presidente Faki.

Uno dei primi incidenti diplomatici dell’attuale presidente del Consiglio è stato quello di scambiare un comico-imitatore proprio per il presidente Faki, e di essere registrata mentre pensava di tessere importanti relazioni diplomatiche. Ora siamo noi cittadini ad ascoltare l’imitazione un po’ pomposa, ma decisamente rabberciata, di un vero piano di cooperazione internazionale. E poco importa che la presidente conservatrice della Commissione europea, Ursula von der Leyen, accompagnata dall’altrettanto conservatrice presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, si siano precipitate a lodare il “Piano che non c’è”. In campagna elettorale, lo sappiamo, ogni imitazione vale.

Ma è il franco richiamo del chadiano Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana – “Quello vero”, come ha detto Giorgia Meloni, non quello imitato dai due comici russi nella finta telefonata a Palazzo Chigi – a richiamare alla realtà.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-03-2024/3058-il-neocolonialismo-del-premier-meloni-di-monica-di-sisto

Gaza: “Cosa fate voi occidentali per aiutarci veramente?”

di Milad Jubran Basir

di Milad Jubran Basir

Cosa pensano i palestinesi del pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.

Entrare in contatto con la popolazione civile palestinese a Gaza o in Cisgiordania non è facile: non c’è solo un problema di funzionamento delle linee telefoniche ma anche l’aspetto umano, la paura, la diffidenza e il timore che parlando accadrà qualcosa. Dopo tanti tentativi sono riuscito entrare in contatto con un amico sfollato assieme alla sua famiglia, che preferisce non riportare il suo nome. In una conversazione precedente mi aveva informato che la sua casa è stata rasa al suolo e in questa situazione lui, come tantissimi altri, non riesce ad avere notizie di quanto accade nel mondo. Lui chiede di sapere più approfonditamente cosa ha deciso la Corte Internazionale di Giustizia, forse questo potrebbe essere un filo che restituisce un poco di speranza, in un momento in cui solo la sopravvivenza è lo scopo di tutti i giorni.

Ad un collega che esercita in Cisgiordania rivolgo la stessa domanda, e ricevo la conferma che per lui rappresenta il ripristino della onorabilità del diritto internazionale. Ha accolto con favore questa sentenza anche se non ha contemplato la decisione precauzionale per il cessate il fuoco, e la convocazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu per prendere tutte le decisioni necessarie ad applicarla. “La responsabilità di questa mancanza è degli Usa – racconta – che impediscono qualsiasi risoluzione del Consiglio di Sicurezza in merito al cessate il fuoco e la protezione del nostro popolo a Gaza, in Cisgiordania e anche a Gerusalemme”.

Poi continua: “Vorrei rinnovare il mio ringraziamento al governo del Sudafrica. Una cosa molto importante che la sentenza contiene è che non esiste nessuno Stato al di sopra del diritto per cui, con tutto quello che possono fare gli Usa di tutela, protezione e copertura di Israele, tutto questo non durerà all’infinito, e sarà condannato. In più questa importante sentenza prepara il terreno per una fase nuova in cui il diritto internazionale sarà praticato e sarà vincolante per tutti gli Stati compreso Israele. Infine, nessuno era abituato a vedere Israele sul banco degli imputati”.

Un uomo politico dichiara di accogliere con favore la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia, ringrazia il Sudafrica per il sostegno alla causa palestinese, e dichiara piena disponibilità a collaborare con il governo amico del Sudafrica per rispondere al rapporto che presenterà Israele alla Corte tra un mese, come è stato ordinato. Infine rivolge un invito ai Paesi arabi e islamici di lavorare assieme per fare pressione sugli Usa e Israele per il cessato il fuoco.

Un collega molto giovane di Gaza, che per puro caso è uscito da quell’inferno i primi giorni di ottobre ed oggi si trova in un paese arabo, mi dice che tutta la sua famiglia è a Gaza e non sa più nulla di loro. L’ordine di facilitare l’ingresso degli alimenti e dei medicinali è importantissimo, perché almeno così la gente non muore di fame. “In quanto giovane palestinese dico che la sentenza della Corte non ci ha reso giustizia e non ha adottato dei criteri giusti in merito alla nostra causa. Non vorrei pensare ad un accordo, o a un complotto regionale o internazionale, per liquidare la nostra giusta causa. La gente non crede più a certe cose, la sentenza a livello politico è molto importante, ma non ha ordinato di fermare il massacro”.

Ecco il parere di una signora molto attiva socialmente in Cisgiordania, inizialmente piena di sofferenza, dolore, ma anche rabbia: “Che importanza ha una sentenza che non mette fine a questa sofferenza?”. Poi con un lungo respiro aggiunge: “La dichiarazione di non archiviare la causa è una vittoria, la Corte ha visto e notato che di fatto c’è un genocidio in atto contro il popolo palestinese. La Corte sarà a Gaza, spero che i suoi rappresentanti possano vedere con i loro occhi come stanno massacrando il nostro popolo. La nostra aspettativa però resta l’ordine di cessate il fuoco immediato, ma noi resistiamo e i prossimi giorni ci porteranno delle buone notizie”.

Infine una dottoressa in Cisgiordania taglia corto in modo deciso, trasparente e determinato: “La gente non solo muore sotto i bombardamenti, ma anche letteralmente di fame. Nessuno sa quanti sono veramente i morti in questa assurda guerra, ma il mondo intero sa che la stragrande maggioranza sono bambini e donne. Accade tutto sotto gli occhi di tutti e nessuno fa nulla. Di fronte a questo genocidio che ci importa di questa o quella sentenza? Il mondo occidentale ci ha predicato per anni i diritti umani, la legalità, la comunità internazionale: ma sono vuoti slogan che per noi non esistono. Occorre finirla con questa ipocrisia, se Israele può fare tutto questo è perché il mondo occidentale non solo l’ha permesso, ma ha anche partecipato e quindi è complice”.

Altre persone hanno preferito non rispondere perché non davano importanza alle “chiacchiere”, di fronte alle scene raccapriccianti dei massacri di bambini. E tutti – quelli che hanno accettato di rispondere come quelli che hanno rifiutato – mi hanno posto una sola domanda: “Cosa fate voi occidentali per aiutarci veramente?”.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-03-2024/3074-cosa-fate-voi-occidentali-per-aiutarci-veramente-di-milad-jubran-basir

Riflessioni parziali intorno al cuore dello sterminio

Situato nella regione del Brandeburgo 80 Km. a nord est di Berlino, il campo di Ravensbrück è stato costruito, tra i primi, nel 1939 per ospitare donne tedesche asociali e delinquenti comuni, e poi donne dei paesi progressivamente occupati dai nazisti, zingare, ebree, oppositrici al regime, omosessuali, testimoni di Geova. A Ravensbrück sono state immatricolate 132.000 donne e decine di migliaia di loro hanno perso la vita, eliminate tramite fucilazione o tramite camera a gas, o morte per malattia, stenti, lavoro, fame, freddo, o a seguito degli esperimenti medici di cui erano le cavie. (A. Laurenzi)

Nel gennaio del 2016 fui invitato a una iniziativa organizzata da Ambra Laurenzi, figlia e nipote di deportate nel campo di Ravensbrück, per la Giornata della Memoria. Ambra, presidente del Comitato internazionale di Ravensbrück, aveva da poco pubblicato uno struggente libro fotografico su quel campo e sulla sorte delle oltre centomila donne che vi erano passate. Quelli che seguono sono appunti provvisori e parziali preparati per quell’occasione.

Ravensbrück, libro fotografico di Ambra Laurenzi

Sfogliando il libro di foto di Ambra Laurenzi, sul campo di Ravensbrueck, mi colpiscono alcune cose:

La prima è la malinconica e quasi fragile bellezza del luogo, un luogo, mi viene da pensare, che come tutti i luoghi e malgrado ciò che gli umani vi hanno praticato o vi praticano, appartiene a ciò che gli indios Aymara e Quechua della Bolivia, chiamano Patchamama, o madre terra.

La seconda, che il campo è riservato a sole donne: che delle 150 mila donne che vi sono transitate, tra detenute politiche, criminali comuni, prostitute ed ebree, circa 90.000 vi sono morte. Stando alle stime disponibili, nei campi in territorio tedesco, in ordine di grandezza, ne sono morte di più solo a Sachsenhausen (100 mila).

La terza, che contiguo al campo vi era uno stabilimento tessile della Texlead (una delle aziende di proprietà delle SS che, sui campi, stavano costruendo il loro impero economico) e uno della Siemens, grande azienda privata che si avvalse, come molte altre, del lavoro coatto delle prigioniere e dei prigionieri dei campi.

Un luogo di fragile bellezza violentato per organizzare una violenza verso donne e madri, secondo procedure scientifiche che mirano a ottimizzarne l’annientamento identitario (prima di quello fisico), in quanto condizione necessaria per estrarne il massimo di profitto (produttivo ed economico) finché non sopraggiunga la loro morte, che è causata generalmente dalle stesse condizioni di lavoro e dalla malnutrizione.

Il fatto che si tratti di un campo di concentramento per sole donne, amplifica la sensazione di violenza e di sfruttamento. Una violenza e uno sfruttamento perpetrato su ciò che vi è di più sacro in quanto depositario non solo del presente, ma anche del futuro, il corpo femminile.

Il fatto che si tratti di recluse in gran parte “politiche” o “criminali e prostitute” provenienti da vari paesi e solo in parte di ebree, deve far ricordare la genesi dei campi di concentramento della Germania nazista che furono inaugurati per togliere di mezzo gli oppositori politici: comunisti, socialisti, anarchici e sindacalisti innanzitutto, e poi dei soggetti “asociali”; all’inizio (1933) gli “ospiti” dei campi non erano ebrei, né polacchi, o italiani, ma tedeschi. Come a dire che una volta depurata la cosiddetta razza ariana, dagli elementi critici o da quelli che costituivano “un costo sociale” (fannulloni, mendicanti, senzatetto, ecc.), la via era pienamente aperta verso lo sterminio.

In effetti, il primo campo creato dai nazisti fu quello di Dachau, in territorio tedesco, nel sud della Baviera a 20 km da Monaco, aperto il 22 marzo del 1933, un mese dopo l’incendio del Reichstag. E’ qui che viene posta per primo la scritta: “Arbeit macht frei”, il lavoro rende liberi. Lo slogan tante volte ricordato, non è solo un cinico espediente per convincere chi entrava nei campi di una possibile libertà futura se si fosse rassegnato al lavoro coatto, ma anche un programma operativo: i campi servono essenzialmente per massimizzare il profitto dal lavoro umano, minimizzandone, anzi annullandone i costi.

Soltanto 5 anni più tardi, nell’agosto del 1938 vi arrivano 11 mila ebrei tedeschi e austriaci, dopo la Notte dei cristalli, il pogrom contro i negozi ebrei. Nel 1939 vi arrivano gli zingari Sinti e Rom. Nel 1940 vi vengono deportati 13 mila prigionieri polacchi. Alla fine del 1941 diventa anche campo di sterminio, come peraltro tutti gli altri campi, in contemporanea con l’operazione Barbarossa, l’invasione dell’Unione Sovietica. Lo sterminio è da attuarsi comunque, innanzitutto, attraverso la selezione imposta dalle condizioni disumane del lavoro schiavistico e dalla denutrizione, e poi parallelamente con l’uso dei gas. Quanto alle prime esecuzioni di massa in questo campo esse riguardano persone ritenute di razza inferiore: tra questi gli ebrei, ma anche i polacchi, i russi, gli zingari, gli oppositori politici e religiosi, gli inabili al lavoro. Tra i primi a subire l’annientamento di massa vi sono 4.000 prigionieri di guerra russi, nel 1942.

Il fatto che gran parte delle donne del campo di Ravensbrueck prima di approdare al loro destino di morte dovessero rendere le loro residue giornate e energie al dio della produttività tedesca, ci da un’importante informazione sulla logica e sul metodo che improntava lo sterminio: prima di esso, tutto ciò che poteva essere estratto dai corpi di queste donne, in quanto miniere di energia e di intelligenza, doveva essere estratto; ciò vale per tutti gli internati dei campi.

Quindi, la procedura contemplava una ragione contabile perfino più rilevante all’annientamento in sé: quella di un profitto capitalistico in cui, per dirla con Marx, il plusvalore assoluto non contemplava alcun costo per la riproduzione della forza lavoro. I territori da espropriare erano i corpi. E, teoricamente, ove la forza degli internati avesse consentito una produttività media accettabile e un profitto nettamente superiore ai costi organizzativi e di mantenimento, vi è da supporre che l’annientamento sarebbe stato posticipato nel tempo. Viceversa, andavano subito annientati tutti i soggetti non immediatamente produttivi, come vecchi, bambini, handicappati, ecc..

“I nazisti, colossali imprenditori di manodopera schiava, li consideravano bocche inutili da sfamare, letteralmente “zavorra umana” (ballastexistenzen) da far sparire. Nella logica criminale nazista, qualunque prigioniero considerato un “peso morto”, cioè inutile e costoso all’economia del Reich, doveva essere condannato a morte immediata; prima lo si eliminava e più si risparmiava.”

Questo ragionamento può applicarsi anche alla cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei d’Europa, che si afferma in contemporanea all’invasione dell’Unione Sovietica. Gli ebrei dell’Europa dell’est andavano sterminati in quanto la conquista e “arianizzazione” totale del Lebensraum (lo spazio vitale della Germania) che si estendeva dalla Polonia agli Urali contemplava la schiavizzazione dei popoli slavi e la eventuale cooptazione delle loro elites dentro la “razza ariana”.

In questo progetto non potevano essere contemplati gli ebrei in quanto comunità razziale specifica che si riteneva culturalmente (oltre che, secondo loro, geneticamente) diversa dagli altri popoli presenti nell’area. Il fatto che la componente ebraica nelle società centro-europee fosse storicamente collocata nell’ambito della piccola borghesia, attive nel settore commerciale, con una spiccata propensione individuale, generalmente laica, con una consistente percentuale di intellettuali e di burocrati al proprio interno, caratterizzava queste comunità come refrattarie ad una ristrutturazione sociale guidata dal grande capitale tedesco che nell’edificazione del nuovo ordine richiedeva una funzione di comando e di adesione totale da parte delle elìtes e, parimenti, una subalternità totale da parte delle masse, di cui, quelle presenti nei paesi satelliti dovevano servire a sostenere in modo subalterno lo sviluppo del Reich (paesi periferici ad ovest, a sud e a est, come la Boemia, l’Ungheria, l’Ucraina, la Polonia, la Romania e la Bulgaria), mentre per le masse russe era prevista la funzione di erogatori di lavoro schiavistico, in quanto sottorazza (Untermenschen).

Proprio per ciò lo spazio fino agli Urali era da colonizzare con l’invio di contingenti di contadini tedeschi / ariani che avrebbero dovuto dirigere la colonizzazione servendosi del lavoro schiavistico delle popolazioni locali.

Alcuni hanno visto in ciò delle analogie con la conquista degli spazi originari delle popolazioni indiane del nord e del sud America nella “occidentalizzazione” di quelle enormi distese di terre. Processi storici di durata secolare che sono passati sotto i nomi di “conquista dell’Eldorado” a sud e di “conquista dell’ovest” a nord. Vi morirono tra i 50 e i 100 milioni di indigeni. Come la conquista delle Americhe non contemplava la possibilità di sussistenza di razze conflittuali o incapaci di assumere la cultura occidentale caratterizzata dal principio di appropriazione e redditività capitalistica delle terre, anche ciò che poteva ostacolare l’edificazione del grande Reich tedesco dall’Atlantico agli Urali andava eliminato.

In più il buco demografico aperto con la loro eliminazione, avrebbe consentito una migliore e più facile “colonizzazione” degli elementi ariani tedeschi nei nuovi territori da controllare.

La conquista dell’est euroasiatico prevedeva tempi da guerra lampo, in sintonia con i livelli tecnologici raggiunti in occidente: ciò che altri avevano fatto nel corso di cento anni, andava fatto in pochissimi anni e non si poteva andare per il sottile. E’ la tempistica del progetto di conquista che informa ogni altra scelta, ivi inclusi i massacri di circa 2 milioni di russi operati nelle retrovie dell’esercito tedesco nei villaggi e nelle città già conquistate dai tedeschi nell’avanzata verso Mosca e Stalingrado, operazione che non risponde ad alcuna logica militare, ma invece prepara lo sviluppo successivo e imminente del progetto di colonizzazione. Il buco demografico che si crea con queste operazioni, serviva a rendere più rapida la successiva colonizzazione.

Analogamente, lo sterminio nei campi e la progressione del lavoro schiavo prevede la costruzione di imponenti fabbriche ad est, come quella di Auschwitz, della IG Farben, che all’epoca è il più grande complesso chimico al mondo e che viene realizzato già in avanzato territorio polacco.

Nel progetto di sterminio industriale degli ebrei (e dei russi nelle retrovie del fronte) si impone dunque un obiettivo di natura politica che va oltre quello dell’immediato sfruttamento scientifico del lavoro schiavistico e coatto: fino al 1942, quindi per 9 anni, prevale la logica della produzione a costo zero e parallelamente dello “scarto” per usare un termine di Papa Francesco. Lo scarto, chi non è sufficientemente produttivo, va eliminato subito, ma chi è redditizio può sussistere, almeno finché le energie lo sorreggono. Poi, vi si innesta già il programma di edificazione del nuovo ordine del dopoguerra, che, se funziona, durerà “mille anni”.

Non si deve dimenticare che dal 42 al 45 il lavoro schiavistico si accentua ulteriormente con la nascita di un grande numero di sottocampi nei quali, secondo gli accordi tra le SS (a cui era affidata la responsabilità dei campi e che miravano anche alla costruzione di un loro autonomo impero economico) e le grandi imprese private, i prigionieri possono essere affittati alle aziende che ne facciano richiesta, al prezzo di 6 marchi al giorno per i lavoratori specializzati e di 4 marchi per i manovali. I continui trasferimenti di migliaia di internati da campo a campo, risponde a queste necessità e richieste.

Nella storia degli universi concentrazionari, i campi di concentramento non furono inventati dai nazisti; prima di loro già gli americani, durante la guerra di secessione e gli spagnoli, durante la repressione nell’isola di Cuba, li avevano sperimentati e siamo alla fine dell’800; nei primi anni del ‘900, anche gli inglesi, nella seconda guerra boera in Sud Africa, li avevano praticati; successivamente, vi si esercitano i sovietici, con i Gulag, riprendendo una tradizione zarista ma mutuandola in un aspetto della “lotta di classe” contro gli elementi resistenti appartenenti ad alcuni ambiti delle classi borghesi (all’inizio i medi proprietari terrieri che si oppongono alla ripartizione delle terre nei Kolkoz). Il fascismo italiano invece li sperimenta in Libia, negli anni ’30, verso i nomadi arabi nord africani, mentre invece in Etiopia sperimenta l’annientamento con i gas.

La casistica dei campi è ampia quanto è ampio l’occidente.

L’esperimento nazista, all’inizio, riproduce e ottimizza cose imparate da altre esperienze; ma vi inserisce la funzione di lavoro schiavistico per conto terzi e poi, nel 1942, con la Conferenza di Wannsee, tutti i campi di concentramento diventano allo stesso tempo anche campi di sterminio di massa. Anche se soltanto alcuni hanno la funzione precipua di sterminio: Treblinka, Majdanek, Chelmno, Belzek e Birkenau in Polonia, Maly Trostenets in Bielorussia e Jasenovac in Croazia. Gli altri mantengono fino alla fine della guerra la prevalente funzione di estrazione di valore dal lavoro coatto dei prigionieri.

Per quanto riguarda la dislocazione territoriale, soltanto nei campi in territorio polacco, (Auschwitz-Birckenau, Treblinka, Belzec, Chelmno, Sobibor e Varsavia, Lublino-Majdanek, Gross-Rosen) vengono uccisi tra i 4 e i 4,5 milioni di persone. Altri due grandi campi sono quello di Jasenovac in Croazia e di Maly Trostenets, in Bielorussia, dove vengono annientati un altro milione di persone.

Mentre nei campi in territorio tedesco e austriaco e ceco, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau, Sachsenhausen, Flossenbuerg, Kaufering, Mauthausen, Mittelbau-Dora, Neuengamme, Theresienstadt, e Ravensbrueck, ne muoiono 450.000. La relazione è di 10 a 1. E’ dunque la conquista dell’est che guida lo sterminio.

Il genocidio indiano nelle Americhe è giustificato con le classiche ragioni ideologiche di superiorità razziale, ma in realtà è una conseguenza dell’incapacità di trasferire in tempo reale alle masse di indigeni la cultura organizzativa e produttiva dei vincitori. Siccome la cultura dei colonizzatori europei è improntata alla redditività da lavoro mercantilista all’inizio e capitalistica poi, appare più produttivo l’annientamento degli indios (popolazione resistente o non compatibile col modello di civilizzazione esterno) e la sua sostituzione con gli schiavi deportati dall’Africa. (La deportazione nera,  “black holocaust” o olocausto africano è la più grande della storia; si trattò di 12-15 milioni di africani deportati verso i paesi dei Caraibi fino al sud degli Usa; fu operata da Portogallo, Regno Unito, Spagna, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia in collaborazione con i mercanti brasiliani, nord americani e africani).

Lo sterminio indigeno non necessita di campi, che sarebbero stati ingestibili sia per l’arretratezza della logistica, sia per l’enorme ampiezza dei territori. Si fa sul luogo di conquista, in tempo reale; e lo si fa in tempi mediamente lunghi, quelli indotti dal livello di sviluppo tecnologico determinato. La sostituzione successiva con i neri africani deportati avviene in campi di lavoro a cielo aperto: le piantagioni di caffè, di canna da zucchero, di cotone, ecc.

A metà del ‘900, invece, nello spazio ristretto dell’Europa e con una disponibilità di tecnologia avanzata sotto tutti i profili (logistica, organizzativa, psicologica, chimica, ecc.), il trasferimento di grandi masse di persone e il loro annientamento nei campi, con il Zyklon-B prodotto dalla stessa IG-Farben, è gestibile. In tempi ridottissimi, in linea con quelli previsti dalla guerra lampo di Hitler. Il lavoro schiavo vi può essere organizzato secondo la logica di un taylorismo estrattivo portato all’asintoto e con la riduzione totale dell’umano a merce-lavoro. Insomma sia l’organizzazione del lavoro quanto i metodi e le procedure di annientamento vi sono ottimizzati in termini industriali e, come visto, con il coinvolgimento dei massimi livelli del capitale industriale tedesco.

Nel 1944, al culmine della sua capacità produttiva, solo la IG-Farben, (il più grande conglomerato chimico al mondo, che incorporava le attuali Hochst, Basf, Bayer e Agfa), si serviva di oltre 80.000 lavoratori schiavi dei campi di concentramento. Analogamente fanno altri grandi Konzerne tedeschi, come la Krupp, che si distingue per la durezza delle condizioni a cui sottopone i lavoratori schiavi dei campi. Anche i Konzerne delle SS, la DEST (Cave e materiali di costruzione) e la DAW (Lavorazione di legno e ferro), oltre alla Texlead (produzione tessile e abbigliamento), si esercitano, anzi nascono sul lavoro schiavo nei campi.

La compenetrazione tra ragione ideologico-politica e ragione economica in queste vicende e il coinvolgimento diretto del capitalismo tedesco (e in parte di altri paesi) appare uno degli aspetti più inquietanti, una questione centrale che conferma la funzione strategica dello sterminio e dell’olocausto nella guerra imperialistica e nei progetti della Germania nazista.

Forse ne è la caratteristica precipua. Perché sul piano dell’annientamento in sé, anche sotto il profilo dei tempi di esecuzione, la bomba americana a Hiroshima e Nagasaki gli è superiore: il 6 e il 9 agosto del 1945, circa 200.000 persone, quasi tutti civili, vengono annientate in modo istantaneo e senza alcuna selezione se non quella fatta a priori nella scelta di sperimentare la bomba verso un popolo orientale, “giallo”, quindi non di razza bianca e che “rifiutava di arrendersi”. Un popolo che a sua volta considerava i cinesi una razza inferiore e che nella conquista della Manciuria aveva causato quasi 20 milioni di morti, un’entità inferiore solo ai morti russi, stimati tra i 25 e i 30 milioni.

L’altra cosa che continua a creare grande inquietudine a oltre 70 anni dai fatti che ricordiamo è ciò che potremmo chiamare il fattore identitario; la vicenda ebraica e quella del popolo Rom, ma in generale di tutti i deportati, possono essere riassunti in questo: ciò che non corrisponde al paradigma imperante (o all’ideologia dominante) deve essere marginalizzato, eliminato, annientato o, nel migliore dei casi, usato come merce. I Rom in quanto popolo nomade in uno spazio organizzato da popoli stanziali e gli ebrei in quanto popolo che non può essere riassunto e conformato dentro confini culturali nazionali, poiché la diaspora ebraica ha costruito nella storia, uno spazio inter-nazionale.

Queste identità “spurie”, secondo gli aggressori, si opponevano allo spazio indentitario nazionale (e imperiale) puro -o da purificare- che costituisce, al tramonto della modernità, il luogo di costruzione della potenza nella lunga guerra tra le potenze imperialistiche e tra i loro modelli capitalistici.

C’è da riflettere se, nell’ottica della potenza, ove si imponesse un nuovo paradigma connotato da un’ideologia globale omologata (come quella scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dal successivo crollo dell’Unione Sovietica), potrebbero essere gli elementi che si ostinano a permanere su indentità territoriali limitati o locali o che tentano di riaprire uno spazio di operatività non subalterno, ad essere marginalizzate e tendenzialmente distrutte.

Questa seconda casistica annovera già decine di esempi che si sono susseguiti dopo la II° guerra mondiale soprattutto nei continenti del sud del mondo (il lebensraum dei paesi del nord) dove i diritti umani sono stati calpestati in modo continuo e in misura solo relativamente minore rispetto ai tempi dello sterminio: l’oriente indocinese, l’Africa, l’America Latina, sono stati i campi di battaglia di una guerra che ha prodotto oltre 20 milioni di morti, in maggioranza civili, dagli anni ’50 ad oggi.

Nel gennaio 2016 ricorrono i 25 anni dall’inizio della guerra infinita decretata dalla famiglia Bush in Medio Oriente e in generale nei paesi arabi per il controllo del petrolio. Da 65 anni è in corso la guerra israelo-palestinese che contempla massacri, campi profughi, deportazioni, colonizzazioni e controllo del più grande campo a cielo aperto ad oggi esistente: quello di Gaza.

Di nuovo l’Europa è stata toccata al suo interno da queste vicende nell’esperienza di distruzione di un paese multietnico e plurinazionale come la Jugoslavia e più recentemente, di nuovo verso il “lebensraum” euroasiatico, in Ucraina.

Torna alla memoria il “Deutsches Requiem” di J.L.Borges, con una Germania sconfitta il cui compito non era quello di vincere, ma di aprire la strada ad un’epoca di violenza implacabile e permanente.

Questioni identitarie locali confliggono con le sottostanti (o sovrastanti) ragioni geopolitiche del capitale imperialistico in crisi e determinano la rinascita di un razzismo globale con innumerevoli variazioni di gradi e di intensità verso culture più lontane e verso etnie o paesi più vicini. A quello contro gli islamici si accompagna, in Europa, quello sottile e velato verso i popoli del sud che si giustifica con deludenti parametri economici, o quello rinascente verso una Russia non più comunista, ma “asiaticamente”, quindi costitutivamente, diversa.

Solo una cosa sembra non venir messa in seria discussione, o almeno gran parte dei poteri sono impegnati a frenarne l’evidenza: quella per cui la rendita finanziaria, il profitto deciso a priori, ha diritto di rimanere intatto, integro; e non può essere scalfito: si tratta di una superiorità gerarchica, quasi genetica riservata al cuore algoritmico del capitalismo del XXI secolo e ai suoi centri vitali, che mira al suo recepimento e alla sua estensione in ogni contesto planetario, ivi incluso a ciò che è già capitalistico, ma ancora refrattario alla compiuta e definitiva finanziarizzazione.

I suoi esiti più visibili sono le nuove imponenti migrazioni, digerite e trasferite dal sistema mediatico come un dato naturale che, come ogni catastrofe naturale, crea paure e sindromi di accerchiamento. Il terreno è fertile per nuove esplosioni o implosioni. Olocausti in scala minore stanno già avvenendo. Quelli maggiori non li vediamo o siamo costretti a dimenticarli rapidamente.

La guerra è in atto e i suoi variabili esiti possono essere solo immaginati. Bisogna essere vigili, oltre i nomi e le categorie conosciute o quelle che hanno acquisito l’egemonia, senza farsi abbagliare dagli slogan rivisti e corretti del “lavoro che rende liberi” o di “a ciascuno il suo”. “Se fate i bravi vi salverete”, è, come per il progetto di sterminio nazista, la menzogna regina.

Gennaio 2016

Rodolfo Ricci

di Ambra Laurenzi:

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