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Giulio Palermo: “La strategia imperialistica Usa in Europa ha radici lontane. In Ucraina assistiamo all’ultimo atto”

Alessandro Bianchi intervista Giulio Palermo

“La distruzione delle risorse materiali dell’Ucraina è la prerogativa per l’accaparramento delle sue risorse materiali e umane nella fase di ricostruzione”. Giulio Palermo, economista autore con la nostra casa editrice di “Il conflitto russo-ucraino” (LAD, 2023), ci rilascia una lunga e illuminante intervista per argomentare e attualizzare le sue tesi ad oltre un anno dall’inizio dell’operazione speciale russa.

“Il continente europeo costituisce la scacchiera ma gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La strategia europea per l’Europa semplicemente non esiste. Esistono interessi economici convergenti e divergenti tra settori e tra stati”. Stiamo vivendo una fase di cambiamenti epocali ma per quel che riguarda i processi finanziari Giulio Palermo invita alla prudenza perché il ruolo del dollaro nel breve e medio periodo resta ancora forte. Ma nel lungo periodo i movimenti tellurici saranno inevitabili. “Anche se per il momento questo processo sembra portare alla progressiva chiusura tra blocchi contrapposti, la crescita di un sistema di relazioni internazionali meno sbilanciata su un singolo attore è vista da molti paesi con interesse. La Cina e la Russia hanno le carte in regola per guidare questo processo, sia economicamente, sia politicamente, sia anche militarmente. E a un certo punto anche i paesi europei dovranno fare le loro scelte. È nel corso di queste trasformazioni reali dei rapporti economici, politici e militari che si ridefinirà nel tempo il ruolo del dollaro, il suo ridimensionamento e la fine della sua egemonia, non attraverso semplici accordi per denominare i contratti in rubli o in renminbi.”, chiosa l’economista.

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D. Nel suo “Conflitto russo-ucraino” porta avanti la tesi che l’imperialismo Usa abbia come obiettivo principale l’Europa attraverso il pretesto ucraino. Ad oltre un anno dall’inizio del conflitto a che punto siamo?

R. La strategia imperialistica Usa in Europa ha radici lontane ed è tutt’uno con la politica antisovietica prima e antirussa poi. Un anno di conflitto ufficiale tra Russia e Ucraina (e già, perché otto anni di aggressione armata nel Donbass e in altre parti del paese da parte delle forze golpiste armate dalla Nato non contano come guerra nella narrazione occidentale) non cambia veramente i termini del problema. Stati uniti e Unione europea sono le aree economiche con il più alto grado di integrazione nel mondo. Questo è il risultato di un lungo processo. Nella fase imperialistica del capitalismo, i rapporti tra stati sono sempre più condizionati dai rapporti tra capitali. Per questo, invece di cercare l’origine dei rapporti Usa/Europa e la nascita stessa dell’Unione europea negli alti valori liberali, nell’unità dei popoli e nella solidarietà internazionale, conviene ripercorrere il processo di integrazione economica sotto la guida dei capitali transnazionali.

L’asimmetria economica tra i capitali sulle due sponde dell’Atlantico — che è alla base del disegno imperialistico Usa in Europa — si definisce all’indomani della sconfitta nazista nella Seconda guerra mondiale.

Storicamente, non si può dire che gli Stati uniti abbiano dimostrato una grande reattività all’avanzata nazista in Europa. Per tutta la prima fase della guerra, la disfatta dei paesi capitalistici di fronte all’esercito tedesco è totale e la resistenza al nazismo riposa quasi interamente sulle spalle dell’Unione sovietica. Stalin chiede ripetutamente agli alleati l’apertura di un secondo fronte contro la Germania — il fronte occidentale — per costringere Hitler ad allentare la presa a est. Ma gli Stati uniti e l’Inghilterra tergiversano.

Decidono di passare all’azione nel giugno del 1944, con lo sbarco in Normandia, dopo che l’Armata rossa ha stroncato le truppe naziste e avanza ormai inarrestabile verso Berlino. E soprattutto dopo aver organizzato minuziosamente la conferenza di Bretton Woods (New Hampshire, Usa), che si terrà nel mese successivo: un mega-incontro di tre settimane tra le principali potenze capitalistiche in cui si definisce il quadro economico-finanziario postbellico, incentrato sul dollaro e sul capitale finanziario statunitense.

Da allora, la penetrazione dei capitali americani in Europa è aumentata sensibilmente, prima attraverso il piano Marshall — un colossale piano di investimenti Usa in Europa — poi attraverso ulteriori esportazioni di capitali e fusioni con i capitali europei.

Finché è convenuto, gli Stati uniti hanno imposto un regime di tassi di cambio incentrato sul dollaro — che ha consentito alla valuta statunitense di imporsi come riferimento internazionale — e quando non è più servito, lo hanno abolito, nel 1971, con un gesto unilaterale del presidente Nixon, in violazione degli accordi che proprio gli Stati uniti avevano imposto. Risultato: il più grande default della storia del capitalismo (il rifiuto degli Stati uniti di onorare i propri impegni finanziari) si è risolto con nuovi accordi valutari tra i principali paesi capitalistici per scaricare i problemi finanziari degli Stati uniti sul resto del mondo.

È in questo quadro di rapporti asimmetrici di forza che si sviluppa l’unificazione europea, un’unificazione commerciale, monetaria e finanziaria voluta proprio dal capitale Usa, al fine di penetrare e soggiogare ordinatamente l’intera area economica europea.

Nel libro, dedico un intero capitolo a ricostruire il lungo processo che porta alla creazione dell’Unione europea e dell’euro, sottolineando il ruolo cruciale degli Stati uniti. Parallelamente, sul piano politico e militare, analizzo il processo di espansione della Nato, come braccio armato del processo di espansione economico-finanziaria.

In quest’ottica più generale, l’Ucraina è poco più di un tassello, per quanto decisivo, di un lungo processo di espansione dei capitali e delle forze armate statunitensi in Europa.

La distruzione delle risorse materiali dell’Ucraina è la prerogativa per l’accaparramento delle sue risorse materiali e umane nella fase di ricostruzione, un bottino allettante per tutte le potenze occidentali. Ma il vero obiettivo strategico degli Stati uniti non è affatto la conquista economica dell’Ucraina bensì quella dell’Europa. La guerra contro la Russia deve essere lunga e costosa. È questo il modo migliore per allentare i rapporti tra la Russia e l’Unione europea, indebolendole entrambe.

Ma gli Stati uniti non vogliono veramente la fine dell’Unione europea e dell’euro. Sarebbe un autogol clamoroso. L’Europa è già americana, sia economicamente che militarmente. Non conviene affatto ingaggiare una guerra economica a tutto campo contro i capitali europei. Conviene invece stringere alleanze selettive, in determinati settori e in determinati paesi, e assicurarsi che l’Europa nel suo complesso agisca secondo gli interessi dei capitali statunitensi. Da questo punto di vista, la crescita di un asse russo-tedesco o addirittura russo-europeo costituiva un ostacolo oggettivo alla strategia Usa.

A un anno dall’intervento russo, la situazione economica e militare dell’Ucraina è disperata. L’Ucraina non ha futuro: militarmente, conta sulle armi inviate sempre più generosamente dai paesi Nato a un esercito mal addestrato, che ha subito già ingenti perdite; economicamente, è tenuta a galla dai prestiti internazionali, senza nessuna possibilità di ripagarli. Insomma, gli ucraini che non muoiono in guerra sotto l’artiglieria russa, saranno schiacciati in tempi di pace dal capitale Usa/Ue.

La guerra può e deve durare. Finché Stati uniti e paesi Nato hanno armi e denaro con cui sostenere l’Ucraina, the show must go on e finché l’Ucraina ha uomini deve mandarli a morire. Un anno e mezzo di sostegno aperto all’esercito ucraino e ai suoi battaglioni nazisti (che, per la verità, dettano legge su gran parte dl territorio ucraino ormai da nove anni) non è che l’inizio. Si deve fare in modo che i rapporti economici tra la Russia e l’Unione europea si interrompano per sempre, che si ridefinisca l’intero sistema di approvvigionamento energetico e di materie prime in Europa e che saltino definitivamente lo scambio tecnologico e i progetti di sviluppo congiunti con la Russia e con la Cina.

Insomma, gli Stati uniti vogliono creare una muraglia americana nel cuore dell’Europa per isolarla a est e costringerla ad accettare come referente la sola e unica superpotenza occidentale. Questo è in definitiva l’obiettivo della strategia Usa in Europa: forzare il divorzio tra Russia e Unione europea. Sulla pelle del popolo ucraino.

D. Militarmente ed economicamente l’Ucraina sopravvive attraverso gli aiuti della Nato, da un lato, e del FMI e della Banca mondiale, dall’altro. In questa situazione di protettorato di fatto degli Stati uniti quale sarà il futuro dell’Ucraina?

R. Come dicevamo, l’Ucraina non ha futuro. Ma questo apparentemente non è un problema per nessuno, men che mai per le forze che la sostengono economicamente e militarmente. Nessuno degli alleati ha mai posto la questione e il presidente burattino è troppo impegnato nelle sue tournée internazionali a sfoggiare simboli nazisti e a chiedere armi e soldi, per occuparsi del futuro del paese.

Si discute dei contratti post-bellici, di come svendere il paese ai creditori, di quanti e che tipo di carri armati e cacciabombardieri sono necessari, di sistemi missilistici e droni, di munizioni all’uranio impoverito e armi nucleari tattiche, ma i dati economici del paese e le condizioni sociali della popolazione sembrano non interessare a nessuno.

Nel 2022, secondo i dati della Banca mondiale, l’Ucraina ha subito una caduta del Prodotto interno lordo del 30%. Il 25% della popolazione vive in condizioni di povertà, il tasso di disoccupazione è al 35%, l’inflazione al 27%.

Prima del colpo di stato del febbraio 2014, la valuta ucraina era stabile a circa 8 grivne per dollaro. Il primo anno post-golpe segna la rovina della grivna, che, nel febbraio 2015, precipita a 27 contro il dollaro. Nel luglio 2022, la banca centrale ucraina deve svalutare di nuovo la grivna del 25%. Dal 2014, la perdita di valore della valuta ucraina rispetto al dollaro è del 350%.

Per un paese fortemente dipendente dal commercio estero, una svalutazione di questa entità, con dati macroeconomici in caduta libera, significa che l’ora della bancarotta è vicina. L’Ucraina aveva la Russia come secondo partner nelle importazioni (dietro la Cina) e come terzo nella destinazione delle esportazioni (dietro Cina e Polonia). La guerra economica, prima ancora che quella militare, è semplicemente insostenibile per il piccolo stato a ovest del continente russo.

Dopo aver rinunciato ai vantaggi commerciali e agli sconti di prezzo offerti dalla Russia, soprattutto in materia energetica, ora l’Ucraina importa il petrolio e il gas russi attraverso gli alleati occidentali: invece di uno sconto del 30% sul prezzo di mercato (che in assenza di tensioni politiche sarebbe all’incirca la metà di quello effettivamente prevalente), l’aspirante paese Ue/Nato compra ai prezzi correnti, sui quali paga anche una commissione di intermediazione ai paesi occidentali e, come se non bastasse, paga tutto quattro volte e mezzo più caro a causa della svalutazione della grivna.

Recessione, inflazione, svalutazione e debito non sono i migliori argomenti per presentarsi sui mercati finanziari a chiedere ulteriori aiuti. La credibilità finanziaria dell’Ucraina è ormai inesistente e queste misure estreme lo dimostrano. Non è più questione di prezzo ma di quando. Finanziariamente, i titoli del debito ucraino sono carta straccia. Se il loro prezzo non va direttamente a zero, è solo grazie alla politica.

Sostenere finanziariamente l’Ucraina, in queste condizioni, diventa sempre più costoso. Nell’ultimo anno, la Banca Mondiale ha mobilitato più di 23 miliardi di dollari in finanziamenti d’emergenza, di cui circa la metà a carico del bilancio della Banca mondiale stessa e l’altra metà fornita da Stati uniti, Regno Unito, Unione europea e Giappone. Mentre i lavoratori di questi paesi sono chiamati a stringere la cinghia, abbassare il riscaldamento, rinunciare alla sanità e alle pensioni, in nome delle tensioni internazionali, queste sono le cifre che i loro governi stanziano a favore della guerra alla Russia.

D. Le sanzioni imposte alla Russia hanno avvicinato Mosca ulteriormente alla Cina e ai blocchi di integrazione regionali asiatici. Emblematica da questo punto di vista la visita di Xi a Mosca. Totalmente dipendente dagli Stati uniti e isolato, quale sarà il futuro economico del continente europeo?

R. Per ragionare sul futuro conviene cercare di capire il presente, volgendo lo sguardo al passato. Attualmente, l’Europa è un continente occupato militarmente e penetrato economicamente dagli Stati uniti. L’integrazione tra i capitali americani ed europei continua a crescere e gli Stati uniti fanno il possibile per restare l’interlocutore privilegiato dei paesi europei.

Negli ultimi decenni, lo sviluppo cinese ha impensierito molto i capitali Usa. In Europa, in particolare, la Cina ha sviluppato rapporti economico-finanziari importanti e si è imposta come primo partner commerciale in molti paesi e settori economici. La Cina non è più il bacino produttivo mondiale delle merci a basso contenuto tecnologico bensì esporta merci e capitali in quasi tutti i settori ed è leader in molti settori high tech e green.

Contro la concorrenza cinese, gli Stati uniti usano il potere politico e la potenza militare ma in termini strettamente economici non riescono ad offrire contratti competitivi. Mentre la Cina propone incentivi e investimenti per attirare nuovi partner commerciali nella propria area economica, gli Stati uniti fanno minacce e pressioni politiche sui propri alleati per costringerli a rompere i rapporti con chi intralcia gli interessi del capitale Usa.

Difficilmente i margini di autonomia dell’Europa possono aumentare per iniziativa degli Stati uniti, della Cina, della Russa o dell’Ucraina. Al contrario, queste tendenze non possono che accentuarsi finché l’Unione europea e i singoli stati che la compongono accettano questo stato di subordinazione passiva agli interessi del capitale statunitense.

L’avvicinamento tra Russia e Cina è una conseguenza scontata del conflitto russo-ucraino. Ma, almeno nel caso della Russia, non è certo una scelta, è semmai una risposta quasi obbligata.

In definitiva, anche la Russia non ha molti gradi di libertà nelle sue scelte economico-finanziarie, sta semplicemente facendo l’unica cosa che può fare.

Senz’altro, avrebbe preferito continuare a fare affari con l’Europa mentre si ritagliava i suoi spazi in Asia, invece di ritrovarsi in una guerra economico-militare ai suoi confini contro i paesi con cui ha i maggiori rapporti commerciali. Anche se, ufficialmente, è la Russia che ha fatto la prima mossa, il 24 febbraio 2022, l’espansione a est della Nato e otto anni di guerra non dichiarata in Ucraina, a seguito di un colpo di stato voluto dagli Stati uniti e dall’Unione europea, non lasciavano alternativa al ministero della difesa russo.

Tanto sul piano militare, quanto su quello economico-finanziario, le risposte della Russia all’accerchiamento Nato e alle sanzioni economiche sono da manuale. Niente è improvvisato. La loro efficacia, tuttavia, non dimostra solo la capacità strategica della Russia bensì soprattutto quella degli Stati uniti. Le mosse della Russia non sono infatti una sorpresa per nessuno, almeno nei centri strategici degli attori in campo.

Nel caso della Cina, poi, la scelta di proporsi come paese neutrale e come mediatore d’eccellenza nel conflitto russo-ucraino è frutto di una valutazione attenta della politica statunitense e delle strategie di lungo periodo. Ma, anche in questo caso, i gradi di libertà della politica cinese sono ridotti.

La Cina è ai ferri corti con gli Stati uniti da anni. Non è certo il momento di arrivare allo scontro armato diretto. Non è negli interessi né degli Stati uniti, né della Cina. Almeno per ora. La sola via che ha la Cina per affermarsi come prima superpotenza economica, davanti agli Stati uniti, è quella di sottrarre spazio ai paesi orbitanti nell’area del dollaro, crescere nelle regioni del mondo ancora contese e sviluppare le organizzazioni internazionali alternative a quelle egemonizzate dagli Stati uniti, a cominciare dai Brics e dalle nuove aree economiche regionali.

Per questo, la Russia e la Cina non sono mai state così vicine. Eppure su entrambi i fronti del loro riavvicinamento, si tratta più di risposte alla politica Usa che di piani strategici indipendenti. L’accelerazione in corso, sia nei confronti della Russia, sia nei confronti della Cina, parte dagli Stati uniti, non dalla Russia o dalla Cina. Questo è un dato.

Xi Jinping e Vladimir Putin si sono incontrati per discutere del conflitto russo-ucraino e del rafforzamento delle relazioni bilaterali sul piano commerciale e finanziario. Non solo petrolio e grano, ma anche semiconduttori e aree valutarie alternative al dollaro. Tutti progetti che hanno un importante significato strategico ma che, per il momento, hanno basi prevalentemente difensive, in quanto risposte quasi obbligate alle mosse Usa. Perché, per il momento, l’obiettivo tattico degli Stati uniti è semplice: tenere alta la tensione e indebolire i rivali, forzando i propri alleati su sentieri senza ritorno.

In Russia, la perdita dei partner commerciali europei ha prodotto un buco di bilancio nelle imprese esportatrici. Gli sconti sulle esportazioni, dell’ordine del 25-30%, si ripercuotono infatti sul fatturato e sui profitti delle imprese russe. La politica di reindirizzamento delle esportazioni energetiche e di utilizzo dei proventi di tali esportazioni per rafforzare il tasso di cambio non è una vera scelta. È la difesa di chi è messo alle corde. Permette di arrivare alla fine del round ma, senza un cambio di strategia, non si invertono le sorti dell’incontro. Questa strategia comporta infatti una perdita finanziaria secca che sottrae risorse all’economia reale, ai progetti di sviluppo del paese e alla stessa economia di guerra. Nel lungo periodo, è insostenibile.

Le esportazioni russe di gas e petrolio sono ai massimi storici e superano i livelli precedenti l’intervento militare russo: l’Asia ha praticamente raddoppiato le importazioni energetiche dalla Russia, diventando il primo sbocco per le esportazioni russe davanti all’Europa. Le entrate delle compagnie petrolifere russe tuttavia hanno subito una contrazione del 43% rispetto all’anno scorso.

In Cina, i problemi sono meno evidenti ma la questione resta delicata. La Cina non può permettersi di perdere l’accesso alla tecnologia, ai mercati e alla finanza occidentali. La guerra economica con gli Stati uniti è una cosa, l’isolamento dai mercati occidentali ha un altro significato per il primo esportatore di merci del mondo, nonché secondo esportatore di capitali, dietro gli Stati uniti.

Per questo, la Cina deve rimanere formalmente neutrale: mentre con una mano firma un contratto commerciale con la Russia, a prezzi di favore, con l’altra redige una proposta di accordo di pace, che non potrà mai essere firmata dai diretti contendenti.

Il vero dato è che tutte queste tendenze potenzialmente contraddittorie le hanno messe in moto gli Stati uniti che, a livello strategico, non si improvvisano di certo. La partita con la Russia è infatti parte dello scontro imperialistico globale sul controllo delle nuove tecnologie, che si è infiammato con l’avvento della pandemia, e che vede gli Stati uniti tra i principali protagonisti accanto alla Cina. In ballo non ci sono solo le vecchie ostilità politiche e i piani di conquiste militari definiti all’indomani del crollo dell’Unione sovietica ma l’instaurazione, in tutto il mondo, di un nuovo modello di rapporti economici e sociali, incentrato sulle nuove tecnologie.

L’Europa è teatro di questo scontro tra potenze imperialistiche ma non ha nessuna strategia per governare queste tendenze. La partita se la giocano Stati uniti e Cina, con la Russia costretta all’intervento militare e a misure economiche radicali e costose e l’Ucraina nazificata pronta a morire per soddisfare gli interessi del capitale finanziario Usa/Ue.

Il continente europeo costituisce la scacchiera ma gli scacchi sono per lo più americani e russi e, sullo sfondo, cinesi. La strategia europea per l’Europa semplicemente non esiste. Esistono interessi economici convergenti e divergenti tra settori e tra stati. A comandare sono i settori finanziari e dell’alta tecnologia, forti soprattutto nei i paesi nordici della zona euro, quelli maggiormente integrati con i capitali Usa. Sono questi gli attori europei che più hanno da guadagnare in questo conflitto e che più hanno guadagnato dalle misure antipandemiche e dai piani di rilancio. Gli altri settori e gli altri paesi, così come la classe lavoratrice dell’Europa intera, sono invece quelli che devono pagare il conto di questa convergenza di interessi tra blocchi di capitale finanziario statunitense ed europeo in conflitto con il capitale high tech cinese.

D. Cosa pensa del processo di dedollarizzazione? Lo ritiene attuabile nel breve periodo?

R. No. L’egemonia finanziaria non si costruisce e non si demolisce in un giorno. L’affermazione del dollaro come valuta di riferimento internazionale — come unità di conto delle principali merci scambiate nei mercati internazionali, come mezzo di pagamento e come riserva di valore — è un processo complesso in cui la forza economica e finanziaria degli Stati uniti si intreccia con quella politica e militare.

Per capire il ruolo del dollaro oggi, conviene iniziare dando uno sguardo alla struttura del mercato valutario mondiale. Il mercato dei cambi (Forex) è il principale mercato finanziario del mondo. Ogni giorno vi si scambia l’equivalente di circa 7.500 miliardi di dollari. I principali scambi riguardano dollaro e euro, i quali costituiscono circa un quarto dell’intero Forex. Seguono gli scambi dollaro/yen, dollaro/sterlina, dollaro/dollaro australiano, dollaro/franco svizzero e dollaro/dollaro canadese (queste coppie di valute sono chiamate major). Complessivamente, gli scambi di queste sei valute col dollaro costituiscono l’88% del Forex, circa 6.600 miliardi di dollari. Gli scambi valutari che non riguardano il dollaro (i cosiddetti incroci valutari) sono di fatto una categoria residuale e la loro quotazione avviene per lo più attraverso valutazioni indirette che passano per il tasso di cambio col dollaro.

Quando si parla di un ridimensionamento del ruolo del dollaro, conviene avere chiaro qual è il punto di partenza. Nella situazione attuale, il rublo e il renminbi hanno un peso marginale sui mercati mondiali. Con l’avvio delle sanzioni occidentali alla Russia, gli scambi commerciali Russia-Cina sono cresciuti rapidamente e, ormai, la metà del commercio sino-russo avviene in renminbi. Una svolta importante, soprattutto per la Russia e, in parte, per la Cina. Ma non certo per il mercato dei cambi, che quasi non se n’è accorto.

Nel 2022, gli scambi valutari diretti del renminbi con le altre valute mondiali, per quanto in crescita, arrivano appena al 7% del forex. Non basta essere la seconda economia del pianeta e il primo esportatore mondiale per imporre la propria valuta nei mercati internazionali. E non basta nemmeno denominare i contratti in valute diverse dal dollaro per scalzare il dollaro. Gli attori finanziari continuano infatti a guardare la quotazione in dollari per decidere se il contratto al tasso di cambio incrociato è conveniente oppure no. Non tanto per assoggettamento psicologico all’autorità del dollaro ma perché è contro il dollaro che avviene il grosso delle transazioni. Firmare i contratti internazionali in valute diverse dal dollaro è più un esercizio formale che una trasformazione reale: il prezzo di riferimento resta quello in dollari, convertito nella valuta prescelta. Ovviamente, poi, se per qualche ragione uno dei contraenti è escluso dall’accesso al dollaro, per via delle sanzioni Usa, si applicano i dovuti sconti o le dovute maggiorazioni.

Ma i numeri sono solo un aspetto dell’egemonia del dollaro. La centralità del dollaro nel sistema finanziario internazionale si coglie soprattutto nel ruolo della Federal reserve — la banca centrale degli Stati uniti — nella guida della politica monetaria globale e in quello di prestatore mondiale di ultima istanza. Una manifestazione evidente si è avuta durante la crisi finanziaria del marzo 2020, quando è stato annunciato il blocco generalizzato delle attività produttive, come misura di contenimento del coronavirus. La crisi di liquidità che ne è scaturita ha fatto tremare le piazze finanziarie del mondo intero. Se non fosse stato per il pronto intervento della Federal reserve che ha garantito liquidità illimitata alle principali banche centrali mondiali (lasciando ovviamente fuori quella cinese) attraverso operazioni swap di rifinanziamento in dollari, le borse mondiali avrebbero proseguito il loro tonfo, le banche sarebbero fallite e le imprese non avrebbero mai potuto riprendere la produzione.

Nel mondo, servono dollari negli scambi reali e finanziari. Nei mercati internazionali, i pezzi delle merci si fissano in dollari, e servono dollari anche solo per acquistare altre valute. Il rafforzamento del rublo in risposta alle sanzioni Usa/Ue e la crescita degli scambi in renminbi sono senz’altro dati politici significativi per la Russia e per la Cina ma non sono certo un problema finanziario per gli Stati uniti.

Questo per quanto riguarda il breve-medio termine. Nel lungo termine, le cose stanno invece diversamente.

Il processo di dedollarizzazione è lento ma inesorabile nelle attuali condizioni economiche internazionali. Da tempo, il potere di disciplinamento finanziario del dollaro si sta ridimensionando. Sempre più frequentemente gli Stati uniti devono ricorrere alla forza per imporre il loro dominio, anche in violazione dei principi finanziari attraverso i quali hanno costruito la loro egemonia.

Da questo punto di vista, un dato significativo nel conflitto russo-ucraino, che cambia sostanzialmente i numeri nei bilanci delle istituzioni pubbliche e private, russe e occidentali, è il sequestro dei fondi della banca centrale russa, imposto dagli Stati uniti ed eseguito obbedientemente da tutti i paesi alleati. La cifra è imprecisata: le autorità russe riferiscono di un sequestro di 300 miliardi di dollari, circa la metà delle riserve complessive della Banca centrale; le stime internazionali più basse parlano invece di circa 630 miliardi di dollari e, secondo il ministro dell’economia francese Le Maire, si tratterebbe addirittura di 1.000 miliardi di euro.

Il sequestro dei fondi di istituzioni nazionali sovrane costituisce una violazione grave nel diritto internazionale. Si tratta di una prevaricazione che può restare impunita solo perché gli Stati uniti dettano legge nel sistema finanziario internazionale, e chi non li segue nelle loro avventure, legali o illegali, è immediatamente sanzionato.

Questa mossa ha tuttavia delle conseguenze a doppio taglio. Da una parte, gli Stati uniti mostrano al mondo che le leve della finanza ce le hanno ancora loro e che possono usarle col massimo arbitrio. Dall’altra, però, proprio questo sfoggio di arroganza e potere mostra l’arretramento della finanza Usa nei processi internazionali di disciplinamento finanziario, sempre più basati sulla rapina invece che sulle leggi del mercato (le quali, già da sé, avvantaggiano il più forte).

Dalla guerra in Libia in poi, gli Stati uniti hanno avviato un nuovo protocollo di guerra economica che inizia proprio con il sequestro dei fondi delle banche centrali degli stati sovrani dichiarati nemici. Nell’immediato, questo produce un grave danno alle finanze del paese preso di mira. È come subire un furto dalle casse della banca centrale: centinaia di miliardi di dollari, equivalenti ad anni di esportazioni, investiti nelle piazze finanziarie considerate più affidabili, spariti per sempre, con un tratto di penna senza validità giuridica. Alla lunga però questi abusi incrinano la credibilità delle istituzioni bancarie e finanziarie che li attuano.

Per quanto le piazze finanziarie più sviluppate e appetibili siano in occidente, molte banche centrali e istituzioni finanziarie internazionali stanno rivedendo le loro strategie di allocazione delle riserve monetarie. Ormai quando un investitore internazionale valuta se investire negli Stati uniti deve calcolare il premio di rischio collegato al possibile congelamento dei fondi. Non è un caso se, nel 2021, per la prima volta dal 2010, l’esposizione della Cina nei confronti dei titoli del debito pubblico statunitense è scesa sotto i 1.000 miliardi di dollari (attualmente è pari a 860 miliardi di dollari).

Dal punto di vista finanziario, l’egemonia del dollaro è certamente sulla via del tramonto ma la via è ancora lunga. Le piazze finanziarie americane restano le più importanti e non è un caso se, pur consapevoli dei rischi politici, le istituzioni finanziarie, comprese le banche centrali, si fanno prendere tutte in castagna quando scattano le sanzioni.

Le sanzioni alla Russia evidenziano poi un secondo aspetto significativo, di natura più economica che finanziaria, nel processo di ridimensionamento dell’area del dollaro.

In effetti, proprio perché costretto dagli Stati uniti e dall’Ue, il governo russo sta lavorando per ritagliarsi il suo spazio economico e costruirsi la sua reputazione finanziaria. L’avvicinamento con la Cina può dunque assumere anche una valenza strategica. Economicamente, la Russia non ha certo il peso della Cina ma politicamente l’asse russo-cinese può costituire un passaggio importante nella costruzione di un’area economica e valutaria alternativa.

La Russia ha dunque interesse a presentarsi come soggetto credibile sul piano sia commerciale, sia finanziario. Sul piano commerciale, ad esempio, la Russia ha continuato a fornire gas e petrolio ai paesi europei anche dopo che l’hanno sanzionata, senza mai applicare un contro-embargo energetico. Una bella chiusura improvvisa dei rubinetti del gas sarebbe stato un brutto colpo per l’Unione europea. Ma anche per la Russia. E a beneficiarne sarebbero stati solo gli Stati uniti. Alla fine la Russia è più capitalista degli Stati uniti e sa fare bene i suoi conti: i contratti sono contratti, non si fanno saltare per ragioni politiche.

Anche sul piano finanziario, la Russia ha guardato da subito all’effetto credibilità. Il caso del presunto default sul debito è emblematico: nel mese di giugno 2022, gli Stati uniti hanno invocato il default tecnico della Russia, sostenendo che i pagamenti degli interessi sui titoli del debito russo non hanno raggiunto i creditori nordamericani.

In realtà, la Russia ha pagato per intero i circa 100 miliardi di dollari in interessi agli investitori americani, solo che le sanzioni imposte dal governo statunitense hanno bloccato i fondi e impedito che raggiungessero i destinatari. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov si è espresso con la semplicità di un bambino: “il pagamento in valuta estera è stato effettuato, il fatto che i fondi non siano stati trasferiti ai destinatari non è un nostro problema”. Da un lato, le autorità russe hanno denunciato l’illegittimità del sequestro dei fondi della banca centrale; ma dall’altro, hanno continuato ad onorare ogni contratto e ogni debito, almeno finché tecnicamente possibile. Non ci si gioca la credibilità finanziaria internazionale per 100 milioni di dollari. Anche se si è appena subita una rapina di alcune centinaia di miliardi di dollari.

La strategia finanziaria di Mosca, benché essenzialmente difensiva, è tutt’altro che improvvisata. Con tutte le difficoltà del caso, la Russia sta già cercando di ritagliarsi la sua credibilità economica e finanziaria, in un contesto che la vede esclusa nel breve e medio termine dai circuiti finanziari più importanti. Queste tendenze hanno bisogno di tempo per svilupparsi. Ma il dato attualmente più significativo è che, paradossalmente, è proprio la politica di aggressione degli Stati uniti ad accelerare l’avvicinamento tra i nemici degli Stati uniti, facilitando il superamento di ostacoli storici.

Politicamente, sia la Russia, sia la Cina, stanno puntando molto sullo sviluppo del ruolo dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa) e di un sistema di relazioni internazionali alternativo a quello vigente, e diversi paesi stanno rivedendo il loro posizionamento internazionali allontanandosi dall’area del dollaro.

Anche se per il momento questo processo sembra portare alla progressiva chiusura tra blocchi contrapposti, la crescita di un sistema di relazioni internazionali meno sbilanciata su un singolo attore è vista da molti paesi con interesse. La Cina e la Russia hanno le carte in regola per guidare questo processo, sia economicamente, sia politicamente, sia anche militarmente. E a un certo punto anche i paesi europei dovranno fare le loro scelte.

È nel corso di queste trasformazioni reali dei rapporti economici, politici e militari che si ridefinirà nel tempo il ruolo del dollaro, il suo ridimensionamento e la fine della sua egemonia, non attraverso semplici accordi per denominare i contratti in rubli o in renminbi.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/estero/25654-giulio-palermo-la-strategia-imperialistica-usa-in-europa-ha-radici-lontane-in-ucraina-assistiamo-all-ultimo-atto.html

USA/Twitter files: La crocifissione di Matt Taibbi da parte del Partito Democratico

Chris Hedges: Foto Wikipedia

di Chris Hedges (*)

Le estese liste nere del governo, rivelate dai Twitter Files, sono utilizzate per censurare i critici di destra e di sinistra. Questo apparato di censura è stato rivoltato contro il reporter che lo ha rivelato.

Il 24 dicembre 2022 Matt Taibbi (Wiki) si trovava in una stanza del Parc 55 Hotel di San Francisco per esaminare i rapporti inviati a Twitter da un’entità chiamata Foreign Influence Task Force (FITF). La FITF è una task force interagenzie guidata dall’FBI che inoltra le “richieste di moderazione” di numerose agenzie governative, tra cui la Sicurezza interna, la CIA, il Pentagono e il Dipartimento di Stato, ai social media. Taibbi ha avuto accesso al traffico interno dal nuovo proprietario di Twitter, Elon Musk. Ha rivelato come l’FBI e altre agenzie governative sopprimano abitualmente notizie e commenti. Quella sera, la vigilia di Natale, Taibbi ha pubblicato un thread su Twitter con il titolo “Twitter e altre agenzie governative”.

“Ci sarebbe stato un elenco di video di YouTube”, ha detto Taibbi quando l’ho raggiunto per telefono. Ci sarebbe una notazione che dice: “Riteniamo che questi siano tutti creati dalla Internet Research Agency in Russia. Riteniamo che stiano promuovendo atteggiamenti anti-Ucraina”. Ho visto che tutti quei video non erano più su YouTube. Potete trarre le vostre deduzioni da questo, ma questo era lo schema. Inviavano fogli di calcolo Excel pieni di nomi di account e tutti o la maggior parte di essi sparivano”.

Tra i contenuti che sono stati soppressi vi sono notizie di destra e di sinistra che criticano la narrazione dominante avanzata dal Partito Democratico e dalla vecchia ala dell’establishment del Partito Repubblicano, che è stata inglobata nel Partito Democratico. Tra gli account che sono stati segnalati e fatti sparire, ci sono stati anche articoli del movimento dei Gilet Gialli, di attivisti del movimento Occupy, di Global Revolution Live, storie negative su Joe Biden, rapporti sulla società energetica ucraina Burisma che ha pagato Hunter Biden circa 1 milione di dollari all’anno mentre suo padre era vicepresidente, storie positive sul presidente venezuelano Nicolás Maduro, rapporti sulle violazioni dei diritti umani in Ucraina e dettagli sul contenuto del computer portatile di Hunter Biden.

Sono stato vittima di questa censura. L’archivio di sei anni del mio programma On Contact, trasmesso su RT America, è stato cancellato da YouTube, anche se nessuna puntata riguardava la Russia e nessuna violava le linee guida di YouTube sui contenuti. Gli episodi sono stati successivamente ripubblicati sul canale YouTube di Chris Hedges. La trasmissione ha dato voce a coloro che sono stati presi di mira dalla FITF: antimperialisti, anticapitalisti, sostenitori della riforma carceraria, attivisti di Black Lives Matter e palestinesi, attivisti anti-fracking e intellettuali indipendenti, giornalisti e autori tra cui David Harvey, Noam Chomsky, Sami Al-Arian, Glen Ford, Amira Hass, Mumia Abu Jamal, Roxanne Dunbar-Ortiz, Medea Benjamin, Nils Melzer, Pankaj Mishra, Glenn Greenwald, Matt Taibbi e Cornel West.

L’FBI, prima della pubblicazione del thread di Taibbi su Twitter il 24 dicembre, aveva denunciato i Twitter Files come opera di “teorici della cospirazione” che fornivano al pubblico “disinformazione” e il cui “unico scopo” era “screditare l’agenzia”.

“Devono ritenerci poco ambiziosi, se il nostro ‘unico scopo’ è screditare l’FBI”, ha risposto Taibbi. “Dopo tutto, un’intera gamma di agenzie governative si scredita nei file di Twitter. Perché fermarsi a una?”.

Taibbi era perfettamente consapevole che le rivelazioni della vigilia di Natale, che per la prima volta hanno rivelato il ruolo della CIA, avrebbero fatto infuriare ulteriormente le agenzie di intelligence.

“Mi risulta che il FITF abbia uno staff di almeno 80 persone”, ha detto Taibbi. “È composto principalmente dall’FBI, ma comprende anche persone del Dipartimento di Sicurezza Nazionale e dell’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale. Il FITF era il tramite per le richieste di moderazione dei contenuti che arrivavano alle piattaforme tecnologiche. Hanno organizzato una specie di riunione di settore, prima mensile e poi settimanale, in vista delle elezioni del 2020. Ne facevano parte aziende come Twitter, Facebook, Google, Pinterest, Wikimedia, una serie di altre, circa due dozzine. Hanno tenuto un briefing generale sulle tendenze. Ogni singola azienda riceveva avvisi. Alcune di esse ricevevano avvisi settimanali dal FITF. Twitter lo faceva. Lo sappiamo perché c’erano istruzioni molto specifiche sulle modalità di svolgimento. Le richieste provenienti dagli Stati passavano attraverso il DHS. Le richieste provenienti dal governo federale passavano attraverso l’FBI. Sono passate attraverso un programma chiamato Teleporter. Ecco come abbiamo ottenuto quei documenti”.

A marzo, Taibbi e Michael Shellenberger sono stati chiamati a testimoniare di fronte alla Sottocommissione ristretta sull’armamento del governo federale. Mentre Taibbi stava testimoniando, il 9 marzo, un agente del fisco ha visitato la sua casa nel New Jersey.

Taibbi ha scoperto che l’IRS ha aperto un caso contro di lui il giorno in cui ha pubblicato il suo thread su Twitter alla vigilia di Natale, grazie a una lettera che il presidente della commissione giudiziaria della Camera Jim Jordan ha inviato al commissario dell’IRS Daniel Werfel per chiedere informazioni sul caso di Taibbi. Era un sabato. Era la vigilia di Natale. Taibbi non aveva debiti fiscali. Il caso era vecchio di quattro anni. Tutto ciò fa pensare che il caso del fisco fosse motivato politicamente e che l’FBI stesse monitorando Taibbi.

“Probabilmente ci sono pochi dubbi sul fatto che stessero almeno seguendo da vicino tutti i reporter di Twitter Files, ma probabilmente stavano monitorando anche in altri modi”, ha dedotto Taibbi.

“Uno dei motivi per cui ho accettato di testimoniare davanti alla commissione per l’armamento del governo – e ho ricevuto molte lamentele da vecchi amici di sinistra che erano contrariati dal fatto che mi presentassi davanti a una commissione guidata da repubblicani – è che gli altri giornalisti di notizie tradizionali non stavano raccogliendo molte di queste storie che ritenevo avessero bisogno di attenzione. Avevo bisogno che altri giornalisti facessero un po’ di lavoro su questo tema. Il mio pensiero era che se avessi testimoniato a Washington avrei potuto ottenere maggiore attenzione, non solo a livello nazionale, ma forse anche a livello globale”.

Taibbi si è imbattuto in una sorta di killeraggio organizzato. I membri democratici della commissione hanno raramente lasciato parlare Taibbi. Hanno lanciato attacchi feroci e insultanti. Ecco uno spezzone della deputata democratica Debbie Wasserman Schultz, insieme a Sam Seder e ad altri ospiti di The Majority Report, che attaccano Taibbi.

“Mi aspettavo che ci fosse ostilità nelle domande, ma quello che è successo in quell’udienza è stato sorprendente, anche ad essere coinvolti come spettatori”, ha detto. “Piuttosto che confrontarsi con il materiale dei Twitter Files, anche se in modo critico, si è invece trattato di un’aggressione pura e semplice. Il membro della commissione ci ha definito una minaccia diretta per le persone che si oppongono a noi. Eravamo “cosiddetti giornalisti”. Eravamo i cagnolini e gli scrivani di Elon Musk. Non credevamo alle interferenze russe. Non rispettavamo l’autorità. Avevo un cappello di carta stagnola che un membro mi ha detto di togliere. Un membro dopo l’altro creava spezzoni di video che venivano riproposti su MSNBC e CNN la sera stessa. È così che la gente ha saputo dell’udienza”.

“Siamo cresciuti in un’atmosfera in cui i democratici sono sempre stati i campioni della libertà di parola, più dei repubblicani”, mi ha detto Taibbi. “Negli anni ’70, ’80, ’90 e anche nei primi anni 2000. Improvvisamente, su questo tema, c’è stata un’ostilità da muro a muro. Non c’era un Dennis Kucinich o un Bernie Sanders che si distinguesse dalla massa. Non ci sono più dissidenti nei ranghi di questo partito”.

“I liberali della vecchia scuola, tipo ACLU, ora non ci sono più”, ha aggiunto. “C’è questo nuovo movimento che non crede nella possibilità di contrastare il cattivo discorso con un discorso migliore. Credono nella chiusura e nell’oscuramento. Questo è l’obiettivo dei Twitter Files. Ecco perché c’era così tanta ostilità”.

Taibbi è stato informato che c’erano problemi con la sua dichiarazione dei redditi del 2018. L’IRS ha detto di avergli inviato delle lettere in merito, ma Taibbi non ha ricevuto alcuna lettera e l’IRS si è rifiutato di produrne delle copie. Taibbi aveva anche una conferma elettronica da parte dell’IRS che la sua dichiarazione dei redditi del 2018 era stata ricevuta.

È stato solo quando il deputato Jordan ha scritto all’IRS chiedendo chiarimenti che Taibbi è venuto a conoscenza dei file che l’IRS aveva accumulato su di lui. Questi includevano informazioni tratte da motori di ricerca e software investigativi commerciali come Anyhoo, Consumer Affairs e LexisNexis. C’erano i suoi registri elettorali, se possedeva una licenza di caccia o di pesca, se aveva un permesso per armi nascoste, i suoi numeri di telefono, gli articoli che aveva scritto e gli articoli scritti su di lui.

“Perché un agente del fisco dovrebbe avere bisogno di sapere qualcosa sulla mia storia professionale o su controversie in cui sono stato coinvolto o su cose di cui ho scritto?”, ha chiesto. “Mi sembra piuttosto discutibile”.

“Non si preoccupano dell’immagine, di fare qualcosa come mandare un agente del fisco a casa di un giornalista che ha una grande piattaforma e la reputazione di non aver paura di dire qualcosa”, ha detto. “Non sono preoccupati dell’immagine che ne deriva. È preoccupante per una serie di motivi. Ricorda cose che si vedono in un Paese del terzo mondo”.

Taibbi è stato intervistato dal conduttore di MSNBC Mehdi Hassan. Hassan, o i suoi ricercatori, hanno passato al setaccio i rapporti di Taibbi e hanno trovato un paio di errori minori, tra cui una linea temporale confusa e un acronimo fuori posto. Hassan ha sostenuto che gli errori erano la prova che Taibbi aveva intenzionalmente mentito al Congresso. Alexandria Ocasio-Cortez ha appoggiato l’accusa. Il membro più anziano della commissione, Stacey Plaskett, ha inviato una lettera a Taibbi accusandolo di aver mentito al Congresso. Plaskett ha minacciato Taibbi di condannarlo a cinque anni di carcere.

Ci sono tre fasi per distruggere un giornalista che non può essere comprato o intimidito. Il primo è una campagna da parte dei potenti – le cui menzogne e crimini sono stati smascherati, insieme ai loro ossequiosi cortigiani della stampa -, per screditare la notizia. La seconda è una campagna prolungata di distruzione del personaggio. La terza è una persecuzione attuata una volta che la credibilità del giornalista è stata indebolita, la sua capacità di pubblicare o trasmettere è degradata e il sostegno pubblico si è eroso.

Questo è ciò che è successo a Julian Assange. È successo prima di Assange a Don Hollenbeck, I.F. Stone, Gary Webb, Ray Bonner e molti altri. È quello che sta accadendo a Taibbi, le cui rivelazioni sulla censura diffusa – da parte dell’FBI, della CIA, della Sicurezza Nazionale e di altre agenzie governative e di intelligence – hanno fatto infuriare la classe dirigente.

Non so se vinceranno. Speriamo di no. Ma il silenzio assordante di quasi tutti gli organi di stampa nei confronti di ciò che stanno facendo a Taibbi, così come per Assange, è inquietante e pericoloso. Manda un segnale a coloro che cercano di raccontare i meccanismi interni del potere: non importa quanto siate conosciuti o quanto alto sia il vostro profilo, anche voi sarete presi di mira. Gli attacchi concertati a Taibbi sono un esempio di come le mura si stiano costantemente chiudendo per imporre un ferreo conformismo, un ulteriore tassello del nostro emergente totalitarismo corporativo.

“Nessuno vuole avere a che fare con una campagna mediatica negativa a tutto campo, per la quale ci si offre volontari quando si fa questo tipo di lavoro”, ha detto. “Non se ne va mai. È un po’ una seccatura. L’abbiamo visto accadere con lei, con Glenn Greenwald dopo la vicenda Snowden ed è successo di nuovo con lui durante il Russiagate. Non è divertente. Le persone non vogliono affrontarlo. È un disincentivo a fare un lavoro di contro-narrazione”.

“È buffo, Chris, ma durante questo processo ho pensato molto al tuo libro Death of The Liberal Class”, mi ha detto Taibbi. “Ci sono stati così tanti casi diversi in cui la storia di base che stiamo osservando con molti dei rapporti di Twitter Files è stata una rottura del sistema di controlli ed equilibri. Le organizzazioni della società civile, i media, l’industria privata e il governo dovrebbero avere tutti interessi diversi. Si controllano a vicenda. Ma quello che stiamo vedendo è che, sotto la superficie, sono impegnati in comportamenti anticoncorrenziali… In pratica i media, questi censori di Internet, le agenzie di controllo e le ONG, agiscono tutti di concerto contro la popolazione, invece di controllarsi a vicenda. Lei lo aveva previsto. Quando queste istituzioni si rompono, quando non funzionano più, ecco cosa succede. Il passo verso il consolidamento dell’autorità è piuttosto rapido. Questa è la parte che fa paura. Una volta, se eri nei media, anche una piccola offesa in questa direzione avrebbe attirato la solidarietà tra i ranghi. Ora non c’è più nulla”.

Lui ha criticato il ruolo che le principali organizzazioni dei media hanno avuto nel dare la caccia a Jack Teixeira, uno staff di supporto tecnologico della Guardia Nazionale che ha pubblicato online documenti riservati.

“Invece di riferire sui contenuti delle grandi fughe di notizie, il Washington Post e il New York Times hanno collaborato con Bellingcat per consegnare questo sospetto alle autorità”, ha detto. “Questo è un nuovo ruolo per i media. È un grande cambiamento nel modo in cui la stampa pensa a se stessa. Non si vede come qualcosa di separato dal governo o dalle forze dell’ordine. Si vede come se fosse dalla stessa parte”.

“Probabilmente molte persone erano spaventate dallo spettacolo dell’ascesa di Donald Trump”, ha detto. “È stato detto loro più e più volte che si trattava di un movimento neofascista nazionalista cristiano. Ci sono elementi in questo senso. C’è del vero in questo. Ma in risposta sono diventati esattamente ciò contro cui dicevano di combattere. Quando la gente si sveglierà potrebbe essere un po’ troppo tardi, il che è un peccato”.

Una classe dirigente screditata, che ha sventrato la nazione per i suoi padroni corporativi e la cui missione primaria è la perpetuazione della guerra permanente, non ha alcuna intenzione di attuare una riforma. Non permette uno scambio di idee e non concede una tribuna ai suoi critici. Sa di essere odiato. Teme l’ascesa dei neofascisti che le sue disfunzioni e la sua corruzione hanno generato. Cerca di perpetuarsi solo attraverso la paura, la paura di ciò che la sostituirà. Questo è tutto ciò che ha da offrire a una cittadinanza demoralizzata. Le garanzie costituzionali della libertà di parola e del diritto alla privacy sono ostacoli fastidiosi alla sua tenue presa sul potere. Questi diritti costituzionali sono stati di fatto aboliti. Ciò che i Twitter Files hanno rivelato sono le massicce liste nere governative e la vile acquiescenza delle piattaforme mediatiche a emarginare e bandire individui e gruppi presenti in queste liste nere. Taibbi, non a caso, è stato preso di mira dall’apparato totalitario che ha smascherato.

(*) -Chris Hedges è un autore e giornalista vincitore del Premio Pulitzer, corrispondente estero per quindici anni del New York Times.

TRADUZIONE: Cambiailmondo

FONTE: https://substack.com/

Distopico Stomp: Surrogata

SURROGATA

Nel ‘32, ad alcuni anni dall’esaurimento della lunga polemica tra fautori e oppositori della surrogata, ciò che restava dei sistemi sanitari aveva acquisito nuovi protocolli di intervento universali. Il decoupling generale aveva consentito di superare le rigidità precedenti; non era più necessario affidarsi a legislazioni liberali per sottoscrivere i contratti di gestazione internazionale denominati in Yuan; la sperimentazione nei laboratori aveva consentito importanti avanzamenti.

In Carghissia i trapianti di utero su femmine di orangutan risultavano efficaci. Nel ‘36, il trapianto fu avviato sui bonobo, anche individui maschili, con eccellenti risultati abbinati ai farmaci per il prolungamento della gestazione.

Già nel ‘38 le nuove scoperte sulle bioplastiche autoagglutinanti consentirono di produrre i primi extra uteri artificiali gestiti da bioreattori automatizzati, superando la mediazione animale.

Il loro impiego su vasta scala si impose però dopo la fine della guerra. Sia per le necessità di ripopolamento, sia perché la ricostruzione aveva imposto la fine del genere primario in ambito giuridico.

Anche la sua proliferazione secondaria fu abolita nel corso del decennio successivo. Non vi era più ragione di distinzione tra eterofilia o omofilia nelle diverse sub-varietà. L’approvvigionamento territoriale di capi umani seguì una pianificazione forzata fino al raggiungimento di una soglia ritenuta stabile e sostenibile anche rispetto alla necessità di contenimento dell’avanzamento di specie superstiti che si erano allargate oltremisura nel periodo bellico fin dentro le metropoli.

Gli uteri esterni artificiali consentirono anche una socializzazione delle eredità e comportarono la scomparsa della copula e dell’ordine sessuale binario; cosa che rese superfluo anche quello ternario e quaternario.

La letteratura dell’epoca riporta alcuni esempi di questo passaggio: i personaggi diventano via via più flebili e meno connotati, finché anche il romanzo di estingue. Così il teatro e il cinema di intrattenimento. La televisione diventa un fiume documentaristico e gli spazi una volta riservati ai talk show furono occupati dalle meditazioni.

Intorno alla metà degli anni ‘50 si manifesta una certa ripresa di volontà differenziante nelle arti astratte, anche grazie alla pratica degli innesti chimerici che nel frattempo si era affermata.

L’unghia retrattile o la mobilità della peluria cutanea furono casi che fecero discutere. Assieme allo smerigliamento oculare.

Per evitare rischi di risorgente razzismo le abitazioni in surplus furono adibite a loro salvaguardia; alcuni sostengono piuttosto al loro nascondimento.

E’ un fatto comunque che non si registrarono più conflitti attorno a tali temi.

FONTE: Ds (Distopico stomp)

Le guerre americane e la crisi del debito statunitense

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di Jeffrey D. Sachs

Per superare la crisi del debito, l’America deve smettere di alimentare il Complesso Militare-Industriale, la lobby più potente di Washington

Nel 2000 il debito pubblico degli Stati Uniti era di 3,5 trilioni di dollari, pari al 35% del prodotto interno lordo (PIL). Nel 2022 il debito ha raggiunto i $ 24 trilioni, pari al 95% del PIL. Il debito degli Stati Uniti è alle stelle, da qui l’attuale crisi del debito americano. Eppure sia ai repubblicani che ai democratici manca la soluzione: fermare le guerre scelte dall’America e tagliare le spese militari.

Supponiamo che il debito del governo sia rimasto a un modesto 35% del PIL, come nel 2000. Il debito odierno sarebbe di 9 miliardi di dollari, invece di 24 trilioni di dollari. Perché il governo degli Stati Uniti ha contratto l’eccesso di $ 15 trilioni di debito?

L’unica grande risposta è la dipendenza del governo degli Stati Uniti dalla guerra e dalle spese militari.

Secondo il Watson Institute della Brown University, il costo delle guerre statunitensi dall’anno fiscale 2001 all’anno fiscale 2022 ammontava a ben 8 trilioni di dollari, più della metà dei 15 trilioni di debito in più. Gli altri 7 trilioni di dollari provenivano più o meno in egual misura dai deficit di bilancio causati dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla pandemia di Covid-19.

Per superare la crisi del debito, l’America deve smettere di alimentare il Complesso Militare-Industriale (MIC), la lobby più potente di Washington. Come notoriamente avvertì il presidente Dwight D. Eisenhower il 17 gennaio 1961: “Nei consigli di governo, dobbiamo guardarci dall’acquisizione di un’influenza ingiustificata, richiesta o meno, da parte del complesso militare-industriale. Il potenziale per la disastrosa ascesa del potere mal riposto esiste e persisterà”. Dal 2000, il MIC ha guidato gli Stati Uniti in disastrose guerre di scelta in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia e ora in Ucraina.

Il complesso militare-industriale ha adottato da tempo una strategia politica vincente assicurandosi che il budget militare raggiunga ogni distretto congressuale. Il Congressional Research Service ha recentemente ricordato al Congresso che “la spesa per la difesa tocca ogni membro del distretto del Congresso attraverso la retribuzione e i benefici per i membri dei servizi militari e i pensionati, l’impatto economico e ambientale delle installazioni e l’approvvigionamento di sistemi d’arma e parti dall’industria locale, tra le altre attività.” Solo un coraggioso membro del Congresso voterebbe contro la lobby dell’industria militare, ma il coraggio non è certamente un segno distintivo del Congresso.

La spesa militare annuale dell’America è ora di circa 900 miliardi di dollari, circa il 40% del totale mondiale e superiore a quella dei prossimi 10 paesi messi insieme. La spesa militare degli Stati Uniti nel 2022 è stata il triplo di quella della Cina. Secondo il Congressional Budget Office, le spese militari per il periodo 2024-2033 saranno l’incredibile cifra di 10,3 trilioni di dollari rispetto all’attuale baseline. Un quarto o più di questo potrebbe essere evitato ponendo fine alle guerre scelte dall’America, chiudendo molte delle circa 800 basi militari americane in tutto il mondo e negoziando nuovi accordi sul controllo degli armamenti con Cina e Russia.

Tuttavia, invece della pace attraverso la diplomazia e la responsabilità fiscale, il MIC spaventa regolarmente il popolo americano con rappresentazioni in stile fumetto di cattivi che gli Stati Uniti devono fermare a tutti i costi. L’elenco post-2000 includeva i talebani dell’Afghanistan, Saddam Hussein dell’Iraq, Bashar al-Assad della Siria, Moammar Gheddafi della Libia, Vladimir Putin della Russia e, recentemente, Xi Jinping della Cina. La guerra, ci viene ripetutamente detto, è necessaria per la sopravvivenza dell’America.

Una politica estera orientata alla pace sarebbe osteggiata strenuamente dalla lobby militare-industriale ma non dall’opinione pubblica. Significative pluralità pubbliche vogliono già meno, non più, coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari di altri paesi, e meno, non più, dispiegamenti di truppe statunitensi all’estero. Per quanto riguarda l’Ucraina, gli americani vogliono in modo schiacciante un “ruolo minore” (52%) piuttosto che un “ruolo principale” (26%) nel conflitto tra Russia e Ucraina. Questo è il motivo per cui né Biden né alcun presidente recente ha osato chiedere al Congresso un aumento delle tasse per pagare le guerre americane. La risposta del pubblico sarebbe stata un clamoroso “No!”

Mentre le guerre scelte dall’America sono state terribili per l’America, sono state disastri molto più grandi per i paesi che l’America pretende di salvare. Come disse Henry Kissinger, “Essere un nemico degli Stati Uniti può essere pericoloso, ma essere un amico è fatale”. L’Afghanistan è stata la causa dell’America dal 2001 al 2021, fino a quando gli Stati Uniti l’hanno lasciata distrutta, in bancarotta e affamata. L’Ucraina è ora nell’abbraccio dell’America, con gli stessi probabili risultati: guerra in corso, morte e distruzione.

Il budget militare potrebbe essere tagliato in modo prudente e profondo se gli Stati Uniti sostituissero le loro guerre di scelta e la corsa agli armamenti con una vera diplomazia e accordi sugli armamenti. Se i presidenti e i membri del congresso avessero solo ascoltato gli avvertimenti dei massimi diplomatici americani come William Burns, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Russia nel 2008, e ora direttore della CIA, gli Stati Uniti avrebbero protetto la sicurezza dell’Ucraina attraverso la diplomazia, concordando con la Russia che gli Stati Uniti non avrebbero allargato la NATO in Ucraina se anche la Russia avrebbe tenuto i suoi militari fuori dall’Ucraina. Eppure l’inesorabile espansione della NATO è una delle cause preferite del MIC; i nuovi membri della NATO sono i principali clienti degli armamenti statunitensi.

Gli Stati Uniti hanno anche abbandonato unilateralmente accordi chiave sul controllo degli armamenti. Nel 2002, gli Stati Uniti sono usciti unilateralmente dal Trattato sui missili antibalistici. E piuttosto che promuovere il disarmo nucleare — come gli Stati Uniti e le altre potenze nucleari sono tenute a fare ai sensi dell’articolo VI del Trattato di non proliferazione nucleare — il Complesso militare-industriale ha venduto al Congresso i piani per spendere più di 600 miliardi di dollari entro il 2030 per ”modernizzare” l’arsenale nucleare statunitense.

Ora il MIC sta parlando della prospettiva di una guerra con la Cina per Taiwan. I tamburi della guerra con la Cina stanno alimentando il budget militare, ma la guerra con la Cina è facilmente evitabile se gli Stati Uniti aderiscono alla politica di una sola Cina che è alla base delle relazioni USA-Cina. Una simile guerra dovrebbe essere impensabile. Più che mandare in bancarotta gli Stati Uniti, potrebbe porre fine al mondo.

La spesa militare non è l’unica sfida di bilancio. L’invecchiamento e l’aumento dei costi sanitari si aggiungono ai problemi fiscali. Secondo il Congressional Budget Office, il debito raggiungerà il 185% del PIL entro il 2052 se le politiche attuali rimarranno invariate. I costi sanitari dovrebbero essere limitati mentre le tasse sui ricchi dovrebbero essere aumentate. Tuttavia, affrontare la lobby militare-industriale è il primo passo fondamentale per mettere in ordine il sistema fiscale americano, necessario per salvare gli Stati Uniti, e forse il mondo, dalla politica perversa guidata dalla lobby americana.

FONTE: ACRO-POLIS.IT

Jeffrey Sachs: “La guerra in Ucraina è stata provocata dagli Stati Uniti”

di Jeffrey D. Sachs* per Common Dreams

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

George Orwell scrisse in “1984” che “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.” I governi lavorano incessantemente per distorcere la percezione pubblica del passato. Per quanto riguarda la guerra d’Ucraina, l’amministrazione Biden ha ripetutamente e falsamente affermato che la guerra d’Ucraina è iniziata con un attacco non provocato della Russia all’Ucraina il 24 febbraio 2022. In realtà, la guerra è stata provocata dagli Stati Uniti in modi che i principali diplomatici statunitensi avevano previsto per decenni nel periodo precedente la guerra, il che significa che la guerra avrebbe potuto essere evitata e che ora dovrebbe essere fermata attraverso i negoziati.

Riconoscere che la guerra è stata provocata ci aiuta a capire come fermarla. Non giustifica l’invasione della Russia. Un approccio di gran lunga migliore per la Russia sarebbe stato quello di intensificare la diplomazia con l’Europa e con il mondo non occidentale per spiegare e opporsi al militarismo e all’unilateralismo degli Stati Uniti. In effetti, l’incessante spinta statunitense ad espandere la NATO è ampiamente osteggiata in tutto il mondo, quindi la diplomazia russa, piuttosto che la guerra, sarebbe stata probabilmente efficace.

Il team di Biden usa senza tregua la parola “non provocata”, di recente nell’importante discorso di Biden per il primo anniversario della guerra, in una recente dichiarazione della NATO e nell’ultima dichiarazione del G7. I media mainstream favorevoli a Biden si limitano a ripetere le parole della Casa Bianca. Il New York Times è il principale colpevole: ha descritto l’invasione come “non provocata” non meno di 26 volte, in cinque editoriali, 14 colonne di opinione di scrittori del NYT e 7 op-editoriali ospiti!

In realtà le provocazioni statunitensi sono state principalmente due. La prima è stata l’intenzione degli Stati Uniti di espandere la NATO all’Ucraina e alla Georgia per poter circondare la Russia nella regione del Mar Nero con una cintura della NATO (Ucraina, Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia, in ordine antiorario). Il secondo è stato il ruolo degli Stati Uniti nell’installazione di un regime russofobico in Ucraina con il rovesciamento violento del presidente filorusso Viktor Yanukovych nel febbraio 2014. La guerra in Ucraina è iniziata con il rovesciamento di Yanukovych nove anni fa, non nel febbraio 2022 come vorrebbero farci credere il governo statunitense, la NATO e i leader del G7.

La chiave per la pace in Ucraina è rappresentata da negoziati basati sulla neutralità dell’Ucraina e sul non allargamento della NATO.

Biden e la sua squadra di politica estera si rifiutano di discutere queste radici della guerra. Riconoscerle minerebbe l’amministrazione in tre modi. In primo luogo, rivelerebbe il fatto che la guerra avrebbe potuto essere evitata, o fermata in anticipo, risparmiando all’Ucraina l’attuale devastazione e agli Stati Uniti oltre 100 miliardi di dollari di spese finora sostenute. In secondo luogo, rivelerebbe il ruolo personale del Presidente Biden nella guerra, come partecipante al rovesciamento di Yanukovych e, prima ancora, come convinto sostenitore del complesso militar-industriale e precursore dell’allargamento della NATO. In terzo luogo, spingerebbe Biden al tavolo dei negoziati, minando la continua spinta dell’amministrazione all’espansione della NATO.

Gli archivi mostrano in modo inconfutabile che i governi statunitense e tedesco promisero ripetutamente al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che la NATO non si sarebbe mossa “di un solo centimetro verso est” quando l’Unione Sovietica avesse sciolto l’alleanza militare del Patto di Varsavia. Ciononostante, la pianificazione statunitense per l’espansione della NATO è iniziata all’inizio degli anni ’90, ben prima che Vladimir Putin diventasse presidente della Russia. Nel 1997, l’esperto di sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski ha delineato la tempistica dell’espansione della NATO con notevole precisione.

I diplomatici statunitensi e i leader ucraini sapevano bene che l’allargamento della NATO avrebbe potuto portare alla guerra. Il grande statista statunitense George Kennan definì l’allargamento della NATO un “errore fatale”, scrivendo sul New York Times che “ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche dell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; che ripristini l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni tra Est e Ovest e che spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non gradite”.

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Il Segretario alla Difesa del Presidente Bill Clinton, William Perry, considerò di dimettersi per protestare contro l’allargamento della NATO. Ricordando questo momento cruciale a metà degli anni ’90, Perry ha detto quanto segue nel 2016: “La nostra prima azione che ci ha davvero portato in una cattiva direzione è stata quando la NATO ha iniziato ad espandersi, coinvolgendo le nazioni dell’Europa orientale, alcune delle quali confinanti con la Russia. A quel tempo, stavamo lavorando a stretto contatto con la Russia, che cominciava ad abituarsi all’idea che la NATO potesse essere un’amica piuttosto che un nemico… ma era molto a disagio all’idea di avere la NATO proprio sul suo confine e ci ha fatto un forte appello a non andare avanti”.

Nel 2008, l’allora ambasciatore americano in Russia, e ora direttore della CIA, William Burns, inviò un cablogramma un cablogramma a Washington in cui avvertiva a lungo dei gravi rischi dell’allargamento della NATO: “Le aspirazioni alla NATO dell’Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, ma suscitano serie preoccupazioni per le conseguenze sulla stabilità della regione. La Russia non solo percepisce l’accerchiamento e gli sforzi per minare l’influenza della Russia nella regione, ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che potrebbero compromettere seriamente gli interessi della sicurezza russa. Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni in Ucraina sull’adesione alla NATO, con gran parte della comunità etnica russa contraria all’adesione, possano portare a una grande spaccatura, con violenze o, nel peggiore dei casi, alla guerra civile. In questa eventualità, la Russia dovrebbe decidere se intervenire o meno; una decisione che la Russia non vuole affrontare.”

I leader ucraini sapevano chiaramente che fare pressione per l’allargamento della NATO all’Ucraina avrebbe significato la guerra. L’ex consigliere di Zelensky Oleksiy Arestovych ha dichiarato in un’intervista del 2019 “che il nostro prezzo per entrare nella NATO è una grande guerra con la Russia”.

Nel periodo 2010-2013, Yanukovych ha spinto per la neutralità, in linea con l’opinione pubblica ucraina. Gli Stati Uniti hanno lavorato segretamente per rovesciare Yanukovych, come si evince vivamente dal nastro dell’allora vicesegretaria di Stato americana Victoria Nuland e dell’ambasciatore statunitense Geoffrey Pyatt che pianificano il governo post-Yanukovych settimane prima del violento rovesciamento di Yanukovych. Nella telefonata, Nuland chiarisce che si stava coordinando strettamente con l’allora vicepresidente Biden e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, lo stesso team Biden-Nuland-Sullivan ora al centro della politica statunitense nei confronti dell’Ucraina.

Dopo il rovesciamento di Yanukovych, è scoppiata la guerra nel Donbas, mentre la Russia rivendicava la Crimea. Il nuovo governo ucraino ha chiesto l’adesione alla NATO e gli Stati Uniti hanno armato e aiutato a ristrutturare l’esercito ucraino per renderlo interoperabile con la NATO. Nel 2021, la NATO e l’amministrazione Biden si sono fortemente impegnati per il futuro dell’Ucraina nella NATO.

Nel periodo immediatamente precedente l’invasione della Russia, l’allargamento della NATO è stato al centro dell’attenzione. Il progetto di trattato USA-Russia di Putin (17 dicembre 2021) chiedeva di fermare l’allargamento della NATO. I leader russi hanno indicato l’allargamento della NATO come causa della guerra nella riunione del Consiglio di sicurezza nazionale russo del 21 febbraio 2022. Nel suo discorso alla nazione di quel giorno, Putin dichiarò che l’allargamento della NATO era una delle ragioni principali dell’invasione.

Lo storico Geoffrey Roberts ha recentemente scritto: “Si sarebbe potuta evitare la guerra con un accordo russo-occidentale che avesse fermato l’espansione della NATO e neutralizzato l’Ucraina in cambio di solide garanzie di indipendenza e sovranità ucraina? Probabilmente sì.” Nel marzo 2022, la Russia e l’Ucraina hanno riferito di aver fatto progressi verso una rapida fine negoziata della guerra, basata sulla neutralità dell’Ucraina. Secondo Naftali Bennett, ex primo ministro israeliano, che ha svolto il ruolo di mediatore, un accordo era vicino ad essere raggiunto prima che Stati Uniti, Regno Unito e Francia lo bloccassero.

Mentre l’amministrazione Biden dichiara che l’invasione russa non è stata provocata, nel 2021 la Russia ha cercato opzioni diplomatiche per evitare la guerra, mentre Biden ha rifiutato la diplomazia, insistendo sul fatto che la Russia non aveva voce in capitolo sulla questione dell’allargamento della NATO. Nel marzo 2022, la Russia ha insistito sulla diplomazia, mentre il team di Biden ha nuovamente bloccato la fine della guerra per via diplomatica.

Riconoscendo che la questione dell’allargamento della NATO è al centro di questa guerra, capiamo perché gli armamenti statunitensi non porranno fine a questa guerra. La Russia si intensificherà se necessario per impedire l’allargamento della NATO all’Ucraina. La chiave per la pace in Ucraina è rappresentata dai negoziati basati sulla neutralità dell’Ucraina e sul non allargamento della NATO. L’insistenza dell’amministrazione Biden sull’allargamento della NATO all’Ucraina ha reso quest’ultima vittima di aspirazioni militari statunitensi mal concepite e irraggiungibili. È ora che le provocazioni cessino e che i negoziati riportino la pace in Ucraina.

* Jeffrey D. Sachs è professore universitario e direttore del Centro per lo sviluppo sostenibile della Columbia University, dove ha diretto l’Earth Institute dal 2002 al 2016. È anche presidente del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite e commissario della Commissione per lo sviluppo a banda larga delle Nazioni Unite. È stato consulente di tre Segretari generali delle Nazioni Unite e attualmente ricopre il ruolo di SDG Advocate sotto il Segretario generale Antonio Guterres. Sachs è autore, da ultimo, di “A New Foreign Policy: Beyond American Exceptionalism” (2020). Tra gli altri libri ricordiamo: “Costruire la nuova economia americana: Smart, Fair, and Sustainable” (2017) e “The Age of Sustainable Development” (2015) con Ban Ki-moon.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-jeffrey_sachs_la_guerra_in_ucraina__stata_provocata_dagli_stati_uniti/39602_49781/

La Guerra contro il mondo multipolare

di Hauke Ritz*

Politici di spicco suggeriscono che si potrebbe rischiare una continua escalation della guerra in Ucraina perché una vittoria russa sarebbe peggiore di una terza guerra mondiale. A cosa è dovuta questa enorme volontà di escalation? Perché sembra non esistere un piano B? Per quale motivo l’élite politica degli Stati Uniti e quella della Germania hanno legato il proprio destino all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale?

Non si può ignorare che il mondo occidentale sia in preda a una sorta di frenesia bellica nei confronti della Russia. Ogni escalation sembra portare quasi automaticamente alla successiva. Non appena è stata decisa la consegna di carri armati all’Ucraina, si è parlato della consegna di jet da combattimento. Un drone spia americano era appena stato abbattuto vicino al confine russo dal passaggio ravvicinato di un caccia russo, quando la Corte penale internazionale dell’Aia ha pubblicato un mandato di arresto per Vladimir Putin. Criminalizzando il presidente russo, l’Occidente ha deliberatamente distrutto il percorso verso una soluzione negoziale e ha portato l’escalation a un nuovo livello. Ma come se il livello così raggiunto non fosse abbastanza alto, la Gran Bretagna ha annunciato la consegna di munizioni all’uranio, considerate armi “convenzionali” che lasciano una contaminazione radioattiva sul luogo dell’esplosione. La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è consistita nella decisione di posizionare armi nucleari tattiche in Bielorussia a stretto giro.

La rinuncia al controllo dell‘escalation

Da dove deriva questa disposizione quasi automatica all’escalation da parte dei politici al potere oggi? È un fenomeno di decadenza? Qualcosa di analogo si verifica quando l’adattamento allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) è diventato più importante dell’adattamento alla realtà. Oppure la disponibilità all’escalation può essere spiegata razionalmente? È forse l’espressione di un certo obiettivo politico che è stato minacciato ma che non può essere abbandonato dalla classe politica al potere e che quindi sembra raggiungibile solo attraverso un azzardo?

Una dichiarazione molto significativa, rilasciata dal Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg il 18 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, fa pensare a quest’ultima ipotesi: Stoltenberg ha ammesso nel suo discorso che, continuando a sostenere l’Ucraina, c’era il rischio di un’escalation militare tra la NATO e la Russia che non poteva più essere controllata. Tuttavia, ha fatto seguito a questa ammissione chiarendo immediatamente che non esistono soluzioni prive di rischi e “che il rischio più grande di tutti sarebbe una vittoria russa”. In un certo senso, Stoltenberg ha legittimato il rischio di un’escalation militare tra le due superpotenze nucleari. In altre parole, si potrebbe tranquillamente rischiare l’escalation perché una vittoria russa in Ucraina sarebbe potenzialmente peggiore di una terza guerra mondiale.

Ora, si potrebbe liquidare la dichiarazione di Stoltenberg come irrazionale se non fosse in linea con altre dichiarazioni allarmanti di politici, militari e persone che gravitano in questi mondi. Si consideri, ad esempio, l’osservazione fiduciosa di Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, che si è detto sicuro che Putin non userà le armi nucleari anche in caso di escalation (1), il che implicherebbe dunque che si può osare un’escalation. Che altri leader della NATO la pensino allo stesso modo è stato recentemente reso noto da una prostituta (Hanna Lakomy su “Berliner Zeitung”) che bazzica in questi ambienti. Anche il capo del governo ungherese, Victor Orban, ha recentemente avvertito che i Paesi occidentali sono sul punto di discutere seriamente l’invio di proprie truppe in Ucraina. Solo due giorni dopo, il famoso giornalista investigativo Seymour Hersh, noto per le sue fonti nella burocrazia di Washington, ha lanciato avvertimenti molto simili. Secondo Hersh, il governo statunitense sta valutando la possibilità di inviare proprie truppe in Ucraina sotto la copertura della NATO. Il presidente serbo, a sua volta, ha commentato la notizia del mandato di arresto della Corte penale internazionale contro il presidente russo con le parole “E sono pronto a dirvi che temo che non siamo lontani dallo scoppio della terza guerra mondiale”. Perché si era creata una situazione “in cui entrambe le parti scommettono su tutto o niente e rischiano fino in fondo”. Lo scorso dicembre, il leggendario Segretario di Stato americano Henry Kissinger aveva espresso sentimenti simili. Nel suo articolo “Come evitare un’altra guerra mondiale”, ha descritto come in questa guerra si scontrino posizioni assolutiste che potrebbero effettivamente portare allo scoppio di una guerra mondiale.

Affermazioni di questo tipo sollevano la questione di cosa si stia effettivamente combattendo in Ucraina: qual è il vero scopo di questa enorme volontà di escalation? I bacini carboniferi del Donbass? Probabilmente no. Ma allora di cosa si tratta?

Il contrasto tra ordine mondiale unipolare e multipolare

La tesi di lavoro di questo saggio è che nel conflitto ucraino si stanno confrontando due concetti di ordine mondiale, ovvero la contrapposizione tra un ordine mondiale unipolare e uno multipolare. Di seguito, le caratteristiche di entrambi i principi dell’ordine mondiale saranno sviluppate e messe a confronto.

Se si esaminano i documenti di politica estera pubblicati negli ultimi due decenni dalle principali riviste di politica estera occidentale (ad esempio negli Stati Uniti “Foreign Affairs”, rivista del Council on Foreign Relations, o in Germania “Internationale Politik”, rivista del DGAP – Consiglio tedesco per le relazioni estere), una circostanza colpisce particolarmente: in queste pubblicazioni l’obiettivo di un mondo normativamente governato dagli Stati Uniti o dalla NATO non viene messo in discussione, ma sempre presupposto. Il potenziale fallimento del dominio occidentale non viene nemmeno preso in considerazione, nemmeno come possibilità. La situazione è simile a quella di quasi tutti gli altri think tank statunitensi o tedeschi e delle loro pubblicazioni sulla geopolitica e la politica estera. Per queste istituzioni la validità dell’ordine mondiale incentrato sull’Occidente è inconfutabile, mentre il declino della Russia è considerato un dato di fatto.

In altre parole, al momento non sembra esistere un “piano B” nella pianificazione politica occidentale. È proprio l’assenza di un tale piano che potrebbe spiegare l’enorme disponibilità dell’Occidente all’escalation. Per qualche motivo, l’élite politica degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, della Germania e di numerosi altri Paesi, ha legato il proprio destino politico all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale. Gli Occidentali sembrano essere dominati dall’idea che la guerra in Ucraina possa portare a un cambio di regime a Mosca e quindi a una restaurazione del potere occidentale. Ma ora che, contrariamente alle aspettative, il predominio dell’Occidente ha iniziato a scivolare, si stanno verificando le reazioni isteriche di cui sopra.

Per arrivare al nocciolo del conflitto, dobbiamo quindi rispondere alla domanda su che cosa sia in realtà un ordine mondiale a guida occidentale, sul perché sia chiamato anche ordine mondiale unipolare, tra le altre cose, e su quale sia il suo contro-concetto.

Caratteristiche dell’ordine mondiale unipolare

Un ordine mondiale unipolare è un ordine globale strutturato in modo tale che solo una regione del globo sia davvero abbastanza sviluppata da essere il polo di potere che dà forma a tutte le sfere del mondo moderno. In un ordine mondiale unipolare, ad esempio, gran parte del potere militare sarebbe concentrato nelle mani di un’unica superpotenza o alleanza di Stati. A causa di questa concentrazione di potere, in questo caso ci sarebbe anche una sola norma di politica estera che strutturerebbe la politica estera di tutti i Paesi. Una politica estera sovrana sarebbe, per così dire, modellata solo dal centro, il polo unico; il resto del mondo, cioè la periferia, dovrebbe seguirla.

Il polo di potere in un mondo unipolare plasmerebbe le condizioni quadro delle relazioni economiche globali, ad esempio propagando una teoria economica generalmente riconosciuta come valida e controllando importanti istituzioni come la Banca Mondiale, il FMI o persino i grandi gestori di fondi. Il polo di potere eserciterebbe anche il controllo su una quota significativa delle materie prime globali, sulle rotte commerciali via terra e via mare e sulla fatturazione globale. A causa di questo monopolio economico, la crescita economica in altre regioni del mondo potrebbe essere colpita, il che ridurrebbe notevolmente la possibilità di emergere di un secondo centro di potere.

In un ordine mondiale unipolare, anche le tendenze a lungo termine dello sviluppo tecnologico sarebbero progettate e modellate da un solo polo di potere, che dominerebbe allo stesso tempo lo sviluppo e la progettazione del sistema finanziario globale e la regolamentazione giuridica delle relazioni economiche.

Tutto ciò porterebbe il diritto internazionale ad assumere la forma di una politica interna mondiale. Infine, in un ordine mondiale unipolare, anche lo sviluppo della cultura sarebbe orientato verso il centro globale: tutte le tendenze decisive nascerebbero al centro e da lì si diffonderebbero alla periferia. Questo influenzerebbe aspetti diversi come la forma del sistema educativo, l’emergere di mode, tendenze estetiche e stili, e persino la questione dei criteri con cui artisti e scrittori, così come scienziati e le loro teorie, ottengono o meno un riconoscimento internazionale. In breve, tutte le questioni riguardanti lo sviluppo della civiltà sarebbero determinate da un solo potere centrale in un ordine mondiale unipolare.

In un certo senso, un ordine mondiale unipolare creerebbe un mondo in cui l’esterno o l’altro scomparirebbero. In un mondo unipolare, ci sarebbe un solo polo di potere e quindi un solo modello di civiltà. Un ordine mondiale unipolare sarebbe in definitiva un impero la cui sfera di potere comprenderebbe l’intero globo per la prima volta nella storia: il mondo assumerebbe una struttura completamente immanente.

Dal 1991 al 2022 – Un ordine mondiale unipolare in sospeso

Questo elenco delle caratteristiche di un mondo unipolare è stato volutamente scritto a immagine e somiglianza di questo ordine mondiale per sottolinearne chiaramente il carattere presuntuoso, addirittura antiumanista. Tuttavia, bisogna tenere presente che un ordine mondiale unipolare è già esistito in forma latente a partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, e molti dei criteri appena elencati in realtà descrivono già il nostro mondo di oggi. La situazione degli ultimi tre decenni non è stata il risultato di un processo di sviluppo naturale, ma piuttosto l’esito non pianificato del crollo caotico dell’Unione Sovietica, che ha colto di sorpresa quasi tutti i contemporanei. È stata quindi una svolta storica difficile da prevedere che ha portato gli Stati Uniti a trovarsi nel ruolo di polo di potere unipolare del mondo negli anni Novanta.

Il risultato è stato che nel primo decennio e mezzo dopo il crollo dell’URSS, gli USA hanno potuto determinare la forma della politica globale quasi da soli. Hanno dominato tutte le istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nonché molte delle fondazioni attive a livello internazionale e, a partire dagli anni ’90, sempre più spesso anche molte organizzazioni non governative, che in molti casi possono certamente essere considerate organizzazioni semi-governative. Infine, gli Stati Uniti hanno avuto una grande influenza anche nella sfera della cultura (soft power), nella misura in cui le tendenze e le mode emerse negli Stati Uniti hanno influenzato lo sviluppo della cultura mondiale nel suo complesso. Inoltre, sono stati in grado di determinare autonomamente la standardizzazione di nuove tecnologie come Internet e i telefoni cellulari e di utilizzarle per la loro influenza culturale e per lo spionaggio.

Si può quindi affermare che l’ordine mondiale unipolare è rimasto in sospeso dal 1991 fino alla crisi finanziaria del 2008. Sebbene in quel periodo il mondo avesse già una struttura unipolare, mancavano ancora i criteri decisivi per la piena attuazione dell’unipolarismo. Gli Stati Uniti, tuttavia, erano così forti della loro nuova posizione di potere che hanno valutato male il rischio che comportava l’instaurazione definitiva di un tale ordine. Dal mandato di George W. Bush Jr. in poi, l’ordine mondiale unipolare è stato apertamente proclamato dagli USA, dividendo il mondo in Stati amici e nemici (i cosiddetti “Stati canaglia”).

I primi segni di crisi dell’ordine mondiale unipolare dopo il 1991

L’euforia è durata poco. Sono stati tre i fattori principali che hanno provocato la graduale erosione del ruolo degli Stati Uniti come polo di potere unipolare nella politica mondiale: in primo luogo, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti si sono giocati la loro reputazione politica globale con un comportamento apertamente imperialista in Iraq. Attraverso l’esibizione di un imperialismo dichiarato, è emersa una nuova consapevolezza in gran parte del mondo arabo, in America Latina e nel Sud e Sud-Est asiatico. La subordinazione a lungo termine di questi Paesi all’egemonia statunitense è man mano divenuta sempre più difficile.

Un secondo fattore è stato che, a partire dalla metà degli anni Novanta, l’ascesa di Cina, India e di una serie di piccole economie emergenti ha iniziato a spostare l’equilibrio economico globale. Il deficit commerciale degli Stati Uniti ha rivelato la dipendenza dell’economia americana dall’economia finanziaria, perché il settore produttivo, necessario per la stabilità del settore finanziario, è andato perso nel corso degli anni. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, gli squilibri strutturali dell’economia statunitense sono diventati generalmente visibili. Da allora, il ruolo del dollaro come valuta mondiale e di riserva è stato messo sempre più apertamente in discussione.

Il terzo fattore che ha messo in discussione l’ordine mondiale unipolare nella seconda metà degli anni Novanta è stato il fatto che la Russia è riuscita gradualmente a ripristinare la propria sovranità e il proprio potenziale militare dopo il crollo dell’URSS negli anni Novanta. Il discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 può essere visto come un punto di svolta simbolico, in cui la Federazione Russa ha assunto una contro-posizione differenziata davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino.

In quanto erede diretto dell’Unione Sovietica, la Russia ha un potenziale di armi nucleari, pari a quello degli Stati Uniti, che ostacola un ordine mondiale unipolare. Questo perché un ordine mondiale unipolare richiede il monopolio dell’uso della forza per essere realizzato e in questo senso assomiglia a uno Stato che non può esistere senza il monopolio dell’uso della forza. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno ampliato la NATO verso est durante il mandato di Bill Clinton, in violazione di precedenti accordi con Mosca, e hanno iniziato a sviluppare uno scudo missilistico durante il mandato di George W. Bush jr. L’intenzione di neutralizzare la capacità di attacco della Russia è stata tuttavia vanificata dallo sviluppo di nuovi missili russi. Anche se non esiste ancora un’alleanza ufficiale tra Russia e Cina o Russia e India, il potenziale nucleare russo è comunque un fattore che protegge indirettamente l’ascesa economica di questi Paesi.

A partire dagli anni Novanta, al ruolo di seconda potenza nucleare di Mosca si è aggiunto anche quello di fornitore di sistemi di difesa moderni. Vendendo sistemi di difesa aerea, ad esempio, Mosca è stata in grado di limitare in modo massiccio il raggio d’azione militare degli Stati Uniti. Paesi ricchi di petrolio e sovrani come l’Iran o il Venezuela sono stati in grado di proteggersi dall’azione militare degli Stati Uniti, anche grazie all’acquisto di armi russe.

A causa di questi tre fattori, gli intellettuali hanno parlato della fine dell’ordine mondiale unipolare al più tardi a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008: non appena è stata proclamata, sembrava già parte del passato. L’insieme di libri, articoli e saggi scritti in tutti i continenti su questo slittamento di potere dalla metà degli anni ’90 potrebbe riempire intere biblioteche. (2) Ciò solleva naturalmente la questione del perché Stoltenberg e i suoi compagni d’armi oggi sembrino addirittura disposti ad accettare un’escalation sconsiderata, compreso il rischio di una guerra mondiale, solo per far passare qualcosa che è sostanzialmente inapplicabile. Non sono a conoscenza delle numerose analisi negli uffici del Dipartimento di Stato americano e nei corridoi della NATO che trattano dell’impossibilità di un ordine mondiale unipolare?

È vero che la sovranità e la forza militare russa sono uno dei tre fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare. Se la Russia riuscirà a difendere la sua zona d’influenza in Ucraina, avrà indirettamente difeso anche la sovranità di numerosi altri Paesi al di fuori dell’Occidente. Agli occhi del mondo, una vittoria russa in Ucraina equivarrebbe quindi all’attuazione dell’ordine mondiale multipolare. Tuttavia, si tratterebbe solo di un passo evolutivo che avverrà comunque nei prossimi anni. Infatti, l’enorme sviluppo economico della Cina, dell’India, ma anche del Brasile, dell’Iran, dell’Indonesia e di numerosi altri Paesi emergenti non può più essere fermato e porterà in ogni caso a un mondo multipolare. Anche il risveglio intellettuale e politico che si sta verificando in vaste aree dell’emisfero meridionale e orientale, nel corso del quale vengono ricordati anche i crimini dell’imperialismo occidentale, va in questa direzione e rende impossibile una centralità permanente dell’ordine mondiale in Occidente. (3)

Unipolarismo e valori occidentali

Storicamente, un ordine mondiale multipolare è “la norma”: Quasi per tutta la storia dell’umanità, il mondo è sempre stato costituito da diversi poli di potere. Anche negli ultimi secoli di dominazione europea, nella stessa Europa sono sempre esistiti diversi centri di potere che si controllavano e limitavano a vicenda. Il tentativo della Francia sotto Napoleone di unificare l’intera Europa con la forza militare fallì a causa della Russia. Anche il tentativo del “Terzo Reich” di sottomettere nuovamente l’Europa con la forza militare è fallito a causa di Mosca. E anche il tentativo degli Stati Uniti, avviato dopo il crollo dell’URSS, di estendere il proprio potere dall’Europa al mondo intero si è nuovamente infranto a causa della resistenza russa.

È per via di questo schema costante della storia mondiale che la NATO sta ora letteralmente azzannando la Russia e trascurando gli altri fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare? Comunque sia, l’alba di un ordine mondiale multipolare vedrà il mondo tornare a un vecchio schema. Non c’è motivo di descrivere questo ritorno di un vecchio ordine come il “rischio più grande di tutti”, come ha fatto Stoltenberg durante l’ultima Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Al contrario: un ordine mondiale unipolare monopolizzerebbe il potere su scala globale. Si tratterebbe di uno sviluppo che non solo sarebbe in contraddizione con gli interessi di Russia, Cina, India e numerosi altri Paesi dell’emisfero meridionale e orientale, ma una tale concentrazione di potere sarebbe anche fondamentalmente in contrasto con i valori dell’Occidente stesso.

I valori occidentali sono emersi da una serie di rivoluzioni iniziate con le aspirazioni di autonomia delle città-stato italiane del Rinascimento, proseguite nella Confederazione svizzera, attraverso la guerra dei contadini tedeschi, la rivolta olandese, le rivoluzioni inglese e americana e infine culminate nella grande rivoluzione francese. (4) I valori occidentali sono quindi valori rivoluzionari, del tutto incompatibili con l’idea di una concentrazione globale del potere. Si basano sulla possibilità di un’inversione dei rapporti di forza esistenti che può essere avviata in qualsiasi momento. Desacralizzano il potere e sono quindi in grado di impegnarlo per il bene comune. Questa idea è stata istituzionalizzata nella Repubblica. L’idea della separazione dei poteri svolge un ruolo decisivo nel garantire equilibri stabili, nel rendere visibili gli abusi di potere e nel correggere le politiche sbagliate.

Il fatto che l’Occidente, tra tutti i Paesi, abbia fatto dell’idea di un ordine mondiale unipolare e quindi del concetto di concentrazione globale del potere la base della sua politica estera nell’era iniziata dopo la caduta del Muro di Berlino dimostra quanto il mondo occidentale si sia allontanato dalle sue basi intellettuali. Naturalmente, l’Occidente è sempre stato diviso tra la sua tradizione imperiale e quella repubblicana. Spesso le due sono esistite in parallelo, anche se i loro principi filosofici si escludevano a vicenda. Un esempio famoso è la rivolta degli schiavi ad Haiti, che il governo francese cercò invano di sedare con la forza delle armi, anche se gli schiavi in rivolta invocavano i valori della Rivoluzione francese. Con le sue azioni, Parigi ha chiarito che i valori della Rivoluzione francese – cioè libertà, uguaglianza, fraternità – dovevano valere solo per i cittadini francesi, ma non per quelli delle colonie. (5)

Tuttavia, deve essere successo qualcosa nell’Occidente stesso che ha fatto sì che l’ambivalenza che esisteva ancora all’epoca tra repubblica e impero, che poteva esistere in parallelo per molto tempo, si è chiaramente dissolta nel nostro tempo a favore dell’imperialismo nella forma di un ordine mondiale unipolare. Un Occidente che voglia professare i propri valori politici potrebbe, al contrario, lottare per un mondo multipolare, in accordo con la Russia e le grandi civiltà dell’Asia. Un ordine mondiale multipolare trasferirebbe nel mondo l’idea della separazione dei poteri e quindi l’effetto benefico degli equilibri di potere; rimarrebbe la competizione tra civiltà.

La competizione tra civiltà

La competizione tra civiltà è un fattore importante per il futuro sviluppo dell’umanità. Proprio perché le nuove tecnologie del XXI secolo permettono di interferire con i diritti naturali degli individui su una scala molto più ampia rispetto al XX secolo, la competizione tra civiltà deve essere mantenuta ad ogni costo. I diritti naturali sono diritti che precedono il diritto positivo stabilito da uno Stato. Questi diritti esistono “per natura” e sono dati per scontati, come il diritto di disporre del proprio corpo, i diritti fondamentali della libertà umana o il diritto dei genitori di crescere i propri figli.

Tecnologicamente, oggi è possibile monitorare una persona per tutta la vita, memorizzare e valutare in modo permanente le sue tracce digitali e, su questa base, regolare e limitare individualmente il suo accesso alla società. Questo permette di intervenire nell’ordine della legge naturale che prima era impensabile. Lo sviluppo futuro dell’ingegneria genetica si aggiunge a tutto questo e potrebbe, ad esempio, mettere in discussione il diritto all’integrità corporea e all’autonomia della persona in modo molto più drastico di quanto abbiano potuto fare i dittatori del passato. Finché le civiltà possono essere messe a confronto tra loro, questi sviluppi indesiderati delle singole civiltà possono essere riconosciuti e nominati. In un mondo determinato da civiltà diverse, nessuna di esse potrebbe interferire con i diritti naturali dei propri cittadini per un lungo tempo senza subire uno svantaggio strutturale nei confronti delle altre civiltà.

In un mondo unipolare, invece, la comparabilità e la competizione latente delle civiltà scomparirebbero. In un mondo del genere, sarebbe molto più facile definire in modo esaustivo le implicazioni di potere della tecnologia moderna e limitare o addirittura abolire i diritti naturali. Ne consegue che: chi sogna un mondo tecnocratico in cui l’uomo sia sottomesso alla tecnologia non può evitare di lottare per un mondo unipolare per realizzare questo obiettivo. Al contrario, se si vuole vedere tutelata la libertà e la dignità umana nel XXI secolo, si deve lottare per un mondo multipolare. Vediamo quindi che i due concetti di ordine mondiale, unipolarismo e multipolarismo, rappresentano ordini di valori diversi.

Un altro svantaggio dell’ordine mondiale unipolare è che non dà spazio alla diversità culturale del mondo e alla diversità delle civiltà emerse nella storia. Poiché l’ordine unipolare cerca di governare il mondo secondo un unico principio, deve inevitabilmente vedere una minaccia nella diversità culturale e tendere a unificare culturalmente il mondo. Ma questo provocherebbe inevitabilmente una resistenza, alla quale il governo mondiale unipolare può rispondere solo con la propaganda, la manipolazione o la violenza. Per questo motivo, un ordine mondiale unipolare sarebbe possibile solo come dittatura globale.

I fautori di un ordine mondiale unipolare sostengono spesso che solo un governo mondiale potrebbe abolire la guerra e garantire la pace nel mondo. Tuttavia, qualsiasi conquistatore del passato avrebbe potuto affermare lo stesso, secondo il motto: “Quando vi avrò conquistati tutti, allora…”. Ci devono essere altri modi per garantire la pace nel mondo che non la realizzazione di un monopolio globale del potere. Perché la strada per raggiungere questo obiettivo è lastricata di sangue e violenza, come ha recentemente sottolineato il musicista Roger Waters nel suo discorso alle Nazioni Unite. (6)

È vero che anche in un ordine mondiale multipolare esiste un pericolo di guerra a causa della moltitudine di attori. Tuttavia, va detto in primo luogo che le guerre all’interno di un ordine mondiale multipolare non assumerebbero probabilmente il carattere assoluto che caratterizza la ricerca dell’unipolarismo, a cui ha fatto riferimento anche Roger Waters nel suo discorso all’ONU. In secondo luogo, non sono solo gli equilibri di potere a proteggere dalla guerra, ma anche la cultura. In una certa misura, il livello di cultura determina la capacità di pace di una società. Poiché il livello di cultura in un mondo multipolare potrebbe essere inegualmente più sviluppato che in un ordine mondiale unipolare orientato all’unificazione, la pace in un ordine mondiale multipolare potrebbe essere garantita in due modi, da un lato attraverso gli equilibri di potere e dall’altro attraverso il più alto livello di cultura possibile.

Anche l’argomentazione secondo cui alcuni problemi, come la regolamentazione delle armi di distruzione di massa, il cambiamento climatico o la prevenzione delle pandemie, potrebbero essere risolti solo a livello internazionale non è efficace, perché il polo di potere unipolare o il “governo mondiale” cercherebbero di convertire questi problemi internazionali in una fonte di legittimità per il proprio potere. Invece di risolvere i problemi, se ne temerebbe l’appropriazione indebita. Un polo di potere unipolare non avrebbe alcun interesse a risolvere i problemi internazionali o globali, poiché ne avrebbe bisogno come pretesto per esercitare il proprio potere. Chiunque abbia seguito con un po’ di distanza i dibattiti pubblici in Occidente negli ultimi anni potrebbe facilmente vedere le indicazioni di una simile appropriazione indebita del potere. Chi vuole davvero risolvere i problemi citati dovrebbe quindi impegnarsi maggiormente per la stipula di trattati tra Stati sovrani, invece di un “governo mondiale” che sarebbe al di sopra di tutti e quindi non potrebbe più essere controllato da nessuno.

L’unipolarismo, la guerra e il fallimento politico dell’Europa

Fa parte della natura del nostro mondo il fatto che esso sia costituito da diverse civiltà molto grandi e antiche. Molte di queste civiltà hanno prodotto in passato importanti conquiste culturali che hanno anche costituito dei punti di riferimento per il futuro dell’umanità. Tuttavia, queste civiltà sono nate da religioni e filosofie molto diverse e da storie diverse. Sebbene si possano trovare valori e intuizioni comuni, gli approcci scelti si basano spesso su principi opposti tra i quali non sempre sembra possibile un compromesso. Ad esempio, i confini della vergogna, l’ordine dei sentimenti e degli affetti, il rapporto dell’individuo con la famiglia, la società e lo Stato, il senso del tempo e della storia o il rapporto con la propria soggettività sono codificati in modo molto diverso nelle diverse culture.

Il polo di potere unipolare, a sua volta, non può essere culturalmente neutrale e inevitabilmente globalizzerebbe l’ordine di valori della sua cultura di origine – nel mondo di oggi, quella degli Stati Uniti. Le altre culture al di fuori del polo di potere difficilmente potrebbero quindi essere rappresentate culturalmente. La loro diversità culturale rappresenterebbe una fonte costante di instabilità all’interno dello “Stato mondiale”, che l’ordine mondiale unipolare dovrebbe contrastare con una sempre maggiore omogeneizzazione. La propaganda e la violenza dovrebbero essere costantemente utilizzate a questo scopo, il che a sua volta porterebbe a nuove resistenze. Ma questo meccanismo sopprimerebbe, indebolirebbe e forse addirittura dissolverebbe proprio quelle conquiste culturali di cui l’umanità ha tanto bisogno per riappropriarsi del proprio futuro.

È chiaro che molte delle civiltà più antiche non possono acconsentire alla loro dissoluzione in un ordine mondiale unipolare dominato dalla cultura consumistica americana senza opporre resistenza. Il tentativo di stabilire un mondo unipolare deve quindi necessariamente portare a una situazione in cui le rivendicazioni di un ordine unipolare e le rivendicazioni di uno Stato sovrano più grande, che eventualmente rappresenti anche la propria sfera culturale, entrano in conflitto esistenziale tra loro. In questo conflitto, o il concetto di governo mondiale crollerà o lo Stato in questione perderà la sua sovranità. In un certo senso, tra Stati Uniti e Russia è sorto esattamente un conflitto di questo tipo: poiché non è possibile alcun compromesso tra gli Stati Uniti, in quanto rappresentanti dell’ordine mondiale unipolare, e la Russia, in quanto rappresentante dei Paesi emergenti che lottano per la sovranità, ora c’è persino la minaccia di una guerra tra le due potenze nucleari.

Chiunque rifletta su questi problemi con un po’ di conoscenza storica e senso di responsabilità deve, per tutte queste ragioni, rifiutare l’idea di un mondo unipolare o di un governo mondiale. Poiché il concetto di istituire un governo mondiale porta necessariamente a un conflitto esistenziale tra potenze nucleari, questo concetto non avrebbe mai dovuto essere ricercato dagli europei. Quando, a partire dagli anni Novanta, è apparso chiaro che gli Stati Uniti non potevano più staccarsi da questo piano, gli europei avrebbero dovuto separarsi dagli USA.

Il fatto che gli Stati Uniti siano stati ricettivi a queste fantasie di potere è dovuto anche al fatto che si tratta di un Paese molto giovane che si è espanso quasi continuamente dalla sua fondazione. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti non hanno il tipo di esperienze storiche drastiche che l’Europa ha subito più volte sul suo territorio, dalla Guerra dei Trent’anni alle due guerre mondiali. Chi è stato così viziato dalla Storia come gli Stati Uniti ha avuto difficoltà a imparare la maturità e l’autocontrollo. Sarebbe stato quindi compito degli europei esercitare saggezza e lungimiranza e contrastare l’euforia di potenza statunitense con una riflessione sul bene comune di tutta l’umanità. Una riflessione, si badi bene, che avrebbe dovuto essere concepita in dialogo con le altre grandi civiltà.

Come si vede, gli argomenti a favore di un ordine mondiale multipolare sono ovvi. Avrebbero potuto essere sviluppati senza sforzo nei ministeri degli Esteri di Germania, Francia o Italia. Perché ciò non sia avvenuto, perché l’Europa non abbia intrapreso un percorso indipendente e abbia invece assecondato una “Grande Strategia” americana che avrebbe potuto fare dell’Europa, ancora una volta, il campo di battaglia di una grande guerra, è sconcertante. Il fatto che quasi nessuno delle migliaia di esperti che lavorano nei ministeri degli Esteri dei vari Paesi europei sia apparso pubblicamente come voce critica e ammonitrice indica o un’enorme mancanza di senso di responsabilità o dimostra che i rappresentanti dell’intellighenzia sono stati attivamente esclusi da queste istituzioni.

Il fallimento dell’Europa e la vera paura delle élite

Il fatto che oggi, 33 anni dopo la riunificazione, l’Europa si trovi di fronte al pericolo reale di una guerra nucleare è l’espressione di un fallimento fondamentale della politica estera tedesca, francese e italiana che difficilmente può essere descritto a parole. Nel 1989, l’Europa è stata benedetta dalle circostanze della storia. Era dotata della possibilità di un ordine di pace duraturo, potenzialmente in grado di durare per generazioni, sotto forma di unificazione tedesca ed europea. L’Europa di oggi, invece, che sta di nuovo sguinzagliando i cani da guerra sul suo continente con un occhio al futuro e persino con una certa astuzia, (7) si è dimostrata indegna di questo dono. Il potere in politica estera di almeno due decenni è stato sprecato per un obiettivo discutibile.

La separazione dell’Ucraina dalla Russia era un vecchio obiettivo bellico dell’Impero tedesco nella Prima Guerra Mondiale, imposto con la forza nel trattato di pace di Brest-Litovsk. Il “Terzo Reich” riattivò questo obiettivo bellico e lo ampliò ulteriormente, cercando non solo di appropriarsi dell’Ucraina, ma anche di sterminare una parte considerevole di tutti i russi. La campagna di Hitler contro l’Unione Sovietica era infatti apertamente concepita come una guerra di sterminio razziale e ideologica. Nella vecchia Repubblica Federale e nella DDR, ma anche nella Germania riunificata sotto Kohl e Schröder, c’era ancora un consenso sul fatto che i vecchi obiettivi bellici tedeschi erano falliti e che quindi un futuro conflitto con la Russia per l’Ucraina doveva essere evitato a tutti i costi. Il fatto che questa convinzione abbia perso la sua validità incondizionata durante i mandati di Merkel e Scholz non è altro che una catastrofe intellettuale e morale per il nostro Paese e per l’Europa nel suo complesso.

Torniamo alla dichiarazione del Segretario Generale della NATO: Jens Stoltenberg ritiene che una vittoria russa sarebbe peggiore di una continua escalation che potrebbe portare a una vera e propria guerra mondiale con miliardi di morti. Che un simile azzardo possa essere davvero pianificato è indicato anche dalle dichiarazioni di numerosi politici e testimoni contemporanei citati all’inizio. Quale paura di fondo può aver portato Stoltenberg a chiedere un’escalation?

Forse teme che l’irrazionalità di 30 anni di politica estera occidentale possa venire alla luce, che i cittadini vengano illuminati su ciò che è stato realmente tentato negli ultimi tre decenni? Vale a dire, che i politici occidentali hanno cercato un ordine mondiale che, da un lato, porta necessariamente alla guerra? E dall’altro contraddice fondamentalmente l’ordine di valori occidentale.

Tuttavia, se questa rivelazione diventasse nota, potrebbe essere l’inizio di una rivalutazione che, man mano che procede, potrebbe trasformarsi in un secondo Illuminismo. Il primo Illuminismo ha messo in discussione il potere illegittimo della Chiesa e del clero, nonché della nobiltà e della società classista. Oggi viviamo di nuovo in un mondo in cui il potere è cresciuto enormemente – come nella Francia assolutista – ma sta perdendo sempre più la sua base di legittimità nel corso di questa espansione.

Un secondo Illuminismo oggi, sull’esempio della critica al clero, dovrebbe mettere in discussione il potere dei media e smascherare le loro sofisticate tecniche di manipolazione psicologica. E, sul modello della critica all’aristocrazia e alla grazia divina della monarchia, dovrebbe illuminare oggi sul potere dell’oligarchia e sull’economia mondiale sempre più dominata dai monopoli. Naturalmente, se questo secondo illuminismo dovesse iniziare, emergerebbe una dinamica che andrebbe ben oltre una semplice riforma del nostro sistema politico. È forse questo lo sviluppo che Stoltenberg definisce “il rischio più grande di tutti”, ossia il ritorno dell’Occidente ai suoi valori originari?


* multipolar-magazin.de

FONTE: https://multipolar-magazin.de/artikel/der-krieg-gegen-die-multipolare-welt


Traduzione di oval.media

Hauke Ritz. Ha conseguito un dottorato in filosofia e pubblica soprattutto su temi di geopolitica e storia delle idee. Libri: “Der Kampf um die Deutung der Neuzeit” (2013), “Endspiel Europa” (2022, insieme a Ulrike Guérot).

Fonte originale: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
Fonte traduzione: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
NOTE
(1) Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, Intervista al canale televisivo RTP, 29.01.2023
(2) Chalmers Johnson, Un impero in declino: quando finirà il secolo americano? Monaco 2001; Peter Scholl-Latour, Weltmacht im Treibsand – Bush gegen die Ayatollahs, Berlino 2004; Emmanuell Todd, Weltmacht USA – Ein Nachruf, Monaco 2003
(3) Cfr: Hauke Ritz, Geopolitischer Gezeitenwechsel, in: Carsten Gansel (a cura di), Deutschland Russland – Topographie einer literarischen Beziehungsgeschichte, Berlino 2020, pp. 427-442.
(4) Anche la Rivoluzione russa del 1917 rientra in questa serie, ma in un modo particolare, che non può essere discusso in modo esaustivo in questa sede.
(5) Cfr. Susan Buck-Morss, Hegel und Haiti – Für eine neue Universalgeschichte, Berlino 2011.
(6) “…e la marcia egemonica di un impero o di un altro verso il dominio unipolare del mondo. La prego di rassicurarci che questa non è la sua visione, perché non c’è alcun risultato positivo su quella strada. Quella strada porta solo al disastro, tutti su quella strada hanno un pulsante rosso nella loro valigetta e più andiamo avanti su quella strada più le dita pruriginose si avvicinano a quel pulsante rosso e più ci avviciniamo tutti all’Armageddon”. Roger Waters, Discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, New York, 08.02.2023
(7) Vedi: Ulrike Guerot, Hauke Ritz, Endspiel Europa – Warum das politische Projekt Europa gescheitert ist und wie wieder davon träumen können, Frankfurt a. Main 2022, p. 118ss.

La riproduzione perenne delle guerre

di Salvatore Palidda*

Premessa

Come suggeriscono alcuni autori, tutta la storia dell’umanità è innanzitutto storia di guerre; i periodi di pace sono sempre stati più brevi di quelli delle guerre. La pace nei paesi dominanti è sempre stata pagata con le guerre esternalizzate nei paesi dominati, spesso camuffate come “guerre etniche”, “guerre tribali”, “guerre di religioni”.

Si è sempre avuta una costante riproduzione delle guerre e questo corrisponde alla costante riproduzione del dominio di pochi sulla maggioranza degli umani dominati e vi è sempre stata la disperata sopravvivenza di questi ultimi spesso attraverso resistenze inevitabilmente reiterate e brutalmente represse.

La contro-rivoluzione del capitalismo liberista mondializzato ha accentuato questo fatto politico totale, perché pervasivo innanzitutto per opera dell’intreccio delle lobby dominanti (quella della produzione e commercio degli armamenti anche per le polizie, quella delle nuove tecnologie, quelle delle energie basate sull’estrattivismo -carbone, petrolio, gas ecc.).

Guerre, in quanto “consumo” o smaltimento di armi, sono una delle prima cause del degrado ambientale: uccidono due volte sia sui campi di battaglia sia con l’inquinamento tossico che producono e lasciano nei territori delle operazioni militari.

Le guerre di oggi sono palesemente la scelta di governi che si configurano come una sorta di “fascismo democratico” poiché sono a sprezzo della volontà di pace delle popolazioni, si impongono con la minoranza del voto degli elettori aventi diritto (vedi infra).

* * * *

La riflessione epistemologica sull’origine della riproduzione perenne delle guerre induce a ripensare la famosa distinzione fra uomini (e qualche donna) cacciatori e gli altri. In sintesi, di fatto gli uomini che appresero a produrre e usare le armi, quindi si impadronirono di questa capacità, diventarono inevitabilmente dominanti.

Così i più forti si impongono ai più deboli e il loro dominio, cioè relegano questi ultimi alla subalternità: le donne ai lavori domestici, alla riproduzione della specie e anche a lavori nei campi e gli uomini a ogni sorta di lavoro servile.   In altre parole, da allora la guerra è sinonimo di dominio e si sfruttamento dei dominati per aumentare la ricchezza e il potere dei dominanti.

Ancora oggi dopo decenni di retorica sull’uguaglianza dei sessi, le donne sono inferiorizzate e persino l’OCSE riconosce che percepiscono in media 40% meno di salario degli uomini e hanno meno chances di accedere alle categorie professionali più elevate. Questa inferiorizzazione riguarda tutti i dominati, c’è così riproduzione costante della gerarchizzazione sociale.

Il capitalismo riproduce le guerre perché è occasione di profitti sia con la conquista dei territori e delle ricchezze dei vinti, sia dopo con la ricostruzione (vedi dopo).

Non a caso la riproduzione delle guerre si combina con l’aumento costante della ricchezza di pochi e sempre più la povertà di sempre più numerose persone.

Come accennato dopo anche tutta la storia di Genova, contrariamente al racconto della Superba, è storia di guerre fra pseudo-nobili che erano pirati e accumularono enormi ricchezze attraverso le crociate, cioè il colonialismo e la tratta degli schiavi che erano i ricchi dei territori colonizzati.

Una ricchissima letteratura sulla storia antica, come sul medioevo, la modernità e l’epoca contemporanea, è stata scritta da autori che hanno studiato in particolare le guerre (basti pensare a Tucidide, Posidonio, Polibio e poi anche i contemporanei Clausewitz e tanti altri). Lo stesso vale per ciò che si è sempre creato a fianco dei conflitti armati (vedi Veyne in particolare); si pensi anche alle “rivolte servili” degli schiavi in Sicilia e a Roma, cioè alle resistenze.[1] 

Ma come ha suggerito Foucault la guerra non è la continuazione della politica (come teorizzava Clausewitz): “il potere è la guerra, la guerra continuata con altri mezzi”, c’è sempre continuum delle guerre anche all’interno di ogni paese e – soprattutto negli ultimi 40 anni – c’è conversione poliziesca del militare e conversione militare del poliziesco (vedi infra).

Ma tutti i dominanti hanno sempre preteso di essere per la pace, addossando sempre agli altri la responsabilità di scatenare la guerra (vedi il libro di Anne Morelli[2]). E come diceva Tacito a proposito della guerra in Gallia: “hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace” (frase che diventò uno degli slogan delle mobilitazioni contro la guerra statunitense in Vietnam.

Nel trionfo dell’ipocrisia non sono mancati i Nobel per la pace accordati a responsabili di guerre; per esempio Kissinger, uno dei mandanti del colpo di stato in Cile o il Nobel alla stessa Unione europea “per aver salvaguardato la pace dal 1945” mentre ha di fatto aizzato la guerra nei Balcani e la tragedia della pulizia etnica nella ex-Jugoslavia oltre ad altre guerre in Africa, Asia e America Latina spesso a fianco degli Stati Uniti e della Nato (ci veda il recente importante libro di Angelo Baracca, La Nato e i ministeri d’Italia, Left, 2023).

I paesi europei (Inghilterra, Spagna, Portogallo, Francia e Germania ma anche l’Italia, dopo gli Stati Uniti e il Giappone sono stati i primi responsabili delle guerre che si sono succedute dalle prime crociate al colonialismo feroce del XIX e XX secolo -fra cui il colonialismo italiano: vedi importante video-documentario al link in nota[3] – sino al neocolonialismo di oggi.

Ricordiamo che il giuramento degli pseudo-nobili genovesi per la prima crociata si svolse nella chiesa di San Siro nel 1099. Questi dominanti accumularono enormi ricchezze grazie alla rapina delle risorse delle terre colonizzate e grazie alla tratta degli schiavi (scelti fra persone di famiglie ricche e quindi in grado di pagare ingenti somme per il loro riscatto dalla schiavitù).

Lo stesso fecero tutti i dominanti degli altri paesi europei così come poi Stati Uniti e Giappone.

Le guerre sono sempre state il mezzo per accumulare ricchezze non solo ai danni dei paesi sconfitti, ma anche a danno della popolazione dei paesi guerrafondai. I costi umani ed economici delle guerre sono sempre stati pagati dai vinti e dai dominati nei paesi vincitori.

E dopo le guerre la cosiddetta ricostruzione e lo sviluppo economico sono sempre stati l’occasione di nuovi ingenti profitti a beneficio dei dominanti.

I paesi in guerra sono sempre stati trasformati attraverso la militarizzazione pervasiva totale: gli uomini sono stati obbligati a uccidere e farsi uccidere al fronte (come carne da macello), le donne sono state destinate a rimpiazzare gli uomini nelle fabbriche; tutti i regimi totalitari e in particolare il fascismo e il nazismo hanno esasperato questo processo (con anche la militarizzazione delle scolaresche e dei giovani, un’esasperazione violenta di quanto già aveva auspicato De Amicis[4]).

Con la creazione degli stati-nazione e quindi delle frontiere s’è accentuata ancora di più l’istigazione della opinione pubblica contro il nemico di turno designato come responsabile di tutti i mali, l’autore delle più esasperate atrocità. La definizione del nemico contro cui il popolo è chiamato a unirsi ai dominanti del proprio paese, accettando tutti i costi umani e materiali, è da sempre l’elemento fondante della coesione nazionale.

Il nazionalismo è così stato il cemento delle imprese coloniali contro popoli designati come “barbari”, “incivili”, e persino minacce del progresso della civiltà (ricordiamo che Cristoforo Colombo per giustificare il genocidio dei nativi delle Americhe diceva che erano animali senza anima ma pericolosi perché avevano “sembianze umane”).

Il nazismo approda al massimo sviluppo dell’ideologia nazionalista mescolandola con quella razzista e l’obiettivo dello sterminio delle razze non ariane (in cui agli ebrei sommarono anche i Rom, i “diversi” in tutti i sensi e gli antagonisti anarchici, comunisti, socialisti o anche semplici liberal-democratici e cristiani pacifisti).

Il trionfo delle lobby militari

Lo sviluppo capitalista ha fatto diventare l’industria militare un settore sempre più importante dei paesi dominanti. E’ emersa così la lobby militare per opera sia degli imprenditori di questa industria, sia dei vertici militari e delle polizie, sia delle banche e gruppi finanziari che vi investono. Gran parte delle industrie metalmeccaniche e siderurgiche è trasformato in industria militare (a questo si deve la fortuna anche delle grandi marche automobilistiche europee fra le quali la Fiat degli Agnelli).

Ovviamente i profitti di questa lobby corrispondono solo al consumo degli armamenti; quindi è essenziale la riproduzione delle guerre e fomentarle diventa l’opera abituale di tutta la coorte di sostenitori di queste lobby.

Con l’ultima grande trasformazione dell’economia mondiale e locale (cioè la cosiddetta controrivoluzione liberista che trionfa soprattutto con l’inizio degli anni ’80), queste lobby hanno aumentato a dismisura il loro peso poiché si sono intrecciate con le altre lobby fra le quali quelle della produzione di energia (carbone, petrolio, gas ed elettricità, centrali nucleari), quelle delle nuove tecnologie sempre più sofisticate e quelle finanziarie, tutte sostenute dalla maggioranza dei media (tv, giornali e ora anche social network, oltre che dai vari videogiochi di guerra diffusi su internet per ragazzini e adulti).

Questo intreccio di lobby ha conquistato una capacità di influenza pervasiva gigantesca arrivando a controllare tutti i campi di ricerca scientifica per sfruttarne i risultati alfine di sviluppare innovazioni negli armamenti, nei dispositivi militari. Tutte le scoperte scientifiche e invenzioni che si riversano nelle nuove tecnologie e sono poi trasformate in prodotti di largo consumo (come per esempio i telefonini, i sistemi di allarme nelle abitazioni, le smart house e le smart cities ecc.) sono prima usati per i dispositivi militari (e questo vale anche per le droghe).

Una gran parte dei finanziamenti europei per la ricerca (programma Horizon) è conferito ai gruppi di ricerca che lavorano per l’industria militare, per i ministeri della difesa e dell’interno dei vari paesi europei.

Non solo, la diffusione dei dispositivi di controllo e spionaggio per la repressione è in continuo crescendo! Tutte le città, le imprese, i centri commerciali e i supermercati e persino le scuole e le università oltre a tutti i luoghi pubblici e para-pubblici sono infestati dalla videosorveglianza. Lo sviluppo delle nuove tecnologie della cosiddetta IA (Intelligenza Artificiale) permettono ora non solo la registrazione delle conversazioni in strada, ma anche il riconoscimento faciale e le schedature di massa.

Si approda così a uno stato di polizia “postmoderno”[5], una tecno-polizia pervasiva al punto che persino tanti genitori se ne avvalgono per sorvegliare i figli![6] Questa esasperazione dei cosiddetti controlli postmoderni è già sperimentata e in funzione in diversi paesi e si prospetta così un mondo di iper-sorveglianza di massa e quindi di esasperazione del sospetto nei confronti di tutti (vedi video-documentario La società della sorveglianza totale. 7 miliardi di sospetti clicca il link in nota[7]).

Per questo cresce il bisogno delle cosiddette “terre rare” (fra cui il cobalto, il litio ecc.) che quindi sono prese di mira da queste lobby dei paesi dominanti attraverso un neocolonialismo che provoca devastazioni e neo-schiavitù nei paesi dove si trovano queste risorse (per esempio il Congo che non a caso vive da oltre 10 anni in una guerra atroce che miete milioni di morti). E per questo i paesi dominanti dislocano dappertutto le loro cosiddette “missioni militari” che pretendono essere “missioni di pace” mentre sono nei fatti missioni militari neocoloniali.

Anche l’Italia è impegnata in ben 10 missioni militari in “ambito NATO”, 12 in ambito Unione Europea e 7 in quello ONU(per avere un’idea della logica guerrafondaia di queste missioni si legga il testo al link in nota[8]). Quanto costano? Cosa guadagnano i cittadini italiani che pagano le tasse da queste missioni militari all’estero?

Una cosa è certa e sfacciata: esse servono alle multinazionali italiane che hanno investimenti e imprese nei paesi di queste missioni; tanti documenti lo provano, per esempio in Libia è per proteggere i siti petroliferi dell’ENI, in Iraq lo stesso, in Niger per la concorrenza con la Francia nell’accaparramento delle “terre rare” e in generale a supporto del commercio italiano degli armamenti e sistemi d’arma che Leonardo produce come subappaltatore della produzione statunitense.

I cittadini italiani non hanno alcun beneficio da queste spese, ma anzi tagli alla sanità, alle scuole, alla ricerca, ai servizi sociali.  Un’attenta analisi della spesa militare in Italia è fornita dal prezioso Osservatorio Mil€x (vedi testo al link in nota[9]). Col 2023 l’aumento varato dall’attuale governo è di oltre 800 milioni, si passa infatti dai 25,7 miliardi previsionali del 2022 ai 26,5 miliardi stimati per il prossimo anno.

E per questo c’è unanimità fra le destre e il PD, il cui ex-ministro della difesa – Guerini – perora di aumentare la spesa a 38 miliardi, obiettivo condiviso dall’attuale ministro Crosetto, già lobbista dell’industria militare: il passato governo si era infatti distinto per lo zelo in questo campo e l’attuale governo persegue mirando a fare di più[10].

L’opinione pubblica non è stata minimamente presa in considerazioneil sondaggio di Swg di metà gennaio 2023 mostra che il 55 per cento degli italiani intervistati si dichiara contrario all’aumento del 2% del PIL delle spese militari e favorevoli a una forte tassazione degli extraprofitti di guerra (vedi link[11]). Non solo, ancora più flagrante è che l’aumento per le spese militari e per le spese per le polizie e la cosiddetta “sicurezza” avviene mentre diminuisce la spesa per la sanità, le scuole, l’università e la ricerca e i servizi sociali.

Nonostante la pandemia da Covid abbia dimostrato che l’enorme quantità di morti sia stata dovuta a una sanità semi-smantellata, non c’è stato nessun nuovo investimento nella sanità pubblica, mentre si favorisce il boom dell’industria farmaceutica e della sanità privata. Come scrive anche la Corte dei Conti: “Nessun altro grande Paese Ue spende così poco in rapporto al PIL” (vedi rapporto della CdC al link[12]).

Di fatto, tutti gli impegni di spesa stabiliti dall’attuale governo neofascista hanno subito riduzioni tranne quelli per il settore militare e per le polizie (vedi l’analisi dettagliata al link[13]).

In particolare la finanziaria varata dal governo non prevede l’aumento dei fondi per la sicurezza sui posti di lavoro (nonostante l’alto numero di morti e di incidenti e la diffusione di malattie mortali); non investe sulle scuole neanche per l’edilizia scolastica, spesso in grave degrado, e i livelli essenziali delle prestazioni.

Non prevede riduzione delle tasse universitarie né tantomeno la gratuità; non prevede un reddito di formazione né il rilancio della ricerca che oggi costringe tanti bravi giovani ricercatori a emigrare.

A fronte di una situazione dell’ambiente che vede l’Italia come il paese più inquinato e ad alto rischio di disastri ambientali oltre che di malattie dovute a contaminazioni tossiche diffuse in tutto il territorio e in tutti gli ambienti (anche nelle scuole), il governo prevede ben poco; anzi ignora che la maggioranza dei decessi sono dovuti a malattie provocate da tali contaminazioni (vedi libro scaricabile gratuitamente al link in nota[14]).

Invece il governo pretende rilanciare ancora spese ingenti per grandi opere di cui scientificamente si conosce la loro inutilità, dannosità e quindi lo spreco di danaro pubblico. È il caso non solo della TAV Torino-Lione, delle grandi opere previste a Genova e ora anche il Ponte sullo stretto che qualcuno ha persino l’ardire di dire che è indispensabile per la valorizzazione del ruolo strategico-militare delle forze armate USA in Sicilia.[15] 

Invece non si prevede l’indispensabile aumento al 7% sul PIL della spesa per la sanità pubblica, dei fondi per la non autosufficienza dei disabili e le politiche sociali e in particolare per aumentare la prevenzione della tossicodipendenza, l’assistenza alle persone affette da disagio psichico e ai poveri, tutti soggetti spesso trattati con modalità repressive, cioè destinati al carcere[16].

Come scrivevano anche classici esperti delle questioni militari, quando un paese aumenta le spese militari e si dota persino di armamenti offensivi, inevitabilmente è spinto a diventare guerrafondaio e neocolonialista. E quando un paese aumenta le spese per le polizie e per la cosiddetta sicurezza anziché quelle della prevenzione sociale, inevitabilmente produce più carcerazione e rialimenta il disagio sociale dei marginali (così questo aumento “giustifica” l’aumento delle spese per le polizie e la sicurezza -vedi videosorveglianza dappertutto -vedi nota 12).

Perché l’Italia sta ridiventando la principale base militare degli Stati Uniti

Sin dalla più lontana antichità il dominio nello spazio mediterraneo ha sempre avuto la necessità di appropriarsi della posizione geostrategica delle isole e penisole, in particolare della Sicilia e della penisola italiana (è il principio essenziale della strategia della potenza sul mare – sea power di A.T. Mahan)[17].

Solo dopo aver conquistato la Sicilia e dopo aver forgiato la loro potenza sul mare i Romani poterono sconfiggere Cartagine. E la storia s’è ripetuta: da dopo le crociate sino alla 2a guerra mondiale. Le potenze marittime in Mediterraneo hanno sempre puntato ad accaparrarsi il controllo della Sicilia (oltre Malta e Cipro) e dell’Italia. Garibaldi poté sbarcare a Marsala grazie al sostegno della marina militare inglese[18] che allora controllava tutto e continuò a farlo sino alla guerra del 1943-45, lasciando questo ruolo alle forze armate statunitensi.

Già ai tempi della dominazione spagnola le classi dominanti locali della Sicilia ma anche della penisola italiana si adattarono a negoziare l’alienazione della posizione strategica del loro territorio (quindi a rinunciare alla sovranità sino a proclamare la loro sudditanza indefessa) in cambio dell’autonomia di gestione della società locale: divennero quindi degli esperti power-brokers (mediatori di potere in senso lato), ruolo che di fatto ha interpretato sempre la borghesia mafiosa[19] che non è poi tanto diversa dalle classi dominanti delle altre regioni italiane (è anche questa la caratteristica saliente dei dominanti genovesi dal Rinascimento a oggi).

Dopo il 1945 il dominio del Mediterraneo è diventato statunitense. La divisione del mondo in due blocchi (a seguito dell’accordo di Yalta fra Churchill, Roosvelt e Stalin) impose che l’Italia – paese sconfitto e sottoposto a diverse sanzioni – dovesse collocarsi nel campo dominato dagli Stati Uniti assurti a prima potenza mondiale. Data l’importanza strategica della Sicilia e dell’Italia nell’universo Mediterraneo, sin dalla fine degli anni ’40 gli Stati Uniti hanno trasformato questi territori nella loro principale base militare, ancor più importante a seguito della creazione della NATO (vedi nota 13).

Come scrive persino il giornale della Confindustria sono oltre 100 le bombe atomiche USA dislocate in Italia,[20] ossia un numero di gran lunga più alto di quello riguardante il Belgio e la Germania (ne hanno ciascuno fra 10 e 20). In realtà questa cifra si limita alle sole basi di Aviano e di Ghedi mentre è risaputo che la più importante base militare statunitense in Italia è quella di Sigonella con sotterranei di depositi di armi che si estendono per quasi 40 chilometri (periferia di Catania sino ad Augusta).

A questa base si aggiungono altre più piccole ma importanti e fra queste il MUOS di Niscemi[21] che riveste oggi un ruolo cruciale nel dispositivo USA rispetto al teatro militare che va dal Mediterraneo centrale sino al Medio Oriente e ancora sino al Golfo Persico.

In altre parole oggi più che mai l’Italia è una base militare statunitense che in caso di guerra rischia ovviamente di essere oggetto di attacchi e in caso di guerra atomica rischia l’ecatombe.

Da notare che queste armi nucleari e l’intero dispositivo di cui sopra sono controllati e possono essere usati esclusivamente dai militari statunitensi, neanche da quelli della NATO e ancor meno dagli italiani. Di fatto, tutti i governi italiani hanno sempre accettato supinamente questa totale alienazione della sovranità nazionale, anzi si sono sempre schierati come i più zelanti alleati (subalterni) degli Stati Uniti.

Purtroppo gli auspici dei costituenti che scrissero la Carta Costituzionale e anche quelli dei firmatari del manifesto di Ventotene per l’Europa (Spinelli e altri) sono stati vani. L’Italia non ha mai osato reclamare il diritto all’effettiva indipendenza come Stato che “ripudia la guerra” e mira solo alla pace e quindi a una difesa militare che dovrebbe essere puramente difensiva (il che esclude apriori armi e sistema di arma offensivi quali gli aerei da caccia, portaerei ecc., non si impegna in missioni militari all’estero salvo missioni ONU di soccorso in caso di catastrofi).[22]

Ma questi aspetti non sono mai stai sottoposti a referendum. Ricordiamo che negli anni ’60 e dopo, i cattolici pacifisti come tutta la sinistra contro le guerre e per la pace non hanno mai potuto far valere la loro opinione.

Il discorso dominante e persino con il massimo accanimento è sempre stato a sostegno della Nato e degli USA, declamati come i “salvatori dell’Italia” dopo la guerra, l’esempio di “democrazia e benessere”, il modello da sogno di felicità.

Tutto ciò nonostante sia noto -ma non alla maggioranza della popolazione e ancor meno ai giovani- che i servizi segreti degli Stati Uniti, gran parte dei loro colleghi italiani e la loro manovalanza fascista sono responsabili delle più atroci stragi in particolare dal 1969 sino all’inizio degli anni ’90 (fra le più note: strage di p.za Fontana, l’Italicus, la stazione di Bologna, Brescia).

E’ noto – ma sempre ai pochi ben documentati – che questa strategia stragista statunitense ha avuto sempre il preciso obiettivo di vietare all’Italia scelte politiche in dissenso con quelle degli USA, e l’ostilità persino ai tentativi di relativa autonomizzazione che una parte dei governanti italiani ha cercato di conquistare (pagando anche con la vita com’è nel caso di Moro, che DC e PCI non vollero salvare anche su forte pressione statunitense).

A tutto ciò bisogna aggiungere che il dispositivo militare statunitense e italiano è fonte di grave inquinamento che genera cancro (da radioattività e uranio impoverito di cui sono morti centinaia di soldati oltre ai civili contaminati). Si pensi al caso sconcertante del poligono di Quirra e delle cosiddette servitù militari in Sardegna, oltre alla diffusione di cancro nella zona MUOS, dove le proteste della popolazione locale sono oggetto di brutale repressione[23].

La pervasività del discorso sulla guerra

La propaganda bellica di oggi (cioè del contesto del cosiddetto neoliberismo) non è solo quella inculcata ai militari di professione,[24] ma spesso anche agli operatori delle polizie mirante a forgiare l’aggressività se non la ferocia contro il nemico di turno (la/il terrorista pseudo-islamista, la/il presunta/o terrorista dell’estrema sinistra o delle lotte ecologiste, la/il presunta/o immigrata/o o rom delinquente o persino il marginale tout court -vedi libri citati alla nota 12).

E come segnala Antonio Mazzeo, il governo Meloni con il suo zelante militarista ministro della difesa Crosetto, si impegna a promuovere la cultura della difesa che già avevano lanciato i ministri PD Minniti, Pinotti e Guerini anche nelle scuole (vedi articolo al link in nota[25]).

Oggi la pervasività del discorso bellico passa anche a livello micro-sociologico, a cominciare dall’incitamento ad acquisire un profilo dominante: si pensi alla pubblicità in cui si vede un uomo aitante (in questo caso non può essere una donna perché si inneggia al dominio maschile punto) che sale su un SUV e dice: “Ah finalmente posso guardare tutto e tutti dall’alto in basso”.

E si pensi a quella pubblicità in cui sempre un uomo aitante arriva con una spider rossa fiammante scende, apre il cofano dietro e fa scendere una famosa show girl. Il messaggio di queste due pubblicità flash (fra altre) non c’è bisogno che sia esplicito: si punta a spingere chi le vede a pensare “e per avere questo cosa ci vuole?

Non ci può certo arrivare il semplice lavoratore col magro salario che guadagna. Allora come fare? O tentare di diventare criminale per esempio mettendosi a spacciare droga … ma quasi sempre si finisce in galera appena si comincia. Oppure seguire altre pubblicità o messaggi nascosti sui social network che dicono: “Se vuoi guadagnare di più non devi avere riguardo per nessuno -tranne per i tuoi capi- e anzi dimostrare a questi che sei capace anche di calpestare il tuo collega e persino tuo fratello, per affermare la tua superiorità; la competizione per vincere è la chiave del successo per diventare dominante degli altri che sono dominati perché non sono capaci di essere dominanti”!

In un contesto di profonda disgregazione economica, sociale, culturale e politica quale quella che s’è scatenata senza fermarsi da almeno 40 anni, prevale ormai l’atomizzazione, l’ultra-individualismo, l’accanimento per difendersi e per primeggiare a tutti i costi e contro tutto e tutti, sino all’odio per chiunque; quindi l’incapacità di convivialità, di solidarietà, di slanci di simpatia se non di amore per gli altri: la negazione dell’umanità.

Questa è la caratteristica saliente della società liberista di oggi, una realtà in cui non c’è da stupirsi difronte non solo al banale bullismo fra alunni, ma alle cosiddette bande giovanili e poi agli aspiranti contractors, cioè i mercenari pronti a farsi reclutare per qualsivoglia teatro di guerra in giro per il mondo non solo per guadagnare tanto anche a rischio di morire, ma per provare l’ebrezza di torturare e di uccidere (e non mancano i film e videogiochi che incitano a questo).

In una intervista degli anni settanta Pier Paolo Pasolini disse: “Occorre denunciare la mutazione antropologica, il genocidio culturale di una nazione che avviene sotto gli occhi passivi di un popolo venduto anima e corpo al consumismo più spietato”. (…) Aggiungiamo, oggi si incita non solo al consumo, all’uso e abuso di ogni sorta di merce e gadget, ma anche di “pillole” ideologiche di liberismo che aizza alla ferocia per dominare l’altro, per far soldi a tutti i costi e quindi a spezzo di tutto e di tutti.

Sulla guerra in Ucraina

E’ indiscutibile che all’inizio del 2022 la Russia di Putin abbia lanciato un attacco militare all’Ucraina probabilmente nell’illusione di una cosiddetta “guerra-lampo”. La giustificazione addotta da Putin è che da anni l’Ucraina praticava un dominio brutale sulla popolazione russa che vive in una parte di questo paese e che la Russia ha il diritto di riannettere i pezzi dell’Ucraina che le appartengono.

Ma, questa giustificazione non può legittimare l’attacco scatenato dalla Russia di cui è vittima la popolazione ucraina. E’ risaputo che il discorso di Putin è un’aberrante inneggio all’impero russo del XIX secolo (un po’ alla stregua del delirio di Mussolini che inneggiava all’impero romano e alla superiorità italica).

Allo stesso tempo, come era ben prevedibile, gli Stati Uniti hanno subito approfittato della ghiotta occasione per alimentare proprio nel centro dell’Europa lo scontro con il duplice intento: a) di spingere i paesi europei -sin allora recalcitranti- a lanciarsi anch’essi nella nuova corsa agli investimenti militari; e b) di provare a destabilizzare pesantemente se non far soccombere il regime di Putin (che ha alquanto “infastidito” il gioco statunitense nella guerra in Siria ma anche in altre realtà africane e dell’America Latina).

Di fatto si ha una guerra fra USA e Unione europea contro la Russia di Putin condotta per procura dal regime ucraino. Anziché mobilitarsi per approdare a negoziati di pace, i paesi europei sono diventati quasi più zelanti degli USA inviando sempre più finanziamenti e armamenti al regime ucraino[26].

Da allora il corso della guerra è diventato quello della corsa agli armamenti, il trionfo delle lobby militari-poliziesche statunitensi, europee e russe, con non solo sempre più armi all’Ucraina ma anche agli altri paesi vicini e a paesi che sin allora erano di fatto al di fuori da tale dinamica (vedi per esempio la Norvegia).

In questo aumento del mercato delle armi non mancano truffatori che traggono lauti guadagni (vedi nota[27]). Da notare anche l’escalation dei contingenti di mercenari ben noti e altri in parte del tutto camuffati.  Da allora di fatto la popolazione che vive in Ucraina è diventata carne da macello (e a questa sorte sono condannati anche i militari ucraini e russi).

In altre parole, a totale sprezzo della vita della popolazione, la guerra in Ucraina è diventata una gigantesca speculazione delle lobby militari.

La possibilità di una tregua e quindi di un negoziato di pace è stata sinora ignorata. L’Unione europea s’è irretita nella corsa al mercato delle armi e tanti paesi europei come anche gli USA puntano a fare profitti nella futura ricostruzione postbellica dell’Ucraina.

In termini astrattamente militari, Stati Uniti e paesi Nato avrebbero potuto subito intervenire a difesa del territorio ucraino con anche truppe a terra. Ma ovviamente non l’hanno voluto fare perché nessuno di questi paesi vuole infognarsi in un conflitto che rischia l’escalation addirittura sino alla guerra nucleare. Al contrario, le lobby militari guadagnano di più nell’eternizzare l’attuale guerra, ovviamente a sprezzo totale della popolazione che vive su tale territorio.

Siamo quindi di fronte a una nuova riproduzione di una guerra che diventa permanente così come aveva proclamato il primo Bush inaugurando l’era bellica liberista.

Sono almeno 23 le guerre “ad alta intensità” (cioè anche con armamenti pesanti)fra questi in Siria, Yemen, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, nord del Mozambico, Nord Kivu e Ituri della Repubblica democratica del Congo, Tigray in Etiopia nonché ancora in Iraq, Ucraina, Nigeria, oltre alla perenne guerra israeliana contro il popolo palestinese, quella turca contro i Kurdi, e altri ancora[28].

E tutti i paesi produttori e mercanti di armi non lesinano mai di alimentare queste guerre (vedi per esempio il sostegno europeo e statunitense a Erdogan che non smette di perseguire il genocidio del popolo curdo[29].

Il continuum delle guerre

Il continuum delle guerre si materializza anche all’interno degli stessi paesi dominanti, con la guerra contro i migranti fatti morire nelle frontiere marittime e terrestri (la tanatopolitica liberista) e contro i rom, i marginali e i presunti sovversivi che si ribellano a grandi opere e a disastri sanitari, ambientali ed economici[30]. E si materializza nella guerra sicuritaria contro i migranti, i marginali, i presunti sovversivi in nome di una sicurezza che non tutela affatto i cittadini spesso vittime delle vere insicurezze ignorate (disastri sanitari, ambientali ed economici fra cui precariato, lavoro nero, supersfruttamento violento).

Ma le polizie non proteggono la popolazione rispetto a queste insicurezze di cui sono sfacciatamente responsabili proprietari di industrie e governanti locali e nazionali[31]. E abbiamo visto che rispetto ai migranti prevale la logica del far morire e lasciar morire, cioè la tanatopolitica fascista o di una sorta di “fascismo democratico” (un governo che in realtà ha i voti del solo 27% degli aventi diritto[32]).

Conclusioni

La resistenza contro la riproduzione continua delle guerre non può che essere sempre lotta per la pace; da sempre è così che l’umanità sopravvive. Questa lotta passa innanzitutto nel ricostruire convivialità e socialità e riguarda anche i comportamenti quotidiani, la ricerca continua delle soluzioni pacifiche così come le precauzioni contro i rischi di disastri sanitari, ambientali ed economici. Non si tratta affatto di resilienza intesa in termini psicologizzanti/individualisti, ma di resistenza collettiva e agire comune contro chi è responsabile di tali disastri[33].

Il rischio di un’ulteriore escalation dell’attuale guerra russa contro l’Ucraina resta alto e nulla può escludere che diventi un rischio di guerra atomica (anche se l’eventualità di bombe nucleari di raggio relativamente limitato -200 kmq- è più verosimile). Come dicono alcuni esperti militari di vari paesi, è evidente che la Russia non si ferma senza la garanzia di aver conquistato obiettivi validi (Crimea, Donbass, Mariupol, Odessa? più che il resto).

Intanto la carneficina aumenterà. L’ipotesi di una mediazione cinese non è ancora verificata e non sfugge l’esasperazione del bellicismo sia da parte di Putin che da parte USA ed europea per andare ai negoziati col massimo peso.

L’ONU è ormai un’istituzione quasi del tutto svuotata da ogni possibilità di agire sulla scena che le compete. È perciò illusorio pensare che possa essere accettata una pace con una forza ONU di interposizione fra la Russia e l’Ucraina (cosa che forse sarebbe stata possibile se i paesi europei avessero sostenuto subito un accordo di pace accettabile per entrambi le parti).

Intanto constatiamo che le autorità italiane si preoccupano soprattutto di vendere armi, di attuare la scelta di “far morire e lasciar morire i migranti e di perseguire il corso verso il “fascismo democratico”[34].

Appare più che mai evidente che solo una grande mobilitazione popolare internazionale per la pace (come ci fu per il Vietnam), contro tutte le forze che alimentano i conflitti, per il disarmo, per il neutralismo, potrà fermare questa carneficina in Ucraina, come negli altri paesi fra i quali la Palestina.


Note:

* https://unige-it.academia.edu/SalvatorePalidda/CurriculumVitae
[1] Vedi in particolare i testi e video-conferenze di Luciano Canfora fra cui https://www.youtube.com/watch?v=pRxDmXD7Pg4 e di Paul Veyne, Il pane e il circo, e L’ impero greco romano. Le radici del mondo globale; e anche: https://www.labottegadelbarbieri.org/protesta-e-integrazione-nella-roma-antica/;  https://www.academia.edu/317488/Rivolte_servili_e_spettacolarizzazione_della_violenza.
[2] https://www.futura-editrice.it/prodotto/principi-elementari-della-propaganda-di-guerra/
[3] https://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys&t=1062s
[4] Vedi La vita militare, Milano, Treves, 1880; in questo libro De Amicis teorizza anche il “matriottismo italiano” (poiché, dopo la rivoluzione francese del 1789 e ancor di più dopo la Comune di Parigi del 1871, il lemma “patria” (come “nazione”) era considerato sovversivo rispetto al reame dei Savoia
[5] Vedi “Strategie d’infiltrazione della sorveglianza biometrica nelle nostre città e nostre vite” qui https://www.osservatoriorepressione.info/strategie-dinfiltrazione-della-sorveglianza-biometrica-nelle-nostre-citta-nostre-vite/  e anche http://effimera.org/tag/capitalismo-di-sorveglianza/
[6] La ricerca di Médiamétrie in Francia del febbraio 2020, mostra che 24% dei genitori francesi avrebbero utilizzato dei «dispositivi di spionaggio», all’insaputa dei figli per sorvegliarli (vedi articolo Le parent moderne est-il un obsédé de la surveillance? https://www.lemonde.fr/m-perso/article/2023/02/11/le-parent-moderne-est-il-un-obsede-de-la-surveillance_6161427_4497916.html
[7] https://www.youtube.com/watch?v=4y7TVTIkNRo
[8] https://www.analisidifesa.it/2022/07/missioni-allestero-aumentano-gli-impegni-per-le-forze-armate-italiane/
[9] https://www.milex.org/2022/12/02/spese-militari-italiane-aumento-anche-2023/
[10] Vedi qui : https://www.corriere.it/esteri/23_febbraio_16/nato-piu-munizioni-l-ucraina-lavrov-l-occidente-punto-non-ritorno-78d5ca52-add4-11ed-be01-4ad1caac0110.shtml
[11] https://sbilanciamoci.info/gli-italiani-contrari-allaumento-delle-spese-militari/
[12] https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/02/05/sanita-il-covid-non-e-bastato-nessun-altro-big-ue-spende-cosi-poco/6951150/ e qui il rapporto della Corte dei Conti: https://www.corteconti.it/Download?id=f3537856-4e2f-47c4-9ba4-443f812313f5
[13] https://sbilanciamoci.info/la-controfinanziaria-2022-di-sbilanciamoci-2/
[14] https://www.academia.edu/49066860/Resistenze_ai_disastri_sanitari_ambientali_ed_economici_nel_Mediterraneo e si veda anche libro https://www.meltemieditore.it/catalogo/polizie-sicurezza-e-insicurezze/
[15] http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2022/12/il-ponte-sullo-stretto-come-il-muos-di.html
[16] Vedi libro https://www.meltemieditore.it/catalogo/polizie-sicurezza-e-insicurezze/ (e prima Polizia postmoderna, Feltrinelli, 2000)
[17] Ho scritto su questi aspetti nella mia tesi di laurea dell’EHESS di Parigi (“Le role géostratégique de la Sicile (passé et present)” 1984, e poi nella mia tesi di dottorato sempre all’EHESS di Parigi a fine anni ‘90 (una ricerca di sociologia storica sulla formazione dello stato in Italia sin dal Rinascimento in particolare attraverso gli aspetti militari e di polizia (sintesi qui: https://www.researchgate.net/publication/318642065_L%27anamorphose_de_l%27Etat-Nation_le_cas_italien) e L’evoluzione della politica di difesa in Italia, “Il Ponte”, XLI, 3, 87-109; si vedano anche nei miei libri sulle polizie del 2000 e del 2021 (vedi nota 12) oltre che in quelli sulle migrazioni (in particolare Mobilità umane, 2008).
[18] Vedi Elio Di Piazza, “Il mito di Garibaldi nel ritratto di Rodney Mundy”
[19] “La mafia un power-broker”, https://www.lavoroculturale.org/la-mafia-dimenticata/salvatore-palidda/2019/
[20] https://www.ilsole24ore.com/art/nucleare-italia-oltre-100-ordigni-usa-ecco-dove-sono-stati-dislocati-AEp5NH2B
[21] https://www.nomuos.info e https://www.nomuos.org e scritti su http://antoniomazzeoblog.blogspot.com
[22] Ricordiamo che l’Italia continua a violare l’art.11 della Costituzione dotandosi di armamenti offensivi, ospitando sul suo territorio armi nucleari e dispositivi impiegati in guerre e rilanciando missioni militari all’estero che di fatto sono partecipazioni alle guerre permanenti. L’art. 11 della Costituzione prevede solo una difesa-difensiva … quindi di fatto prescrive la neutralità.
[23] Vedi capitoli di Antonio Mazzeo e di Luca Manunza nel libro scaricabile gratuitamente al link citato alla nota 10
[24] Sulla pervasività della guerra vedi in particolare Conflict, Security and the Reshaping of Society: The Civilisation of War, Routledge, 2010, scaricabile gratuitamente da qui: http://www.oapen.org/search?identifier=391032
[25] “La ‘Cultura della Difesa’ che Crosetto e il governo Meloni promuovono
seguendo la scia aperta dai Minniti, Pinotti e Guerini” di A. Mazzeo : https://pagineesteri.it/2023/03/07/mediterraneo/analisi-la-cultura-della-difesa-no-non-e-cosa-di-crosetto-e-bipartisan/
[26] In Italia alcuni hanno giustificato l’invio delle armi dicendo che per fortuna la Resistenza italiana antifascista e antinazista aveva ricevuto armi e viveri dagli angloamericani. A parte il fatto che questi aiuti sono stati scarsi e talvolta negati con la scusa di “non dare armi ai comunisti e ai socialisti e agli anarchici”, nel caso dell’Ucraina si danno armi al regime di Zelensky e non alla resistenza antifascista contro l’invasore russo.
[27] Lighthouse Reports ha rivelato che un broker di armi estone si sia intascato due milioni di euro a spese dell’Ucraina. Il commerciante di armi Bristol Trust OÜ, con base in Estonia, è arrivato a chiedere una commissione pari a quasi un terzo del valore di una spedizione di armamenti anti-carro destinati all’esercito ucraino: https://www.lighthousereports.nl/investigation/war-profiteers/
[28] https://www.agensir.it/mondo/2022/04/15/un-mondo-senza-pace-almeno-23-conflitti-ad-alta-intensita/https://www.remocontro.it/2023/01/07/i-punti-caldi-del-pianeta-dove-possono-scoppiare-le-guerre-2023/
[29] Vedi i militanti curdi chiedono al Parlamento europeo il ritiro del Pkk dalla lista Ue dei terroristi: https://www.eunews.it/2023/02/15/interrotti-i-lavori-al-parlamento-europeo-militanti-curdi-chiedono-il-ritiro-del-pkk-dalla-lista-ue-dei-terroristi/
[30] Razzismo democratico: la persecuzione dei rom e degli immigrati in Europa, Milan: AgenziaX, 2009. Scaricabile gratuitamente da qui: http://www.agenziax.it/wp-content/uploads/2013/03/razzismo-democratico.pdf; “Il cambiamento radicale delle politiche migratorie: dal lasciar vivere al lasciare morire (dalla biopolitica a sempre più tanatopolitica)”: https://www.scielo.br/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S1980-85852021000100033&lng=en&nrm=iso&tlng=it; “Il furore di sfruttare e di accumulare”: http://effimera.org/il-furore-di-sfruttare-e-di-accumulare; “Continuità e mutamenti nelle migrazioni in particolare alla frontiera di Ventimiglia, in Altreitalie 56, 2018: https://www.altreitalie.it/pubblicazioni/rivista/n–56/acquista-versione-digitale/continuita-e-mutamenti-delle-migrazioni-nel-confine-tra-litalia-e-la-francia.kl. Vedi anche libri sulle polizie citati alla nota 12.
[31] Vedi libro https://www.meltemieditore.it/catalogo/polizie-sicurezza-e-insicurezze/
[32] “Far morire, lasciar morire: la scelta tanatopolitica del governo Meloni e dei suoi ministri”: http://effimera.org/far-morire-lasciar-morire-la-scelta-tanatopolitica-del-governo-meloni-e-dei-suoi-ministri
[33] Vedi anche “Il trionfo della “post-politica a prescindere da ogni ideologia” e dell’anomia politica liberista (l’astensionismo di massa / sul processo della deriva a destra in Italia)” https://www.pressenza.com/it/2022/09/il-trionfo-della-post-politica-e-dellanomia-liberista-dallastensionismo-alla-deriva-di-destra-in-italia/; “Un po’ di storia della sinistra in Italia per capire l’attuale congiuntura”:  https://www.pressenza.com/it/2022/09/un-po-di-storia-della-sinistra-in-italia-per-capire-lattuale-deriva-a-destra/.
[34] Basti notare che il presidente Matterella riceve al Quirinale il capo degli emirati arabi, M.me Meloni va ad Abou-Dhabi per firmare contratti per le armi e probabilmente per togliere lo stop a queste destinate alla guerre contro lo Yemen, la tragedia di Cutro e il comportamento del ministro Valditara come di altri ministri -fra altri articoli vedi qui: http://effimera.org/far-morire-lasciar-morire-la-scelta-tanatopolitica-del-governo-meloni-e-dei-suoi-ministri.

* Da http://www.osservatoriorepressione.info

Guerra in Ucraina: Nube di polvere di armi all’uranio in viaggio verso ovest?

“Le forze russe hanno effettuato attacchi di alta precisione contro depositi di attrezzature e munizioni occidentali in Ucraina. Uno di questi depositi è stato distrutto nella città di Khmelnitsky. Dopo questo attacco, le radiazioni di fondo nella città sono aumentate. In seguito si è ipotizzato che i depositi potessero essere stati utilizzati per immagazzinare munizioni all’uranio “non pericolose” per i carri armati. Per evitare di mettere in pericolo le vite umane, sono stati impiegati dei robot per spegnere l’incendio. Le armi fornite dall’Occidente contro la Russia sono davvero sicure per gli ucraini?”

Questa la domanda che si poneva la tv russa RT lo scorso 13 maggio. Il 17 maggio, in un articolo del giornalista Rainer Rupp su RT si leggeva:

“Ormai anche il credulone tedesco Michel, che ama farsi ritrarre con il berretto da notte, dovrebbe essersi accorto che i megafoni della propaganda occidentale, compresi quelli del governo tedesco, da anni riproducono come fatti concreti le bugie e le velleità di chi governa a Kiev. Secondo questi rapporti, la tanto attesa offensiva dell’esercito ucraino contro i russi è imminente da settimane.

Ma cercare segni concreti dell’offensiva ucraina è come cercare il gatto nero come la pece in una stanza assolutamente buia, dove molto probabilmente il gatto non c’è affatto. Infatti, sembra sempre più che il pacchetto di chiacchiere pompose sulla presunta imminente riconquista della Crimea non contenga affatto un’offensiva, ma solo aria fritta.

Con grande difficoltà, per almeno sei mesi l’Occidente collettivo dei russofobi ha racimolato per l’Ucraina tutto ciò che i propri eserciti potevano risparmiare in armi, equipaggiamento pesante, munizioni e carburante. Gli Stati Uniti avevano persino acquistato munizioni d’artiglieria da 155 millimetri in Paesi del Terzo Mondo da inviare in Ucraina per l’annunciata offensiva.

In Ucraina, i costosi doni dell’Occidente sono stati immagazzinati in depositi preparati a questo scopo, che risalivano ai tempi dell’Unione Sovietica. A causa di un attacco previsto da parte dell’Occidente, questi depositi hanno dimensioni enormi. E naturalmente questi vecchi depositi sono facilmente accessibili presso gli snodi di trasporto.

Lo svantaggio, tuttavia, è che l’esatta ubicazione di questi cimeli della Guerra Fredda in Ucraina è ben nota anche ai russi. È interessante notare che in passato i russi non hanno attaccato questi depositi, che si trovano molto a ovest dell’Ucraina.

khmelnitsky si trova, in linea d’aria, a circa 1.300/1.500 km dalla costa orientale italiana

Solo nelle ultime settimane i russi hanno iniziato a distruggere sistematicamente questi depositi, con attacchi massicci! Questo fa pensare che abbiano aspettato che questi depositi fossero pieni fino all’orlo di armi e munizioni della NATO poco prima dell’inizio dell’annunciata offensiva ucraina?

Nel farlo, i russi potrebbero essersi avvalsi di una narrativa diffusa nei più alti circoli USA/NATO. Secondo questa narrazione, i russi avrebbero da tempo esaurito le scorte di missili di precisione a medio raggio, necessari per colpire con successo le infrastrutture nelle profondità dell’Ucraina occidentale. Questa visione potrebbe anche spiegare la mancanza di un’efficace difesa aerea ucraina per proteggere questi depositi.

Questo è forse il motivo per cui i padroni occidentali non hanno impedito ai loro ausiliari ucraini di conservare le preziose uova della NATO in pochi grandi cesti. L’alternativa migliore sarebbe stata quella di molti piccoli depositi temporanei sconosciuti ai russi. Il loro svantaggio, mancanza di strutture per la manutenzione e la riparazione delle armi e di strutture di sicurezza per le munizioni e di maggiori spese per la protezione degli oggetti, sarebbe stato più che compensato da una protezione di gran lunga migliore contro gli attacchi su larga scala dei russi.

Senza dubbio, la distruzione dell’enorme deposito di armi e munizioni vicino alla città ucraina di Khmelnitsky, avvenuta pochi giorni fa, è stata l’azione più spettacolare e probabilmente anche la più importante della guerra che dura ormai da 13 mesi. Le due mostruose esplosioni nei pressi di Khmelnitsky superano tutto ciò che si è visto finora nei video e nelle immagini della guerra ucraina. Non c’è da stupirsi che in un primo momento molti abbiano pensato all’esplosione di un’arma nucleare tattica, anche se ora questa ipotesi è stata smentita senza ombra di dubbio.

Tuttavia, dopo le due esplosioni, che si sono susseguite a intervalli di uno-due secondi, è stato misurato un aumento delle radiazioni nelle immediate vicinanze del luogo dell’esplosione, del tipo che indica che grandi quantità di munizioni all’uranio perforanti fuorilegge sono esplose qui in polvere fine che è stata portata via dal vento.

Secondo una dichiarazione ufficiale di Londra, queste munizioni all’uranio erano già state fornite all’Ucraina dal governo britannico settimane fa, nonostante le massicce proteste della Russia e dell’Ucraina orientale. Non si sa (ancora) se altri Paesi si siano segretamente uniti ai britannici.

Sono stati gli Stati Uniti a utilizzare per primi queste munizioni all’uranio in grandi quantità vicino alla città meridionale irachena di Bassora nella prima guerra in Iraq nel 1990. Qualche anno dopo, nella regione intorno a Bassora si osservò un allarmante accumulo di terribili deformità nei neonati. L’autore di queste righe non riesce ancora a togliersi dalla testa le immagini dei neonati che ha visto nel 2002 durante una visita a una clinica pediatrica di Bassora.

La popolazione delle regioni serbe, dove gli Stati Uniti/NATO hanno utilizzato massicciamente le munizioni perforanti “Depleted-Uranium” durante la guerra di aggressione non provocata del 1999, in violazione del diritto internazionale, ha vissuto esperienze terribili simili. La ricerca medica a questo proposito indica una modifica genetica del materiale ereditario di uomini e animali. Tuttavia, questa ricerca non è sostenuta dall’Occidente collettivo.

Sul canale Telegram Slavyangrad ci sono già commenti preoccupati riguardo a possibili munizioni all’uranio esplose in Ucraina, ad esempio se:

“Khmelnitsky e i suoi dintorni – per molti anni – sono diventati una zona particolarmente problematica in termini di cancro e dovrebbero essere evitati”.

Un’altra voce su Telegram mostra la foto di una farmacia con un cartello dipinto a mano sulla porta d’ingresso: “Compresse di iodio esaurite”.

Ulteriori rapporti dei residenti locali affermano che “gli esperti stanno cercando di spegnere l’incendio nel sito dell’attacco missilistico al deposito militare vicino a Khmelnitsky solo da lontano con i robot“. Allo stesso tempo, ci sono state “pattuglie per monitorare le radiazioni in città”. Questa volta, però, le misurazioni di fondo sarebbero state effettuate “in luoghi non caratteristici”. Mentre prima venivano effettuate nella zona della centrale nucleare, anch’essa situata vicino a Khmelnitsky, “ora vengono effettuate nel centro regionale, nella parte occidentale della regione e anche nella vicina città di Ternopol“. Dopo l’attacco al deposito di munizioni, il vento aveva infatti “soffiato in direzione ovest”. Tuttavia, le autorità locali avrebbero taciuto sul lavoro delle pattuglie di misurazione delle radiazioni.

Nel frattempo, il noto politologo russo Yuri Kot ha riferito su Telegram:

“I miei conoscenti ucraini dicono che la gente nell’Ucraina occidentale è nel panico. Stanno impacchettando tutto e si stanno allontanando da Khmelnitsky e persino da Lvov (ndr) e Ternopol. Ci sono unità militari ucraine, magazzini e officine di riparazione ovunque. La gente del posto sussurra che il magazzino di Khmelnitsky era pieno di proiettili all’uranio impoverito. E questo è confermato dalle mie fonti”.

Prosegue dicendo che:

“Dopo l’esplosione, in città è stato segnalato un aumento delle radiazioni gamma. I livelli di radiazione continuano ad aumentare. Data la quantità relativamente piccola di radiazioni gamma che possono essere emesse dall’uranio impoverito, l’attuale aumento indica la distruzione di una scorta molto grande di munizioni, che ha fatto salire la polvere di uranio nell’aria”.

Ciò è confermato anche dalle misurazioni su Slavyangrad (canale telegram, ndr) pubblicate nel frattempo dall’esperto Gleb Georgievich Gerassimov, si vedano i seguenti grafici:

Gerasimov scrive a questo proposito:

“Intorno al 12 maggio, a Khmelnitsky è stato rilevato un aumento significativo delle radiazioni gamma, con un’emissione che ha continuato ad aumentare il giorno successivo e che è rimasta in seguito a livelli elevati”.

“Considerando che l’uranio impoverito emette poche radiazioni gamma, questo aumento significativo delle radiazioni gamma a Khmelnitsky suggerisce che c’era una scorta molto grande di munizioni al DU che è stata distrutta, causando la dispersione di polvere di uranio nell’aria”.

“Rispetto a Khmelnitsky, le città di Ternopol, Khmelnik e Novaya Ushitsa (situate nelle vicinanze) (Figure 3, 4 e 5) sono rimaste ai loro livelli di base apparentemente regolari. Ciò suggerisce che l’anomalia di Khmelnitsky è effettivamente un picco e supporta l’affermazione che il campo di Khmelnitsky conteneva munizioni al DU”.

Tutto è iniziato nella notte tra il 12 e il 13 maggio, intorno alle cinque del mattino, con attacchi missilistici russi sulla città ucraina occidentale di Ternopol. Poi sono seguiti gli attacchi al grande deposito di munizioni vicino al villaggio di Grusewitsa (una stazione ferroviaria chiamata Grusewzy si trova tra Khmelnitsky e Grusewitsa; ndr), che si trova a quattro chilometri a nord-ovest di Khmelnitsky. Il primo a essere colpito è stato un deposito di petrolio vicino al deposito di munizioni, come dimostra la nube di fumo nera che si alza nei video immediatamente prima delle due mostruose detonazioni di munizioni.

Il deposito di munizioni vicino a Khmelnitsky si trova già piuttosto lontano nell’ovest dell’Ucraina, a circa metà strada tra Leopoli e Kiev, a circa 150 chilometri dal confine con la Romania e a 270 chilometri dal confine con la Polonia. Si trova su una linea ferroviaria importante e ha una propria stazione ferroviaria. La struttura copre un’area di circa 1 × 1,5 chilometri, che la rende simile per dimensioni al gigantesco deposito di munizioni di Kobasna, in Moldavia, dove secondo i media russi sono stoccati 20 milioni di proiettili d’artiglieria, provenienti dall’esercito sovietico ritiratosi dai Paesi del blocco orientale. Alcuni mesi fa, il deposito di Kobasna è stato sempre più citato nelle notizie russe a causa della brama ucraina per questo tesoro di munizioni. Proprio come a Kobasna, il deposito vicino a Khmelnitsky dispone anche di grandi caserme per il personale e di una società di trasporti con numerosi veicoli, oltre alle enormi strutture di stoccaggio.

Non c’è dubbio che questo sito vicino a Khmelnitsky avesse un notevole valore strategico per le forze armate ucraine e per la NATO, tanto più nel contesto della presunta imminente offensiva. Alla luce delle due enormi detonazioni, le stime iniziali secondo cui sarebbero saltate in aria munizioni fornite dalla NATO per un valore di 500 milioni di dollari non sembrano esagerate.

Traduzione: “Queste immagini satellitari che mostrano il risultato degli attacchi missilistici nelle prime ore del 13 maggio sul deposito di munizioni ucraino a ovest di Khmelnitsky mostrano la distruzione quasi totale della struttura e dei suoi depositi fortificati”.

Questo attacco russo molto efficace su un obiettivo strategicamente importante nelle profondità dell’Ucraina può quindi essere visto come un grande successo per le forze russe e un duro colpo alle capacità e alle risorse delle forze armate ucraine.

Come al solito, il governo Selensky e i suoi aiutanti in Occidente negano tutto. A Khmelnitsky è stata colpita solo una fabbrica di componenti elettronici, senza causare danni rilevanti. E i media occidentali, come al solito, ripetono tutto. Altrimenti, i dubbi sull’imminente vittoria dell’Ucraina potrebbero sorgere tra la gente comune e la loro volontà di continuare a sostenere i fascisti ucraini con denaro e armi potrebbe diminuire.

Tuttavia, le immagini del video non sembrano l’esplosione di una fabbrica di elettronica. La determinazione del luogo dell’esplosione in base alle caratteristiche geografiche conosciute dal punto di vista della telecamera su un alto edificio nella città di Khmelnitsky porta anche al deposito di munizioni nel villaggio di Grusevitsa (vicino alla stazione ferroviaria di Grusevtsy; ndr). Si vedano le seguenti immagini su Slavyangrad:

A causa di questo sviluppo, l’eterno attore e clown maligno Selensky, che ha respinto come inopportuna l’offerta diplomatica di mediazione del Papa durante l’udienza di qualche giorno fa a Roma, dovrà aspettare ancora molti mesi con la sua offensiva per liberare la Crimea, se l’Ucraina esisterà ancora come Stato.

(FONTE: RT / Vari Canali Telegram)

Fin qui l’articolo di Rainer Rupp, del quale non sfuggono anche gli spunti di propaganda; ma la domanda è: in Europa e in Italia sono state prese delle misure per un adeguato monitoraggio della qualità dei venti che spirano dall’Ucraina già da una settimana ? E i media ci stanno informando in modo adeguato su questo e altri effetti “collaterali” di questa guerra ? E’ normale che un evento accaduto il 13 maggio riceva una copertura (in direzione di certa  smentita e fake) solo 6 giorni dopo come sta accadendo in Italia ?

FONTE: Emi-News

Guerre in Europa: presentazione dei libri di Domenico Gallo e Biagio di Grazia (Video)

Guerre in Europa: Video del seminario del CRS (Centro per la Riforma dello Stato), tenutosi il 15 maggio 2023, a partire dai recenti libri, editi da Delta 3, del Generale Biagio Di GraziaLa NATO nei conflitti europei” (2022) e di Domenico GalloGuerra Ucraina” (2023).

Ne discutono con gli autori: Maria Luisa Boccia, Raniero La Valle e Claudio De Fiores.

Nei diversi interventi vengono evidenziati le modificazioni dello statuto NATO (superamento dell’Art. 5 già infranto con la guerra in Jugoslavia), le conseguenti implicazioni costituzionali in riferimento all’Art. 11 della nostra Costituzione; la subalternità della UE rispetto alla Nato; le manifeste contraddizioni sul principio di autodeterminazione che hanno contraddistinto l’intervento della Nato in Jugoslavia e in Serbia e quello in Ucraina; la guerra in Ucraina come passaggio decisivo ad una nuova fase della politica USA e Nato verso un un ordine mondiale unipolare con al centro l’Impero americano, come certificato dai recenti documenti strategici della Casa Bianca e del Pentagono; la necessità di opporsi alla guerra ideologica e mediatica sul conflitto facendo emergerne i reali obiettivi e attivandoci per la mobilitazione a favore della diplomazia e della Pace.

Per acquistare i libri:

La NATO nei conflitti europei. Ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi

di Biagio Di Grazia

Guerra Ucraina

di Domenico Gallo

“Guerra Ucraina”, nuovo libro di Domenico Gallo


Guerra Ucraina

“Questo libro dovrebbe entrare nella cassetta degli attrezzi, per aiutarci a inventare e produrre questo mondo diverso”, dice Raniero La Valle a conclusione della prefazione del recente libro di Domenico Gallo, “Guerra Ucraina” – Delta 3 Edizioni, uscito lo scorso marzo e acquistabile nelle librerie e, on line, su diverse piattaforme. LINK per l’acquisto:

http://www.delta3edizioni.com/bookshop/catalogo/395-guerra-ucraina-9791255140948.html

Presentazione: Lunedì 15 maggio, ore 17:30 a Roma, Via della Dogana Vecchia, n.5

PREFAZIONE

di Raniero La Valle

È questo un libro la cui lettura è preziosa, perché racconta con verità una guerra che altri – della politica e dell’informazione – raccontano come uno spettacolo, celebrano come un’epopea, esaltano come un mito, officiano come un sacrificio, e gestiscono come un giudizio; e il giudizio è questo: c’è un protagonista cattivo e uno buono, un carnefice e una vittima, uno zar e un fantaccino, uno squilibrato e un eroe, un despota e un leader, un’invasione e una Resistenza. In verità tutte le guerre sono descritte così: ci sono due parti in commedia, che sono i Nemici, e il Nemico è per definizione l’epitome dell’abominio; ma, come dice Carl Schmitt, non è affatto detto che sia così, il Nemico non è “necessariamente cattivo, esteticamente brutto, economicamente dannoso”. Egli è «semplicemente l’altro, lo straniero e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”», ma solo con la guerra, con l’annientamento, con la vittoria.

Tale è la guerra che lacera l’Europa, tra la Russia e l’Ucraina, tra Putin e Zelensky; ma questa è solo la scena, perché la storia che davvero si svolge tra le quinte è la guerra tra gli Stati Uniti e la Russia, e con gli Stati Uniti c’è la NATO, e tutto l’ “Occidente allargato” (perché c’è dentro anche l’Estremo Oriente) e anche l’Italia con il suo Draghi e la sua Meloni.

Il merito di Domenico Gallo è di raccontare questa guerra senza infingimenti, senza propagande, senza “elmetto”; chiama “aggressione” l’aggressione, giudica il giusto e l’ingiusto, il diritto e il crimine, e lui lo può fare, perché è un giudice, e non solo in quanto, come tutti dovrebbero, si mette fuori del conflitto, ma perché giudice lo è per professione, e anzi giudice dei giudici, come è la Cassazione a cui apparteneva: e questo è un fatto singolare, perché è abbastanza frequente il caso di giudici che quando finiscono il servizio entrano in politica, ma non è affatto frequente che dei giudici, lasciato il servizio, si aggirino tra i giornali, si dedichino all’informazione, assumano come loro dovere quello di aiutare gli altri a capire la realtà, a interpretare la storia, a giudicare i fatti con verità, e anche a conoscerli mentre altri “informatori” li occultano e li travisano.

Ma se si trattasse solo di questo, saremmo solo di fronte a un esempio di buon giornalismo. Invece c’è di più, e questo non solo è prezioso, ma di questi tempi anche assai raro. È un “ministero” di pace, e prima ancora che sollecito di una politica di pace, è dispensatore di una cultura di pace. È difficile trovare un testo più pacifista di questo; ma non si tratta di un pacifismo ideologico, di quelli che dicono “pace, pace” ma o si fanno strumentali alla guerra o sono così fondamentalisti da mistificare la realtà; questo è un pacifismo della ragione (ma anche del cuore, che non se ne deve né può separare) ed è ligio alla storia e governato dal diritto.

Questa poi è una guerra fuori misura, non la si può neanche nominare. Ci ha provato Putin, a non chiamarla guerra, ma “operazione militare speciale”. E magari credeva davvero che sarebbe rimasta tale, non aveva nessuna intenzione di occupare Kiev, di annettersi l’Ucraina, di dilagare in Polonia e magari perfino in Germania, di rifare l’impero di Pietro Il Grande o almeno l’Unione delle Repubbliche sovietiche, come ne è stato accusato; aveva visto le guerre americane contro l’Iraq (due volte), la Jugoslavia, l’Afghanistan, tutte circoscritte, tutte impunite, tutte distruttive per le vittime ma innocue per gli aggressori, e aveva detto in tutti i modi, anche con le truppe schierate al confine, che ciò che voleva era che la NATO non arrivasse fin lì, e i russofili e russofoni del Donbass fossero lasciati in pace, o almeno autonomi, secondo gli accordi di Minsk.. Ma non aveva calcolato che gli Stati Uniti si stavano costruendo l’Impero, che un Impero senza la guerra non si può fare, e la Russia doveva pagarne il prezzo, come, dopo di lei, la Cina. Così la guerra dissimulata e non detta è diventata una guerra vera, ed è vera guerra, perché questo fanno le armi, e questo è ciò che stanno facendo tutti i fornitori di armamenti all’Ucraina, e anche noi, ma non lo si può dire, perché è da vergognarsene, e bisogna illudersi e convincere l’opinione pubblica che alla fine, come vera guerra, non arrivi anche da noi.

Sicché questa guerra è l’Innominata; e non è la prima: anche la guerra del Golfo, quella del ’91, la chiamammo “l’Innominata”, mentre l’America la chiamava “Tempesta nel deserto”, e i nostri ministri, De Michelis, Rognoni, Andreotti, non osavano confessarla tanto che fino alla fine sostennero che non fosse una guerra e che i Tornado italiani erano stati mandati lì solo per “mostrare la bandiera” ma non avrebbero partecipato al conflitto né avrebbero bombardato Bagdad, rischiando l’accusa di codardia: e invece come gli altri facemmo la guerra che pur avevamo, in Costituzione, ripudiato.

La tragedia è che da questa guerra non è prevista l’uscita. Se i capi delle Nazioni che, a parte Zelensky, non sono privi di senno, mandano ai piromani lanciafiamme invece che idranti, è chiaro che lavorano perché la guerra continui, come del resto hanno detto, fino alla riconquista della Crimea e alla sconfitta della Russia. E ora c’è anche il pretesto dei Leopard, bisogna aspettare dei mesi perché siano pronti, e utili all’illusione di vincere; e per di più evocano lo spettro dei Panzer tedeschi scatenati contro la Russia. La guerra si conferma così come strutturante del sistema e fattore costituente dell’ “ordine” mondiale.

È il prossimo decennio che, secondo le proiezioni ufficiali americane, sarà “decisivo” per riprogrammare questo ordine del mondo, come dicono i due documenti sulla strategia nazionale degli Stati Uniti pubblicati dalla Casa Bianca e dal Pentagono nell’ottobre 2022. E l’annuncio è che la “sfida culminante” non è quella con la Russia, ma con la Cina, che secondo questi strateghi vuole “rimodellare l’intero ordine internazionale per soddisfare le sue ambizioni di potenza economica e politica”. Come scrive Lloyd Austin, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, “la Repubblica Popolare Cinese (RPC) rimane il nostro competitore strategico più importante per i prossimi decenni. Ho raggiunto questa  conclusione sulla base delle crescenti azioni di forza della Repubblica Popolare Cinese per rimodellare la regione dell’Indo Pacifico e il sistema internazionale per adattarlo alle sue preferenze autoritarie”: motivazioni così evanescenti da lasciare senza causa il confronto finale per questa sfida suprema. Ma è in funzione di essa che viene messa in opera l’immensa struttura dell’apparato militare americano.

La posta in gioco è dunque il futuro del mondo, come è previsto e come si progetta che sia. Un mondo nel quale una parte (peraltro minore) sarebbe fatta di “democrazie”, e l’altra, a cui si oppone, sarebbe quella delle “autocrazie”, considerate costitutivamente minacciose e aggressive, in quanto non farebbero che operare per minare le democrazie ed esportare un modello di governo contrassegnato dalla repressione all’interno e dalla coercizione fuori. È un mondo diviso tra quattro grandi soggetti considerati come contrapposti e in lotta fra loro: 1) Gli Stati Uniti e i loro alleati e partner; 2); la Cina; 3) la Russia, la Corea del Nord e le organizzazioni violente e estremiste, cioè il terrorismo; 4) la “zona grigia” che non è integrata in nessuno dei tre campi suddetti. L’Europa non è considerata come un soggetto autonomo, e purtroppo con ragione se, come documenta questo libro, essa stessa si è “annullata” in questa guerra , l’ONU è fuori gioco, le sfide ecologiche vengono prese in carico solo in quanto interferiscono con l’operato delle Forze Armate americane.

Se davvero lo stato del mondo dovesse essere questo, e diventare il teatro di questo “finale di partita” tra l’Occidente atlantico e la Cina, sarebbe un mondo da brividi.

Che fare per tornare a una convivenza pacifica, per fermare le pulsioni alla guerra? Non certo con le armi, armi contro armi, cosa del resto impossibile data la straripante superiorità dell’apparato militare americano. C’è però la via della ragione, del dialogo, del confronto tra le diverse visioni del mondo. Il punto è che gli Stati Uniti dovrebbero non più essere motivati a pensare che il mondo è troppo pericoloso per loro, e che l’unico modo per garantire “la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” è di dominarlo, e di attrezzare una potenza tale che nessun altro “non solo possa superare, ma neanche eguagliare”: che è la formula dell’Impero.

Questo compito di aiutare gli Stati Uniti a cambiare la loro visione del mondo, a cercare la loro sicurezza non nella superiorità militare, pronta alla guerra e a vincerla, ma nel condurre la comunità degli Stati a relazioni amichevoli, oneste e pacifiche, o almeno, in ogni caso, a sposare la causa, che sembrava a portata di mano nel 1989 (la famosa “caduta” del muro!) di una coesistenza pacifica, tocca all’Italia e all’Europa, con il loro retaggio di civiltà e di memorie. Per 167 volte nel documento firmato da Biden sulla “Strategia della sicurezza nazionale americana”, si dice che tutto quello che gli Stati Uniti devono fare nel mondo, le cose meravigliose e quelle cruente, lo vogliono fare con i loro “alleati e partners”, e solo se questi non lo fanno, lo faranno da soli. Nel documento sulla difesa, questa partnership è citata 77 volte. Lasciando da parte il richiamo alle alleanze militari, che non sono fatte certo per cambiare il mondo (e lo dimostrano la “svolta” della NATO a Ramstein, qui richiamata, come il verdetto della sua assemblea parlamentare), si può far appello alla natura della partnership: partners non sono certo quelli che obbediscono, che non hanno alcuna voce in capitolo sulle scelte dell’associato maggiore, che non sono portatori di una loro visione del mondo. Ed è appunto la visione del mondo che bisogna cambiare, per non riempire di armi l’universo (anche lo spazio!), per non pensare di gettare fuori della storia, e dei mercati, questo o quel “concorrente strategico”, per non programmare la riduzione della Russia a condizioni di “paria” e la candidatura della Cina a vittima designata della resa di conti finale.

L’America viene da un’origine, da una storia, da un mito, da una presunzione messianica che rende possibile che questo veramente accada. Intere generazioni, e anche quelle di oggi, hanno sognato un mondo diverso, perché, come dicono i vituperati “pacifisti”, non abbiamo altro mondo che questo. Non si vede perché proprio gli americani lo debbano volere così, pericoloso fino a morirne, o addirittura a finire nei bagliori dell’Apocalisse, dell’Armageddon, come dicono loro perfino nei film.

Questo libro dovrebbe entrare nella cassetta degli attrezzi, per aiutarci a inventare e produrre questo mondo diverso.

Raniero La Valle


Domenico Gallo

Nato ad Avellino l’1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)

LINK per acquistare il libro:

http://www.delta3edizioni.com/bookshop/catalogo/395-guerra-ucraina-9791255140948.html

Ripudiare la pace e giocare a scacchi con la morte

Dal ripudio della guerra, lascito della Resistenza, siamo passati al ripudio della pace. Sullo sfondo l’apocalisse nucleare

di Domenico Gallo

L’annunzio di pace della Resistenza è stato fatto proprio dai Costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello jus ad bellum dalle prerogative della sovranità espellendo la guerra, non dalla storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico. Qui la Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e princìpi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e la giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali. Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine “Italia”, per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre. L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno («L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11). È stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea. Tuttavia le limitazioni di sovranità, anche se possono raggiungere livelli molto intensi, espropriando il Parlamento del potere di adottare le norme di legge riservate alla legislazione comunitaria, non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione, quello che non può essere neppure sottoposto al potere di revisione costituzionale, vale a dire i princìpi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana (Corte costituzionale, 19 novembre 1987, n. 399). Il ripudio della guerra è riconosciuto dalla dottrina giuridica come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.

L’art. 11 della Costituzione è una disposizione complessa: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È formata da tre proposizioni collegate all’interno dello stesso periodo. Essa contiene una norma di scopo (che vincola la Repubblica italiana a perseguire la pace e la giustizia fra le Nazioni) e tre norme strumentali (il ripudio della guerra, l’accettazione di limitazioni di sovranità finalizzate alla pace e alla giustizia e il favore per le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo). Il ripudio della guerra, come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, non è separabile dall’impegno per la pace e la giustizia fra le Nazioni, o meglio la costruzione di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni presuppone il ripudio della guerra, in conformità allo Statuto delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati membri ad astenersi dall’uso e dalla minaccia dell’uso della forza.

Sebbene sia intimamente legato all’identità dell’Italia, il principio pacifista di cui all’art. 11 è andato incontro a un progressivo deperimento, di pari passo con il progressivo imbarbarimento delle relazioni internazionali. Seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori, politici e giuristi hanno banalizzato sempre di più il principio pacifista, fino ad ipotizzare la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo). Con la prima guerra del Golfo (1991) si è cominciato a separare il ripudio della guerra dal resto della disposizione, leggendo il fine di favorire le organizzazioni internazionali come prevalente sul ripudio della guerra, e la guerra stessa è stata mascherata come operazione di “polizia internazionale”. Dopo lo scoppio della guerra, iniziata il 24 febbraio dello scorso anno con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è stato tirato in ballo il principio pacifista, letto alla luce dell’art. 51 dello Statuto ONU, che riconosce il diritto naturale di autotutela, individuale e collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro uno Stato, e dell’art. 52 della Costituzione, che pone la difesa della Patria come unica eccezione al ripudio della guerra. Quando l’Italia ha deciso di rompere la neutralità e inviare le armi all’Ucraina, molti giuristi, come l’ex Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, si sono levati per darci l’interpretazione giusta del principio pacifista e spiegarci che la partecipazione indiretta dell’Italia alla guerra è consentita, se non costituisce addirittura un obbligo costituzionale. Peccato che quando la NATO ha aggredito l’ex Jugoslavia nel 1999, bombardandola per 78 giorni, coloro che adesso impugnano l’art. 11 per legittimare le armi italiane, sono rimasti assolutamente silenti, hanno steso un velo pietoso sul principio pacifista, dimenticandosi persino della sua esistenza nel dibattito pubblico. Del resto, il Governo dell’epoca ha nascosto accuratamente la partecipazione dell’Italia alle missioni di bombardamento sulla Serbia. Soltanto qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato del contributo del nostro paese alla guerra. L’Italia ha partecipato ai bombardamenti con l’utilizzo di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato «115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16» (così Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002). Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati.

Da quando è iniziata la tragedia della guerra il 24 febbraio, non è esploso soltanto un conflitto fondato sulla violenza delle armi, è dilagato in tutt’Europa lo spirito nefasto della guerra, si è materializzata l’immagine del nemico ed è iniziata una mobilitazione bellica della comunicazione, della cultura, delle coscienze. Dalla condanna unanime, secca e senza appello dell’aggressione russa all’Ucraina, si è passati velocemente all’acritica accettazione della logica della guerra. Di fronte a questo disastro, segno tangibile del fallimento della politica di sicurezza e cooperazione in Europa, le principali forze politiche, non solo in Italia, con il conforto del fuoco di sbarramento unanime dei mass media, hanno assunto il linguaggio della guerra e si sono esercitate in una guerra delle parole contro il nemico. Lo spirito di guerra comporta una divisione manichea dell’umanità, per cui tutto il male sta dalla parte del nemico e tutto il bene dall’altra. Il dissenso non è tollerato perché giova al nemico. La narrazione ufficiale della guerra, imposta come pensiero unico è quella dello scontro di civiltà, dei regimi autocratici che odiano la democrazia e vogliono distruggerla.

La guerra non si combatte solo con le armi, da noi si combatte soprattutto con le parole della politica e dei media. Così l’ANPI, Associazione italiana dei partigiani, colpevole di non essersi accodata al coro bellico, viene tradotta dal Corriere della Sera in Associazione Nazionale Putiniani d’Italia. L’ANPI è fastidiosa perché tramanda il patrimonio morale della resistenza, ci ricorda il principio costituzionale del ripudio della guerra, una petizione di principio che Galli della Loggia non sapeva se qualificare «più bizzarra o più patetica», osservando sul primo numero di Limes (1993) che la norma sul ripudio della guerra: «cerca di cancellare il dato storico di ovvia evidenza che vede da sempre la guerra come il fuoco concettuale e pratico della politica internazionale […]. È come dire l’Italia ripudia l’esistenza dell’ossigeno». La favola della guerra come scontro fra la Democrazia e l’Autocrazia, ha come posta l’obiettivo di sdoganare la guerra come strumento ordinario e necessario della politica e quindi di ripudiare il ripudio della guerra: la guerra come ossigeno dei popoli, secondo Galli della Loggia.

Ovviamente non possiamo ignorare, il «diritto naturale di autotutela nel caso abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite», riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’ONU. Lo Statuto dell’ONU riconosce il diritto di resistenza con le armi a fronte di un’aggressione in atto, ma ciò non legittima una guerra senza fine e senza limiti. Infatti il diritto di resistenza è valido «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In questo caso, in mancanza di un intervento autoritativo del Consiglio di Sicurezza, tutti gli attori internazionali, a cominciare dai contendenti, devono attivarsi per restaurare la pace, poiché la guerra – secondo il Preambolo della Carta – resta, pur sempre un flagello che procura indicibili afflizioni all’umanità. Invece noi sappiamo (l’ha rivelato l’ex premier israeliano Bennet) che, dopo nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto, il 5 marzo le parti stavano per concludere un accordo di pace. Tant’è vero che il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava il piano di pace in 15 punti che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Ebbene quella possibilità di restaurare la pace nella regione è stata sventata dal veto di Biden e Johnson, che hanno istigato l’Ucraina a respingere ogni mediazione, incoraggiandola a puntare sulla sconfitta militare della Russia, realizzabile con il massiccio sostegno finanziario, militare e di intelligence di USA, GB, UE e di altri paesi occidentali.

Dal 17 marzo 2022, il conflitto ha perso la natura di una resistenza legittima dell’Ucraina a un’aggressione altrui, ed è diventata una guerra in cui un’alleanza di oltre 30 Stati cerca di infliggere una batosta militare alla Russia, utilizzando il sangue degli ucraini. Una resistenza militare a un’aggressione si è trasformata in una guerra di posizione, come la Prima guerra mondiale, in cui i belligeranti cercano di distruggersi a vicenda. Eppure la Prima guerra mondiale dovrebbe averci insegnato che, a fronte di un conflitto così violento, spietato e prolungato nel tempo, non esiste la “vittoria”, perché una tale guerra è un male in sé, è un evento diabolico che produce sofferenze indicibili a tutte le parti in conflitto, che nessun obiettivo politico può giustificare. La pretesa della NATO, dell’UE e degli altri paesi della Santa alleanza occidentale di fornire un crescendo di aiuti militari all’Ucraina per consentirle di vincere rapidamente la guerra ha come unico sbocco la continuazione di una strage insensata e senza fine. Ciononostante ci stiamo muovendo verso un’intensificazione dello scontro militare. Gli ucraini prevedono il lancio di una controffensiva di primavera con l’obiettivo di travolgere le forze d’occupazione russe e di recuperare tutti i territori persi nel 2014, ivi compresa la Crimea, che da 9 anni è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. Stiamo fornendo l’Ucraina di sistemi d’arma sempre più performanti, ma se le forze armate ucraine dovessero dilagare in Crimea, insidiando la base della marina russa a Sebastopoli, chi ci può assicurare che la Russia si arrenderà, e accetterà di essere smembrata, senza porre mano all’arsenale nucleare? Pretendere di sconfiggere ed umiliare una superpotenza dotata di 6.000 testate nucleari è come giocare a scacchi con la morte. Senza volerlo e senza rendercene conto ci stiamo avviando sulla via per Harmageddon. Secondo l’Apocalisse gli spiriti maligni partoriti dalla Bestia andarono dai Re di tutta la terra per radunarli «per la battaglia del gran giorno del Dio onnipotente». Essi radunarono i Re nel luogo che in ebraico si chiama Harmageddon (Apocalisse, 16,1). L’apocalisse segnerà la fine della storia, ma noi vogliamo fermamente che la storia continui. Per arrestare questa marcia verso Harmageddon, la cosa più urgente è fermare il conflitto in Ucraina, spegnere l’incendio prima che si estenda al resto del mondo.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2023/05/ripudiare-la-pace-e-giocare-a-scacchi-con-la-morte/

USA: Il nemico interno

di Chris Hedges

Chris Hedges: Foto Wikipedia

L’industria bellica, uno Stato nello Stato, sventra la nazione, inciampa da un fiasco militare all’altro, ci priva delle libertà civili e ci spinge verso guerre suicide con Russia e Cina

L’America è una stratocrazia, una forma di governo dominata dai militari. È assiomatico che i due partiti al potere si preparino costantemente alla guerra. Gli enormi bilanci della macchina bellica sono sacrosanti. I suoi miliardi di dollari di sprechi e frodi sono ignorati. I suoi fallimenti militari nel Sud-Est asiatico, in Asia centrale e in Medio Oriente sono scomparsi nella vasta caverna dell’amnesia storica. Questa amnesia, che significa che non c’è mai responsabilità, permette alla macchina da guerra di sventrare economicamente il Paese e di spingere l’Impero in un conflitto autolesionista dopo l’altro. I militaristi vincono ogni elezione. Non possono perdere. È impossibile votare contro di loro. Lo Stato di guerra è una Götterdämmerung, come scrive Dwight Macdonald, “il crepuscolo degli Dei senza gli dei”.

Dalla fine della Seconda guerra mondiale, il governo federale ha speso più della metà dei soldi delle tasse per le operazioni militari passate, presenti e future. È la più grande attività di sostegno del governo. I sistemi militari vengono venduti prima di essere prodotti, con la garanzia che gli enormi sforamenti dei costi saranno coperti. Gli aiuti esteri sono condizionati all’acquisto di armi statunitensi. L’Egitto, che riceve circa 1,3 miliardi di dollari di finanziamenti militari stranieri, deve destinarli all’acquisto e alla manutenzione di sistemi d’arma statunitensi. Israele ha ricevuto 158 miliardi di dollari in assistenza bilaterale dagli Stati Uniti dal 1949, quasi tutti dal 1971 sotto forma di aiuti militari, la maggior parte dei quali destinati all’acquisto di armi dai produttori statunitensi. Il pubblico americano finanzia la ricerca, lo sviluppo e la costruzione di sistemi d’arma e poi acquista questi stessi sistemi d’arma per conto di governi stranieri. È un sistema circolare di welfare aziendale.

Tra l’ottobre 2021 e il settembre 2022, gli Stati Uniti hanno speso 877 miliardi di dollari per le forze armate, più dei 10 Paesi successivi, tra cui Cina, Russia, Germania, Francia e Regno Unito messi insieme. Queste enormi spese militari, insieme ai costi crescenti di un sistema sanitario a scopo di lucro, hanno portato il debito nazionale degli Stati Uniti a oltre 31.000 miliardi di dollari, quasi 5.000 miliardi in più dell’intero Prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti. Questo squilibrio non è sostenibile, soprattutto quando il dollaro non sarà più la valuta di riserva mondiale. A gennaio 2023, gli Stati Uniti hanno speso la cifra record di 213 miliardi di dollari per il servizio degli interessi sul debito nazionale.

Il pubblico, bombardato dalla propaganda di guerra, esulta per il proprio autosacrificio. Si rallegra della spregevole bellezza delle nostre prodezze militari. Parla con i luoghi comuni che distruggono il pensiero, vomitati dalla cultura di massa e dai mass media. Si imbeve dell’illusione di onnipotenza e si crogiola nell’autoadulazione.

L’intossicazione della guerra è una piaga. Dà un’emozione che non conosce la logica, la ragione o i fatti. Nessuna nazione ne è immune. L’errore più grave commesso dai socialisti europei alla vigilia della Prima guerra mondiale fu la convinzione che le classi lavoratrici di Francia, Germania, Italia, Impero austro-ungarico, Russia e Gran Bretagna non si sarebbero divise in tribù antagoniste a causa delle dispute tra i governi imperialisti. I socialisti si assicurarono che non avrebbero firmato per il massacro suicida di milioni di lavoratori nelle trincee. Invece, quasi tutti i leader socialisti abbandonarono la loro piattaforma contro la guerra per sostenere l’entrata in guerra della loro nazione. I pochi che non lo fecero, come Rosa Luxemburg, furono mandati in prigione.

Una società dominata dai militaristi distorce le sue istituzioni sociali, culturali, economiche e politiche per servire gli interessi dell’industria bellica. L’essenza dell’esercito è mascherata da sotterfugi: usare le forze armate per svolgere missioni di soccorso umanitario, evacuare i civili in pericolo, come vediamo in Sudan, definire l’aggressione militare come “intervento umanitario” o come un modo per proteggere la democrazia e la libertà, o lodare l’esercito come se svolgesse una funzione civica vitale insegnando leadership, responsabilità, etica e competenze alle giovani reclute. Il vero volto dell’esercito – il massacro industriale – è nascosto.

Il mantra dello Stato militarizzato è la sicurezza nazionale. Se ogni discussione inizia con una domanda sulla sicurezza nazionale, ogni risposta include la forza o la minaccia della forza. La preoccupazione per le minacce interne ed esterne divide il mondo in amici e nemici, in buoni e cattivi. Le società militarizzate sono terreno fertile per i demagoghi. I militaristi, come i demagoghi, vedono le altre nazioni e culture a loro immagine e somiglianza – minacciose e aggressive. Cercano solo il dominio.

Non era nel nostro interesse nazionale fare la guerra per due decenni in Medio Oriente. Non è nel nostro interesse nazionale entrare in guerra con la Russia o la Cina. Ma i militaristi hanno bisogno della guerra come un vampiro ha bisogno di sangue.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov e poi Vladimir Putin hanno fatto pressioni per essere integrati nelle alleanze economiche e militari occidentali. Un’alleanza che includesse la Russia avrebbe annullato le richieste di espansione della NATO – che gli Stati Uniti avevano promesso di non fare oltre i confini di una Germania unificata – e avrebbe reso impossibile convincere i Paesi dell’Europa orientale e centrale a spendere miliardi in hardware militare statunitense. Le richieste di Mosca sono state respinte. La Russia è diventata il nemico, che lo volesse o meno. Niente di tutto questo ci ha reso più sicuri. La decisione di Washington di interferire negli affari interni dell’Ucraina, appoggiando un colpo di Stato nel 2014, ha scatenato una guerra civile e la successiva invasione della Russia.

Ma per coloro che traggono profitto dalla guerra, inimicarsi la Russia, come inimicarsi la Cina, è un buon modello di business. Northrop Grumman e Lockheed Martin hanno visto le loro quotazioni azionarie aumentare rispettivamente del 40% e del 37% a seguito del conflitto in Ucraina.

Una guerra con la Cina, ora un gigante industriale, interromperebbe la catena di approvvigionamento globale con effetti devastanti sull’economia statunitense e mondiale. Apple produce il 90% dei suoi prodotti in Cina. L’anno scorso il commercio degli Stati Uniti con la Cina è stato di 690,6 miliardi di dollari. Nel 2004, la produzione manifatturiera statunitense era più del doppio di quella cinese. Oggi la produzione cinese è quasi il doppio di quella degli Stati Uniti. La Cina produce il maggior numero di navi, acciaio e smartphone al mondo. Domina la produzione globale di prodotti chimici, metalli, attrezzature industriali pesanti ed elettronica. È il maggior esportatore mondiale di minerali di terre rare, ne detiene le maggiori riserve ed è responsabile dell’80% della loro raffinazione a livello mondiale. I minerali di terre rare sono essenziali per la produzione di chip per computer, smartphone, schermi televisivi, apparecchiature mediche, lampadine fluorescenti, automobili, turbine eoliche, bombe intelligenti, jet da combattimento e comunicazioni satellitari.

Una guerra con la Cina provocherebbe una carenza massiccia di una serie di beni e risorse, alcuni vitali per l’industria bellica, paralizzando le imprese statunitensi. L’inflazione e la disoccupazione salirebbero alle stelle. Verrebbe attuato il razionamento. Le borse mondiali, almeno nel breve periodo, verrebbero chiuse. Si scatenerebbe una depressione globale. Se la Marina statunitense fosse in grado di bloccare le spedizioni di petrolio alla Cina e di interrompere le sue rotte marittime, il conflitto potrebbe potenzialmente diventare nucleare.

In “NATO 2030: Unified for a New Era”, l’alleanza militare vede il futuro come una battaglia per l’egemonia con gli Stati rivali, in particolare la Cina. Il documento invita a prepararsi a un conflitto globale prolungato. Nell’ottobre 2022, il generale dell’aeronautica Mike Minihan, capo del Comando della mobilità aerea, ha presentato il suo “Manifesto della mobilità” a una conferenza militare gremita. Durante questa folle diatriba sulla paura, Minihan ha sostenuto che se gli Stati Uniti non intensificano drasticamente i preparativi per una guerra con la Cina, i figli dell’America si troveranno “asserviti a un ordine basato su regole che avvantaggia solo un Paese [la Cina]”.

Secondo il New York Times, il Corpo dei Marines sta addestrando le unità per gli assalti alle spiagge, dove il Pentagono ritiene che possano verificarsi i primi scontri con la Cina, attraverso “la prima catena di isole” che comprende “Okinawa e Taiwan fino alla Malesia, nonché il Mar Cinese Meridionale e le isole contese delle Spratlys e delle Paracels”.

I militaristi sottraggono fondi ai programmi sociali e infrastrutturali. Versano denaro nella ricerca e nello sviluppo di sistemi d’arma e trascurano le tecnologie per le energie rinnovabili. Ponti, strade, reti elettriche e argini crollano. Le scuole decadono. La produzione nazionale diminuisce. La popolazione si impoverisce. Le dure forme di controllo sperimentate e perfezionate dai militaristi all’estero migrano in patria. Polizia militarizzata. Droni militarizzati. Sorveglianza. Vasti complessi carcerari. Sospensione delle libertà civili di base. Censura.

Coloro che, come Julian Assange, sfidano la stratocrazia, ne denunciano i crimini e la follia suicida, sono perseguitati senza pietà. Ma lo Stato di guerra nasconde in sé i semi della propria distruzione. Cannibalizzerà la nazione fino a farla crollare. Prima di allora, si scatenerà come un ciclope accecato, cercando di ripristinare il suo potere decrescente attraverso la violenza indiscriminata. La tragedia non è che lo stato di guerra degli Stati Uniti si autodistruggerà. La tragedia è che porteremo con noi tanti innocenti.


Traduzione di Enzo Pellegrin per Resistenze.org

Scheerpost.com

Globalresearch.ca

Chris Hedges è un giornalista vincitore del premio Pulitzer che è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha ricoperto il ruolo di capo ufficio per il Medio Oriente e capo ufficio per i Balcani. In precedenza ha lavorato all’estero per il Dallas Morning News, il Christian Science Monitor e la NPR. È il conduttore del programma The Chris Hedges Report.

(Articolo tratto da: sinistrainrete.info)

Come ci vedono gli altri: “L’Occidente e la maggioranza del mondo: Repressione contro apertura”

Fin dall’inizio, i leader dei Paesi dell’ALBA hanno denunciato il brutale sfruttamento e dominio dell’imperialismo nordamericano ed europeo e la sua diplomazia da gangster: “Fate quello che vogliamo, altrimenti…”.

di Stephen Sefton

Immagine di Stephen Sefton – Fonte: Telesur

Nel 2004, il Comandante Fidel Castro e il Comandante Hugo Chávez hanno fondato quella che oggi è l’Alleanza Bolivariana dei Popoli della Nostra America, ALBA, che oggi comprende Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela e le nazioni insulari caraibiche di Saint Vincent e Grenadine, Dominica, Saint Kitts e Nevis, Grenada, Antigua e Barbuda e Santa Lucía. Un anno prima, nel 2003, è stata formalmente costituita l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che ora comprende Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Iran. Entrambe le organizzazioni condividono praticamente gli stessi principi di solidarietà, uguaglianza tra i membri e rispetto reciproco per le diverse ideologie. Ciò suggerisce che, in quello stesso periodo, in diversi poli del mondo maggioritario, è sorta una decisione comune di costruire un mondo libero dallo strangolamento economico e dall’aggressione neocoloniale degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

Fin dalla sua nascita, i leader dei paesi dell’ALBA hanno denunciato il brutale sfruttamento e dominio dell’imperialismo nordamericano ed europeo e la sua diplomazia da gangster del “fate quello che vogliamo o altrimenti…”. Nel maggio di quest’anno, il Presidente Comandante Daniel Ortega ha dichiarato al 21° Vertice ALBA-TCP: “Non hanno smesso di praticare la Dottrina Monroe, non hanno rinunciato alla Dottrina Monroe. In nome della democrazia, impongono una politica internazionale tirannica, imperialista, terrorista… l’imperialismo non è cambiato, l’essenza dell’imperialismo è lì, un’essenza totalmente criminale”.

In quella stessa riunione, il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha dichiarato: “Basta con i secoli di saccheggio, di invasioni, di minacce, di egemonismo imperiale, questo è il nostro secolo! Il XXI secolo… e il nostro cammino è quello dell’America Latina e dei Caraibi, dell’ALBA, della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, questo è il nostro cammino, il cammino degli uguali, il cammino del rispetto, il cammino dell’inclusione, il cammino della convocazione unitaria, questo è il nostro cammino”.

Nello stesso vertice, anche il presidente di Cuba Miguel Díaz Canel ha espresso l’impegno dei Paesi dell’ALBA per l’unità tra le diversità “Di fronte ai tentativi di esclusione e selettività, è urgente rafforzare gli autentici meccanismi dell’America Latina e dei Caraibi per integrarsi e agire di concerto. Insieme saremo in grado di difendere efficacemente la nostra sovranità e la nostra autodeterminazione senza interferenze o pressioni esterne….Chiamiamo a unire, non a dividere; a contribuire, non a sottrarre; a dialogare, non a confrontarci; a rispettare, non a imporre”.

Dopo decenni di provocazioni sempre più aggressive da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, nel febbraio di quest’anno la Federazione Russa ha finalmente agito per difendersi. Nel suo storico discorso del 30 settembre, il Presidente Vladimir Putin ha elaborato la visione di un mondo multipolare, basato sugli stessi principi dell’ALBA e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai: cooperazione genuina, rispetto tra pari, unità nella diversità, impegno per il dialogo e il diritto internazionale. La somiglianza tra la visione dei leader dei Paesi dell’ALBA e quella espressa dal Presidente Putin nel suo discorso è molto evidente.

Egli ha parlato della fiducia dei popoli del mondo maggioritario in un mondo multipolare per “rafforzare la loro sovranità e, quindi, acquisire la vera libertà, la prospettiva storica, il diritto a uno sviluppo indipendente, creativo, autentico, a un processo armonioso”. Il Presidente Putin ha chiarito che si tratta anche di fiducia nella capacità umana di superare le differenze, collaborare per il bene comune e creare un mondo solidale. Ha dichiarato esplicitamente: “I nostri valori sono l’amore per il prossimo, la misericordia e la compassione”.

Il contrasto di queste visioni comuni dei Paesi dell’ALBA, della Russia, della Cina e dei loro alleati con la prassi dell’Occidente non potrebbe essere più forte. Come afferma il Presidente Putin, “i Paesi occidentali dicono da secoli di portare libertà e democrazia alle altre nazioni. Tutto è esattamente il contrario: la democrazia diventa repressione e sfruttamento; la libertà, schiavitù e violenza. L’intero ordine mondiale unipolare è intrinsecamente antidemocratico e privo di libertà. È mendace e ipocrita fino al midollo”.

La verità di questa condanna categorica degli Stati Uniti e dei suoi alleati è evidente nella storia coloniale dell’imperialismo, dalle sue origini alla sua evoluzione nell’ultimo secolo fino al neocolonialismo. Negli Stati Uniti e in Europa, da quando l’introduzione del suffragio universale nel secolo scorso ha permesso alle élite occidentali di spacciare le loro nazioni come democrazie, in pratica, in cambio della garanzia dello sviluppo socio-economico delle loro popolazioni, queste élite hanno potuto contare sui popoli dei loro Paesi per collaborare al saccheggio del mondo maggioritario. In questo modo, i popoli di Africa, Asia e America Latina hanno pagato i costi della prosperità e dello sviluppo delle nazioni occidentali e, in un modo o nell’altro, continuano a farlo.

Tuttavia, la portata del potere geopolitico e del controllo della maggioranza delle risorse mondiali da parte delle élite occidentali è ora più limitata. In parte, questa battuta d’arresto per l’Occidente deriva dalla crescente cooperazione e dal potere commerciale e finanziario delle nazioni dello spazio eurasiatico. A sua volta, la crescente attività economica e diplomatica di Cina, Russia e dei loro alleati ha favorito lo sviluppo delle loro relazioni con le nazioni dell’Africa, dell’America Latina e dei Caraibi, in particolare con i Paesi e i popoli impegnati nella difesa della propria sovranità.

La risposta disperata al relativo declino del loro potere globale da parte delle oligarchie americane ed europee assume tre forme principali. In primo luogo, nei loro Paesi aumentano lo sfruttamento della forza lavoro e la repressione del dissenso. In secondo luogo, agiscono con maggiore aggressività di ogni tipo contro la Russia e la Cina e i loro alleati regionali come Cuba, Venezuela e Nicaragua o Siria, Iran e Repubblica Democratica di Corea. E la terza forma di reazione occidentale al loro declino consiste nell’applicare maggiori intimidazioni e vessazioni contro i Paesi vulnerabili alle pressioni economiche per assicurarsi che rimangano obbedienti.

In Nord America e in Europa, le politiche neoliberiste attuate a partire dagli anni ’80 hanno normalizzato la repressione e lo sfruttamento economico. Negli Stati Uniti è in atto un’offensiva politica permanente contro il sistema di sicurezza sociale e gli investimenti nei servizi pubblici in generale. In Europa, i servizi pubblici vengono tagliati o privatizzati. Negli Stati Uniti e nell’Unione Europea ci sono stati enormi trasferimenti di ricchezza alle élite aziendali, sia durante la crisi finanziaria del 2008-2009, sia come parte delle misure finanziarie in risposta al collasso economico causato dalle misure di contrasto alla Covid-19. Allo stesso tempo, anche il FMI riconosce che la retribuzione del lavoro in Occidente è diminuita in termini reali. Allo stesso modo, le condizioni di lavoro delle persone in tutto l’Occidente stanno diventando sempre più precarie. Negli Stati Uniti solo il 10% della forza lavoro è organizzata in sindacati. Nei Paesi europei la media è del 23% e in genere molto più bassa.

È impossibile riassumere sinteticamente tutte le sfumature di questa realtà. Ma tra i principali effetti associati all’aumento della repressione economica interna nei Paesi occidentali e all’incremento dell’aggressione all’estero, ci sono la censura sui social network e la soppressione delle informazioni nei media, soprattutto sugli eventi internazionali. Queste pratiche rafforzano la vasta e intensa guerra psicologica dell’Occidente contro la maggioranza del mondo e facilitano l’aggressione economica e militare e il terrorismo degli Stati Uniti e dei loro alleati contro qualsiasi nazione che cerchi di difendere la propria sovranità e indipendenza.

Questo segna un profondo e irreparabile crollo dell’integrità morale e intellettuale da parte delle élite occidentali e dei loro popoli, segnalando una sconfitta spirituale completa e insidiosa. D’altro canto, un numero crescente di governi e popoli del mondo maggioritario insiste sul proprio diritto sovrano di gestire le relazioni internazionali a livello internazionale, in modo da aprire e promuovere nuove possibilità di sviluppo nazionale, regionale e internazionale. Forse l’espressione più importante di questa fiducia nel futuro è l’ampio sostegno al cosiddetto gruppo di Paesi BRICS+, originariamente organizzato da Cina, Russia, India, Brasile e Sudafrica, da parte di Paesi di tutto il mondo, tra cui Iran, Algeria, Turchia, Argentina, Egitto, Indonesia, Kazakistan, Nigeria, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Senegal, Thailandia e persino Nicaragua.

Molte nazioni della maggioranza del mondo sono chiaramente d’accordo con le opinioni del Primo Ministro Ralph Gonsalves di Saint Vincent e Grenadine, che quest’anno ha osservato il 19 luglio nella Plaza de la Revolución di Managua, in occasione del 43° anniversario della Rivoluzione Sandinista: “Vengo da un piccolo paese del nostro emisfero, ma questo piccolo paese crede e sottoscrive grandi principi: La difesa della sovranità e dell’indipendenza, la non interferenza e il non intervento nei nostri affari; in modo da poter guidare noi stessi e le nostre civiltà verso il futuro, e poter camminare insieme a tutti i popoli del mondo, in amicizia ma non in subordinazione. In questo senso, siamo amici di tutti e aspiriamo a un mondo migliore”.

Pubblicato su Telesur il 24 Novembre 2022

FONTE: https://www.telesurenglish.net/opinion/The-West-and-the-Majority-World—Repression-Versus-Openness-20221124-0016.html?utm_source=planisys&utm_medium=NewsletterIngles&utm_campaign=NewsletterIngles&utm_content=32

Traduzione: Campbiailmondo.org

Simposio su: Intelligenza Artificiale, una Sfida per l’Umanità (Video registrazione)

Intelligenza Artificiale – Una Sfida per l’Umanità

Un gruppo di persone di diversa estrazione, ma tutti preoccupati dell’irrompere della Intelligenza Artificiale nella società, senza nessun dibattito pubblico, hanno dato vita a un Simposio, che si è tanuto a Roma il 30 marzo scorso, con oltre cento partecipanti.

Il simposio non era dedicato alla IA come un fatto tecnico. intendeva solo creare coscienza su un fenomeno che avrà un impatto irreversibile, e discutere questo impatto nei vari settori, dalla educazione alla sanità, dal lavoro all’impatto sulla democrazia liberale, e creare coscienza su due temi: se il bilancio sarà positivo, e quali misure di governabilità andrebbero prese per impedire che la proprietà in poche mani non si trasformi in uno strumento di potere senza precedenti, senza trasparenza e senza valori su cui fondare l’uso della IA.

FONTE: https://www.other-news.info/italia/

Sergio Bellucci, membro del Comitato Promotore della conferenza, è il primo Speaker. Maggiori Info e Materiale della Conferenza del 30 Marzo 2023

Sergio Bellucci, membro del Comitato Promotore della conferenza, è il primo Speaker. Maggiori Info e Materiale della Conferenza del 30 Marzo 2023
Intervento di replica di Sergio Bellucci dopo i commenti al primo panel.

VIDEO INTEGRALE DELL’INTERO SIMPOSIO

Video suddivisi per interventi:

Video di saluto del Rettore Francisco Rojas Aravena – University for Peace

Discorso di apertura Roberto Savio a nome del Comitato Promotore


1° Speaker – Sergio Bellucci membro del Comitato Promotore

Risposta dello speaker Sergio Bellucci agli interventi


2° Speaker Rufo Guerreschi

Risposta dello speaker Rufo Guerreschi agli interventi


Introduzione di Roberto Savio del 3° Speaker

3° Speaker Don Andrea Ciucci


4° Speaker Teresa Numerico

Risposta della speaker Teresa Numerico agli interventi


5° Speaker Lazzaro Pappagallo

Risposta dello speaker Lazzaro Pappagallo agli interventi


6° Speaker Lucio Pascarelli membro del Comitato Promotore

Risposta dello speaker Lucio Pascarelli agli interventi


7° Speaker Elio Pascarelli

Risposta dello speaker Elio Pascarelli agli interventi


Discorso di Roberto Savio membro del Comitato Direttivo

FONTE: https://www.other-news.info/italia/registrazione-simposio/

La Previsione di Dos Santos

Considerazioni sulle società multinazionali

Il grafico è tratto da: S. Vitali, J.B. Glattfelder, and S. Battiston: “The network of global corporate control” – Zürich, September/2011

Premessa

Il saggio che segue comparve sul numero luglio-ottobre 1973 di Problemi del Socialismo, rivista diretta da Lelio Basso.

Il numero della rivista uscì a ridosso del golpe cileno. Si apriva con uno struggente “Epicedio per Salvador Allende”, dello stesso Lelio Basso che aveva seguito da vicino gli eventi cileni, l’ascesa di Unidad Popular e che condivideva con Allende una fraterna amicizia.

Il saggio di Theotonio Dos Santos riprende alcuni concetti espressi nella seconda parte (Praxis) del volume “!Bendita Crisis! – Socialismo y democracia en el Chile de Allende”, dove si susseguono diversi interventi di Dos Santos in concomitanza con gli eventi cileni del 1972, ma che fu pubblicato solo nel 2009 in Venezuela, per le Edizioni “El perro y la rana”, un progetto editoriale bolivariano che si apre con una “Carta abierta a Hugo Chavez” da parte di Dos Santos.

Si tratta del capitolo XIV: “Corporaciones multinacionales, imperialismo y estados nacionales” che contiene una sintesi parziale di quanto espresso più ampiamente nel presente saggio.

Quello scritto descrive essenzialmente il ruolo centrale delle multinazionali (nord-americane) nel destino del sottosviluppo latinoamericano, mentre non contiene né la lunga premessa analitica qui presente, né la interessantissima ricostruzione storica dell’affermarsi delle multinazionali nei paesi di insediamento per trasformarsi poi in soggetti “senza confini”; non contiene neanche la parte finale – quella che ci è sembrata particolarmente interessante ai fini di questa pubblicazione – che descrive le dinamiche e l’evoluzione contraddittoria delle relazioni e degli effetti prodotti dalle entità transnazionali, sia sullo stato di emanazione (USA) che sui paesi di insediamento.

Mentre gli effetti su questi ultimi sono abbastanza noti e corroborati da un’ampia letteratura, quelli sul paese di emanazione, come tendenze già individuabili allora, lo sono molto meno.

Dos Santos arriva infatti qui a ipotizzare che l’alternativa tendenziale tra fascismo o socialismo – titolo di un altro suo noto libro – non riguarderà solo i paesi “sottosviluppati”, come confermato dai golpe susseguitesi nei decenni che ci separano da allora, ma anche quelli da cui le multinazionali emanano, cioè quelli del nord, gli Usa in particolare.

Secondo Dos Santos la contraddizione centrale del multinazionalismo è che la piena libertà di movimento del capitale internazionale entra in conflitto (anche, ndr) con gli interessi del suo centro egemonico, tende a indebolirne l’economia e rende più profonde le sue contraddizioni interne”.

Nella evoluzione storica di queste entità multinazionali ci si emancipa progressivamente da un insediamento iniziale nel paese di arrivo a mo’ di “enclave” autosufficiente e autarchico, fino ad una integrazione progressiva nel contesto locale, sia in termini di relazioni sempre più strette con la forza lavoro, con le istituzioni e la politica, con gli altri settori produttivi, sia anche con una capacità di produzione e commercializzazione che tende alla progressiva emancipazione e sganciamento dalla casa madre, di modo che essa inizia ad esportare anche in paesi terzi e nello stesso paese di nascita, e a necessitare per tutto ciò, di supporto finanziario parallelo (che consente l’arrivo dalle banche estere), in definitiva ad agire come soggetto che può massimizzare i propri profitti in misura del suo grado di autonomia, inclusa quella di programmare investimenti in altri settori e in altri paesi rischiando anche di fare concorrenza alla casa madre.

La natura degli agglomerati transnazionali è dunque spuria: “La società multinazionale, intesa come una organizzazione internazionale, ha interessi, strategia, organizzazione e finanziamento propri. Da questo punto di vista ha i suoi interessi specifici all’interno dell’economia mondiale. Cosicché, teoricamente, potremmo pensare che la società multinazionale operi con un criterio diverso da quello dell’economia del paese dove ha il suo centro di operazioni. Sappiamo, tuttavia, che questa indipendenza della società multinazionale è relativa, dato che la sua forza economica è in gran parte basata sul potere dell’economia nazionale da cui essa prende l’avvio. Nello stesso tempo le sussidiarie sono sottoposte alla dinamica globale della società multinazionale e, insieme, alla capacità economica e alle leggi di sviluppo dell’economia in cui operano. Perciò la tendenza a sviluppare le sussidiarie in direzione del mercato interno, le fonti di rifornimento locale e la nazionalizzazione della produzione vengono a trovarsi in contrasto sia con gli interessi della società nel suo insieme, sia con quelli dell’economia del paese dominante.”

La logica ferrea del profitto, però, non guarda in faccia a nessuno, neanche alla propria madre o levatrice e, in prospettiva, costruisce un nuovo spazio autocentrato che entra in frizione col mondo circostante, sia quello locale, verso il quale tenta di imporre le proprie condizioni, sia quello lontano, ma strutturalmente più vincolante, costituito dal paese di emanazione. Si può affermare che, superata una certa soglia, gli appetiti crescono e il figlio si rimangia il padre.

Il conflitto tra dimensione territoriale (statuale) del potere e quello della connaturata qualità e capacità di spaziare oltre ogni confine, insita nella logica stessa del capitalismo e storicamente applicata nella secolare conquista coloniale che diventa l’imperialismo, può tornare indietro fino ai territori di partenza dell’entità multinazionale e sottoporre anche quei territori alla sua logica perenne. E’ anche una dimensione di conflitto tra pubblico (senza alcun giudizio di ordine morale) e privato; ma si afferma, egli dice, anche tra le parti costituenti la dimensione privata, i punti di articolazione della singola multinazionale.

Theotonio Dos Santos, come detto, scrive probabilmente tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, da Santiago del Cile, dove si è rifugiato fin dal 1966 dopo il golpe in Brasile. Insegna all’università di Santiago e fa parte del gruppo di consiglieri di Allende insieme ad altri sociologi, economisti militanti: Vania Bambirra (che è anche la sua compagna), Ruy Mauro Marini, come lui fuoriusciti e provenienti da Minas Gerais; André Gunder Frank, berlinese emigrato a Chicago, anche lui approdato a Santiago intorno al 1968; lì ci sono già due cileni, Orlando Caputo e Roberto Pizarro, ricercatori del CESO (Centro de Estudios Socio-Económicos – Universidad de Chile), che vengono aggregati al gruppo: sono i creatori della Teoria della Dipendenza, riarticolando le tesi di Paul Baran e Paul Swizy su sottosviluppo e capitale monopolistico e confrontandosi con quelle di Raùl Prebisch, argentino e di Celso Furtado anch’egli brasiliano, anch’essi ispiratori di Allende, verso i quali si sviluppa la polemica intorno alla praticabilità ed efficacia delle politiche economiche nazionaliste, di industrializzazione tramite sostituzione delle importazioni, ecc. che costituiva il cuore della proposta della CEPAL.

La Teoria della dipendenza propone una rottura decisiva nella chiave di lettura proposta fino ad allora: il sottosviluppo non è un ritardo storico rispetto ai centri motori del capitalismo, ma la condizione dell’esistenza stessa di questi centri motori; in altre parole, il centro propulsore esiste solo in quanto drena ed incamera risorse potenziali verso sé stesso e lascia nelle periferie le macerie di questo salasso. In questo processo si serve delle borghesie locali come garante e agente di controllo locale di tale processo; e può farlo poiché la loro esistenza è strettamente legata alla perpetuazione dell’estrazione ed esportazione di valore verso i paesi dominanti.

E’ da tali conclusioni che le proposte di alternative nazionaliste vengono messe in discussione come concretamente impraticabili o scarsamente produttive, come anche non risolutive e infondate saranno, secondo Dos Santos, le proposte “riformistiche” successive al periodo delle dittature sostenute, ad esempio in Brasile, da Fernando Henrique Cardoso, di “sviluppo nel sottosviluppo”, una contraddizione in termini e verificata.

Ma non è questo il luogo di un approfondimento della avvincente riflessione e discussione che si svilupperà proprio dopo il golpe cileno e quelli seguenti in tutta l’America Latina nel corso degli anni ‘70 (e alle incursioni e successive guerre dell’occidente, passando per la caduta dell’Urss e i cui esiti arrivano ai giorni nostri) e che riguarderanno anche altri importanti interpreti di questa teoria critica, da Emmanuel Wallerstein a Giovanni Arrighi, Hosea Jaffe e e proseguita da Michel Husson, David Harvey e molti altri.1

L’unica cosa che in questa sede vale la pena sottolineare è che, come probabilmente i teorici della Dipendenza avevano già capito, nel lungo percorso di mutazione dell’animale multinazionale, accade, come abbiamo visto, che può crescere il livello di industrializzazione del paese dipendente, certamente nella misura in cui esso rimane subalterno, ma tuttavia riducendo man mano i differenziali produttivi con il nord (iniziando dai settori a minor composizione organica di capitale) e trasformandosi, dopo molti anni, da “sottosviluppato” ad “emergente”.

Questa deve essere stata la considerazione, ancora non del tutto chiara, a cui era pervenuto Dos Santos in quegli anni; una cosa che necessitava di essere approfondita, ma non c’erano tempo e condizioni per farlo nei momenti tragici di metà 1973 a Santiago; quindi la chiusura della riflessione ne risente e la scorciatoia proposta è appunto quella dell’alternativa finale tra fascismo o socialismo anche nei paesi guida.

Cosa che presuppone che nel loro tragitto le multinazionali hanno visto crescere il proprio potere fino a determinare effetti economico-sociali contundenti anche nei punti di origine della loro avventura.

Quindi l’oggetto effettivo della riflessione del saggio non è già più la Dipendenza, ma le multinazionali in quanto tali, delle quali si intravvede che saranno il soggetto in grado di destrutturare un ordine e di ricrearne uno nuovo; non solo in un paese o in un gruppo di paesi dipendenti, ma a livello globale.

Più tardi, intorno a questi punti Arrighi postulerà le sue idee di evoluzione ciclica delle relazioni tra centri motore territoriali ed elementi strutturali egemonici che sono destinati a succedersi nel corso storico e a sostituirsi l’uno dopo l’altro in considerazione della capacità di riorganizzare meglio e più efficacemente la disponibilità di capitali e risorse. I momenti di passaggio, secondo Arrighi sono preceduti dall’estremo grado di finanziarizzazione che assume il sistema, con enormi sovrappiù di capitali che preferiscono mantenere una forma liquida piuttosto che misurarsi con il rischio dell’investimento produttivo. E quella che stiamo ora attraversando sarebbe proprio una di queste fasi che sboccherà nell’individuazione di un altro centro territoriale e culturale egemone da cui ripartire: la Cina.

Ma la cosa che colpisce nello scritto di Dos Santos è anche la descrizione delle dinamiche conflittuali all’interno stesso dell’agente centrale dei processi di globalizzazione, la società multinazionale; oltre alla dialettica che si produce non solo con i paesi di insediamento ma anche che con quello di emanazione. E la descrizione, che assume toni profetici, dell’esito finale di questa dialettica che riassume infine nell’opzione “fascismo o socialismo”; non solo nelle periferie, ma anche nei centri guida della globalizzazione.

Il saggio appare dunque come un frammento di un pensiero in fieri interrotto bruscamente, probabilmente proprio dal golpe cileno e del suo impatto sul gruppo che a Santiago andava realizzando il suo lavoro di ricerca.

A fronte dei terribili eventi del 1973 e seguenti, quella soglia temporale in cui la dialettica delle multinazionali avrebbe investito, con lo stesso dilemma (fascismo o socialismo), anche i paesi guida della globalizzazione appariva molto lontano e incerto, forse non così degno di essere approfondito nell’immediato, mentre il compañero Presidente moriva sotto il bombardamento del Palazzo de la Moneda.

Anche se successivamente, per altre vie, essa riemerge già in relazione al conflitto tra le spinte centripete e centrifughe dei grandi movimenti di capitali seguenti alla crisi energetica del 1974 tra USA ed Europa e alla fine della convertibilità del dollaro.

Parafrasando per incerte analogie alcuni concetti proposti da Caro Rovelli nel suo recente libro “Buchi bianchi” potremmo riassumere così: la moderna globalizzazione è lo stretto prodotto dell’azione delle multinazionali; essa si distingue da quella meramente mercantile di fino ’800/inizio ‘900; è prima estrattiva, poi produttiva e industriale; poi finanziaria. Via via che cresce e si consolida, la società multinazionale funziona come un buco nero; cioè interagisce ed è in grado di modificare le coordinate spaziali circostanti fino a modificarne gli spazi giuridici e politici “euclidei” fondati sul principio dello stato-nazione (in cui arriva), le modalità di funzionamento classiche dei suoi apparati amministrativi e di stimolare e introdurre altri processi normativi e ideologici; la sua crescente egemonia muta le culture e le narrazioni consolidate, fino alla stessa configurazione di centri e periferie territoriali, sostituendosi infine ad essi e inaugurando un tempo nuovo che si assottiglia fino a ridurre la storia alle sue esigenze fisiologiche di una soggettività isterica in permanente movimento e in sempre più rapida dislocazione, fino ad agire, necessariamente, solo come flusso di capitale sempre più svincolato dalla mediazione produttiva.

Il nuovo tempo che si afferma è dunque il tempo delle sue variazioni in termini di allargamento pluriverso in ogni direzione e di spostamenti sempre più repentini di investimenti collocati laddove la redditività attesa è maggiore, prescindendo da alcun elemento valoriale o culturale legato alla sua genesi, al suo dislocamento storico, o dispiegamento provvisorio. Fino a riprogettare e a riprodurre il vivente e l’umano tramite, magari, bio-reattori di proteine che sostituiscano la “mediazione” agricola per gli alimenti e con ciò annientando il vincolo fisico-chimico naturale, anche perché, nel frattempo lo ha distrutto.

Il tempo che ne scaturisce è quello di un perenne cambiamento del suo ipotetico centro che tende a corrispondere col suo scopo, il suo obiettivo, quello del profitto a brevissimo termine. Di fronte ad esso tutto può essere ed è sacrificato. Può dunque tornare anche al suo territorio di partenza con l’obiettivo di estrarne il massimo possibile allo stesso modo di come si è abituata a fare con tutte le periferie in cui ha transitato. Poiché il nuovo tempo è quello in cui il centro è mobile come il capitale in movimento e dunque le periferie spaziali si susseguono secondo le sue volontà. L’unica chances di queste successive periferie di stare in campo è quella di competere sull’offerta delle condizioni ottimali per un suo atterraggio dal cielo, visto che ormai è essenzialmente denaro astratto tenuto insieme dai tassi di interesse promessi agli investitori.

Questo suo transitare svincolato da ogni laccio determina cambiamenti nella sfera politica, sociale, culturale in ogni paese, spostamenti paralleli di masse umane da un paese all’altro, arricchimento o distruzione dei territori antropizzati, incide sul clima e sulla biosfera, cambia le coordinate dell’immaginario individuale e collettivo. E per consolidarsi come sistema ha un estremo bisogno di emanare una propria teologia sistemica che prescinda da altre intrusioni territoriali o statuali e che diventi egemone a prescindere da ogni confine. Anzi, il nuovo confine, che tutto ingloba, è proprio la sua narrazione.

Per questo sviluppa sempre di più i propri centri R&S non più quelli legati – solo – ai processi produttivi, ma quelli ideologici, della comunicazione, dell’educazione, della dottrina.

Siccome non esiste più una corrispondenza necessitata tra puntuazioni spaziali e capitale, non vi sono tendenzialmente limiti alla sua ulteriore concentrazione che è destinata a procedere fino ad inglobare successivamente in agglomerati sempre più grandi le stesse entità multinazionali che si sono emancipate singolarmente da territori e stati “a livelli che superano di molto la nostra immaginazione” dice Dos Santos, poiché lo spazio metafisico che hanno creato e in cui si trovano ad agire, conosce solo una legge gravitazionale definita da uno spazio giuridico unificato che deve essere tuttavia legittimato, prima della completa autonomia, dalle puntuazioni di potere statuale che è in condizione di determinare: gli accordi internazionali sul libero commercio di merci e capitali, sono questa cosa.

E’ immaginabile che lungo questa traiettoria i buchi neri più poderosi, ciascuno con i propri concorrenziali orizzonti degli eventi statuiscano orbite di equilibrio provvisorio tra di essi, con proprie galassie al seguito composte anche da stati e territori secondo le proprie specificità settoriali e di risorse disponibili (l’occidente), inaugurando magari altre e nuove entità spaziali sotto il loro completo dominio; sarebbero, in un futuro senza intoppi, le loro sedi legali extraterritoriali, le nuove metropoli caratterizzate da filosofie e sistemi di valori ad hoc, entità di diritto privato sostitutive degli antichi spazi di diritto statuale ai quali potrebbero succedere, alla ricerca di un sottostante ideologico concreto come le variazioni interpretative della Santissima Trinità e parallelamente ad una cittadinanza che viene attribuita per comune congenialità, adesione o credo individuale; perché il limite ontologico della loro astratta natura contabile, va reso comunque potabile (comprensibile) per i soggetti che in ultima istanza debbono continuare a legittimarlo.

C’è una soglia quantistica (e storica) che registrerà questo passaggio? Sarà un oggetto di indagine di studiosi e ricercatori. Ma se le premesse sono verosimili, queste potrebbero essere le linee di tendenza e se ne intravvedono alcune luccicanze già da diversi anni: le grandi compagnie delle reti, l’attivismo delle megaconcentrazioni specializzate nella terra, nel cibo, nei farmaci, nella chimica, nella mobilità, nella comunicazione; sempre meno gli agglomerati che controllano tutto ciò che occorre ad emettere derivati e altre invenzioni finanziarie. Altro non sono che le opportunità offerte dalla residua concretezza fisica in direzione di un’astrazione strutturale di capitale.

Dove dovremmo essere allora, oggi, lungo questo ipotetico tragitto? Potremmo trovarci ad una stazione molto avanzata. Quasi ad un passo dalla chiusura del circuito. Che, per attivare la sua modalità perpetua, non ammette tuttavia defezioni o intoppi. Negli ultimi tre decenni sono stati contenuti o abbattuti quasi tutti i recalcitranti: attraverso guerre e altre operazioni strategiche che non erano affatto finalizzate alla conquista, ma alla destrutturazione di chi ancora si attardava sulle presunte prerogative dei confini, gli stati canaglia, resi ormai così permeabili a scorrerie che se ne evidenziava la manifesta nullità.

I confini formali, la statualità, sono riservati solo a coloro che aderiscono fino in fondo al modello; servono a legittimarlo da un punto di vista diverso, un alter ego di ultima istanza; come nella funzione assolta dal Papato medioevale, dopo la fine della sua aspirazione di governo temporale. Perché comunque, nella narrazione utile al passaggio storico di fase è fondamentale disporre ancora di un ancoraggio normativo che consenta il rispetto “di regole”. Anche il ripetuto aggancio ai superiori processi formali della democrazia sono indispensabili per tranquillizzare l’opinione pubblica e ritardare la consapevolezza di trovarsi ormai in un diverso ordine di cose, una sorpresa che non dovrà essere troppo preoccupante, la mattina che accadrà, quando essa sarà rivelata e, al vertice della piramide, si scoprirà il nuovo brand che tutto governa, come nella profezia di “Gaia”, l’inquietante documentario del primo Casaleggio.

Così, a ripensarci, l’11/9 può essere servito più a sfasciare il neonato movimento contro la globalizzazione neoliberista piuttosto che ad annientare coloro che erano stati fino a poco prima i soci islamici dell’imperialismo. Più pericoloso il primo, perché scaturiva in casa dell’occidente e si andava diffondendo con inattesa velocità; inoltre stava introducendo un paradigma rischiosissimo: quello del tentativo di saldatura tra classi sociali subalterne e marginalizzate del nord con quelle del sud del mondo; si trattava dell’attualizzazione rivista e corretta della Teoria della dipendenza e di una maturità, almeno analitica, in grado di mettere a nudo il re.

Spostare (in termini psico-sociali e politici) l’agenda globale era un imperativo. Più stringente di qualsiasi confronto con mondi secondari, dopo che anche il muro era crollato e l’avversario presunto si era arreso.

Forse non siamo già più nello spazio di opportunità colto nel 1973 da Theotonio Dos Santos: fascismo o socialismo. La prospettiva socialista era emersa alla fine degli anni’90 ed è durata lo spazio di un biennio rosso, tra Seattle e Porto Alegre.

Dopo i primi venti anni di guerra infinita restano tutte le macerie diffuse sul pianeta e un pianeta che viene progressivamente intaccato nella sua tenue pellicola dell’ecosistema.

Green washing, passaggio da combustione a celle, produzioni di virus e vaccini, di proteine in bio-reattori, ecc. sono una ulteriore frontiera per le transazioni e per il consolidamento dell’opera: riportare a ragion finanziaria tutto quello che ne è ancora parzialmente al di fuori.

Invece le ultime pagine del saggio non possono non richiamare alla memoria le immagini della riemersione del fascismo; quello di Trump nel 2016 negli Usa, l’assalto al Campidoglio dei suoi adepti; una congerie confusa di aggregazioni ideali e di gruppi sociali compositi e contraddittori, all’assalto della nuova divisione internazionale del lavoro, secondo la narrativa di Steve Bannon, che si deve allargare – e si sta allargando – agli altri paesi centrali:

L’instaurazione di questa nuova divisione internazionale del lavoro presuppone la soluzione di molti problemi preliminari, tra i quali, in primo luogo, la divisione interna che questa politica provoca in seno alla stessa borghesia dei paesi dominanti. Questa soluzione comporta il sacrificio della media e piccola borghesia all’interno dei paesi dominanti a favore del progresso delle società multinazionali e della borghesia internazionale (…). Questa contraddizione è grave e di difficile soluzione, perché le borghesie locali dei paesi dominanti sono ancora molto forti ed hanno un’influenza politica, hanno capacità di resistere al grande capitale internazionale, soprattutto nella misura in cui riescono ad influenzare altri settori della popolazione e a muoverli politicamente. Se pensiamo che al mercato locale nordamericano sono legate in maniera fondamentale società di grande potenza, possiamo dedurne che si tratta di un confronto tra giganti e non semplicemente tra alta borghesia e borghesia media. A lunga scadenza, le borghesie locali non potrebbero resistere, soprattutto perché non hanno da offrire un’alternativa di sviluppo economico a livello nazionale e internazionale, ma un’alternativa di regresso, d’immobilismo, di ristagno che ai nostri giorni non può rappresentare, evidentemente, una base valida per una politica economica con proiezioni internazionali.”

O forse non siamo ancora del tutto entrati nell’orizzonte degli eventi in agglutinamento attorno ai buchi neri; possiamo ancora verificare l’attivismo delle ultime grandi puntuazioni statuali in conflitto per porre uno stop all’inesorabile: Russia, Cina e altre medie potenze riottose per le quali diventa difficile un’assimilazione hic et nunc agli stati canaglia; che resistono proponendo una alternativa pluricentrica, un multipolarismo che non ha ambizioni di egemonia immediata, ma piuttosto di stallo, di tregua, guadagno di tempo, time gain; queste potenze hanno proceduto pragmaticamente negli ultimi decenni all’emanazione forzata e accelerata di propri nuclei multinazionali, cosiddetti oligarchici, in grado di creare e intercettare parzialmente il flusso di capitali, sperimentando una incerta direzione e un complesso controllo al movimento illimitato delle multinazionali di primo rango, cercando di mantenere un guinzaglio produttivo agli investimenti esteri, rivendicando la correttezza dogmatica della classica valorizzazione capitalistica e richiamando Adam Smih a Pechino, come ci racconta Arrighi.

L’esito di questo estremo confronto si vedrà alla fine del grande conflitto.

Per ora basti dire che il modello del buco nero attorno a cui tutto gravita non funziona se non è totale; e se viene messo in discussione vuol dire che non è ancora in grado di cancellare la stessa possibilità di alternative. Ciò stesso lo rende in sé parziale, dunque limitato, dunque aggredibile nella sua pretesa onnicomprensiva.

Ci sono allora tre opzioni: la vittoria piena oppure la riapertura dei giochi; o infine la compartimentazione stagna di due modelli gravitazionali destinati a competere entro spazi che, in questo caso, ridiventano, loro malgrado, territoriali. Nel secondo e terzo caso, il progetto di unico centro mobile è sconfitto. Nel terzo caso si tenta un pari e patta, ciascuno a casa sua. Ma, appunto, sempre si tratta di una sconfitta dell’unipolarità.

Mi pare che al momento stazioniamo qui. L’ipotesi di arrocco e il ritorno alla logica della cortina di ferro infioccata di superiorità civilizzatrice indica che c’è un altro, sufficientemente forte, in gioco. Si alzano i muri perché una parte del coacervo multinazionale globalizzato (quello ancora legato alla produzione concreta di manufatti e servizi e alla disponibilità di risorse naturali) riconosce in lui potenzialità e redditività di lunga durata.

E iniziano dunque a cogliersi vistose crepe nella direzione esclusiva e indiscutibile della ragion finanziaria. Il buco nero, fino a poco fa dotato di una certa compattezza, va scindendosi. Nel momento in cui la redditività di produzioni e commerci recupera slancio, allora vuol dire che il centro motore sta cambiando. Per ostacolarlo bisogna abiurare a tutto ciò che è stato diffuso come vero in mezzo secolo di apertura neoliberistica; si può, anzi, si deve, tornare al protezionismo. Rinverdito da sciocche narrazioni tra società aperte (ma con i muri) e autocrazie (che vogliono apertura).

Se ha ragione Giovanni Arrighi, ad una egemonia dovrebbe succederne un’altra più forte, che renda più gestibili le contraddizioni e preservi la civiltà umana attraverso un nuovo e più efficace equilibrio, allontanando la catastrofe.

Le due varianti di Dos Santos, fascismo o socialismo, si ridefiniscono forse dentro questo scenario, come sovrastrutture dei processi in corso su scala globale; segno ne sia che le varianti “Trump” e “Biden” sono, sul piano globale, mero elemento di cronaca; valgono solo all’interno di ogni singolo paese nel confronto innescatosi tra borghesie globalizzate e grandi borghesie nazionali, un “confronto tra giganti”, ma interno all’occidente che va perdendo egemonia. E nello spazio senza confini sia accentuano le contraddizioni interne allo stesso capitale finanziario, abituato a scorrazzare indisturbato tramite le sue catene globali del valore che rischiano di essere messe in dubbio.

Mentre nell’oriente si dovrebbe accentuare l’attenzione agli enormi mercati interni, forse in grado, da soli, di contenere le spinte delle multinazionali oligarchiche abituate ad operare globalmente. Ma non tutti dispongono di tali dimensioni potenziali.

I territori intermedi, Africa, America Latina, Asia sottosviluppata, saranno probabilmente quelli in cui la frizione tra i blocchi sarà massima, indispensabili, come sono, ad ammortizzare gli effetti dell’arrocco e a garantire i nuovi prodotti primari. C’è da vedere se il loro corteggiamento produrrà o meno processi simili a quelli previsti dalla Teoria della dipendenza, o se saranno un atroce campo di battaglia; oppure se auspicabilmente, la loro centralità per gli esiti del conflitto non ne consenta un’accelerazione dello sviluppo e una soggettività terza, non allineata.

Tuttavia, l’occasione che si presenta per una rivalsa del mezzo millennio di colonizzazione subita dall’occidente, non è cosa secondaria. E quindi l’ammiccamento sud-sud ha grandi chances potenziali.

Molte cose e diverse dovranno accadere; per il momento si può osservare che siamo ancora fuori dall’orizzonte degli eventi. Per quanto inquietante sia il nostro tempo, il tempo non si è fermato.

R. R. – Aprile 2023

NOTE:

1 Una ampia illustrazione critica della Teoria della dipendenza e dei suoi sviluppi è nel recente volume: Alessandro Visalli – Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare – Meltemi – Milano 2020


Theotonio Dos Santos

Considerazioni sulle società multinazionali


Concetto di impresa multinazionale

Nel mondo contemporaneo, una parte sempre maggiore della produzione e della distribuzione dei prodotti viene realizzata da un tipo di società che opera a livello internazionale con una direzione centralizzata. Sono le società conosciute col nome di multinazionali, transnazionali o internazionali. Si è anche tentato di stabilire una specie di graduatoria fra le società internazionali, transnazionali e multinazionali secondo un ordine che dovrebbe riflettere un grado crescente di multinazionalismo. In questo articolo parliamo specialmente del fenomeno del multinazionalismo, inteso come forma finale di un processo in corso e, in alcune parti, già terminato.

Utilizziamo questo concetto nello stesso senso in cui si usa il termine di monopolio per designare un tipo di concorrenza e di organizzazione imprenditoriale.

Come il monopolio non elimina la concorrenza, ma la sviluppa in forme nuove, e come nelle situazioni reali si ritrovano piuttosto forme oligopolistiche che monopolistiche, così il multinazionalismo delle società non significa superamento della loro base nazionale di operazione e di espansione, come vedremo in seguito.

Le multinazionali si distinguono da altri tipi di società per il fatto che le attività da esse realizzate all’estero non svolgono un ruolo secondario o complementare nel quadro delle loro operazioni.

Queste attività rappresentano una percentuale essenziale delle loro vendite, dei loro investimenti e dei loro profitti, e condizionano la loro struttura organizzativa e amministrativa.

Fin dal rinascimento si formarono in Europa società che si dedicarono al commercio estero. In Italia, in Spagna, in Portogallo, in Inghilterra e in Olanda esistevano importanti complessi imprenditoriali destinati a sfruttare il commercio coloniale, aperto all’Europa dalle scoperte marittime dei secoli XV e XVI. Però, anche quando queste imprese stabilivano unità produttive all’estero e dovevano preoccuparsi di problemi di popolazione, di difesa e di amministrazione delle regioni conquistate, rimanevano sempre fondamentalmente legate allo sviluppo del capitale commerciale e a interesse, essendo le attività produttive un aspetto puramente marginale e secondario dei loro affari.

In generale le funzioni produttive venivano affidate in concessione o direttamente a produttori locali o emigranti che rimanevano sotto il controllo dei capitalisti commerciali o finanziari. Queste imprese assunsero un ruolo molto importante nella accumulazione primitiva di capitale che permise il sorgere del capitalismo contemporaneo, ma si collocano piuttosto nella preistoria che nella storia del capitalismo e non possono essere considerate come precursori diretti delle società multinazionali contemporanee 1.

Soltanto nella seconda metà del secolo XIX sorsero le imprese capitaliste che esercitavano importanti attività all’estero, particolarmente nelle colonie. In questo periodo si creano nuove forme di divisione del mercato internazionale attraverso gli accordi commerciali e i cartelli fra le grandi aziende monopolistiche.

Si estendono anche gli investimenti all’estero, orientati soprattutto verso i paesi con un certo sviluppo capitalista. Si trattava di investimenti di portafoglio, e cioè attraverso l’acquisto di azioni e la speculazione in borsa, che cercavano di facilitare sia l’esportazione di prodotti che esigevano investimenti assai considerevoli (come nel caso delle ferrovie) sia l’installazione di aziende di produzione e di commercializzazione di materie prime e di prodotti agricoli da vendere nei paesi più ricchi.

Nel totale degli investimenti all’estero, solo una piccola parte assunse la forma dell’investimento diretto, attualmente predominante nell’economia mondiale.

Le aziende all’estero costituivano piuttosto unità imprenditoriali autonome che non una parte della struttura organica della casa madre; le vendite da esse realizzate avvenivano soprattutto sul mercato del paese della casa madre o nei paesi sviluppati, e rappresentavano di rado un’attività sostanziale dell’impresa, avendo di preferenza un carattere di complementarietà. Soltanto l’importanza strategica della materia prima utilizzata dall’impresa poteva far si che il ruolo da esse svolto diventasse significativo. Si può dire che, nel loro complesso, gli affari all’estero avevano un’importanza secondaria nella vita di queste imprese, e non rappresentavano quindi che una percentuale limitata dei loro profitti, vendite o investimenti.

La situazione non era la stessa per tutti i paesi capitalisti. Gli investimenti di portafoglio, il commercio di esportazione e di importazione, gli investimenti diretti, gli interessi dei prestiti bancari formavano, già all’inizio del nostro secolo, una parte importante delle entrate di alcuni paesi capitalisti, specialmente l’Inghilterra.2

E’ dal contrasto di questi interessi che prende le mosse la prima guerra mondiale, come conseguenza di una lotta accanita per il dominio coloniale. In queste circostanze, l’impresa capitalista non era il nucleo più importante dell’espansione coloniale. La borsa valori era il cuore di questa espansione finanziaria e commerciale che si alleava con gli interessi dei produttori minerari e agricoli nelle colonie.

Le moderne società multinazionali hanno caratteristiche che le distinguono sostanzialmente dalle precedenti. Non vanno all’estero soltanto per speculare con le azioni, per commercializzare i loro prodotti o per creare aziende esportatrici di materie prime e prodotti agricoli. Una parte sempre più importante dei loro affari all’estero è costituita da imprese industriali orientate verso i mercati interni dei paesi in cui investono. Questa situazione crea necessità nuove dal punto di vista amministrativo, dal momento che si stabilisce un rapporto molto più diretto fra la casa madre e le filiali.

Essa produce anche effetti molto importanti sulla struttura di commercializ-zazione, produzione e finanziamento delle imprese. Di conseguenza sono molto importanti anche gli effetti sulla struttura economica dei paesi toccati da questi investimenti, sul commercio mondiale e sugli obiettivi e il modo di operare delle società.

Il processo di formazione e di sviluppo della società multinazionale è legato alla tendenza intrinseca dell’accumulazione capitalista verso l’internazionaliz-zazione del capitale. Non ne tratteremo in questo articolo, perché questo ci porterebbe ad ampliare troppo il suo obiettivo, che intende invece mantenersi al livello di una analisi della evoluzione delle società.

Come definire in modo operativo queste società?

Si è cercato di mettere in luce molti fattori che consentirebbero di caratterizzarle. Uno di questi sarebbe la percentuale rappresentata dalle vendite delle filiali all’estero sul totale delle vendite delle società. Si calcola che il limite del 25 per cento permette di tracciare una linea divisoria che separa un gruppo abbastanza significativo di imprese da quelle le cui operazioni all’estero sono meno importanti. Altri autori credono tuttavia che sia più importante tener conto della nazionalità dei proprietari della società. Secondo questi autori, si può considerare come multinazionale una società i cui proprietari abbiano varie nazionalità. In altri casi si considera la nazionalità degli amministratori o dei dirigenti come il fattore determinante della multinazionalità. Questi due ultimi criteri non sono fondamentali per caratterizzare una società come multinazionale, in quanto si basano su una concezione del multinazionalismo più ideologica che reale. Quelle che, al giorno d’oggi, vengono chiamate multinazionali non sono necessariamente società appartenenti a capitalisti di varie nazioni e nemmeno amministrate o dirette da capitalisti di varie nazioni.

Anche se svolgono una politica internazionale, esse operano di preferenza da una base nazionale. Per questo motivo, la nazionalità degli amministratori, dei padroni e dei dirigenti continua ad essere essenzialmente quella del paese in cui ha sede la società e, come vedremo in seguito, questo è uno dei problemi cui si trova di fronte il multinazionalismo nella misura in cui esso cerca di essere coerente con le tendenze alla formazione di una economia mondiale che abbia caratteri realmente internazionali.

Il concetto di società multinazionale sorse in particolare con questo intento apologetico, nel tentativo di caratterizzare l’impresa stessa come un fenomeno che permetteva di superare i limiti ristretti del nazionalismo. Nel definire questo concetto noi cerchiamo di superare questo intento apologetico che ha enormemente influenzato tutta la letteratura su questo argomento.

Si tratta di trovare quello che queste società rappresentano in quanto avanzata del capitalismo, per rispondere alle necessità poste dall’immenso sviluppo delle forze produttive e dal suo carattere retrogrado e reazionario che cerca di frenare l’avanzata internazionale del socialismo e la vera internazionalizzazione che questo comporta. In questo senso il nostro concetto di società multinazionale, anche se ad un lettore sprovveduto può sembrare una sintesi della letteratura esistente, è piuttosto un tentativo di mostrare i suoi limiti e i pericoli derivanti dall’accettare acriticamente le descrizioni apologetiche che se ne danno.

Avendo scartato questo primo significato del concetto apologetico del multinazionalismo, occorre proseguire nell’analisi di altre definizioni che toccano maggiormente il fondo del problema senza tuttavia mettere sufficientemente in risalto l’insieme dei fattori che costituiscono la dinamica del fenomeno. Raimond Vernon insiste nel caratterizzare il multinazionalismo soprattutto secondo la prospettiva in cui l’impresa colloca i suoi affari, ritenendo questo il fattore chiave. Nel suo ultimo libro definisce così la società multinazionale: « Una società che cerca di portare le sue attività su scala internazionale, come chi creda che non esistano frontiere nazionali, in base ad una strategia comune diretta dal centro corporativo » 3 . D’accordo con Vernon, così si esprime il Dipartimento del commercio: « Le affiliate sono articolate in un processo integrato e le loro politiche sono determinate dal centro corporativo per quanto concerne le decisioni relative alla produzione, alla localizzazione degli impianti, al tipo di prodotti, alla commercializzazione e al finanziamento » 4.

Questo accento posto sulla prospettiva dell’impresa, sulla sua strategia e la sua organizzazione à più importante e più significativo dei fattori cui si accennava più sopra. Tuttavia, non è ancora sufficiente a caratterizzare perfettamente il fenomeno di cui ci occupiamo. Esso infatti ci costringe a considerare un aspetto relativamente sovrastrutturale, anche se essenziale. Jacques Maisonrouge, presidente della IBM World Trade Corporation, indica quattro elementi che considera fondamentali per definire una società multinazionale: in primo luogo si tratta di imprese che operano in molti paesi; in secondo luogo sono imprese che effettuano ricerca e sviluppo e fabbricano anche prodotti in questi paesi; in terzo luogo hanno una direzione multinazionale; in quarto luogo, hanno una proprietà multinazionale delle azioni. Questa definizione introduce un maggior numero di elementi, ma è necessario analizzarla meglio.

Come abbiamo visto, i due ultimi motivi sono quasi complementari dei due primi, ma non si ritrovano nella realtà se non in casi molto eccezionali e si basano su un concetto di multinazionalismo superiore alla realtà attualmente esistente. Ma i due primi motivi ci sembrano essere i più significativi. La cosa fondamentale è che si tratta di imprese che operano in vari paesi e che in questi paesi sviluppano la produzione e che eventualmente vi realizzano anche la ricerca e lo sviluppo. Per completare il nostro quadro concettuale, può servire infine la caratteristica messa in rilievo da Vernon, e cioè che queste imprese hanno una strategia multinazionale e una organizzazione di affiliate, articolate in un processo integrato, e determinate da un centro corporativo. Queste caratteristiche non sono casuali e indeterminate, come potrebbe far credere una definizione puramente descrittiva. Esse corrispondono a fenomeni storici, determinati dalla struttura stessa del modo di produzione capitalista e riflettono il processo di accumulazione di capitale nella sua evoluzione storica. Questa capacita di operare in molti paesi con una prospettiva internazionale e con una organizzazione centralizzata è un prodotto del processo di internazionaliz-zazione del capitale; questo processo si realizzò alla fine del secolo scorso e al principio di questo, e poté approfondirsi grazie alla prima guerra mondiale e alla ripresa che le fece seguito; esso divenne in seguito molto più determinante a causa della internazionalizzazione dell’economia, come conseguenza della seconda guerra mondiale, che permise l’assimilazione dello sviluppo tecnologi-co e delle comunicazioni a livello internazionale, le quali, a loro volta, facilitano questa internazionalizzazione.

L’internazionalizzazione dell’economia istituisce un mercato mondiale di manodopera, di beni, di servizi e di capitali e in questo modo tocca e influenza il ciclo del capitale. Come la produzione capitalista è sempre un momento dello sviluppo del capitale, è anche, al tempo stesso, determinante del capitale e da esso determinata. I processi di internazionalizzazione dell’Economia e del capitale si sviluppano così parallelamente, in un movimento dialettico. La formazione delle società multinazionali va anche vista in connessione molto diretta con la concentrazione economica e con lo sviluppo del monopolio e delle grosse imprese. Esiste una correlazione diretta fra il multinazionalismo, il monopolio, e le grosse imprese. Le società multinazionali sono proprio quelle che hanno raggiunto il maggior grado di controllo monopolistico del mercato interno del loro paese e sono quelle più concentrate, tranne rare eccezioni costituite dalle società formatesi già all’inizio in funzione del mercato internazionale.

Multinazionalismo, concentrazione e monopolio sono legati e caratterizzano le tendenze principali dell’economia mondiale contemporanea. I dati che illustrano questo rapporto necessario fra concentrazione, monopolio e multi-nazionalismo sono molto evidenti.

Nel suo studio sulle multinazionali, “Sovereignity at Bay, The Multinational Spread of US Enterprises”, Raimond Vernon, confrontando le 187 società nordamericane a carattere multinazionale con il totale delle imprese manifatturiere degli Stati Uniti rileva i seguenti dati:

Nel 1966, le 187 società effettuarono vendite per un totale di 208.000 milioni di dollari, e il loro patrimonio ammontava a 176.000 milioni di dollari. Nello stesso anno, tutte le industrie manifatturiere effettuarono vendite per 532.000 milioni di dollari, con un patrimonio di 386.000 milioni di dollari; il che, in percentuali, significa che le 187 società multinazionali controllavano nel 1966 il 39,2 per cento delle vendite e il 45,7 per cento del patrimonio delle industrie manifatturiere nordamericane. E i dati dimostrano, in generale, che esiste una tendenza all’aumento di questa concentrazione e di questo controllo delle società multinazionali.

Nel presente articolo non ci proponiamo di approfondire questo rapporto che è alla base del multinazionalismo. Ai fini di quello che vogliamo esporre, basta segnalare questi aspetti essenziali allo scopo di arrivare ad un concetto generale di società multinazionale che riesca ad inquadrare il fenomeno nel suo insieme. Nella misura in cui restiamo fedeli al postulato dialettico, secondo cui il reale è il tutto e l’obiettivo della concettualizzazione è quello di prendere il fenomeno nel suo complesso stabilendo un rapporto dialettico fra le sue parti essenziali, cerchiamo di superare le definizioni di moda del fenomeno.

Andando oltre la descrizione dei vari elementi che integrano il fenomeno, stabiliamo una gerarchia fra di essi e determiniamo i rapporti concreti che storicamente presuppongono. Questa concettualizzazione, invece di portarci alle visioni apologetiche del fenomeno che abbondano nella letteratura attuale e che esercitano la loro influenza anche su autori marxisti, ci porta alle contraddizioni che la società multinazionale contiene in sé stessa. Per ultimare la caratterizzazione concettuale delle società multinazionali bisogna quindi separa-re i vari aspetti che le compongono.

In primo luogo è necessario considerare il fatto che esse, come abbiamo detto, svolgono una parte importante delle loro operazioni all’estero, il che si riflette sulle loro vendite e sui loro investimenti. Raimond Vernon trae alcune conclusioni a proposito delle 140 maggiori società multinazionali nordame-ricane da lui analizzate a questo scopo. Esaminando la percentuale di « contenu-to estero » delle operazioni di queste 140 società multinazionali, si può constatare quanto segue:

Nel 1964, le imprese che avevano una percentuale di partecipazione estera dallo 0 al 9 per cento nelle loro vendite erano 11, nei loro profitti 14, nel loro patrimonio 16, nell’occupazione 14. Le società che avevano una partecipazione estera fra il 10 e il 19 per cento nelle vendite erano 25, nei profitti 25, nel patrimonio 30, nell’occupazione 10.

Le società che avevano una percentuale di partecipazione estera tra il 20 e il 29 per cento nelle vendite erano 22, nei profitti 17, nel patrimonio 27 e nell’occupazione 14. Quelle che avevano una partecipazione estera fra il 30 e il 39 per cento nelle vendite erano 19, nei profitti 9, nel patrimonio 17 e nell’occupazione 7. Fra le società che avevano una partecipazione delle loro operazioni all’estero fra il 40 e il 49 per cento, 10 l’avevano nelle vendite, 6 nei profitti, 5 nel patrimonio e 4 nell’occupazione; continuando l’elenco, fra le società con partecipazione estera fra il 50 e il 59 per cento, 4 l’avevano nelle vendite, 5 nei profitti, 4 nel patrimonio e 7 nell’occupazione.

I dati sono abbastanza significativi soprattutto se consideriamo che la mancanza di dati di alcune società si deve al fatto che non si disponeva di elementi sufficienti per classificarle. Una percentuale molto significativa delle società dei cui dati si disponeva — percentuale vicina al 60 per cento — ha vendite all’estero che oscillano fra il 20 e il 59 per cento. Per quanto riguarda i profitti, circa il 50 per cento delle società multinazionali analizzate ricavano all’estero dal 20 al 59 per cento dei loro profitti. Per quanto riguarda il patrimonio e l’occupazione, si ha una percentuale analoga. Molti altri dati possono confermare questa tendenza alla trasformazione delle attività all’estero in una parte fondamentale delle operazioni delle grandi società.

Qual è, d’altra parte, il grado di controllo e di concentrazione economica raggiunto dalle sussidiarie nordamericane all’estero? (una tendenza che esiste anche nelle società multinazionali di altre origini nazionali). Vedremo che queste imprese tendono ad agire nei settori di maggiore concentrazione economica e tecnologicamente più avanzati, che esse tendono a monopolizzare e a controllare. Basandosi sul « Survey of Current Business » e sugli studi del Dipartimento del tesoro statunitense sugli investimenti all’estero, Raimond Vernon: riusci a stabilire, per il 1964, i seguenti dati: le vendite delle sussidiarie statunitensi rappresentano la seguente percentuale delle vendite locali nei paesi e nei settori industriali sotto indicati:

Canada: in certi settori come trasporti, attrezzature e macchinari, tranne il settore elettrico, le sussidiarie statunitensi controllano il 100 per cento delle vendite. Per quanto riguarda i prodotti della gomma, rappresentano il 72,2 per cento delle vendite locali; nel settore chimico, le sussidiarie nordamericane rappresentano il 50,2 per cento delle vendite in tutto il Canada; nel settore carta e affini, rappresentano il 42,6 per cento; per i metalli primari e lavorati il 25,1 per cento, per i prodotti alimentari il 21,8 per cento.

America Latina: vediamo che il settore dei prodotti della gomma, per esempio, è controllato per il 58,1 per cento dal capitale nordamericano. Teniamo presente che si tratta di dati globali per l’America Latina e che, quindi, in alcuni paesi si può avere una percentuale assai superiore. Per quanto concerne l’industria chimica, le sussidiarie statunitensi vendono il 28,3 per cento dell’insieme delle loro vendite in America Latina. Per i prodotti di metallo di base la percentuale è del 20,2 per cento; per carta e cellulosa 18,4 per cento; per i prodotti agricoli 7,9 per cento.

Europa e Inghilterra: “la partecipazione delle aziende statunitensi alle vendite di prodotti della gomma é del 12,7 per cento; trasporti e attrezzature 12,8 per cento; macchinario, ad eccezione di quello elettrico, 9,7 per cento; macchinario elettrico 9,1 per cento; chimica 6,2 per cento; prodotti alimentari 3,1 per cento; carta e cellulosa 1,2 per cento; metalli primari e lavorati 2,4 per cento.

Questi dati non mettono tuttavia in risalto il grado di controllo che questi investimenti esercitano sui paesi verso i quali si orientano, essendo essi molto globali e non distinti per paesi.

E’ certo che in alcuni paesi troveremo un grado di controllo molto superiore a quello indicato dalle cifre globali. D’altro canto è necessario vedere i dati nella prospettiva delle tendenze storiche che manifestano.

Dall’analisi fatta si può concludere:

Le società multinazionali sorgono come conseguenza del processo di internazionalizzazione del capitale, che si approfondisce nel dopoguerra, e finiscono per costituire l’unità produttiva fondamentale nel sistema capitalistico mondiale. Sono caratterizzate da un cambiamento qualitativo dell’importanza relativa delle attività esterne nell’insieme delle operazioni imprenditoriali. Arrivano a costituire un elemento necessario e determinante della produzione, della distribuzione, dell’ammontare dei profitti e dell’accumulazione di capitale di queste imprese. Nello stesso tempo le loro attività all’estero si fondono con l’economia presso la quale si trasferiscono, essendo destinate non soltanto al mercato internazionale, ma anche ai mercati interni dei paesi in cui operano e articolandosi profondamente nella loro struttura produttiva. I meccanismi di concentrazione, di monopolizzazione e di internazionalizzazione del capitale che diedero impulso a queste società, facendone delle multinazionali, cominciano ad operare anche al livello delle loro filiali, determinando un complicato processo di interrelazioni fra di esse e dando origine a una nuova tappa dell’economia mondiale. L’essenza della società multinazionale sta tuttavia nella sua capacita di dirigere in modo centralizzato questo complesso sistema di produzione, di distribuzione e di capitalizzazione a livello mondiale. Di modo che anche le nuove contraddizioni cui questa situazione dà origine sono il prodotto di questa capacita centralizzatrice e integratrice che riflette la caratteristica globale del sistema internazionale, di cui l’impresa multinazionale è la cellula.

Concentrazione dell’unità produttiva commerciale e finanziaria e concentra-zione economica nazionale, e concomitante processo di monopolizzazione a li-vello nazionale e internazionale; riproduzione della concentrazione a livello internazionale, concentrazione delle società a livello internazionale, concen-trazione del processo distributivo e finanziario, integrazione economica interregionale e internazionale: ecco l’ordinamento teorico-storico di uno stesso processo, pieno di contraddizioni interne che si manifestano non solo in oscillazioni cicliche, ma anche in violenti cataclismi. Mentre il capitalismo sviluppa le forze produttive su scala sempre più ampia e crea le condizioni e la necessità di una direzione collettiva e pianificata della nuova economia e delle società che da questo processo derivano, la proprietà privata dei mezzi di produzione, base del capitalismo come modo di produzione, diventa un ostacolo insuperabile per il pieno sviluppo di queste tendenze che il capitalismo stesso mette in moto.

Nella concettualizzazione della società multinazionale devono emergere questi elementi contraddittori che ci permettono di svilupparne correttamente l’analisi. Il concetto di queste società deve quindi comprendere, necessariamente, questo processo storico che le trasforma in cellule di un movimento globale e determinato di internazionalizzazione del capitale e dell’economia; questo movimento è, a sua volta, l’espressione delle tendenze alla concentrazione tecnologica ed economica, alla monopolizzazione e alla diversificazione di attività che costituiscono, da parte loro, l’espressione concreta e storica della evoluzione dell’accumulazione del capitale nel modo di produzione capitalista.

Un bilancio quantitativo

Nel paragrafo precedente siamo giunti a definire l’oggetto della nostra analisi. Siamo riusciti, nello stesso tempo, a dimostrare la sua importanza fra le grandi società nordamericane e il profondo controllo che esercita sulle varie economie nazionali.

Si rende ora necessario abbozzare un quadro descrittivo che ci permetta di fare un bilancio quantitativo delle società multinazionali, il che ci consentirà di portare avanti l’analisi della loro evoluzione storica e delle loro tendenze di sviluppo futuro.

Quante sono queste società multinazionali e come sono distribuite?

Negli Stati Uniti, presso l’Ufficio investimenti esteri, sono registrate 3.000 società che effettuano operazioni con l’estero; di queste circa 180 vennero selezionate da Raimond Vernon e da lui considerate come società multinazionali. Egli ne aggiunse altre 150 non nordamericane. Judd Polk, presidente della Camera di commercio internazionale, selezionò 150 società in tutto il mondo, di cui la metà nordamericane, che egli considera come multinazionali.

Sidney Rolfe selezionò, nel 1965, 80 società nordamericane (fra le 500 maggiori del paese, secondo la rivista « Fortune »), che avevano operazioni con l’estero superiori al 25 per cento sia nei profitti, sia nella produzione, sia nella occupazione, sia nel patrimonio. 199 imprese di queste 500 selezionate da « Fortune » avevano il 10 per cento o più delle loro attività all’estero.

In questo modo possiamo operare con un gruppo di 300 o 400 società al massimo che controllano oggi gran parte della produzione mondiale 5.

Queste imprese svolgono in generale operazioni in quasi tutti i paesi o le zone del mondo. Delle 187 società selezionate da Vernon, per esempio, 185 svolgono attività manifatturiere in tutti i continenti; 162 vi effettuano vendite; 45 vi svolgono attività estrattive; 186 hanno una qualche forma di affari in tutti i continenti. Se prendiamo alcune regioni o aree, vediamo che 174 svolgono operazioni in Canada; 182 in America Latina; 185 in Europa e nel Regno Unito; 158 svolgono operazioni di ogni tipo in Asia e in parte dell’Africa.

Il numero di sussidiarie che queste società hanno all’estero è molto significativo. Le 187 multinazionali classificate da Vernon avevano, nel 1967, 7.927 sussidiarie nel mondo, delle quali 1.048 in Canada, 1924 in America Latina, 3.401 in Europa e nel Regno Unito, 648 nei dominions inglesi, 906 in Asia e in altre parti dell’Africa 6.

Come sono distribuiti, per importanza, questi investimenti?

Nel 1970, gli investimenti nordamericani erano di 25.000 milioni di dollari nel Canada, pari al 33 per cento del totale; 4.000 milioni nel Regno Unito, pari al 10 per cento; 5.000 milioni in Germania, pari al 4 per cento; 2.600 milioni in Venezuela, pari al 3,3 per cento; 2.600 milioni in Francia, pari al 3,3 per cento; 1.600 milioni nel Medio Oriente, pari al 2 per cento; 1.800 milioni in Brasile, pari al 2 per cento; 1.800 milioni in Messico, 2 per cento; Svizzera 1.800 milioni, 2 per cento; Italia 1.500 milioni, 1,9 per cento; Argentina 1.300 milioni, 1,2 per cento; Belgio e Lussemburgo 1.500 milioni, 1,9 per cento; Giappone 1.500 milioni, 1,9 per cento; Olanda 1.500 milioni, 1,9 per cento. 7

Analizzando l’aumento degli investimenti nordamericani per area, secondo la fonte già citata, si nota che gli investimenti diretti nordamericani all’estero sono cresciuti in maniera impressionante fra il 1929 e il 1970. Nel 1929 il totale di questi investimenti era di 7.500 milioni di dollari, nel 1950 di 11.800 milioni e nel 1970 di 78.100 milioni. Analizzandoli per zone, si trova che il Canada ne è il principale destinatario, con un totale di investimenti che dal 1929 al 1970, è aumentato di più di 10 volte, rimanendo peraltro invariata la sua quota di partecipazione. La partecipazione dell’America Latina al totale degli investimenti nordamericani è diminuita dal 46,7 per cento nel 1929 al 18,8 per cento nel 1970. L’Europa ha registrato il maggiore aumento relativo, passando dal 18,7 per cento nel 1929 al 31,4 per cento nel 1970; da 1.400 milioni di dollari nel 1929 a 24.500 milioni di dollari nel 1970, ossia la maggiore concentrazione di investimenti nordamericani all’estero. Il Medio Oriente vede anch’esso aumentare la sua partecipazione dall’1,3 per cento al 6,5 per cento; nelle altre aree la partecipazione aumenta dal 6,6 per cento al 14,1 per cento. Si constata quindi che l’aspetto più significativo della redistribuzione degli investimenti nordamericani negli ultimi anni è rappresentato dal « boom » in Europa e dalla diminuzione della partecipazione relativa dell’America Latina.

Nel loro complesso gli investimenti nei paesi sviluppati rappresentavano, nel 1970, il 68 per cento degli investimenti nordamericani, mentre quelli nei paesi sottosviluppati rappresentavano, nello stesso anno, il 27,4 per cento del totale. Un altro 4,6 per cento riguardava paesi non identificati. C’è però da dire che questo fenomeno non è soltanto nordamericano.

Questa grande espansione degli investimenti e la tendenza a rivolgersi verso paesi sviluppati non si registrano soltanto negli Stati Uniti, ma anche negli altri paesi sviluppati. Il Comitato degli investimenti internazionali dei paesi appartenenti alla OCSE ha stabilito, per il 1966, i seguenti dati:

Gli investimenti stranieri diretti, in termini di valore accumulato dai maggiori paesi dell’Ocse alla fine del 1966 erano, in dollari, i seguenti:

in tutto il mondo si registrava un insieme di investimenti pari a 89.583 milioni di dollari, di cui 29.970, e cioè circa il 33 per cento, nei paesi sottosviluppati.

Del totale degli investimenti gli Stati Uniti detenevano il 60 per cento, con un ammontare di 54.462 milioni di dollari 8, di cui 16.841 nei paesi sottosviluppati, ossia il 56 per cento degli investimenti stranieri in questi paesi.

Il Regno Unito veniva al secondo posto con un ammontare di investimenti di 16.000 milioni di dollari (19 per cento degli investimenti mondiali); i suoi investimenti nei paesi sottosviluppati ammontavano a 6.184 milioni di dollari, pari al 23 per cento degli investimenti esteri in questi paesi.

La Francia aveva un totale di investimenti, nel mondo, pari a 4.000 milioni di dollari, di cui 2.100 nei paesi sottosviluppati. Notiamo qui abbastanza accentuata la tendenza della Francia ad effettuare investimenti nei paesi sottosviluppati, dal momento che i suoi investimenti rappresentano il 4,4 per cento degli investimenti dei paesi dell’Ocse all’estero, mentre i suoi investimenti nei paesi sottosviluppati rappresentano il 7 per cento di questi investimenti nei paesi sottosviluppati.

Nello stesso anno la Germania aveva raggiunto 2.500 milioni di dollari di investimenti all’estero, di cui 845 nei paesi sottosviluppati. Questi investimenti rappresentavano il 2,8 per cento del totale degli investimenti analizzati e il 2,8 per cento del totale degli investimenti analizzati nei paesi sottosviluppati.

La Svezia aveva 793 milioni di dollari all’estero, di cui 161 nei paesi sottosviluppati.

Il Canada aveva investimenti all’estero per 3.238 milioni di dollari, ossia il 4 per cento degli investimenti, e di questi 534 erano destinati ai paesi sottosviluppati.

Il Giappone aveva investimenti all’estero per 1.000 milioni di dollari, di cui 605, e cioè una percentuale assai elevata, destinati ai paesi sottosviluppati.

Che cosa ci indicano i dati sulle tendenze alla espansione e allo sviluppo di queste società multinazionali?

Secondo il professor Rolfe si può calcolare che il valore patrimoniale degli investimenti esteri non nordamericani (il valore patrimoniale degli investimenti non va confuso con il loro valore totale) raggiungeva nel 1966 un ammontare di circa 50.000 milioni di dollari in valori correnti. Sommando a questi i 40.000 milioni che rappresenterebbero il patrimonio degli investimenti nordamericani avremmo 90.000 milioni di dollari. Questa cifra costituirebbe il totale del patrimonio posseduto all’estero dalle società di tutti i paesi capitalisti. Per sapere ciò che questo rappresenta per quanto riguarda il valore delle vendite realizzate nello stesso anno, dobbiamo moltiplicare per due l’ammontare del valore patrimoniale, il che darebbe un risultato di 180.000 milioni di dollari, valore probabile dell’insieme della produzione di queste imprese, perché, secondo Judd Polk, esisterebbe una relazione di 1 a 2 fra patrimonio e produzione delle imprese.

Se sommiamo a questa cifra gli investimenti di portafoglio e riuniamo la loro produzione secondo questo tipo di calcolo, avremmo un totale di 240.000 milioni di dollari come ammontare possibile delle vendite realizzate dalle imprese che hanno capitale all’estero.

Se mettiamo a confronto questo dato con il valore di tutte le esportazioni di questi paesi, che ammontano a 130.000 milioni di dollari, possiamo calcolare che le vendite delle sussidiarie e affiliate all’estero delle multinazionali sono molto superiori all’insieme delle esportazioni dei paesi che investono in queste società.

Fra il 1966 e il 1970 gli investimenti diretti nordamericani all’estero sono aumentati da 55.000 milioni a 78.000 milioni di dollari. Se aggiungiamo gli investimenti di portafoglio questa cifra si eleva a 105.000 milioni di dollari. Utilizzando la proporzione di 2/1 fra patrimonio e vendite, avremo un calcolo delle vendite totali di queste imprese di 210.000 milioni di dollari, il che rappresenta un valore 5 volte maggiore delle esportazioni nordamericane. Questo distacco è destinato ad aumentare nel futuro, dal momento che le esportazioni aumentano al ritmo del 7 per cento all’anno, mentre la produzione delle sussidiarie all’estero aumenta di circa il 10 per cento all’anno. Il probabile aumento di questi investimenti fino a livelli molto elevati tende a creare una situazione di parassitismo che analizzeremo in seguito e che è stata molto ben riassunta nella seguente affermazione contenuta nello studio, gia ricordato, del Dipartimento del commercio:

« Altro indice dell’importanza degli investimenti esteri degli Stati Uniti è il fatto che, fino al 1968, le entrate nette degli investimenti esteri, i profitti rimpatriati, le royalties e i brevetti, meno gli investimenti diretti usciti, sono stati maggiori dei risultati del conto commerciale. Da questi indici messi a confronto con gli inizi degli anni sessanta, risulta il declino del nostro attivo di esportazioni e il continuo aumento delle entrate nette degli investimenti diretti. Queste ultime contribuirono con 3.500 milioni alla nostra bilancia dei pagamenti nel 1970, in confronto con 2.100 milioni della bilancia commerciale. Se facciamo un confronto con i dati del 1960, che mostrano 4.900 milioni nella bilancia commerciale liquida e 500 milioni di dollari nella bilancia degli investimenti diretti, notiamo che, in questi ultimi anni, la tendenza si è accentuata » 9.

Un altro tipo di calcolo si può fare prendendo in considerazione l’insieme della posizione degli investimenti internazionali degli Stati Uniti alla fine dell’anno, fra il 1950 e il 1970.

In questi calcoli si distinguono gli investimenti diretti a lungo termine, di cui ci siamo occupati, da altri tipi di transazione di capitale, come gli investimenti a lungo termine non diretti (di portafoglio), i diritti e i debiti a breve termine, i crediti del governo e le riserve monetarie. Secondo questi calcoli, gli investimenti internazionali degli Stati Uniti sono cresciuti da 36.727 milioni di dollari a 69.067 milioni nel 1970. Nello stesso periodo il patrimonio delle imprese straniere negli Stati Uniti crebbe da 17.632 milioni di dollari a 97.507 milioni. Si vede perciò che il gran saldo attivo ottenuto dagli investimenti diretti degli Stati Uniti viene fortemente diminuito dal calo delle riserve.

E’ importante segnalare che mentre il patrimonio e gli investimenti internazionali degli Stati Uniti tra il 1950 e il 1970 crescono di quasi due volte (e includiamo tutte le voci del paragrafo precedente), anche il patrimonio e gli investimenti stranieri negli Stati Uniti presentano un forte aumento da 17.632 milioni di dollari nel 1950 a 97.507 milioni nel 1970, un aumento quindi, molto superiore a quello degli investimenti nord-americani all’estero.

Occorre tuttavia ricordare che, mentre gli investimenti nordamericani all’estero tendono ad essere essenzialmente investimenti diretti, i quali sono aumentati di oltre 10 volte negli ultimi anni, per quel che riguarda gli investimenti di imprese straniere negli Stati Uniti sono gli investimenti di portafoglio che sono cresciuti nello stesso periodo di circa 9 volte, mentre gli investimenti diretti sono aumen-tati di circa 4 volte.

Questi dati rivelano che le società multinazionali tendono ad espandersi, a differenziarsi, a farsi più complesse e a mescolare investimenti di diverso tipo che prendono differenti direzioni e si intrecciano. Questi dati confermano anche pienamente la tendenza alla universalizzazione del capitale, che viene ad essere l’aspetto principale delle attività internazionali degli Stati Uniti e porta con sé il fenomeno del parassitismo. Per comprendere il significato di questi movimenti storici e le loro prospettive di sviluppo, è necessario analizzare l’evoluzione storica della cellula base del processo di internazionalizzazione del capitale, e cioè la società multinazionale.

L’evoluzione della società internazionale

Le prime operazioni internazionali delle società capitaliste moderne avvennero nel settore delle esportazioni. Il loro obiettivo — la conquista del mercato — le obbligava a creare filiali all’estero con lo scopo di commercializzare i loro prodotti. Per gran parte del XIX secolo le imprese capitaliste si dedicarono a questo tipo di espansione. Già nella seconda metà del secolo XIX cominciarono a presentarsi nuove possibilità di investimenti all’estero. Il capitalismo era riuscito a creare un mercato di capitali a livello internazionale. Molti paesi meno sviluppati mettevano in vendita, alla borsa di Londra o in altre borse importanti, le azioni delle loro imprese. Diventava perciò possibile comprare azioni di imprese in altri paesi e, attraverso gli investimenti di portafoglio, ottenere il controllo soprattutto delle imprese minerarie ed agricole in altri paesi. Nello stesso tempo il controllo di mercati esteri per l’esportazione comincia ad aver bisogno di una politica più centralizzata e unificata che si effettua attraverso le « holdings » e i cartelli.

Il centro dell’espansione economica di questo periodo è costituito soprattutto dall’Inghilterra e da alcuni paesi europei che, creando una industria di base nella seconda metà del secolo XIX e riuscendo a industrializzare la produzione di macchine, aprirono prospettive di grande espansione per i loro investimenti; nello stesso tempo aumentarono in modo rilevante la domanda di materie prime e di prodotti agricoli. Per soddisfare questo mercato in espansione nei paesi centrali, si sviluppa una importante produzione mineraria e agricola nei paesi periferici, che avevano già una tradizione come esportatori, terre vergini che potevano essere conquistate dai coloni, oppure un’economia agraria tradizionale abbastanza rilevante e una certa esperienza mercantile, in paesi cioè che disponevano di una base per intensificare la loro produzione per l’esportazione.

Si forma così, nella seconda metà del secolo XIX, una economia di esportazione su vasta scala, controllata generalmente da capitalisti del posto o dalle società degli stessi paesi sviluppati. Queste società si trasformarono in un nuovo tipo di impresa, e cioè o in sussidiarie delle società dei paesi dominanti oppure in società costituite al solo scopo di controllare il mercato o la produzione in questi paesi.

Generalmente queste società assumevano le caratteristiche di una « enclave », cioè di un’azienda all’interno di un paese con economia precapitalista che produce essenzialmente per il mercato estero, sviluppando al loro interno una economia particolare con motivazioni capitalistiche molto chiare, ma utilizzando rapporti di produzione generalmente più arretrati di quelli del capitalismo sviluppato.

In generale queste aziende hanno scarsi contatti con l’economia del paese che le ospita. Questi contatti, quando esistono, assumono la forma di pagamento di imposte e di acquisti di prodotti necessari all’impresa, sia per i suoi lavoratori, sia per la sua produzione. Queste imprese hanno perciò un carattere complementare nei confronti dell’economia dominante, e non nei confronti dell’economia dove operano direttamente; da questa ragione deriva loro il carattere di « enclave ». La loro libertà di azione, la loro autonomia amministrativa, il loro isolamento sociale sono così rilevanti che intere regioni vengono plasmate dalla loro direzione quasi autocratica 10.

Nell’America centrale vi sono segni molto evidenti del dominio di questo tipo di società, delle quali la United Fruit fu la più significativa. Sono classici gli esempi di questa identificazione tra l’impresa e certe regioni. Quando ha esaurito le terre di una zona, la società si trasferisce in un’altra, portando via perfino i binari ferroviari. Se ne va la popolazione, se ne vanno le istallazioni, le case, i traffici, e intere regioni, da un giorno all’altro, si trasformano in deserti umani e naturali.

Perfino la moneta circolante all’interno di questa azienda era quasi tutta straniera, dato che riuscivano a risolvere il problema del capitale di giro pagando i lavoratori con gettoni, con i quali dovevano per forza comperare negli spacci della società.

Molte volte i prodotti che vi si vendevano erano importati dagli stessi paesi d’origine della casa madre e si riusciva così ad evitare la necessità di disporre di capitale di giro per pagare i lavoratori. Per quel che si riferisce ai tecnici in generale, molto spesso venivano pagati in dollari o nella moneta del paese dominante; essi vivevano in questi paesi, o più precisamente in queste aziende, in queste « enclaves » dei paesi dipendenti, come in una propaggine della loro casa e del loro paese, in contatto molto più stretto con la cultura, l’economia e la società proprie che con quelle del paese dove era collocata l’« enclave ».

Questo tipo di società non era molto complesso, dato che era quasi un’estensione all’estero della casa madre. Minimo era lo sforzo di adattamento al paese che l’ospitava, come pure minima era la dipendenza dall’economia di tale paese. Logicamente, sorgevano problemi politici con le classi medie dei paesi dipendenti che, per un lungo periodo, svolsero una politica di opposizione antimperialista, criticando il carattere di semplice sfruttamento delle « enclaves », che non lasciavano quasi niente di questo sfruttamento per i lavoratori locali e per le classi medie e la borghesia del paese.

Per questo motivo, le classi medie arrivarono fino ad appoggiare l’organiz-zazione dei lavoratori contro i loro padroni, perché potessero ottenere migliori condizioni nelle trattative con essi.

Parallelamente a questi investimenti, che avevano lo scopo di sviluppare la produzione per servire il mercato dei paesi dominanti, si sviluppa anche un altro tipo di investimenti con fini più commerciali, e cioè, fondamentalmente, quello di facilitare la vendita dei propri prodotti all’estero. Questi investimenti vengono effettuati sia nelle economie sviluppate che in quelle sottosviluppate e servono principalmente a portare a termine il prodotto per mezzo di fabbriche collegate all’apparato commerciale, esportatore, che generalmente li precede.

Già negli anni ’20 e ’30 si impiantarono le prime fabbriche di montaggio per le auto e altri prodotti che avevano bisogno di una linea di montaggio più complessa. Si venne a formare così un nuovo tipo di investimenti all’estero, con lo scopo di servire i mercati interni dei paesi sviluppati e sottosviluppati.

Nel periodo postbellico gli investimenti sia degli Stati Uniti sia dell’Europa si orientano di nuovo, in maniera definitiva, verso i settori industriali dei paesi sviluppati e dipendenti. Le ragioni sono le seguenti:

1) la ripresa economica dell’Europa, che apre enormi prospettive di investimenti, e lo sfruttamento da parte delle grandi società nordamericane, dei vantaggi relativi di cui disponevano per utilizzare questa ripresa come strumento di espansione dei loro investimenti;

2) nei paesi dipendenti il progresso industriale, raggiunto negli anni ‘30, per gli effetti della crisi del 1929, aveva impedito il controllo diretto dei mercati di questi paesi attraverso le esportazioni dai paesi dominanti. Si era sviluppata un’industria locale per servire il mercato interno e tutto un apparato di leggi e di politiche governative per favorire questo sviluppo, con il forte appoggio della classe operaia e/o contadina e delle classi medie.

In questo modo, il ritorno degli investimenti in questi paesi, nelle condizioni favorevoli createsi nel dopoguerra per l’investimento estero nordamericano, esigeva una riconversione verso i settori industriali sollecitati dai loro mercati interni.

Oltre alle restrizioni all’importazione di prodotti lavorati, che obbligavano a produrli all’interno, si presentavano una serie di vantaggi relativi che rendevano questi investimenti quanto mai favorevoli e interessanti. Da una parte i prezzi imposti dal protezionismo erano molto alti, dall’altra la mano d’opera e i costi industriali erano molto bassi. Nell’ansia di attirare il capitale straniero, i governi dipendenti si affannavano a dare « aiuti » e concessioni di ogni tipo. Infine il mercato interno, pur essendo relativamente piccolo, era costituito da una classe media e una borghesia ricche e in espansione.

I dati relativi a questo aspetto sono abbastanza indicativi:

nel 1929 gli investimenti nordamericani nell’industria mineraria ed estrattiva erano di 1.200 milioni di dollari; nel 1950 di 1.100 milioni di dollari; nel 1970 di 6.100 milioni di dollari. Vi fu forse un certo rallentamento in questi investimenti tra il 1929 e il 1950 e una certa ripresa dopo gli anni ’50, ma, in molti casi, i nuovi investimenti nell’industria mineraria ed estrattiva hanno un carattere abbastanza diverso da quello degli anni precedenti; molte volte sono destinati a servire anche mercati interni e non solamente per l’esportazione. Tuttavia, per quel che riguarda la partecipazione relativa degli investimenti nell’industria mineraria ed estrattiva essi passarono dal 16 per cento al 9,3 per cento nel 1950 e al 7,8 per cento nel 1970.

Il petrolio è un altro importante settore di investimenti che mantiene ancora la sua importanza, soprattutto per il rinnovamento subito in conseguenza dell’espansione dell’industria petrolchimica, che ne ha fatto la base di una delle più importanti industrie moderne. Per questo pensiamo che non tutti gli investimenti odierni nel settore petrolifero da parte delle grandi società sono diretti all’esportazione; una parte è diretta al mercato interno dei paesi dove risiedono, pur trattandosi di una percentuale molto inferiore. Nel 1929 questi investimenti erano di 1.100 milioni di dollari; nel 1950 di 3.400, milioni di dollari; nel 1970 di 21.800 milioni di dollari. Abbiamo quindi una percentuale del 14,7 per cento per il 1929; del 18,8 per cento per il 1950; del 27,9 per cento nel 1970, degli investimenti nordamericani all’estero.

Gli investimenti nelle industrie manifatturiere che erano di 1.800 milioni di dollari nel 1928, arrivano a 3.800 milioni di dollari nel 1950 e a 32.000 milioni nel 1970. La partecipazione passa dal 24 per cento nel 1929 al 32,2 per cento nel 1950 e al 41,2 per cento nel 1970, venendo ad essere la voce principale degli investimenti nordamericani all’estero nel 1970.

La voce «altri», che comprende agricoltura, commercio, ecc., è abbastanza importante, ma in passato lo era molto di più.

Nel 1929 era di 3.400 milioni di dollari, nel 1950 di 3.500 e nel 1970 di 17.900 milioni di dollari; la sua partecipazione scende quindi dal 45,3 per cento al 29,7 per cento e al 23 per cento.

Questi dati generali sugli investimenti nordamericani dal 1929 al 1970 11 ci dimostrano con estrema chiarezza l’importanza relativa raggiunta dagli investimenti industriali negli ultimi anni. Analizzando la situazione degli investimenti mondiali di tutti i paesi dell’Ocse (cioè Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Olanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti) notiamo che nel 1966, mentre l’industria mineraria e estrattiva rappresentava il 7 per cento, quella manifatturiera occupava già il primo posto con il 40 per cento e la voce « altri » raggiungeva il 24 per cento. Però, per quel che riguarda le regioni sottosviluppate, il petrolio occupava una posizione di privilegio, dato che vanno compresi gli investimenti del Medio Oriente che sono quasi esclusivamente nel settore petrolifero.

Perciò il petrolio rappresenta il 40 per cento dell’insieme degli investimenti dei paesi della Ocse all’estero nel 1966, mentre l’industria mineraria ed estrattiva raggiungeva il 10 per cento, la manifatturiera il 27 per cento e la voce « altri » il 23 per cento.

E’ interessante mettere in rilievo che gli investimenti nel settore petrolifero sono così significativi a causa dell’incidenza relativa del Regno Unito, i cui investimenti nei paesi sottosviluppati sono così ripartiti: 35 per cento nel settore petrolifero, 23 per cento nell’industria manifatturiera e il 37 per cento nella voce «altri», che comprende importanti investimenti agricoli nei paesi dipendenti dall’Inghilterra. E’ chiaro quindi che accanto a un settore nuovo e importante permangono le forme tradizionali di investimento. Invece un paese come la Germania mostra un orientamento molto marcato verso il settore industriale, dato che, su un totale di investimenti di 2.500 milioni di dollari di cui 845 nei paesi dipendenti, 645 vengono destinati all’industria. Su un totale di 2.100 milioni di dollari investiti nei paesi dipendenti, gli investimenti francesi nel settore industriale sono di 1.280 milioni di dollari.

Questi dati rivelano che, ancor oggi, settori come il petrolio sono abbastanza caratteristici, ma indicano pure che si è creata una struttura economica nuova degli investimenti all’estero e dimostrano che la maggior parte di essi, soprattutto negli ultimi anni, è stata destinata soprattutto al settore industriale, al settore commerciale e ai servizi e, qualche volta, anche al settore agricolo che serve il mercato interno dei paesi dove sono diretti gli investimenti.

Questa tendenza dominante negli anni ‘50 e al principio degli anni ‘60 rappresenta un cambiamento molto significativo anche nella struttura delle imprese. Quella che oggi chiamiamo società multinazionale è soprattutto il risultato di questo fenomeno che porta al superamento delle economie di « en-clave », da noi precedentemente analizzate.

La nuova situazione che si è venuta a creare comporta un cambiamento qualitativo rispetto allo studio precedente, per quel che concerne il funzionamento delle leggi economiche. Il mercato interno dei paesi ai quali sono destinati questi investimenti presenta una dinamica economica che ha proprie leggi di sviluppo. La sussidiaria, che viene ad integrarsi in questa economia per servire le necessita di mercato, non può più comportarsi secondo il modello astensionista che era caratteristico

dell’« enclave ». Essa deve prendere in considerazione le leggi economiche che regolano questa economia, la distribuzione delle entrate, le possibilità di espansione economica, di nuovi investimenti; deve legarsi, in un certo modo, al mercato finanziario per ottenere il suo capitale di giro; deve vincolarsi alla realtà politica di questi paesi, che è influenzata dalla politica economica nel suo insieme. La politica economica, infatti, agisce sull’inflazione, sulla politica dei crediti e su tutti gli aspetti del normale funzionamento dell’economia dei paesi in cui la società opera.

I vincoli organici con le economie « ospitanti »

Il contatto con l’economia « ospitante » (come viene chiamata da alcuni studiosi nordamericani l’economia che è vittima del processo di sfruttamento di queste società) si fa perciò molto più profondo e organico. Sia per ragioni di ordine economico, sia a causa della politica economica vigente, le imprese straniere sono costrette a rifornirsi di certi prodotti (a volte, anche della totalità dei prodotti che consumano) sul mercato locale. Restringiamo l’analisi di questo problema al caso delle economie dipendenti, nelle quali si avvertono più direttamente gli effetti dei vincoli tra le società multinazionali e i mercati locali.

Si comprendono agevolmente i motivi di carattere economico che portano a questi cambiamenti considerando che molte imprese si trasferiscono nei paesi dipendenti a causa della vicinanza di alcune materie prime, che consente di diminuire non solo il costo dei trasporti ma anche altri costi, il che giustifica l’utilizzazione dei rifornimenti locali. Ma non sempre l’approvvigionamento sul posto viene utilizzato in modo esteso, dato che molte volte le imprese preferiscono rifornirsi a prezzi più alti presso le loro case madri o presso altre ditte dello stesso gruppo economico nei paesi sviluppati, allo scopo di approfittare di alcuni espedienti fiscali, come i sovrapprezzi, oppure per l’interesse a trasferire i profitti nei paesi sviluppati, dove hanno maggiori occasioni di investimento.

D’altra parte, le industrie nei paesi sviluppati vivono in un costante stato di sottoutilizzo, dato che è più vantaggioso aumentare le vendite attraverso gli acquisti delle proprie sussidiarie piuttosto che creare delle nuove imprese. Per tutti questi motivi, e ancor più per pressioni esercitate dallo Stato e per altri interessi nazionali del paese di origine, le società multinazionali tendono a rinviare il processo di sfruttamento e collegamento con i rifornimenti locali, soprattutto di prodotti più industrializzati.

Le ragioni di politica economica sono molto più forti: in generale i governi di tipo « sviluppista » esigono che le filiali e le sussidiarie che si installano nei loro paesi si riforniscano sul mercato locale. Vi sono settori nei quali si pone maggiormente l’accento, com’è il caso dell’industria senza casa madre, per la quale molti paesi dipendenti hanno chiari programmi di nazionalizzazione della produzione per formare un nucleo industriale, in vista di raggiungere uno sviluppo economico.

II finanziamento è un’altra forma di contatto delle società con l’economia « ospitante ». Generalmente le sussidiarie sono create attraverso un sistema di credito internazionale, per cui i paesi dominanti (specialmente gli Stati Uniti) finanziano i governi locali perché essi trasferiscano questo finanziamento a imprese nordamericane, le quali lo utilizzano per l’acquisto di macchinari e di altri prodotti di base nel paese che ha concesso il credito. L’operazione si articola così in 4 fasi circolari: gli Stati Uniti aprono un credito, attraverso qualcuna delle istituzioni bancarie internazionali di cui dispongono (o il credito viene aperto da una istituzione multinazionale sotto controllo nordamericano) per il finanziamento di una determinata società, come ulteriore investimento di capitale, oppure per creare una nuova società.

Il governo del paese che riceve l’aiuto (grato per l’aiuto che favorisce il suo sviluppo, ecc.) si assume la responsabilità del debito, ma poiché l’aiuto é destinato a un determinato investimento, viene trasferito all’impresa sussidiaria o a una impresa mista con capitali nazionali o statali. Nei due casi di società mista si deve ricordare che l’aiuto si trasferisce verso il capitale degli azionisti stranieri che si associano a quelli nazionali o allo Stato. Lo Stato partecipa infatti con la sua parte, la società nazionale con un’altra e la parte dell’aiuto viene destinata chiaramente a formare il capitale della società straniera che si installa nel paese 12. Così si completa la seconda fase, il che significa, come abbiamo visto, che lo Stato del paese ospitante assume la responsabilità finanziaria del debito della società beneficiaria, che è straniera.

La terza fase è il trasferimento del contenuto reale di questo «aiuto». In realtà, esso è solo un credito che permette di importare determinati prodotti, in generale macchinari e installazioni. Possiamo quindi concludere dicendo che il circolo si chiude con questa terza fase e ci si accorge che il contenuto reale dell’«aiuto» è una semplice esportazione di merci con credito dello Stato, con interessi abbastanza alti, destinato alle sussidiarie americane all’estero, garantito dagli Stati dipendenti.

Queste spese per investimenti sono vincolate e le merci devono essere comprate nel paese che da l’aiuto.

Con questo meccanismo il governo finanzia le società del suo paese che hanno bisogno di vendere i loro prodotti all’estero.

I prezzi che si pagano per queste merci sono determinati da condizioni altamente monopolistiche e al di fuori di ogni concorrenza sul mercato internazionale. Non occorre analizzare qui il risultato di queste forme di «aiuto» ai paesi dipendenti.

E’ importante segnalare tuttavia che questo tipo di finanziamento presuppone un vincolo tra la sussidiaria all’estero e il governo del paese « ospitante » nonché con i suoi programmi di sviluppo economico; ciò é tanto più importante quanto maggiore è la sua autonomia relativa e la sua capacità di decisione autonoma. Questo vincolo rappresenta qualche cosa di nuovo nei paesi dipendenti e comporta in un certo senso la sottomissione del gran capitale a leggi economiche nuove, nelle quali il capitalismo di stato dei paesi dipendenti ha un peso molto significativo. Perché un’impresa funzioni occorre il capitale di giro per pagare gli operai, i lavoratori in genere e certe materie prime che si trovano sul mercato locale. Questo capitale funziona con moneta del posto e perciò deve essere raccolto sul mercato dei capitali; si crea così un legame con il sistema bancario del paese « ospitante ». A questo scopo si utilizza molte volte un sistema bancario straniero, creato attraverso filiali bancarie, che sono molte volte legate agli stessi gruppi economici ai quali appartiene l’impresa. Ciò significa che il sistema bancario multinazionale non funziona solamente per finanziare operazioni di carattere internazionale, ma anche per finanziare operazioni chiaramente legate al mercato locale.

Questo sistema bancario comincia anche a raccogliere gran parte del risparmio locale, trasformandosi così in un concorrente della banca locale e creando una società multinazionale di tipo finanziario. Le conseguenze dello sviluppo di tali vincoli finanziari sono molto evidenti nel caso dell’Europa, dove non solo le banche multinazionali intervengono profondamente nella vita locale dei vari paesi, ma sono anche legate. in maniera diretta alla formazione di un mercato finanziario parallelo, cioè gli eurodollari. Nei paesi dipendenti questo processo è ancora agli inizi, ma tende a svilupparsi.

Un altro tipo di legame con l’economia ospitante che si produce nelle nuove condizioni di internazionalizzazione del capitale è costituito dallo sviluppo del processo di commercializzazione. Questo processo ha vari aspetti e comprende non solo la vendita del prodotto a un intermediario o direttamente a un consumatore, ma anche la creazione di un apparato commerciale, costituito sia da imprese che effettuano la commercializzazione sia da personale destinato a questo ramo di attività, che crea vincoli concreti col processo economico locale.

Ma oggi la commercializzazione é intimamente legata alla pubblicità dei prodotti, il che comporta la creazione di un sistema di preparazione di annunci economici o di una agenzia pubblicitaria. La commercializzazione è anche legata a operazioni di « marketing » più ampie, per le quali è necessario un sistema di analisi di mercato assolutamente indispensabile per le odierne operazioni capitaliste. A tutto il sistema di analisi di mercato e di pubblicità, sono legati i problemi di presentazione dei prodotti che, come sappiamo, non riguardano solamente l’aspetto esterno dell’involucro, ma anche la presen-tazione del prodotto stesso, specialmente per quanto riguarda i prodotti di consumo di massa.

Questo porta, di conseguenza, alla necessità di installare un sistema minimo di ricerca e sviluppo (molto più di sviluppo, che di ricerca) per assicurare il funzionamento di un buon sistema di marketing che permetta di essere competitivi sul mercato locale. Questa competitività ha possibilità immediate o potenziali tranne nel caso dei produttori dei paesi sottosviluppati senza grandi prospettive; ma soprattutto le ha per le società di paesi sviluppati le quali sono in grado di competere sia sui mercati dei paesi sviluppati sia su quelli dei paesi sottosviluppati.

Nella misura in cui è necessario assicurare il grado di controllo economico raggiunto precedentemente, si fanno sempre più forti le tendenze ad aumentare il grado di articolazione dei gruppi internazionali con i mercati locali dei paesi «ospitanti».

Le possibilità di mantenere questo controllo sono aumentate, perché gli alti tassi di profitto generano grandi eccedenze finanziarie che possono essere reinvestite nel paese « ospitante » senza impedire una grande mobilità finanziaria a livello internazionale. Nello stesso tempo bisogna soddisfare le esigenze di espansione della sussidiaria sul mercato locale per mantenere la sua capacità competitiva e anche, evidentemente, per sfruttare le possibilità di investimento che offrono questi paesi.

Ci troviamo quindi davanti a due ordini di problemi. Il primo, si riferisce al trasferimento dei profitti, i quali comportano un rapporto tra monete e, quindi, legano molto strettamente le società agli interessi finanziari dei paesi in cui operano. Il capitale straniero arriva a interessarsi in maniera molto diretta alla politica finanziaria da due punti di vista. Da un lato, si rende necessario il dominio dei fattori della congiuntura, il che esige la conoscenza e la previsione dei mutamenti del valore delle monete. D’altro lato è indispensabile influire sulla politica finanziaria a più lungo termine.

Per il primo punto, le società multinazionali hanno bisogno di un apparato di esperti finanziari, che permetta di controllare le oscillazioni del valore delle monete a livello internazionale, in modo da poter spostare il denaro da un paese all’altro a seconda delle variazioni che intervengono nei cambi. Per quel che riguarda la politica a lunga scadenza, le società hanno interesse ad influire sulla politica locale per poterla dirigere in modo da rendere più facile la libera entrata ed uscita dei profitti.

A tale scopo le società multinazionali parlano oggi in nome di un nuovo liberalismo (posizione difesa dalla commissione speciale della Ocse che si dedica allo studio dei movimenti di capitali), che renda più facile le operazioni internazionali della società, l’entrata e l’uscita di denaro non solo in grandi quantità costituite dai profitti annuali, ma anche in denaro liquido (hot money).

Questo permetterebbe una forte mobilità del capitale a livello internazionale. Malgrado l’aspetto più speculativo che propriamente imprenditoriale di questo tipo di operazioni, esse rappresentano gran parte dell’attività degli amministratori delle società.

Allo stesso modo, la necessità di orientare correttamente i reinvestimenti esige una conoscenza molto approfondita del mercato locale. Alle società multinazionali interessa ottenere i migliori risultati finanziari dai mercati locali e sfruttare al massimo le possibilità di nuovi investimenti, soprattutto quando offrono tassi elevati di profitto.

Per sviluppare un efficiente programma di investimenti locali, bisogna disporre di un apparato per le ricerche di mercato, con un buon livello di previsione, di una conoscenza dell’economia nazionale e di una certa influenza sulla politica economica, che consentano di sfruttare correttamente le possibilità di investimento.

Tutti questi meccanismi portano alla formazione di uno stretto legame con l’economia locale, per potere utilizzare positivamente i vantaggi relativi che offre la condizione di multinazionale ai fini del dominio dei mercati locali.

Vediamo perciò che le società multinazionali, quando ampliarono l’area di operazione delle società internazionali e indirizzarono la produzione verso i mercati locali, crearono un nuovo ordinamento nell’economia dei paesi dove si trasferirono le loro sussidiarie.

Esse stabilirono nuovi legami di carattere economico, sociale e politico con tali economie. Questi legami incidono sul loro funzionamento interno e su quello del paese « ospitante » e aprono un nuovo capitolo nella storia delle relazioni economiche internazionali.

Si deve sottolineare che l’importanza dei cambiamenti di funzionamento studiati è molto maggiore nei paesi dipendenti che in quelli che avevano già raggiunto un maggior grado di sviluppo.

La dinamica creata da questi legami organici con le economie locali è tanto più determinante per la vita del paese quanto minore è il suo sviluppo economico precedente.

I paesi dipendenti hanno una struttura produttiva molto debole, una classe dominante nazionale dominata dal capitale internazionale, una autonomia di decisione economica minima.

Per tutti questi motivi l’invasione della società multinazionale attraverso gli investimenti nei mercati locali distrugge le basi di resistenza del capitale nazionale e crea una nuova classe dominante, così come comincia a determinare la dinamica dell’insieme del suo sviluppo economico, aprendo una nuova tappa nella sua evoluzione storica. I fenomeni accennati meritano perciò un’analisi più approfondita, per l’importanza degli effetti che essi producono sul piano nazionale e internazionale.

La società multinazionale è il nucleo di una nuova economia mondiale e bisogna analizzare più da vicino le contraddizioni che racchiude nel suo complesso sviluppo.

Le contraddizioni del multinazionalismo

Dalle analisi fatte risulta evidente che la sussidiaria che si orienta verso un mercato locale segue una dinamica diversa da quella delle società del tipo « enclave » che dominarono l’economia mondiale fino al 1945, e si differenzia anche dalle filiali destinate alla vendita o a certi processi finali di produzione, ossia le fabbriche di « assemblaggio ». Questa dinamica è condizionata in buona parte dalle leggi di sviluppo della economia di montaggio dove è avvenuto il trasferimento del capitale. Questo condizionamento è tanto maggiore quanto maggiori sono lo sviluppo dell’economia del paese che riceve il capitale e l’autonomia relativa del suo mercato interno. Anche nel caso dei paesi dipendenti abbiamo un condizionamento da parte della struttura del mercato locale che subordina alle sue leggi la società multinazionale.

Il fattore determinante del funzionamento della società multinazionale continua ad essere l’interesse del grande capitale, che nasce dalla struttura economica dei paesi dominanti e soprattutto della potenza egemone nel sistema internazionale.

Questa struttura è strettamente intrecciata con l’economia internazionale che essa egemonizza. D’altra parte la società multinazionale rappresenta una unità economica in una certa misura autonoma dalla economia dominante. Gli interessi dell’insieme delle sue operazioni internazionali determinano la sua condotta più immediata e creano una struttura di rapporti cellulari che, pur essendo determinati dalla struttura capitalista internazionale, formano la rete di rapporti fondamentali sopra i quali poggia questa struttura. All’interno della società multinazionale si mescolano e tentano di conciliarsi gli interessi contraddittori creati da questi tre livelli strutturali: l’economia locale, l’economia dominante e la società multinazionale.

La lotta per coordinare le dinamiche che orientano queste istanze, nel quadro dell’economia capitalista internazionale, comporta un nuovo ordine di problemi che si esprime attraverso l’insieme di contraddizioni che la società multinazionale deve affrontare.

La società multinazionale, intesa come una organizzazione internazionale, ha interessi, strategia, organizzazione e finanziamento propri. Da questo punto di vista ha i suoi interessi specifici all’interno dell’economia mondiale. Cosicché, teoricamente, potremmo pensare che la società multinazionale operi con un criterio diverso da quello dell’economia del paese dove ha il suo centro di operazioni. Sappiamo, tuttavia, che questa indipendenza della società multinazionale è relativa, dato che la sua forza economica è in gran parte basata sul potere dell’economia nazionale da cui essa prende l’avvio. Nello stesso tempo le sussidiarie sono sottoposte alla dinamica globale della società multinazionale e, insieme, alla capacita economica e alle leggi di sviluppo dell’economia in cui operano. Perciò la tendenza a sviluppare le sussidiarie in direzione del mercato interno, le fonti di rifornimento locale e la nazionalizzazione della produzione vengono a trovarsi in contrasto sia con gli interessi della società nel suo insieme, sia con quelli dell’economia del paese dominante.

La società multinazionale, presa nel suo insieme, non vuole essere costretta a fare investimenti complementari per garantire il controllo dei mercati nei quali si trasferisce; il suo interesse è di far circolare il capitale non in funzione della integrazione economica delle strutture locali, ma per accrescere l’ammontare e il tasso dei suoi profitti a livello internazionale.

La società vuole conservare una grande facilità di trasferimento dei suoi profitti verso altre regioni. Questo fatto entra in contraddizione con gli interessi della economia locale presa nel suo insieme, perché il suo sviluppo può continuare solamente per mezzo di stimoli artificiali e del protezionismo, dato che il suo mercato interno é ristretto e non permette un alto tasso di investimenti.

Se la società multinazionale segue le leggi della libera concorrenza internazionale, avrà la tendenza a reinvestire i profitti non nei paesi dipendenti, ma in quelli che offrono grandi mercati interni in espansione. I vantaggi della manodopera a buon mercato e delle protezioni tariffarie che permettono di ottenere alti tassi di profitto nei paesi dipendenti vengono ad essere annullati dalla limitatezza dei mercati che essi presuppongono.

D’altro canto, le economie dei paesi dominanti hanno interesse a mantenere le loro esportazioni a un livello elevato.

Queste esportazioni possono anche essere stimolate a breve scadenza dagli investimenti all’estero — soprattutto nei paesi dipendenti — quando aumenti il consumo di macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate. Questa situazione cambia, tuttavia, nella misura in cui tali paesi riescono a produrre questi macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate, dando un nuovo drastico orientamento al commercio mondiale.

Le economie dei paesi dominanti, prese nel loro insieme, risentono perciò dello sviluppo economico dei paesi dipendenti quando esso assume una forma capace di portare all’autonomia. Per queste contraddizioni, la classe dominante dei paesi dominanti cerca di conciliare questi opposti interessi orientando lo sviluppo economico dei paesi dipendenti in modo da renderlo più compatibile con l’interesse a conservare la potenza dell’economia dominante dove il capitale internazionale ha le sue basi più solide e ad aumentare la capacita di movimento di questo stesso capitale internazionale.

Ma ciò non risolve del tutto le contraddizioni del multinazionalismo, poiché questa libertà d’azione del capitale lo porta ad aumentare i suoi investimenti nelle economie capitaliste più dinamiche, che non sono né quelle dei paesi dipendenti, né gli Stati Uniti, ma altri paesi capitalisti avanzati.

Questa situazione fa aumentare gli investimenti riguardanti questi paesi a scapito degli Stati Uniti. In ogni modo la piena liber di movimento del capitale internazionale entra in conflitto con gli interessi del suo centro egemonico, tende a indebolirne l’economia e rende più profonde le sue contraddizioni interne.

Per far fronte a interessi così complessi che si manifestano al suo interno, la società multinazionale deve garantire il controllo assoluto sulle sue sussidiarie, che potrebbero seguire gli interessi locali e pregiudicare, in futuro, la base di potere della casa madre.

Nasce, così, un importante problema di controllo e la società madre comincia ad operare, in gran parte, in funzione del dominio che può esercitare sulla sussidiaria.

La sua politica finisce per essere guidata più dalle esigenze di controllo che da quelle che presenta il mercato e dalle possibilità di sviluppo. Questa contraddizione può portare l’impresa sussidiaria a una situazione di impotenza nei confronti delle esigenze dell’economia dei paesi dove si trova, nei confronti della concorrenza degli investitori nazionali e di altri paesi dotati di maggiore elasticità e possibilità di sviluppare il campo specifico in cui si produce una situazione di immobilità. La contraddizione diventa più acuta quando la società nel paese « ospitante », sia esso sviluppato o anche dipendente con un certo grado di sviluppo, comincia ad avere la possibilità di competere con la società madre attraverso le esportazioni verso altri mercati. In queste condizioni l’impresa sussidiaria comincia a competere con la società dominante non solo sul mercato specifico in cui opera, ma anche su altri mercati. Nei paesi piccoli questo fenomeno ha poca importanza; ne ha invece nei paesi dominanti o nei paesi sottosviluppati con un certo livello di potenzialità economica.

Questa situazione si produce di frequente come risultato della logica di sviluppo della impresa capitalista, che cerca di superare il suo mercato iniziale e di ampliarlo costantemente.

D’altra parte, gli stessi interessi delle economie nazionali, nel senso di aumentare le loro esportazioni, creano una dinamica oggettiva che le società sussidiarie sono costrette a seguire per non essere emarginate. Per questo motivo diventa necessario un forte controllo monopolistico dei mercati locali e delle politiche economiche dei loro governi, per permettere alla società di controllare queste tendenze. Come vedremo, il grande capitale non ha motivo di opporsi sistematicamente a questa tendenza. L’iniziale atteggiamento di resistenza è progressivamente sostituito da un riconoscimento delle leggi di sviluppo e dall’intento di incanalare questo processo a favore dei propri interessi, sebbene questo implichi il sacrificio di certe posizioni e della propria base nazionale di potere, cioè gli Stati Uniti come economia dominante.

Vedremo come la strategia ideata cerchi di assicurarsi con altri mezzi questa egemonia.

Una sussidiaria ha scarse possibilità di liberarsi e vi sono leggi internazionali abbastanza forti per garantire il controllo da parte della società madre; ma, evidentemente, in circostanze politiche eccezionali, questo controllo può cambiare, questa capacità di controllo può essere messa in discussione. Di conseguenza, la società dominante deve preoccuparsi di impedire uno sviluppo eccessivo della sussidiaria, che potrebbe permetterle di trasformarsi in una sua concorrente. Studiando i problemi di organizzazione vedremo quali forme abbiano cercato le società per assicurarsi questo controllo. Ci sono, tuttavia, altre alternative, seguite da alcune società o gruppi economici, che favoriscono una più vivace concorrenza interna tra le loro sussidiarie, poiché il controllo finanziario resta in mano al gruppo centrale. Queste tendenze sono in corso e ancora non si sa che risultato daranno.

Nella misura in cui si sviluppano senza un sicuro orientamento, le contraddizioni cui si è accennato tendono a creare un’anarchia sempre meno controllabile nel mercato mondiale, portando i paesi capitalisti a un confronto fra di loro e con le società multinazionali.

Per questo la teoria economica borghese, i suoi politici, ideologi ed esperti hanno cercato di ridare rapidamente un orientamento a questa nuova economia internazionale che nasce con il multinazionalismo. Dobbiamo perciò studiare più a fondo i nuovi rapporti di scambio che lo sviluppo della società multinazionale crea a livello internazionale.

La società multinazionale e la divisione internazionale del lavoro

Nella lotta tra la società madre e la sussidiaria si rispecchiano le contraddizioni più profonde tra l’economia del paese egemone, le altre economie dominanti e le economie dipendenti.

Queste contraddizioni si manifestano, a livello della economia internazionale, attraverso i rapporti che stabiliscono tra di esse.

Questi rapporti hanno la loro infrastruttura nella divisione internazionale del lavoro, che cerca di rendere compatibili le diverse economie nazionali in un sistema di riproduzione internazionale della economia.

Le contraddizioni che nascono dallo sviluppo del multinazionalismo avevano trovato una prima soluzione negli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. Questa soluzione si basava sullo scambio di macchinari, attrezzature e materie prime lavorate da parte dei paesi dominanti, contro materie prime e prodotti agricoli da parte dei paesi dipendenti. Vediamo in maniera particolareggiata questa forma di scambio.

Per quanto concerne i paesi sviluppati si presentavano due nuove grandi voci di esportazione; il che non significava porre fine completamente alle antiche esportazioni di prodotti di consumo finali, ma sostituirli progressivamente, nella misura in cui la loro produzione si sviluppava alla periferia del sistema.

La prima voce è l’esportazione di macchinari e attrezzature industriali, commerciali e di servizi. Investire in un paese che non ha un settore sviluppato per la produzione di macchine, comporta una domanda di questi beni di produzione nei paesi sviluppati. La vendita di queste macchine viene generalmente controllata dai grandi gruppi economici; inoltre, i crediti per il finanziamento si ottengono presso le banche o presso i governi controllati da questi gruppi. In molti casi i macchinari e le attrezzature che si trasferiscono nei paesi dipendenti sono già stati usati dalla società che effettua gli investimenti e che realizza, in questo caso, un buon affare, rinnovando contemporaneamente le sue istallazioni.

Le materie prime industrializzate che si esportano nei paesi dipendenti costituiscono la seconda voce di esportazioni, che riscatta il carattere di complementarità di queste economie. Montare una industria comporta l’utilizzazione di certe formule o la necessita di un tipo specifico di materie prime semi-industrializzate. Gran parte degli investimenti di petrolio raffinato furono fatti nel settore dell’industria chimica che utilizza direttamente materie prime industrializzate; ma questo accade anche in altri settori, come quello tessile, della gomma, ecc. Quando unità di produzione si istallano in altri paesi, aumenta il consumo di queste materie prime lavorate e aumenta così il commercio di questi prodotti tra il paese che fa l’investimento e quello che lo riceve, nella misura in cui le società preferiscono rifornirsi dalla casa madre. Qualche volta succede che si riforniscano da qualche sussidiaria, un fenomeno del resto frequente negli ultimi anni, come risultato naturale dell’avanzata del multinazionalismo.

D’altra parte bisogna notare anche che gran parte di questi acquisti di materie prime vengono effettuati all’interno di una stessa società o di uno stesso gruppo economico, trasformandosi così in una operazione interimprenditoriale a prezzi artificiali, che permette di assicurarsi forme indirette di trasferimento di profitti attraverso il sovrapprezzo e offre nel contempo degli espedienti per evadere l’imposta sul reddito nel paese dove opera l’impresa.

In questo modo la politica di sviluppo, che cercava di stimolare l’ingresso del capitale straniero nel settore industriale, il miglioramento dei prezzi dei prodotti esportati, i prestiti internazionali e gli « aiuti » economici, veniva a costituire un insieme di misure complementari intese a formare una unità di interessi, sul piano internazionale, tra paesi dipendenti e paesi dominanti, che si esprimeva nella divisione del lavoro tra esportatori di materie prime e prodotti agricoli da una parte, ed esportatori di macchinari, di attrezzature e materie prime industrializzate dall’altra. La condizione per mantenere questa divisione del lavoro era che non si sviluppassero nei paesi dipendenti i settori di produzione di macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate. Abbiamo visto tuttavia che la logica stessa dello sviluppo economico capitalista entrava in contraddizione con queste limitazioni e si scontrava con gli interessi immediati del grande capitale.

Questa complementarietà dimostra così il suo carattere provvisorio. Primo: perché le economie dipendenti esercitano una pressione crescente nel senso che i rifornimenti e i settori economici complementari si sviluppano in questi paesi. Secondo: perché l’industria di macchinari tende anch’essa a svilupparsi con questo fine. Terzo: perché la stessa sussidiaria della società multinazionale, avendo la necessita e la possibilità di fare nuovi investimenti e trasformandosi in un importante acquirente di certi prodotti, finisce con l’essere interessata a creare questi settori complementari, allo scopo di ottenere i prodotti a prezzi più bassi. Infine un effetto molto più importante ed essenziale: si viene progressivamente a creare la possibilità di dominare la forza lavoro a livello internazionale, a prezzi molto più bassi, con facilitazioni di commercializzazione, con potenziale istallato non utilizzato, con appoggi governativi sempre più sostanziosi per una politica di sviluppo economico basato sul capitale straniero, con l’annullamento dell’opposizione nazionale borghese, che si raggiunge soprattutto negli anni ’60, e con la formazione di una burocrazia tecnocratica e militare « sviluppista », che si identifica strettamente con gli obiettivi del capitale internazionale.

Tutti questi fattori concorrono a creare la possibilità reale che queste industrie dei paesi dipendenti, oltre ad orientarsi verso il loro mercato interno, si trasformino anche in importanti società di esportazione, sia per aree più arretrate o vicine, sia per aree controllate economicamente e politicamente da paesi intermediari degli Stati Uniti, sia per sfruttare vantaggi relativi all’interno di una comunità economica (come l’Inghilterra rispetto al Commonwealth o le sue ex colonie africane integrate nel Mercato Comune), sia, infine, per sfruttare il vasto mercato nordamericano, gran consumatore di prodotti che hanno bisogno di molta manodopera e che sono cari e di cattiva qualità negli Stati Uniti. Per tutti questi motivi si apre uno spazio a una politica di esportazione dai paesi progrediti e dai paesi dipendenti verso gli Stati Uniti o verso altre zone dei paesi sviluppati.

Inizia così una terza fase nella storia degli investimenti stranieri all’estero, caratterizzata dagli investimenti nel settore manifatturiero, allo scopo di effettuare esportazioni. Nonostante il suo carattere recente, se ne può valutare il rapido sviluppo in base ai dati forniti da Raimond Vernon, sulle vendite, nel 1957 e nel 1958, delle sussidiarie industriali straniere delle società americane classificate secondo il mercato di destinazione (fonti del Dipartimento del Commercio).

Nel 1957, le sussidiarie nel Canada destinavano circa l’85 per cento delle loro vendite al mercato interno, circa il 10 per cento a esportazioni negli Stati Uniti e circa il 5 per cento a esportazioni in altre aree. Nel 1968 la proporzione delle vendite locali è del 70 per cento, quella delle vendite negli Stati Uniti del 20 per cento, e quella delle vendite ad altre regioni del 10 per cento.

In Europa, nel 1957, il 75 per cento delle vendite è destinato al mercato locale, il 4 per cento al mercato nordamericano e circa il 20 per cento a mercati di altre regioni. Nel 1968, si registra già un forte aumento del totale delle vendite, delle quali più del 20 per cento è destinato al mercato di varie aree, il 3 per cento al mercato nordamericano e il resto al mercato locale.

Nell’America Latina l’esportazione, nel 1957, era minima. Quasi tutte le vendite erano destinate al mercato locale. Nel 1968 le sussidiarie industriali latinoamericane destinano già circa il 10 per cento delle loro vendite in parte agli Stati Uniti e la maggior parte ad altre regioni.

Anche nelle altre regioni, escludendo il Canada, l’Europa e l’America Latina, si registra una tendenza all’aumento delle esportazioni. E’ importante notare che le vendite delle sussidiarie industriali nordamericane nell’America Latina oltrepassano nel 1968 i 750 milioni di dollari, il che rappresenta più del 40 per cento di tutte le esportazioni di manufatti latinoamericani nello stesso anno; queste vendite comprendevano forti quantitativi di prodotti chimici, di macchinari e di parti di automobili. Questi nuovi investimenti vanno distinti in due tipi. Uno è diretto verso i « paesi emporio », e cioè quei paesi che esplicano solamente una funzione di intermediario, e che si limita a completare una fase finale della produzione dei prodotti. E’ il caso della Corea del Sud, di Hong Kong, del Messico del Nord e della Cina nazionalista, dove si istallano aziende per completare la lavorazione di prodotti, le cui parti sono fabbricate in altri paesi, specialmente negli Stati Uniti.

Si tratta semplicemente di sfruttare la manodopera a buon mercato per certi lavori finali che hanno caratteristiche semi-artigianali e richiedono molta mano d’opera con un certo grado di specializzazione artigianale. In questi casi vengono compensate le spese di trasporto, oltre a trarre vantaggio dalle esenzioni fiscali e dalle altre facilitazioni offerte da questi paesi.

Un altro tipo di investimenti nel settore manifatturiero destinati all’esportazione è quello che cerca di sfruttare le materie prime nazionali industrializzandole prima di esportarle.

Questi investimenti trovano però un limite nella vecchia politica imperialista intesa a far sì che l’industrializzazione avvenga nel paese dominante. Nel caso degli Stati Uniti le difficoltà sono particolarmente grandi, dato che da molti anni il governo nordamericano, sotto la pressione dei settori industriali, pone una serie di ostacoli all’importazione di prodotti già industrializzati, assoggettandoli a tasse molto alte. Esistono tuttavia grandi possibilità di espansione per questo tipo di investimenti sotto il patrocinio di istituzioni internazionali, come l’UNCTAD, che li presentano come la grande alternativa per ristabilire condizioni di scambio favorevoli ai paesi sottosviluppati.

Se la industrializzazione delle materie prime può offrire qualche vantaggio immediato, non rappresenta affatto una soluzione per i problemi del sottosviluppo, e tanto meno nella misura in cui viene effettuata dalle imprese straniere, che trattengono le eccedenze ricavate da questa attività e le trasferiscono all’estero sotto forma di enormi profitti.

Un aspetto più nuovo, tuttavia, è costituito dagli investimenti in prodotti più sofisticati da esportare nei paesi sviluppati. Si tratta in genere di un’industria per la produzione di parti per prodotti finali da realizzarsi nei paesi sviluppati. Vi sono parti di certi prodotti, come quelli elettronici, le quali hanno bisogno di una mano d’opera abbastanza numerosa e specializzata, che si trova con più facilità nei paesi con uno sviluppo relativo inferiore. Vi sono casi di industrializzazione di prodotti di base che passano per un certo processo di sofisticazione per il quale sono necessarie imprese di alto livello.

E’ il caso della produzione di acciaio, materia prima lavorata che richiede grandi investimenti e offre una bassa redditività negli Stati Uniti, dove attraversa una crisi molto grave, che trasforma questo paese in un potenziale acquirente di tale prodotto. Altre voci come tessili, scarpe, caffè solubile, ecc. formano una estesa gamma di prodotti che presentano un grado di industrializzazione relativamente basso delle materie prime e richiedono una mano d’opera semi-artigianale, i cui salari negli Stati Uniti sono molto alti.

Un altro fattore rilevante è la differenziazione di questi prodotti, a causa della sofisticazione del mercato, il che richiede una produzione su scala ridotta, una buona rifinitura e altri fattori che rendono più elevati i costi in una economia sviluppata.

Esiste dunque un altro campo di investimenti industriali per l’esportazione che si dirige in gran parte verso il mercato nordamericano; si tratta senza dubbio di un vastissimo campo aperto agli investimenti delle multinazionali, che trovano così una nuova complementarietà internazionale a un livello superiore e una nuova divisione internazionale del lavoro. Questa avrebbe, qualora si riuscisse a realizzarla su vasta scala, una stabilità storica relativa che consentirebbe al capitalismo, a livello mondiale, di avere a disposizione un periodo di sopravvivenza più lungo di quello che gli concede la sua attuale struttura economica, che dal 1968 attraversa una profonda crisi internazionale.

La società multinazionale, negli ultimi tempi, tenta di adeguarsi a queste nuove tendenze trasformandosi internamente, creando nelle alte sfere e nel pubblico un’opinione favorevole a questi cambiamenti, studiando le alternative di sviluppo e le strategie che esse implicano, cercando di prevenire i gravi problemi e le contraddizioni che esse recano in sé.

Difficoltà e contraddizioni della nuova divisione internazionale del lavoro

L’instaurazione di questa nuova divisione internazionale del lavoro presuppone la soluzione di molti problemi preliminari, tra i quali, in primo luogo, la divisione interna che questa politica provoca in seno alla stessa borghesia dei paesi dominanti. Questa soluzione comporta il sacrificio della media e piccola borghesia all’interno dei paesi dominanti a favore del progresso delle società multinazionali e della borghesia internazionale che, paradossalmente, passa a controllare buona parte dell’economia nazionale attraverso il dominio dell’apparato produttivo delle altre nazioni. Questa contraddizione è grave e di difficile soluzione, perché le borghesie locali dei paesi dominanti sono ancora molto forti ed hanno un’influenza politica, hanno capacita di resistere al grande capitale internazionale, soprattutto nella misura in cui riescono ad influenzare altri settori della popolazione e a muoverli politicamente.

Se pensiamo che al mercato locale nordamericano sono legate in maniera fondamentale società di grande potenza, possiamo dedurne che si tratta di un confronto tra giganti e non semplicemente tra alta borghesia e borghesia media. A lunga scadenza, le borghesie locali non potrebbero resistere, soprattutto perché non hanno da offrire un’alternativa di sviluppo economico a livello nazionale e internazionale, ma un’alternativa di regresso, d’immobilismo, di ristagno che ai nostri giorni non può rappresentare, evidentemente, una base valida per una politica economica con proiezioni internazionali.

Per far fronte a questo problema, la borghesia internazionale cerca sempre più di caratterizzare la società multinazionale come un tipo diverso d’impresa, che rappresenta una nuova concezione internazionale e una nuova tappa nella storia dell’umanità.

I suoi ideologi cercano di distinguerla nettamente dalle società tradizionali, lottando per liberarla dalla immagine negativa che il monopolio ha acquistato nel movimento liberale con radici nelle classi medie e nel movimento operaio nord-americano, e sviando la lotta politica verso problemi marginali.

La situazione attuale è molto complicata, perché i dirigenti sindacali reagiscono contro l’aumento delle importazioni negli Stati Uniti, che avvengono a danno della produzione locale e che portano innegabilmente alla disoccupazione di gran parte della popolazione operaia nordamericana. Trascinati dal loro spirito corporativo, gli operai nordamericani tendono a formare un fronte comune con i settori più conservatori, invece di innalzare una bandiera indipendente di carattere socialista, che permetta di superare veramente queste contraddizioni.

Dalla prospettiva dell’insieme dell’economia nordamericana, lo sviluppo di questa nuova divisione internazionale del lavoro significa l’accentuazione di una economia parassitaria, con un accrescimento del settore dei servizi, delle persone che vivono di rendita, con i suoi effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti. Infatti il conto capitali, per quanto alto, non riuscirebbe a coprire del tutto il « deficit » che risulterebbe da un conto commerciale sempre più negativo in funzione di questo tipo di sviluppo dell’economia mondiale.

Tenuto conto dell’opposizione del settore nazionale dell’alta borghesia, di importanti settori della piccola e media borghesia e del movimento operaio e delle difficoltà immediate create dalla bilancia dei pagamenti, l’alta borghesia internazionale ha davanti a sé un periodo più o meno lungo per risolvere le contraddizioni insite nel passaggio a una nuova divisione internazionale del lavoro, che consentirebbe di salvare il sistema capitalista per un certo periodo di tempo.

Il trionfo di questo modello di sviluppo comporta l’accentuazione e l’approfondimento del processo di concentrazione e di monopolizzazione dell’economia, fino a livelli che superano di molto la nostra immaginazione.

Con esso si approfondisce la crisi della piccola borghesia, delle sue ultime forme di potere locale o regionale, e si accentuano i conflitti interregionali all’interno dei paesi capitalisti così come le loro espressioni nazionali e religiose. Insieme alla crisi di questi settori, si assiste alla pauperizzazione e all’emarginazione di milioni di lavoratori agricoli e urbani, che sopravvivevano grazie alla conservazione di queste imprese minori.

Nei paesi dipendenti queste contraddizioni si presentano in forme molto acute. I pochi settori nazionali della borghesia che hanno resistito al processo di snazionalizzazione degli ultimi anni, la piccola e media borghesia, vedono chiaramente che questo schema di sviluppo toglie loro ogni speranza di sopravvivenza come classe e lo contrastano in maniera accanita ed idealista, sia da destra che da sinistra.

Gli operai e i lavoratori in genere e le grandi masse dei sottoccupati e dei disoccupati non hanno alcun posto di rilievo in questo nuovo ordine di cose. Al contrario, esso rende più profonda la loro pauperizzazione e la loro emarginazione dal sistema produttivo e inoltre devia il grande potenziale di lavoro di questi paesi per servire i mercati già costituiti nel mondo, e cioè quelli che ora godono di entrate più elevate.

La tendenza di questo schema di sviluppo è di rafforzare, in maniera brutale, l’attuale struttura di distribuzione delle entrate nel mondo, assicurando, in maniera disperata, la sopravvivenza del sistema socio-economico su cui essa si poggia.

Dato il carattere nettamente irrazionale e reazionario del modello di crescita del capitale monopolistico internazionale, si determina contro di esso la formazione di un confuso schieramento di quelle forze sociali che ne vengono danneggiate o anche distrutte. Abbiamo visto che tra queste forze si forma un blocco prevalentemente conservatore che comprende i capitalisti orientati verso i loro mercati nazionali, i settori di destra delle classi medie e della piccola borghesia, settori oligarchici anch’essi danneggiati da questa espansione del capitale internazionale che arriva perfino alle campagne, senza contare quei settori più poveri della popolazione, specialmente tra i sottoccupati e disoccupati, che possono essere trascinati, con un programma radicale, contro l’ordine di cose instaurato dal grande capitale.

D’altro lato si forma un blocco di forze proletarie, con l’appoggio delle masse semi-proletarie e della piccola borghesia rurale e urbana, uniti da un programma anti-imperialista e antimonopolistico in grado di aprire un’alternativa rivoluzionaria, di carattere socialista. Questi due grandi blocchi di forze, che prendono forma storicamente come risultato della crisi generale del 1929, da molto tempo tendono a trasformarsi in una nuova realtà storica all’interno della nuova crisi del capitalismo mondiale che stiamo vivendo dal 1969 13.

All’interno della nuova economia mondiale capitalista, di cui la società multinazionale è la cellula, si sviluppano le seguenti tendenze: crescente concentrazione e monopolizzazione su scala internazionale, sfruttamento del mercato degli Stati Uniti e di altri paesi sviluppati da basi produttive situate nei centri di mano d’opera a buon mercato, rinascita del commercio mondiale sulla base di una nuova divisione internazionale del lavoro, crisi politica quale conseguenza dei forti interessi che saranno schiacciati da questo processo, formazione di un blocco fascista e di un blocco antimonopolista e antimperialista di carattere socialista, e la conseguente radicalizzazione della situazione politica, accentuazione della lotta interregionale e internazionale per facilitare o impedire questo processo di concentrazione, di monopolizzazione e di internazionalizzazione.

In questo modo la nuova divisione internazionale del lavoro, invece di salvare il capitalismo dalla sua crisi finale, rende questa crisi più profonda e porta la società multinazionale, che ne è la manifestazione cellulare, a rispecchiare nel suo interno, nella sua programmazione, nella sua strategia e nelle sue forme di organizzazione, le contraddizioni che il capitalismo non riesce a risolvere.

Bisognerebbe segnalare, infine, che in questo nuovo contesto la nuova società che si profila ha caratteristiche che cominciano a notarsi ora. In primo luogo, essa incomincia ad agire strategicamente sempre meno in funzione di interessi nazionali e sempre più in funzione degli interessi generali dell’impresa.

In secondo luogo, nell’insieme della sua strategia di crescita, gli aspetti speculativi e finanziari acquistano un ruolo sempre più predominante.

In terzo luogo, la società si trasforma a poco a poco in un organo di direzione finanziaria e di investimento, anziché in un organo di direzione del processo produttivo e l’attività produttiva si separa progressivamente dall’attività di direzione generale dell’impresa.

In quarto luogo, queste nuove condizioni si rispecchiano in un aumento anarchico della produzione e delle attività svolte, sfociando in un processo di conglomerazione a livello internazionale che non è altro che una estensione del processo di conglomerazione che si verifica a ritmo accelerato negli Stati Uniti.

Questa rapida analisi della evoluzione delle società internazionali ci mostra la complessità delle forme e dei tipi che queste società devono assumere nel loro sviluppo, in funzione dei loro interessi generali, in funzione dell’interesse del paese dove si installano, in funzione della opposizione o della conciliazione d’interessi, con i paesi in cui operano. Perciò è necessario uno studio dei diversi tipi di imprese che si creano in questo processo.

NOTE:

Il saggio di Theotonio Dos Santos “Considerazioni sulle società multinazionali” fu pubblicato su PROBLEMI DEL SOCIALISMO – Rivista bimestrale diretta da Lelio Basso – N. 16/17 – terza serie – anno XV – 1973 (pag. 555-597) – MARSILIO EDITORI

1 Questo raffronto si trova nel lavoro di Stephen Hymer The Multinational Corporation and The Law of Uneven Development; manoscritto da pubblicare in J. N. BHAGWAITI (a cura di) Economics and World Order, New York, World Law Fund, 1970.

2 La diversità di situazione fra le operazioni delle imprese e gli affari dei capitalisti si deve alla grande espansione del capitale finanziario nel periodo in cui il mercato azionario ebbe il suo primo grande sviluppo. D’altra parte, l’Inghilterra aveva un forte commercio estero, a differenza degli Stati Uniti, paese per il quale il commercio estero ha importanza relativa scarsa. Lo studio di Hobson sull’Imperialismo e quello di Hilferding sul Capitale finanziario sono i due classici su questo tema, che servì di base a Lenin e Bucharin nelle loro opere fondamentali sull’imperialismo.

3 RAIMOND VERNON, Sovereignity at Bay, The Multinational Spread of US Enterprises, Basic Books, New York, 1971. La fondazione Ford finanzia un’ampia ricerca dell’autore su questo tema presso l’Università di Harvard. Il professor Vernon, malgrado le nostre divergenze ideologiche, mi ha permesso di consultare buona parte del suo materiale ad Harvard. Nel suo libro mi considera uno dei migliori espositori dell’ideologia marxista contraria alla società multinazionale. Anche se non accetto la qualifica di ideologo, che mette in discussione il carattere scientifico del nostro lavoro, devo ricambiargli la lode di buon espositore: il professor Vernon è, senza dubbio, uno dei migliori espositori dell’ideologia del grande capitale internazionale, che cerca di rendere più accetta alle sue vittime la società multinazionale.

4 United States Department of Commerce, Bureau of International Commerce, Office of International Investment, Staff Study, The Multinational Corporations: Studies on us Foreign Investment, vol. I, marzo ‘72.

Questo volume comprende i primi tre di cinque studi sulle società multinazionali commissionati dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. I lavori riuniti in questo volume rappresentano la più completa raccolta di informazioni disponibili oggi sul tema.

5 I calcoli a questo riguardo sono molto vari. « Business Week » del 19 dicembre 1970, calcola che la produzione annuale totale delle società nordamericane all’estero ammonta a 200 miliardi di dollari, il che equivale al prodotto nazionale lordo del Giappone; Judd Polk, console della Camera Internazionale di commercio, calcola che l’insieme delle imprese straniere appartenenti alle società multinazionali di tutto il mondo ha una produzione di circa 450 miliardi di dollari, cioè circa 1/6 del prodotto mondiale lordo, che ascende a 3 bilioni di dollari. Facendo previsioni su tendenze in corso Polk calcola che, in una generazione, la maggior parte della produzione sarà internazionale. Un riassunto del suo intervento al Congresso Nord-americano si trova in « International Financés », A Chase Manhattan Newsletter, 17 agosto 1970.

6 Dati tratti da JAMES W. VAUPEL e JOAN P. CURHAN, The Making of Multinational Enterprises, Harvard University, Boston 1969.

7 Dati del Dipartimento del Commercio, The Multinational Corporation, vol. I. Tutte le volte che nel presente capitolo non citiamo la fonte ci riferiamo a questo studio.

8 Richiamiamo l’attenzione sull’enorme aumento degli investimenti esteri nordamericani negli anni ’50 e ’60. Nel 1950 questi investimenti ammontavano a 11.800 milioni di dollari, nel 1960 a circa 30.000 milioni, alla fine del decennio a 78.100 milioni.

9 Dipartimento del Commercio, The Multinational Corporation, vol. I, p. 10, dello studio su Policy aspects of Foreign Investment by us Multinational Corporation.

10 Una buona bibliografia sul tema e una delle migliori analisi sugli effetti sociali dell’enclave si trovano in Edelberto Torres.

11 I dati di questa parte sono stati ricavati dallo studio già menzionato sulle imprese multinazionali del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.

12 Su queste materie, vedere il capitolo sulla struttura della dipendenza nel nostro Dependencia y Cambio Social, quaderni del CESO, 1972 (seconda edizione) e di CAPUTO e PIZARRO Imperialismo, Dependencia y Relaciones Econémicas Internacionales, quaderni del CESO, 1972 (seconda edizione).

13 Su questa crisi, vedere il nostro libro La Crisis Norteamericana y America Latina, PLA, 1971.

America latina: un cammino “progressista” in salita

di Marco Consolo

Dopo le ultime tornate elettorali in America Latina, in Europa sono molte le aspettative a sinistra sulla situazione dei governi progressisti dell’America Latina e sulla loro possibilità di realizzare trasformazioni strutturali.  Le destre, infatti, hanno perso diversi governi in tutto il continente, e sono rimasti con Paesi “secondari” nello scacchiere regionale (Ecuador, Uruguay, Paraguay, Panama, El Salvador, Guatemala, Costa Rica ed oggi anche il Perù). A parte il Venezuela e Cuba che sono un caso a parte, tutti i principali Paesi del continente sono oggi governati da coalizioni “progressiste”, a partire dal gigante Brasile, passando per Messico, Argentina, Colombia, Cile, Bolivia e Honduras…

Molti analisti hanno parlato di una “seconda ondata progressista”, dopo quella degli anni passati, in cui si erano distinte le figure di Hugo Chavez, Lula, Evo Morales, Rafael Correa ed altri. Ma la situazione è molto diversa dal passato, e cerco di spiegare perché, a partire da alcuni nodi politici decisivi che questi nuovi governi stanno affrontando e che, ancor di più, dovranno affrontare in futuro.

In un mondo in aperta transizione verso un nuovo ed accelerato riassetto multipolare, la prima differenza col passato è la presenza di una crisi multifattoriale mondiale, in particolare economica, ambientale e alimentare. Una crisi che viene da lontano, ma che si è acuita sensibilmente prima con la pandemia e poi con la guerra in Ucraina. Nessun Paese ne è indenne ed il continente latino-americano è tra i più esposti, per diversi motivi. La CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi) delle Nazioni Unite, parla di una crescita limitata all’1% per il 2023. In un quadro di legislazioni fiscali fortemente regressive ed in mancanza di profonde riforme del regime tributario, le risorse a disposizione (e i margini di manovra) per le politiche pubbliche che possano colmare le distanze sociali sono quindi fortemente ridotte.

Nei giorni scorsi, si è svolto un vertice virtuale dei presidenti latinoamericani e caraibici alla ricerca di alternative per combattere l’inflazione e rafforzare le economie dei loro Paesi. L’incontro, denominato “Alleanza dei Paesi latinoamericani e caraibici contro l’inflazione”, è stato convocato dal presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador.

Hanno preso parte all’incontro i presidenti di Argentina, Alberto Fernández; Bolivia, Luis Arce; Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva; Cile, Gabriel Boric; Colombia, Gustavo Petro; Cuba, Miguel Díaz-Canel; e Honduras, Xiomara Castro. Erano presenti anche i primi ministri del Belize, Johnny Briceño, e di Saint Vincent e Grenadine, Ralph Gonsalves, oltre a un rappresentante del Venezuela. Tra i Paesi che hanno partecipato all’incontro virtuale, l’Argentina è quello che si trova ad affrontare la situazione più difficile, con un tasso di inflazione annuale record del 100%, mentre l’escalation dei prezzi di beni e servizi non si arresta da un decennio.

Il secondo nodo politico, su cui c’è ancora molta confusione è la differenza tra governo e potere, ovvero tra stare al governo o avere il potere.  Governare (e quindi con il potere politico) raramente coincide con avere gli altri poteri (finanziario, militare, mediatico, giudiziario, etc.).  Lo sa chi ha subito un golpe più o meno sanguinoso (a partire dal Cile di Allende, passando per il Brasile di Lula e Dilma Roussef o la Bolivia con Evo Morales, l’Honduras con Manuel Zelaya, etc.). E lo sanno quelli che oggi si scontrano con la contro-offensiva di quelle forze conservatrici e reazionarie che utilizzano tutta la “potenza di fuoco” nei vari campi, per difendere e mantenere i loro privilegi di classe. A proposito di mancato “potere mediatico”, forse i due esempi più eclatanti sono stati la cocente sconfitta nel voto cileno per cambiare la Costituzione ereditata da Pinochet, o il terrorismo mediatico nel caso colombiano contro la “riforma politica” che vorrebbe realizzare il governo di Gustavo Petro.

Il terzo nodo è dovuto alla composizione amplia ed eterogenea delle coalizioni politico-elettorali con cui hanno potuto vincere la battaglia elettorale ed il governo. In Brasile, ad esempio, per poter vincere Lula ha dovuto scendere a patti con il centro politico e con settori conservatori, a partire dal suo Vicepresidente Gerardo Alckmin. Ma vale anche per il Cile del governo di Gabriel Boric che, dopo la sconfitta nel voto sulla nuova Costituzione, ha allargato la sua coalizione alle forze più tradizionali (e screditate) del centro-sinistra. O dell’Honduras dove Xiomara Castro ha dovuto tirare come un elastico la sua coalizione elettorale verso il centro.  Una situazione che obbliga a estenuanti negoziati su ogni possibile riforma ed alla spartizione degli incarichi politici e istituzionali, non sempre ben vista dalla popolazione.

Il quarto nodo, strettamente collegato al precedente, è la mancanza di una maggioranza parlamentare a favore del governo. Una debolezza dovuta sia alle diverse leggi elettorali maggioritarie e a doppio turno, sia al rafforzamento delle destre (in particolare di quelle estreme) che sono cresciute nei diversi Paesi. Anche qui (ammessa e non concessa la volontà politica di trasformazioni più o meno profonde da parte dei governi “progressisti”), i margini di manovra sono molto ristretti. Le conseguenze sono chiare. In Cile, solo poche settimane fa è stata bloccata una timidissima “riforma tributaria” e l’agenda del governo è diventata quella che detta la destra, in particolare sulla “sicurezza” con la recente approvazione di una legge ribattezzata “legge grilletto facile” per le forze dell’ordine. In Colombia, il tentativo di “riforma politica” per rinnovare l’establishment istituzionale non appare neanche all’orizzonte, nonostante gli impegni elettorali dell’attuale governo. O in Perù, dove Pedro Castillo, al di là della sua poca esperienza, dei suoi errori e di una buona dose di ingenuità, si è dovuto scontrare con un Parlamento che gli ha dato filo da torcere dal giorno stesso del suo insediamento e che lo ha estromesso dal suo ruolo di Presidente, contribuendo alla sua carcerazione.

L’altro elemento decisivo è la debole o inesistente mobilitazione dei movimenti sociali, che hanno avuto un ruolo di primo piano prima nella mobilitazione nelle piazze e poi nella vittoria di questi governi. Sono diversi i fattori che concorrono a questo risultato. La “pace sociale” in presenza di un “governo amico”, la sussunzione di settori di movimento in area di governo, una certa “attesa” per vedere cosa farà finalmente il governo ed il disincanto di molti settori per la mancanza di coerenza tra ciò che si promette e ciò che poi si fa. Quando non si mantengono gli impegni presi in campagna elettorale, il fossato tra movimenti sociali ed i governi progressisti è direttamente proporzionale al passare del tempo. In molti Paesi, lungi dal cercare di stabilire sin dall’inizio un’articolazione con i movimenti sociali, seppur critica e conflittuale, i governi fanno appello alla loro mobilitazione quando i poteri forti hanno guadagnato terreno, la frittata è già fatta, e si cerca di correre ai ripari. Per i movimenti, non si tratta di rinunciare alla propria autonomia a favore di una visione “istituzionale” subalterna al governo, né di stare alla finestra a guardare, bensì di avere un ruolo attivo nello scontro di classe che inevitabilmente si apre.

L’altro fattore da tenere da conto è la crescita delle destre, in particolare di quelle più reazionarie e fasciste, a scapito delle destre “liberali” e “moderate” che perdono terreno un po’ ovunque. E’ il caso del Partito Repubblicano in Cile, del bolsonarismo in Brasile, del golpismo boliviano con alla testa i “Comitati civici”, di Javier Milei in Argentina… Lungi dal proporre una “ricetta economica” diversa dal passato, le destre del continente  ripropongono un modello di accumulazione basato su politiche che hanno aggravato, anziché risolvere, i problemi delle grandi maggioranze: riduzione dello Stato con le privatizzazioni, tagli alla spesa sociale, liberalizzazione dell’economia, firma dei Trattati di Libero Commercio (sia con gli USA che con la UE), etc. Mentre portano avanti revisionismo e “negazionismo” sui crimini delle dittature civico-militari, le destre usano a man bassa il tema “sicurezza”, da tempo loro cavallo di battaglia e priorità delle campagne politiche.

Rispetto alla cosiddetta “Agenda Sicurezza”, leit motiv delle destre non solo in America Latina, la verità è che sono scarse le evidenze statistiche a sostegno del clima di insicurezza e paura che si respira nell’aria. Ma i latifondi mediatici possono creare la “realtà” ed il bombardamento è incessante, anche grazie al monopolio (nel migliore dei casi oligopolio) della produzione e della circolazione delle informazioni. In mancanza di una legislazione che ne limiti lo strapotere, i grandi media sono al servizio degli interessi delle élite e dei loro investimenti, e nelle “reti sociali” gli algoritmi ricreano “realtà” e angoscia in modo uniforme e permanente. D’altra parte, la Storia ci insegna che la criminalità organizzata è stata spesso usata per condizionare o destabilizzare governi sgraditi al capitale.

Più in generale, in America Latina le democrazie soffrono crisi strutturali dal punto di vista dei sistemi politici: crisi di rappresentanza, di credibilità nelle istituzioni (che fa crescere disincanto ed astensionismo), di partecipazione, di affidabilità e di regimi politici presidenzialisti (praticamente in tutti i Paesi del continente), concentrati in una sola persona, il Presidente della Repubblica.

L’anno in corso, quindi, non sarà semplice ed è bene calibrare aspettative e possibili critiche tenendo conto anche di questi fattori. D’altra parte, spesso manca il coraggio per affermare relazioni internazionali a difesa degli interessi delle grandi maggioranze escluse e non inginocchiarsi davanti alle potenze ancora egemoniche, alle multinazionali ed ai “poteri forti” oligarchici, non farsi intimidire dalle campagne di terrore e di cospirazione golpista, legiferare nel settore comunicazioni, battersi apertamente contro quelli che si oppongono sfacciatamente ad una maggiore giustizia sociale, alla possibilità di un’efficace riforma fiscale, a una redistribuzione del reddito.

Rimane poco tempo per agire in maniera coerente, mobilitare i movimenti ed evitare che le destre reazionarie approfittino della debolezza e degli slalom di coloro che oggi governano per riprendere in mano il potere politico, utilizzando la propaganda milionaria veicolata dalle menzogne di mezzi di comunicazione e reti sociali compiacenti.

L’orologio della Storia non fa sconti.

Fonte: https://marcoconsolo.altervista.org/america-latina-un-cammino-progressista-in-salita/

LA GUERRA INVISIBILE DEI POTENTI CONTRO I SUDDITI

Intorno a “Dominio” di Marco D’Eramo

“Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete povero; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi prenderò di comandarvi.” Jean Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755)

di Vittorio Stano

Negli ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati. Dai birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo (1) con il suo libro “Dominio” ci guida nei luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.

Di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo. La rivolta dall’alto contro il basso ha investito tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia, l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi.

Ha sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito. Insorgere contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci. Il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento. Ma ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.

Questa guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi. Uno degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere: meno male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza in ogni dominio imperiale. Ma nemmeno l’impressionante rozzezza di questo presidente è riuscita a svegliarci dalla sonnolenza intellettuale in cui ci culliamo. Per rendercene conto basta osservare la sinistra occidentale: quel che ne resta è ormai totalmente thatcheriano, nel senso che ha fatto suo il famoso slogan “TINA” (There Is No Alternative) della Lady di Ferro, visto che ha interiorizzato il capitalismo finanziario globale come unico futuro possibile per il pianeta. È più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo !

Un baratro ci separa dagli anni ’60 quando quasi tutti si definivano “liberal”. Oggi, 60anni dopo la parola “liberal” è diventata un’ingiuria. Una guerra è stata combattuta. Se non ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari non accorgendosi così delle tendenze di lungo periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci nascondono la foresta. La sinistra occidentale si straccia le vesti accusando il proprio retaggio culturale e politico di ideologismo. La destra invece ha mantenuto il proprio retaggio culturale, politico e ideologico. Anzi ha preso dalla sinistra quello che le serviva per iniziare la sua contronarrazione.

Per capire meglio il versante ideologico dello scontro bisogna concentrarsi su tutto ciò che è successo negli Stati Uniti, avendo questo una valenza planetaria. La prima avvisaglia dello scontro la dette il signor John Merril OLIN (1892-1982) proprietario della omonima corporation specializzata in industrie chimiche e belliche, fondata in Illinois e infine atterrata in Missouri. Creata nel 1953 la fondazione Olin rimase praticamente inattiva fino al 1969, anno in cui il magnate fu sdegnato dalla foto di militanti neri che facevano irruzione – fucili in mano e cartucce a bandoliera – nel rettorato dell’ateneo in cui lui aveva studiato da ragazzo, la Cornell University, nel nord dello Stato di NewYork.

Ricordiamoci di come doveva apparire l’America a un capitalista in quegli anni: università in subbuglio, ghetti neri in rivolta, la guerra in Vietnam indirizzata verso una disonorevole sconfitta, Bob Kennedy e Martin Luther King uccisi l’anno prima. È comprensibile che la foto della Cornell sconvolgesse John Olin e lo inducesse a dotare la fondazione di nuovi e ingenti mezzi e di consacrarla a un unico obiettivo: riportare le università all’ordine.

QUEL FATALE MEMORANDUM DEL 1971

L’azione della Olin Foundation rimase isolata fino al 23.8.1971 data in cui la storiografia ufficiale situa l’inizio della “grande offensiva conservatrice”. Quel giorno Lewis F. Powell Jr. scrisse un memorandum alla Camera di Commercio degli USA intitolato: “Attacco al sistema americano di libera impresa”. Il Memorandum non se la prendeva tanto con gli estremisti, quanto con i moderati. Le voci più inquietanti che si uniscono al coro delle critiche vengono da elementi rispettabili della società: dai campus, dai college, dai pulpiti, i media, le riviste intellettuali e letterarie, le arti, le scienze, i politici.

Come accade a tutti coloro che prevaricano, ai leghisti italiani che si sentono vittime degli immigrati, agli israeliani che si sentono vittime dei palestinesi, anche Powell sente che gli imprenditori americani sono vittime, sono accerchiati e in pericolo d’estinzione (!!). Gli imprenditori devono quindi attrezzarsi a condurre una guerra di guerriglia contro chi fa propaganda prendendo di mira il sistema, cercando insidiosamente e costantemente di sabotarlo. Perciò è essenziale che i portavoce del sistema siano molto più aggressivi che nel passato. E il terreno principale dello scontro sono le università e le idee che esse producono perché è il campus la singola fonte più dinamica dell’attacco al sistema dell’impresa. E perché le idee apprese all’università da questi giovani brillanti saranno poi messe in pratica per cambiare il sistema di cui è stato insegnato loro a diffidare, cercando lavoro nei centri del vero potere e influenza del paese: 1) nei nuovi media, specie la TV; 2) nel governo, come membri del personale o come consulenti a vari livelli; 3) nella politica elettorale; 4) come insegnanti e scrittori; 5) nelle facoltà a vari livelli d’istruzione. E in molti casi questi intellettuali finiscono in agenzie di controllo o in dipartimenti statali che esercitano una grande autorità sul sistema delle imprese in cui non credono.

LE IDEE SONO ARMI

Le idee sono armi, le sole armi con cui altre idee possono essere combattute. Per combattere questa guerra di guerriglia, diceva Powell, il padronato deve imparare la lezione appresa tanto tempo fa dal movimento operaio. Questa lezione è che il potere politico è necessario; che tale potere deve essere coltivato assiduamente e che, quando necessario, deve essere usato anche aggressivamente e con determinazione, senza imbarazzo e reticenza. Una volta stabilito che la forza sta nell’organizzazione, in un’accorta pianificazione e messa in atto a lungo termine nella coerenza dell’azione per un numero indefinito di anni, nella scala del finanziamento disponibile, Powell passa ad articolare l’obiettivo su come riequilibrare le facoltà: attraverso il finanziamento di corsi, di dipartimenti, cattedre, libri di testo, saggi e riviste, e poi si allarga il raggio all’istruzione secondaria, ai media, alla TV, alla pubblicità e alla politica, al rendere a tutti i livelli più amichevole la giustizia verso gli imprenditori. L’appello di Powell fu ascoltato, non proprio nella forma che lui avrebbe voluto: una sorta di partito leninista del padronato. Fu ascoltato da un pugno di miliardari dell’America profonda.

LE TAPPE DELLA RICONQUISTA

La strategia che fondazioni come Olin, Bradley, Mellon Scaife, Richardson e Koch adottarono dopo il Memorandum di Powell fu esplicitata nel 1976 dall’allora 25enne Richard Fink (3): …”una concisa direttiva per determinare come l’investimento nella struttura della produzione delle idee può fruttare maggiore progresso economico e sociale quando la struttura è ben sviluppata e ben integrata”. Fink considerava le idee come prodotti di un investimento per una merce da imporre sul mercato: prima da produrre e poi da vendere. Ma come facevano le fondazioni a scegliere a chi dare i soldi quando università, think tanks e gruppi di cittadini competono nel presentarsi come i migliori richiedenti in cui investire risorse? Le università affermano di essere la reale fonte del cambiamento. Generano le grandi idee e forniscono l’impalcatura concettuale per la trasformazione sociale […] I think tanks ritengono di essere i più degni di sostegno perché lavorano su problemi del mondo reale, non su temi astratti […] I movimenti di base affermano di meritare appoggio perché sono i più efficaci nel realizzare gli obiettivi. Loro combattono in trincea, e qui è dove la guerra è vinta o persa. La prima fase è l’investimento nella produzione di input fondamentali che chiamiamo “materie prime”. La fase intermedia converte queste materie prime in prodotti a maggiore valore aggiunto se venduti ai consumatori. L’ultima fase consiste nella confezione, trasformazione e distribuzione del prodotto delle fasi precedenti per consumatori finali.

Applicato alla produzione e vendita di idee, questo modello si traduce in una prima fase che investe in “materie prime intellettuali”, cioè esplora e produce concetti astratti e teorie che, nell’arena pubblica, vengono ancora principalmente dalla ricerca condotta dagli studi nelle università. Queste teorie però sono incomprensibili al pubblico e –seconda fase- per essere efficaci devono essere trasformate in una forma più pratica e maneggevole. Questo è il compito dei think tanks (4). Senza queste organizzazioni la teoria e il pensiero astratto avrebbero meno valore e meno impatto sulla nostra società. Ma mentre i think tanks eccellono nello sviluppare nuove politiche e nell’articolare i loro benefici, sono meno capaci di produrre cambiamento. Movimenti di base sono necessari nell’ultimo stadio per prendere le idee dei think tanks e tradurli in proposte che i cittadini possono capire e su cui possono agire.

…”Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente che deve andare dalla produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica” (Charles Koch)

PENSATOI D’ASSALTO

Uno dei più autorevoli think tank conservatori è la Heritage Fundation. Aprì i battenti nel 1973 da un finanziamento di Joe Coors (5). Arrivarono in seguito molte donazioni da parte di diversi magnati, finchè all’inizio degli anni ’80 tra i finanziatori di Heritage figuravano le divisioni corazzate del capitalismo USA: Amoco, Amway, Boeing, Chase Manhattan Bank, Chevron, Down Chemical, Exxon, General Motor, Mesa Petroleum, Mobil Oil, Pfizer, Philip Morris, Procker & Gamble, RJ Reynolds, Union Cardibe, Union Pacific, etc…. E’ impressionante la somiglianza tra il modo in cui i think tanks conservatori hanno teleguidato Trump e il modo in cui telecomandarono Reagan.

Il 3.7.2020 nel sito web della Fondazione Heritage si poteva leggere: <<… La nazione è sotto attacco. Cosa fare per fermare il programma socialista della sinistra ?>> Il giorno dopo Trump affermava: … “il paese è sotto assedio da parte del fascismo di sinistra”.

Il think tank è un’entità peculiare il cui uso estensivo risale al dopoguerra. Nel 2019 vengono enumerati 8249 think tanks nel mondo, il 52% si trova in Europa (2219) e Nord America. Dei 2058 think tanks nordamericani, il 91% è statunitense. Louis Althusser, intellettuale francese, negli anni ’80 riteneva il think tank un “apparato ideologico di tipo nuovo”, che si situava a monte degli apparati ideologici tradizionali (scuola, chiesa, indottrinamento militare) o anche più recenti (mass media, soprattutto radio, TV e oggi social network). I think tanks esistevano già nel 1916 ma la novità oggi è la loro non dissimulata faziosità, il loro prendere apertamente partito e perorare le cause più estreme, in uno scontro frontale con il precedente fariseismo bipartisan di facciata. Questi nuovi think tanks da combattimento hanno un ruolo di primo piano nel fornire un arsenale intellettuale alla rivoluzione restauratrice. I più noti think tanks d’assalto sono: il Manhattan Institute for Policy Research (MI), il Cato Institute, la Hoover Institution e l’American Enterprise Institute (Aei). Il Manhattan Institute fu diretto anche da William Casey che ha diretto la CIA dal 1981 al 1987. Tra i finanziatori compaiono oltre ai soliti miliardari conservatori noti, la fondazione di Bill & Melinda Gates. Le loro mani sono rintracciabili in tutte le campagne ideologiche della destra degli ultimo 40anni. Ciò che chiedono, e ottengono, dai politici è la libertà da tutti i vincoli di legge, da tutti i regolamenti, compresi quelli che stabiliscono un salario minimo, limitano gli straordinari, vietano il lavoro minorile, ostacolano i monopoli, combattono l’inquinamento, delimitano lo sfruttamento delle risorse, tutti “lacciuoli” contro cui questi istituti si battono. Hanno fatto propria l’utopia di “Stato minimo” propugnata in quegli anni da R. Nozik (6) e la sua concezione estrema dei diritti individuali (…per Nozik “un sistema libero dovrebbe permettere agli individui di vendersi in schiavitù”). Inoltre fanno campagna contro il welfare state, contro il servizio sanitario, per limitare al massimo il ruolo dello Stato e cioè per ridurre il più possibile le tasse (…per Nozik le tasse sul lavoro non sono altro che “lavoro forzato”), per privatizzare la Social Security, la rete elettrica federale, l’intero apparato scolastico, le poste, la NASA. Sono anche contro l’interventismo USA in politica estera e pretendono sussidi alle grandi corporation finanziati dai contribuenti. Negli ultimi 20anni è diventato più difficile seguire traccia del denaro che porta dalle famiglie miliardarie ai think tanks, ma transitano attraverso enti intermedi, a statuto simile a quello delle fondazioni per quanto riguarda il regime fiscale, ma che hanno il vantaggio di garantire l’anonimato dei contribuenti. Anche i contributi alle campagne elettorali sono diventati irrintracciabili dopo la sentenza della Corte Suprema del 2010 che rese lecite illimitate donazioni anonime.

LA PARTITA E’ TRUCCATA, PERO’…

Una controffensiva efficace contro la rivoluzione conservatrice non può essere finanziata e alimentata da fondazioni “liberal”, da una ipotetica ala sinistra del capitale. Come se per il capitale ci fossero due squadre in campo e una, quella ultraconservatrice, avesse trovato l’infallibile tattica per vincere. Le fondazioni dell’ultradestra hanno stracciato quelle liberal non perché disponessero di più soldi, né perché attingessero a un serbatoio di menti più intelligenti, ma per la fondamentale asimmetria che in regime capitalistico sbilancia destra e sinistra verso un ipotetico centro. L’asimmetria sta nel fatto che la destra non mette in discussione (né in pericolo) l’ordine capitalistico, il capitalismo come sistema, mentre la sinistra anche non estrema lo mette in discussione (ragion per cui, se messo alle strette, il capitale preferisce sempre la soluzione fascista a quella socialista: non per chissà quale malignità, ma per semplice volontà di sopravvivenza). Questo fa sì che ci possano essere fondazioni capitalistiche di estrema destra ma non di estrema sinistra. La partita è truccata. Le fondazioni di estrema destra pesano di più perché veicolano, con determinazione quasi feroce, un messaggio estremo, utopico di capitalismo radicale, duro, puro, mentre le fondazioni di sinistra, liberal o progressiste, veicolano per forza di cose un messaggio moderato che già di per se propone un compromesso tra capitale e lavoro. Anche se la partita è truccata bisogna giocarla, altrimenti i padroni della terra vincono mano dopo mano senza che ce ne accorgiamo, come è avvenuto fino a ora. … Non basta un futuro da incubo, e persino la distruzione del futuro stesso, che i neoliberali stanno plasmando non solo per noi bipedi umani, bensì per tutti i viventi di questo pianeta. Non c’è ragione di escludere che credenze irrazionali come quelle per cui i mercati sono arabe fenici che nascono, si autoregolano e si rigenerano da sole, e per cui la convivenza umana è fondata sulla concorrenza (cioè che lo stare insieme è basato sul farsi la guerra !), non possano durare parecchi secoli o millenni, se coloro che le subiscono permettono senza reagire che queste stramberie dispongano delle loro vite.

Già il famoso Memorandum di Powell esortava esplicitamente a imparare le lezioni del movimento operaio e in pratica proponeva di costituire un PARTITO LENINISTA del PADRONATO. E ricordare quel Michael Joyce che diresse la fondazione Olin, secondo Forbes, s’ispirava a GRAMSCI quello dei “Quaderni del carcere”. E tutti i think tanks della destra conservatrice che hanno plagiato i concetti di egemonia, ideologia, hanno usato a proprio vantaggio la nozione di lotta di classe.

A proposito di lotta di classe il miliardario Warren Buffet rispose candidamente a un giornalista del NewYork Times il 26.11.2006 che gli chiedeva se esistesse ancora la lotta di classe: <<Certo che c’è la guerra di classe ma è la mia classe, la classe ricca, che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo>>. Cinque anni dopo Buffet ribadiva il concetto e affermava che i ricchi questa guerra di classe l’avevano già vinta ! E l’opinionista del Washington Post commentava: “se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata ingaggiata “from the top down” (dall’alto contro il basso), per decenni. E i ricchi hanno vinto. Non è un esaltato a parlare di guerra di classe dall’alto contro il basso, è uno dei protagonisti di questa guerra: la loro vittoria è tale per cui loro di questa guerra possono parlare senza ritrosia, MENTRE NOI SOLO A NOMINARLA CI VERGOGNIAMO E SIAMO SUBITO SOSPETTATI DI ESTREMISMO. È stata una guerra ideologica totale. Ha avuto la sua pianificazione, le strategie, la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi. Insomma la counter-intellighentsia dei miliardari ha imparato un sacco dai suoi avversari. Basti pensare che lo storico David Koch aveva commissionato una storia confidenziale delle attività politiche di suo fratello, scrisse di Charles Koch (7): “Non gli bastava essere l’Engels o persino il Marx della rivoluzione libertaria. Voleva essere il Lenin”. Fanno impressione tutti questi capitalisti o cantori del capitalismo che sognano di essere gli Engels, i Marx, i Gramsci, i Lenin del capitale. Non è solo una vaga ispirazione, o non solo modelli da imitare. Sono proprio tattiche da imparare, strategie da riprendere, scelta degli obiettivi da assimilare. Cominciamo dalla controrivoluzione ideologica di maggior successo foraggiata dalle fondazioni, Law and Economics. C’è una precisa ragione storica per cui i miliardari ultraconservatori decisero di finanziare così massicciamente questa disciplina giuridica. E la ragione è che la sinistra, i progressisti, i liberal avevano insegnato alla destra quanto decisiva potesse essere la magistratura nello scontro politico. Gli eventi sono ormai troppo lontani (tra 72 e 45 anni fa) e non li ricordiamo più o non ce ne rendiamo più conto, ma quasi tutte le vittorie conseguite nelle lotte per i diritti civili negli anni ’60 furono certo dovute alla pressione dei movimenti, all’eroismo e allo spirito di sacrificio dei militanti, ma furono sancite, consolidate e rese durature non da atti legislativi del congresso, bensì da sentenze della Corte Suprema, cioè da atti giudiziari.

LA CRUCIALE IMPORTANZA DELL’IDEOLOGIA

I neoliberali hanno appreso dai loro avversari la cruciale importanza dell’ideologia. Hanno imparato moltissimo su questo terreno, mentre è diventata una parolaccia per i benpensanti, per i progressisti da quartieri bene. Persino Fogel, lo storico che aveva rivalutato l’economia schiavista, parlando dell’immagine dei neri che avevano gli abolizionisti razzisti, si stupiva di questa eccezionale dimostrazione del potere dell’ideologia di cancellare la realtà. Viene inventata la nozione di “imprenditore ideologico” per poter incorporare l’ideologia all’universo neoliberale, per poter appropriarsene, e usarla. Quello che i neoliberali hanno imparato, assimilato e infine praticato, è l’idea che la società sia governata da un perpetuo scontro di classe, da una guerra tra dominati e dominanti. Così negli ultimi 50anni, nel momento in cui i dominanti formalizzavano e scatenavano lo scontro di classe contro i dominati, uno degli strumenti di questa lotta consisteva nel convincere i sudditi CHE NON CI FOSSE NESSUNO SCONTRO, che le classi fossero una balzana invenzione di qualche esagitato e che, se fossero esistite un tempo, ormai si erano estinte, spazzate via dalla storia, e che tutto quel che sussisteva fosse una MITICA, ONNICOMPRENSIVA, VAGA, FLUTTUANTE “CLASSE MEDIA” e tutt’al più una sottoclasse di poveri immeritevoli. Così mentre loro organizzavano la “guerra delle idee”, i loro avversari si crogiolavano (… e ci crogioliamo ancora) nella beata illusione di una società senza classi, senza conflitti d’interessi, obnubilati dall’immagine del sistema-paese, dell’impresa-Italia, di una concordanza d’ interessi, di un “remare tutti nella stessa direzione”, mentre i vincitori della guerra delle idee accumulavano e accumulano ricchezze e poteri inauditi. La società sta diventando sempre più diseguale, tanto che 10 persone al mondo possiedono un patrimonio superiore a quello di metà del genere umano. La crescita delle disuguaglianze è diventata una litania totalmente disconnessa dal problema del DOMINIO. È anche chic citare i libri di Thomas Piketty sul tema. Ma tutto lascia il tempo che trova. SIAMO DISEGUALI, e allora ?

IL MOMENTO DI IMPARARE DAGLI AVVERSARI

Visto che i dominanti hanno tanto imparato dai dominati, è forse giunto il momento che noi dominati impariamo da loro. Per come hanno condotto la loro vittoriosa controrivoluzione, ci hanno mostrato con chiarezza i terreni dello scontro, che abbiamo via via incontrato: l’ideologia, il fisco, la giustizia, l’istruzione, il debito.

Marines e miliardari del Midwest ci hanno fatto capire il ruolo decisivo dell’ideologia, ci hanno insegnato che il primo obiettivo è restituire allo scontro ideologico la dignità, la centralità che i dominati sembrano aver perso come senso comune perché “le idee sono armi” – le sole armi con cui altre possono essere combattute. Nell’era in cui i partiti di sinistra erano egemoni, avevano agito con successo come se capissero il ruolo degli intellettuali. Sia per disegno, sia perché costretti o guidati dalle circostanze, hanno sempre diretto i loro sforzi ad acquisire l’appoggio di questa élite. Per intellettuali F. von Hayek (8) intende i “rivenditori di seconda mano delle idee”, un gruppo che non consiste solo di giornalisti, insegnanti, sacerdoti, conferenzieri, pubblicisti, commentatori radio (Hayek, 1949), narratori, disegnatori di cartoni animati, e artisti e tutti coloro che padroneggiavano la tecnica di trasmettere le idee. Ma oggi si verifica un paradosso inverso a quello rilevato da Hayek che i portavoce delle “masse” conquistassero l’egemonia tirando dalla loro parte le élites. Quando Hayek scriveva la sinistra era elettoralmente sovrarappresentata tra gli strati a infimo reddito, a capitale quasi nullo e a bassissima istruzione. In 70anni la sua base elettorale è progressivamente cambiata finché oggi la sinistra è sovrarappresentata tra gli strati ad alta istruzione e reddito medio-alto e sottorappresentata tra i ceti a reddito esiguo e scarsa istruzione. Per dirla con Picketty (Il Capitale nel XXI secolo, Sinistra bramina contro destra mercante) oggi la sinistra rappresenta i “bramini”, mentre la destra rappresenterebbe i mercanti. Il risultato collaterale di questa evoluzione è che la parte della popolazione a scarso reddito e a bassa istruzione, cioè la plebe, non viene più rappresentata da alcuna forza politica della destra o della sinistra tradizionali. Gli intellettuali sono ritenuti più importanti dei mercanti.

Mentre gli intellettuali della sinistra subiscono una fascinazione irresistibile dal denaro dei mercanti. La faccenda è confusa dal fatto che gli intellettuali di oggi, tutti sostanzialmente conservatori e conformisti al neoliberismo, si sentono di sinistra, proprio come effetto della controrivoluzione ideologica neoliberale che, cancellando le categorie di “lavoro” e di “sfruttamento”, ha fatto sparire le linee del conflitto; ci ha immersi tutti in una sorta di marmellata sociale. Forse dipende anche dal fatto che la sconfitta ideologica è così enorme che la stessa parola “sinistra” non si sa più cosa significhi. Per me stare a sinistra vuol dire sempre e soltanto stare dalla parte dei dominati contro i dominanti, dalla parte dei lavoratori contro i capitalisti.

Il ruolo dell’ideologia, spiegava il generale Petraeus è fondamentale nel ricostruire la distinzione del chi sta con chi. Nel farci prendere coscienza che non stiamo tutti dalla stessa parte. Che non siamo tutti capitalisti del nostro capitale umano, ma che alcuni sono nostri avversari e noi siamo avversari di altri. E questo ce lo hanno insegnato negli ultimi 50anni proprio loro con il loro linguaggio bellico. Il primo passo per rilegittimare i conflitti, le “insurrezioni” (“tumulti” li chiamava Machiavelli) è la lotta contro l’eufemismo. L’eufemismo non è solo ipocrisia. È tecnologia di potere, tecnica di comando. Uno splendido esempio è la parola RIFORMA. Un tempo riforma era tutto ciò che migliorava lo stato delle persone. Oggi riforma è una minaccia che si pronuncia. Il volgo appena sente di riforma delle pensioni, capisce che da vecchio rimarrà in mutande; riforma del welfare significa abolizione progressiva delle protezioni sociali; riforma della sanità significa che moriremo senza essere curati. Allo stesso modo in Occidente “pluralista” è una società in cui tutti hanno le stesse opinioni, dove cioè si deve:

  1. accettare il dogma del libero mercato;
  2. non avere pensieri o intenzioni che non siano moderati;
  3. essere filoamericani in modo incondizionato e denunciare le benché minime tracce di antiamericanismo.

Infatti il capolavoro di eufemismo si manifesta nell’esercizio dell’impero da parte degli Stati Uniti: anzi eufemismo è la forma di impero che hanno imposto al mondo.

IL CAPITALE UMANO

Nel neoliberismo il concetto chiave è la concorrenza. Insita nella concorrenza vi è non l’eguaglianza ma la diseguaglianza, poiché nella concorrenza – nella competizione – c’è un vincitore e un perdente: la concorrenza non solo è basata sulla diseguaglianza, ma la crea. L’individuo è perciò considerato, sì, come operatore del mercato, ma in quanto competitore nella concorrenza. Ma chi è che compete nella concorrenza capitalistica ? A concorrere tra loro sono le imprese. In quanto concorrente ogni individuo è considerato un imprenditore, anzi un’impresa di per sé: il manager di sé. Nell’antropologia neoliberale l’unità-individuo è un’unità-impresa e l’individuo è il proprietario di se stesso. Non è certo un’idea che viene spontanea agli esseri umani, quella di entrare in rapporto con se stessi in termini di proprietà. Io personalmente non mi sono mai guardato allo specchio valutando la mia proprietà, o la proprietà di me. Anzi il termine proprietà pare straordinariamente non pertinente se applicato al rapporto del sé con sé. La prima conseguenza di questa impostazione è che SIAMO TUTTI PROPRIETARI, dal bracciante messicano al minatore nero sudafricano, al banchiere di Wall Street. Ma di cosa siamo esattamente proprietari quando per esempio non possediamo denaro né oggetti materiali? SIAMO PROPRIETARI DI NOI STESSI: cioè noi stessi costituiamo il nostro proprio capitale. Ognuno è proprietario di sé, cioè del proprio capitale umano. La specificità del capitale umano è che è parte dell’uomo. È umano perché è incarnato nell’uomo, e capitale perché è fonte di future soddisfazioni, o di futuri guadagni, o ambedue. Il capitale umano sta all’economia come l’anima sta alla religione. Come, secondo le varie fedi ogni persona ha un’anima – non si vede ma c’è – , così in ognuno di noi c’è un capitale invisibile, immateriale, che intride l’individuo imprenditore di sé stesso. SIAMO TUTTI CAPITALISTI quindi, dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.

TECNOLOGIA DEL DEBITO

Se la rivoluzione informatica fornisce gli strumenti tecnologici di controllo a distanza, è la tecnologia del debito ad assicurarne la dimensione economica. È assai recente l’uso sistematico e codificato del debito – sia dei privati, sia degli Stati – come strumento politico e sociale. Fu Marx il primo a capire il ruolo che avrebbe giocato il debito pubblico nel capitalismo moderno. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario.

Il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il gioco di Borsa e la bancocrazia moderna. L’indebitamento dello Stato era interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo 4 o 5 anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Qual è la causa del fatto che il patrimonio dello Stato cade nelle mani dell’alta finanza? E’ l’indebitamento continuamente crescente dello Stato. E qual è la causa dell’indebitamento dello Stato? E’ la permanente eccedenza delle spese sulle entrate, sproporzione che è nello stesso tempo la causa e l’effetto del sistema dei prestiti di Stato. Per sfuggire a questo indebitamento lo Stato deve limitare le proprie spese, cioè semplificare l’organismo governativo, ridurlo, governare il meno possibile, impiegare meno personale possibile. Già Marx nel 1850 notava che l’indebitamento pubblico costringe lo Stato a essere “frugale”. È solo nel XX secolo che il debito assurge a vero e proprio strumento di controllo politico. Lo fa innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie, attraverso l’istituzione del “mutuo”. L’Ottocento non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento disciplinatore di intere popolazioni: chi si addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, per due ragioni: 1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria; 2) il mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua (futura) proprietà per anni e decenni a venire. Il mutuo trentennale sulle case garantito dallo Stato del New Deal di F.D. Roosevelt. Ancora oggi negli USA il 68% del debito dei nuclei familiari va sotto la voce “mutuo per la casa”. Ma è dalla seconda guerra mondiale in poi che il debito delle famiglie è esploso negli USA e poi in quasi tutto il mondo. Se il mutuo aveva rappresentato l’innovazione più foriera di conseguenze tra le due guerre mondiali, nei primi decenni del secondo dopoguerra l’innovazione finanziaria più rilevante fu la carta di credito. Mutuo e carte di credito spiegano almeno in parte l’incredibile espansione dei prestiti ai privati. Nel 1950 il debito delle famiglie rappresentava il 23% del PIL mentre oggi costituisce il 67% (95% nel 2008). Se nel 1960 il debito delle famiglie era pari al 60% delle loro entrate annue, nel 1980 era salito al 75%, nel 1995 al 95% e nel 2019 al 120% (Italia 2023: 160%) quando il reddito medio annuo di ognuna dei 128,82 milioni di famiglie americane è di 89.930 dollari, ma il suo indebitamento è di 108.288 dollari. Il debito è diventato la condizione di vita di quasi tutte le famiglie dei paesi sviluppati. Ci si indebita per il mutuo della casa, per l’acquisto della macchina, per studiare all’università, per andare in vacanza, per una protesi dentale.

L’INDEBITAMENTO DEGLI STUDENTI

Ma il caso più illuminante è certo quello del debito di studio, contratto per pagarsi l’università negli Stati Uniti. Nel terzo trimestre del 2019 il suo ammontare totale era di 1500 miliardi di dollari (più del PIL della Spagna). Negli ultimi 10 anni il numero di persone di 60anni e oltre (più di 30 anni dopo aver terminato l’università) che sono ancora debitori per gli studi è quadruplicato passando da 700mila a 2,8 milioni di persone. Tra le molte cause c’è quella delle spese d’iscrizione triplicate. Per le università quadriennali (sia pubbliche che private) l’iscrizione costava in media 7.413 dollari per l’anno accademico 1975-76; nel 1985-86 era salita a 12.274 dollari; nel 2016-17 è stata di 26.599 dollari. Nelle università private più quotate (quotate anche in Borsa, ad es. Harvard) nel 2016-17 l’iscrizione annua era di 41.468 dollari. Un mercato del lavoro avviato verso la recessione riduce la possibilità d’assunzione per i nuovi laureati che vengono così avviati verso l’insolvenza, una sorta di bancarotta generazionale. L’indebitamento degli studenti è una manifestazione esemplare della strategia neoliberale messa in campo dagli anni ’70: rimpiazzare i diritti sociali (diritto alla formazione, alla salute, alla pensione) con l’accesso al credito, cioè il “diritto” a contrarre debiti. Per le pensioni, non più una mutualizzazione dei contributi, ma un investimento individuale nei fondi pensione; non più un aumento dei salari, ma crediti al consumo; non più un servizio sanitario nazionale, ma assicurazioni individuali; non più diritto all’alloggio, ma fidi immobiliariLe spese di formazione, interamente a carico degli studenti, permettono di liberare risorse che lo Stato si affretta a trasferire alle imprese e alle famiglie più ricche, in particolare attraverso la riduzione delle tasse. I veri assistiti non sono i poveri, i disoccupati, i malati, le madri single, MA LE IMPRESE E I RICCHI.

Note :

  1. Marco d’Eramo. È nato a Roma nel 1947. Laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Giornalista, ha lavorato per Paese Sera, Mondoperaio e il Manifesto. Collabora con Micromega, New Left Review, die Tageszeitung. Ha pubblicato diversi libri. Ultimamente “Dominio” con Feltrinelli.
  2. L.F. Powell Jr : ex giudice associato della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.
  3. Richard Fink: è un uomo d’affari e accademico americano. È l’ex vicepresidente esecutivo di Koch Industries, la seconda società privata più grande degli USA.
  4. Think tank: pensatoio, serbatoio di pensiero o centro studi, centro di ricerca,…, è un organismo, un istituto o un gruppo tendenzialmente indipendente dalle forze politiche che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi di settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dall’economia alla scienza e la tecnologia, dalle politiche industriali o commerciali, alle consulenze militari, fino all’arte e alla cultura.
  5. Joe Coors (1917-2003): era il nipote del produttore di birra Adolf Coors e presidente della Coors Brewing Company
  6. R. Nozik (1938-2002): è stato un filosofo e docente statunitense, professore presso l’Università di Harvard.
  7. Charles Koch (1935, vivente): è un imprenditore statunitense, figlio del fondatore delle Koch Industries, una delle aziende private più grandi del mondo. Patrimonio netto 59 miliardi di dollari (Forbes, 2023).
  8. F.von Hayek (Vienna 1889-Friburgo 1992): è stato economista e sociologo austriaco naturalizzato britannico. Pensatore liberale e liberista, è stato uno dei massimi esponenti della scuola austriaca e critico dell’intervento statale in economia. Nel 1974 è stato insignito, insieme a Gunnar Myrdal, del premio Nobel per l’economia. Mise in discussione le tesi di Keynes.


Frei Betto: La guerra fredda si surriscalda

Gli Stati Uniti, l’impero più potente della storia, sono come il dio azteco Tezcatlipoca: si nutrono di vittime umane. Uno dei principali motori della sua economia in espansione è l’industria bellica. Le guerre sono necessarie a Wall Street per raccogliere enormi dividendi.

Per tutto il XX secolo, il nemico permanente è stato il comunismo. Combatterlo giustificava spese multimilionarie e persino colpi di stato in America Latina per instaurare dittature sanguinarie.
Con la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, la Casa Bianca aveva bisogno di un nuovo obiettivo per evitare che la macchina bellica si fermasse. E non ci volle molto per trovarlo: il terrorismo. Con il vantaggio che non si trattava di un nemico che poteva essere localizzato geograficamente o sconfitto, come in una guerra tra Paesi. È un nemico da combattere permanentemente e che assicura la soddisfazione perenne dell’insaziabile appetito di Tezcatlipoca.

Nella seconda settimana del suo mandato, Trump ha dichiarato: “Ho firmato un ordine esecutivo per iniziare una grande ricostruzione delle agenzie militari degli Stati Uniti”. Il suo segretario alla Difesa, James “Mad Dog” Mattis, ha dichiarato al Washington Post che era necessario “esaminare come condurre operazioni contro non meglio identificati concorrenti vicini” (Chomsky 2022, p. 162). È ovvio che non si riferiva ai dischi volanti, ma alla Russia e alla Cina. Il 19 gennaio 2018 è stato più esplicito: “Mentre continueremo a promuovere la campagna contro i terroristi, nella quale siamo attualmente impegnati, la competizione tra grandi potenze, non il terrorismo, occupa ora il centro dell’attenzione della sicurezza nazionale statunitense”.

Secondo un rapporto del 2018 del Dipartimento della Difesa, gli Stati Uniti mantengono 625 basi militari ufficiali in Paesi stranieri. L’analista politico David Vine ha rivelato nel 2021 che, se si contano le basi clandestine, ci sono circa 750 basi militari statunitensi.

Quando era presidente dell’Ecuador, Rafael Correa chiese alla Casa Bianca il permesso di collocare una base militare ecuadoriana a Miami, nel caso in cui gli Stati Uniti avessero voluto continuare a mantenere la base aerea di Manta sulla costa del Pacifico (del suo Paese  ndt). Manta è stata chiusa. Il bilancio militare statunitense (2023) è di 858 miliardi di dollari, il 35% del totale mondiale. Qual è lo scopo di tanto denaro sperperato in un mondo in cui vivono 3 miliardi di persone in povertà, di cui 821 milioni soffrono di fame cronica? Proteggere il modello di democrazia made in USA, cioè l’appropriazione privata del capitale.

Secondo Chomsky, “Ogni volta che c’è stato un conflitto tra la democrazia e l’ordine, definito come la protezione dell’accumulazione di capitale da parte delle élite, gli Stati Uniti si sono schierati dalla parte di quest’ultimo” (2022, p. 153).
Questa ideologia perversa affonda le sue radici nel XIX secolo, quando James Madison, uno dei “padri fondatori della nazione”, dichiarò: “Nelle democrazie i ricchi devono essere preservati; non solo la loro proprietà non deve essere divisa, ma i loro redditi devono essere protetti”.

La difesa della proprietà privata (di pochi, ovviamente) e dell’accumulazione privata di capitale richiede anche una protezione interna. Da qui la principale arma ideologica del sistema: la paura! Paura del nero, paura dell’immigrato, paura di chi non è cristiano o ebreo, paura del povero.

Oggi, ciò che la Casa Bianca teme di più è che la Cina superi gli Stati Uniti nell’innovazione tecnologica e diventi egemone nel pianeta. Questo perché il gigante asiatico ha denaro sufficiente per investire nella ricerca, dal momento che non mantiene basi militari fuori dai suoi confini e spende solo 230 miliardi di dollari nel settore bellico. Ecco perché l’imperialismo sta provocando la Cina in tutti i modi possibili, cercando di costringerla a partecipare alla corsa agli armamenti, alla quale partecipano Russia e Stati Uniti.

Gli Stati Uniti non vogliono disperatamente perdere l’egemonia mondiale acquisita dopo la Seconda guerra mondiale, ma oggi, nel mondo multipolare, la Cina si impone come l’economia in grado di superare in un prossimo futuro gli Usa e l’arsenale nucleare della Russia supera quello degli Stati Uniti.

La Casa Bianca è indignata per l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sostiene che mancava il consenso delle Nazioni Unite. Che cinismo! Gli Stati Uniti hanno invaso la Russia nel 1918, senza successo. E senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno invaso Santo Domingo nel 1965; hanno invaso e bombardato i territori del Vietnam e della Cambogia per tutti gli anni ’60; hanno invaso il territorio della Somalia nel 1993 (300.000 morti); dell’Afghanistan nel 2001 (180.000 morti), dell’Iraq nel 2003 (300.000 morti); della Libia nel 2011 (40.000 morti); della Siria nel 2015 (600.000 morti); e infine dello Yemen, dove sono già morte circa 240.000 persone (Fiori, 2023).
Chi protesta contro l’occupazione statunitense di Porto Rico dal 1898, di Guantánamo a Cuba dal 1903 e contro il blocco di Cuba che dura da oltre 60 anni?

Per la Casa Bianca, la probabile sconfitta dell’Ucraina per mano della Russia sarà amara. Biden dovrà ingoiare duro, sapendo che ciò influirà sulla sua rielezione l’anno prossimo. Sa che l’unica reazione “all’altezza” sarebbe catastrofica per l’umanità: il confronto nucleare.

Anche i Paesi dell’Unione Europea, monitorati dagli Stati Uniti attraverso la NATO, sanno che la guerra della Russia contro l’Ucraina è un pantano in cui si sono cacciati. Non sanno come uscirne. E la cosa più grave: le sanzioni imposte alla Russia non hanno avuto alcun effetto sul Paese. Al contrario, il rublo si è rafforzato. E diversi Paesi europei, a partire dalla Germania, erano già irritati per le esplosioni che nel settembre 2022 hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico, che li rifornivano di gas naturale. Ora l’irritazione ha lasciato il posto alla furia: non sono stati i russi a interrompere la fornitura, ma la CIA è stata responsabile del sabotaggio.

Qui in Occidente conosciamo la narrazione del cacciatore, non della lepre. Le fantasie di Hollywood e di Walt Disney ci convincono che per la Casa Bianca la libertà non è solo il nome di una statua tra New York e il New Jersey. E moltissime persone credono ai discorsi falsi dello Zio Sam. Tra l’altro, perché in questo lato occidentale del mondo conosciamo poco la versione del lato orientale.

Frei Betto
Teologo, scrittore e politico brasiliano. E’ stato responsabile del Programma “Fame Zero” nel primo governo Lula. Come scrittore è stato insignito del Premio Jabuti e ha pubblicato più di 50 volumi, tra cui Paradiso perduto. Viene considerato uno degli esponenti della Teologia della Liberazione

https://it.wikipedia.org/wiki/Frei_Betto

FONTE: https://codice-rosso.net/la-guerra-fredda-si-riscalda-di-frei-betto/

Ad un anno dall’invasione russa i vertici politici Usa e dell’Ue continuano con la stessa ricetta a base di sanzioni e forniture militari a oltranza.

Crisi ucraina: solo la mobilitazione popolare può fermare la guerra

di Andrea Vento

Ad un anno dall’invasione russa i vertici politici Usa e dell’Ue continuano con la stessa ricetta a base di sanzioni e forniture militari a oltranza.

Quale il reale impatto delle sanzioni contro la Russia sulle economie occidentali alla luce dell’ultimo Outlook Fmi di gennaio e dove ci sta portando il recente corposo aumento delle forniture di armamenti sempre più potenti all’Ucraina?

A due mesi dal varo della nona tranche di sanzioni del 16 dicembre scorso, la presidente della Commissione europea Ursula von der Layen davanti al Parlamento di Strasburgo, mercoledì 15 febbraio, ha annunciato la decima tranche di misure sanzionatorie alla Russia per un valore di 11 miliardi di euro “di nuovi divieti commerciali e controlli sulle esportazioni di tecnologia verso la Russia, per mantenere forte la pressione” precisando che “noi cerchiamo di indebolire la capacità della Russia di mantenere la sua macchina da guerra. Con nove pacchetti di sanzioni già operativi, l’economia russa è in recessione1.

Siamo ormai giunti ad un anno dall’introduzione del primo pacchetto di sanzioni della Ue e degli Usa del 23 febbraio scorso, comminato a seguito del riconoscimento delle Repubbliche Popolari del Donbass che ha preceduto di un giorno l’Operazione Militare Speciale, nonostante i risultati sia tattico-operativi con Mosca passata ad una decisa controffensiva, sia economici col mancato tracollo dell’economia russa, continua a riecheggiare, dalle Cancellerie europee, lo stesso stanco ritornello che intona disastri nell’economia russa e la sconfitta dell’esercito di Mosca, sotto le imponenti forniture militari occidentali.

Procedendo alla verifica oggettiva delle dichiarazione dei vertici Ue in merito alla recessione causata alla Russia, tralasciandone altre iniziali che ne ventilavano il default2, rileviamo come dalla previsione ad aprile del Fmi di un pesante -8,5% per il 2022, si è ridotta al solo -2.2% nel World Economic Outlook del 30 gennaio della stessa istituzione3 (tab. 1).

A livello geopolitico invece, seppur oggetto di condanna da parte di una Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo per l’invasione dell’Ucraina votata da 141 Paesi su 193, la Russia, appare tutt’altro che emarginata appurato che solo 37 Paesi dei 193 (pari al 19% del totale) dopo 7 settimane dal 24 febbraio4, avevano aderito alle sanzioni promosse dagli Stati Uniti e imposte da questi ultimi anche all’Ue (carta 1). Anzi isolata verso occidente, Mosca ha ridisegnato la propria carta geopolitica approfondendo le relazioni economiche, commerciali e politiche non solo con le potenze emergenti (Cina e India) e regionali asiatiche (Pakistan e Turchia), ma anche con i Paesi africani e latinoamericani, contrari all’adozione delle sanzioni (carta 2).

In particolare, rispetto all’Africa i rapporti si stanno intensificando come dimostrano, oltre a quello del luglio scorso, i 2 recentissimi viaggi compiuti nel continente fra gennaio e febbraio dal Ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, e l’annuncio del nuovo summit Russia – Africa per luglio 2023 a San Pietroburgo5. Nel processo di ampliamento della propria presenza, fra le varie strategie, la Russia sta subentrando alla Francia nella sua tradizionale zona d’influenza post-coloniale, la regione del Sahel, con la quale intesse sempre più fitte trame diplomatiche, soprattutto, con Mauritania, Mali e Burkina Faso, oltre alla Repubblica Centrafricana e all’ex colonia britannica Sudan.

Tabella 1: Previsioni economiche del Fmi per il 2022 degli World Economic Outlook di ottobre 2021 e gennaio, aprile, luglio, ottobre 2022 e gennaio 2023


Previsioni economiche del Fmi per il 2022

Ottobre 2021Gennaio 2022Aprile 2022Luglio 2022Ottobre 2022Gennaio 2023
Economia mondiale4,94,43,63,23,23,4
Russia
2,92,8-8.5-6,0-3,4-2,2

Sulla scorta del World Economic Outlook di ottobre del Fmi, nel mese successivo abbiamo pubblicato la ricerca “Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni alla Russia” al fine di indagare le ricadute delle stesse sull’economia russa e su quella dei Paesi che le hanno comminate disaggregando i dati fra gli Stati Uniti, deus ex machina dell’operazione e l’Ue nel complesso ed i singoli suoi Paesi, che le hanno supinamente adottate, dal quale sono emerse nitide evidenze in merito ai reali effetti rispetto sia alle intenzioni dei promotori, sia delle iniziali previsioni (inserire il link dell’articolo).

Nell’intento di comporre un quadro quanto più completo ed esaustivo possibile, abbiamo inizialmente analizzato in chiave comparativa l’entità dell’interscambio commerciale fra Ue e Russia quello fra Stati Uniti e Russia, ricavando come il primo risulti 9 volte superiore rispetto al secondo, oltre ad aver indagato approfonditamente quello fra Italia e Russia anche dal punto di vista merceologico. Inoltre, abbiamo preso in esame la complesso tematica degli effetti delle sanzioni sul mercato dell’energia dei Paesi Ue e del piano comunitario REPowerEu6 varato da Bruxelles con l’obiettivo di “ridurre rapidamente la nostra dipendenza dai combustibili fossili russi” che hanno prodotto, oltre a difficoltà di approvvigionamento, un eccezionale aumento del costo dei prodotti energetici, una forte impennata inflattiva, un aumento dei tassi da parte delle Banche centrali e un sensibile rallentamento del ciclo economico.

Procediamo di seguito all’analisi degli effetti economici delle misure restrittive sulla base dei dati economici relativi all’intero 2022 e per quanto l’interscambio commerciale fra Italia e Russia, sui primi 10 mesi dello stesso.

Le ricadute sull’interscambio commerciale Italia – Russia

Nell’intento di valutare l’effettiva ricaduta delle sanzioni rispetto al fine di sfiancare l’economia russa da parte dei Paesi che le hanno introdotte, risulta fondamentale, fra le varie, confrontare la variazione dell’interscambio commerciale con Mosca fra gennaio e ottobre 2021 con quello del corrispondente periodo del 2022, quest’ultimo influenzato dai provvedimenti restrittivi.

Per quanto riguarda il nostro Paese nel periodo gennaio-ottobre 2021, in condizioni di ristabilita normalità economica dopo la crisi del 2020, abbiamo esportato merci in Russia per un controvalore di 6,3 miliardi di euro, mentre ne abbiamo importati 13,9 miliardi con un saldo per noi negativo di circa 7,6 miliardi di euro, sostanzialmente in linea con i dati del 2019 (tab. 2). Nei primi 10 mesi dell’anno appena concluso, invece, a seguito delle sanzioni e del piano REPowerEU, tramite i quali ci siamo preclusi attività economiche significative con Mosca, il nostro export è diminuito del 22,9% a meno di 5 miliardi di euro, mentre il valore del nostro import ha subito un aumento del 79,3%, attestandosi a 24,9 miliardi di euro, affossando in tal modo il saldo negativo a 20 miliardi di euro, con un aggravio del disavanzo di circa 12,5 miliardi.

Tabella 2: valore in miliardi di euro dell’interscambio commerciale Italia-Russia fra 2019 e 2021 e confronto fra gennaio-ottobre 2021 e 2022.Fonte: infomercati esteri su dati Istituto del Commercio Estero (Ice)7

Export italiano verso la Russia201920202021Gen – ott 2021Gen – ott 2022
Totale (mld. €)7,8827,1017,6966,2884,848
Variazione periodo precedente (%)+4,2-9,9+8,8
-22,9

Import italiano dalla Russia
201920202021Gen – ott 2021Gen – ott 2022
Totale (mld. €)14,3249,32913,98413,86324,853
Variazione (%)-4,3-34,9+54,5
+79,3
Totale interscambio (mld. €)22,20616,43021,68012,52129,701
Saldo commerciale Italia (mld. €)-6,442-2,228-6,288-7,575-20,005

Il pesante deficit dell’interscambio del nostro Paese con la Russia, è stato determinato sia dall’aumento del valore dell’import, pur in una fase di minori acquisti in volume di prodotti energetici da Mosca8, sia dalla diminuzione del 22,9% dell’export verso la Russia.

Il vertiginoso aumento dei costi del gas e del petrolio hanno influito sul corposo deficit commerciale totale dell’Italia del 2022 (vedi tab. 4), il quale nel trimestre agosto-ottobre, rispetto a quello precedente, è andato aggravandosi, visto che in base ai dati Istat, l’export è diminuito dello 0,7% e l’import aumentato del 3,9%9. Inoltre, l’impennata dell’energia ha sospinto al rialzo, l’inflazione sia nel nostro Paese, fino al picco dell’11,9%10 di ottobre poi gradualmente ripiegata al 10,1% a gennaio11 e al 9,2%12 a febbraio, che nell’Eurozona, nella quale è stato stimato dall’Eurostat13 negli stessi mesi rispettivamente all’8,6%14 e all’8,5%, anche qui in diminuzione rispetto al 10,6% di ottobre. Inversione di tendenza della dinamica dei prezzi riconducibile alla flessione del costo dei prodotti energetici importati, gas in primis, quest’ultimo sul mercato TTF di Amsterdam disceso, dalla quotazione media mensile massima, raggiunta ad agosto, di 222,33 €/MWh (megawattora), a 118,55 €/MWh a dicembre 202215.

Gli effetti delle sanzioni sulla dinamica delle economie occidentali

I concomitanti fattori sopra riportati, sommati al rialzo dei tassi della Bce (ormai giunti al 3% con il quinto rialzo consecutivo entrato in vigore l’8 febbraio e con aumento analogo già annunciato per marzo 16), stanno creando un sensibile rallentamento delle economie occidentali per il 2023, come ci conferma l’ultimo Outlook del Fmi del 30 gennaio scorso, con il Regno Unito previsto addirittura in recessione. Per quanto riguarda Germania e Italia, non casualmente fino a febbraio 2022 due fra i Paesi maggiormente dipendenti dal gas russo17, il report indica la crescita più bassa fra le principali economie dell’Eurozona nel 2023, rispettivamente a +0,6% e +0,1%, mentre la stessa Area dell’euro subirà un rallentamento a +0,7% e gli Usa una crescita modesta del +1,4%. La Russia, infine, dopo aver ridotto la recessione a -2,2% nell’anno appena concluso il Fmi prevede che ne fuoriesca nel prossimo, nonostante nuove tranche di sanzioni continuino a stagliarsi all’orizzonte.

Per valutare l’impatto delle sanzioni sulle principali economie mondiali, risulta fondamentale confrontare le previsioni dello stesso Outlook per l’anno appena concluso, quindi molto vicine al dato definitivo, con quelle per il 2023 annunciate del Fmi ad ottobre. Non possiamo, infatti ritenere casuale che, nonostante la revisione al rialzo rispetto ai dati dell’autunno, i Paesi che hanno comminato le sanzioni alla Russia registreranno, secondo il Fmi, una sensibile diminuzione della crescita, mentre la Cina che non si è allineata ai dettami degli Usa, vedrà la propria economia espandersi nel 2023 in misura maggiore rispetto al 2022. Al contempo, la Russia dalla prevista contrazione del Pil del 2,3%, è passata ad una lievissima crescita dello 0,3%, in pratica un cambio di segno della dinamica economica inverso rispetto a quello del Regno Unito.

Tabella 3: previsioni variazione Pil per il 2023 e per il 2022. Fonte: World Economic Outlook Fmi gennaio 23 e previsioni Pil per il 2023. Fonte: World Economic Outlook Fmi ottobre 22


GermaniaItaliaFranciaRussiaEurozonaRegno U.UsaCina
Previsioni Pil 2022 gennaio 23
1,6%

1,9%

2,6%

-2-2%

3,5%

4,1%

2,0%

3,5%
Previsioni Pil 2023 gennaio 23
0,1%

0,6%

0,7%

0,3%

0,7%

-0,6%

1,4%

5,2%
Previsioni Pil 2023 ottobre 22
-0,3%

-0,2%

0,7%

-2,3%

0,5%

0,3%

1,0%

4,4%

Le decisioni assunte, su pressioni di Washington, dai Paesi europei e dall’Unione Europea verso Mosca, alla luce dei dati mostrano per il 2022 un impatto negativo, seppur ridotto a 1/4 rispetto alle prime catastrofiche previsioni, sull’andamento dell’economia russa, sortendo, invece, un effetto opposto sul saldo delle partite correnti che, secondo Bloomberg18, è più che triplicato sfiorando di 167 miliardi di dollari fra gennaio e giugno 2022, rispetto ai 50 del corrispondente periodo del 2021, a seguito dell’aumento dei ricavi dell’export dell’energia e delle materie prime, alla diminuzione delle importazioni a causa delle sanzioni e all’apertura di nuovi mercati di sbocco asiatici che hanno compensato l’impatto delle sanzioni.

Se i provvedimenti restrittivi occidentali sembrano aver raggiunto solo parzialmente gli obiettivi prefissati ai danni della Russia, di altra entità risultano, invece, gli impatti negativi causati alle proprie economie che stanno registrando pesanti effetti in termini di deficit commerciale, elevata inflazione, alti tassi di interesse non che rallentamento economico, come indicato dal Fmi.

Non ci è dato di sapere se l’Outlook del Fmi di gennaio scorso sia arrivato sui tavoli della Commissione Europea, ma ritenendo altamente improbabile il contrario, non possiamo esimerci dal domandarci se le dichiarazioni della sua Presidente rilasciate il 16 febbraio al Parlamento Europeo in merito al persistere dello stato di recessione dell’economia russa nel 2023, peraltro dopo il trend in attenuazione del 2022, siano frutto di studi di istituti di ricerca volutamente non rivelati o di mera propaganda politica finalizzata a camuffare il parziale fallimento delle sanzioni sulla Russia, non che la pesante ricaduta negativa sulle economie occidentali.

Le nove tranche di sanzioni comminate sino a questo momento dagli Stati europei sembrano, dunque, assumere, sulla scorta dei dati e delle previsioni economiche, connotato di boomerang ancor più clamoroso rispetto a quelle del 2014. Sorge pertanto il dubbio che le contraddittorie dichiarazioni della Presidente Ursula von der Layen, abbiano lo scopo di far digerire all’opinione pubblica europea il decimo pacchetto di sanzioni definitivamente approvato il 25 febbraio che, inevitabilmente, prolungherà lo stato di stagnazione dell’Eurozona, mentre la Russia è previsto che continuerà a subirne effetti limitati.

All’annuncio del decimo pacchetto da parte della Presidente von der Layen, l’unica voce sollevatasi in dissonanza è stata quella del ministro degli esteri ungherese, Peter Szijjartò, il quale ha eloquentemente affermato che ”le nuove misure si aggiungono a quelle già rivelatesi inutili”. In un nota lo stesso ministro ungherese ha ulteriormente specificato che: “hanno provato 9 volte e 9 volte hanno fallito: dovrebbero trarre la ragionevole conclusione di non provarci mai più, ma Bruxelles non è guidata dalla ragione19, evidentemente conscio del negativo impatto delle sanzioni sulle economie dell’Eurozona.

L’impatto delle sanzioni sull’economia e sul commercio del nostro Paese nel 2022

L’analisi comparativa della dinamica economica del nostro Paese in relazione al contesto europeo, si sta delineando maggiormente critica, in quanto la preannunciata, e sopra riportata, stagnazione per il 2023 prevista dal Fmi il 30 gennaio, è stata preceduta da una lieve recessione dello 0,1% nel quarto trimestre del 2022, peraltro prevista da diversi istituti già in autunno, mentre l’Area dell’euro ha registrato un +0,1%, con l’inflazione che si sta mantenendo ormai da diversi mesi su un livello più elevato di circa 2-3 punti percentuali rispetto alla media dell’Eurozona20.

In Italia, inoltre sempre a causa delle sanzioni e dei conseguenti effetti, anche la bilancia commerciale, nell’anno appena concluso, ha subito un tracollo: l’Istat (tab. 4) ci informa che da un surplus di +40,334 miliardi di euro del 2021 siamo passati ad un deficit di -31,011 nel 2022, a causa del pesante disavanzo della bilancia energetica sceso nell’anno appena concluso a ben -111,278 miliardi di euro dai -48,356 di quello precedente. Con il saldo dell’interscambio dei prodotti non energetici sceso da +88,690 miliardi di euro del 2021 a +80,267 del 2022, in pratica un arretramento in entrambi i comparti anche se di entità ben diversa21.

Tabella 4: variazione del saldo della bilancia commerciale, energetica, dei prodotti non energetici italiana fra 2021 e 2022 e della bilancia commerciale Italia-Russia fra gennaio e ottobre 2021 e 2022 in miliardi di €


Periodo
Saldo bilancia commerciale totaleSaldo bilancia energeticaSaldo bilancia prodotti non energeticiSaldo bilancia Italia – Russia gennaio – ottobre
2021+40,334-48,356+88,690-7,575
2022-31,011-111,278+80,267-20.005

I vertici politici comunitari e nazionali, e in particolare il governo Meloni, non possono, a nostro avviso esimersi, dal rendere conto all’opinione pubblica della scarsa efficacia della sanzioni sulla destinataria, non che dei costi sociali causati dal rallentamento economico che sta insabbiando la ripresa post-covid. Costi che inevitabilmente stanno ricadendo in maniera più gravosa sui ceti popolari e sui lavoratori a causa della perdita di potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni innescata dell’impennata inflazionistica (aumento di bollette, rate dei mutui, carrello della spesa ecc) con inevitabile incremento della divaricazione sociale e della povertà assoluta, nella quale è precipitata l’11% della popolazione nazionale a fine 2022, praticamente quasi raddoppiando rispetto al periodo pre-covid22.

L’escalation delle forniture militari all’Ucraina spingono la Ue al coinvolgimento diretto

La controffensiva lanciata a dicembre dalla Russia nell’intento di riconquistare il terreno perso nei mesi precedenti, sta allarmando i vertici occidentali, i quali nelle dichiarazioni continuano a sostenere i velleitari proclami di Zelensky di voler ricacciare oltre confine le truppe di Mosca e di riprendersi anche la Crimea.

I Paesi occidentali, sotto la poco avveduta regia del Segretario generale della Nato Jens Stoltemberg, portavoce di Washington e de facto artefice della politica estera e militare europea, non hanno vagliato alcuna possibilità di uscita negoziale dal conflitto, per continuare sulla pericolosa strada dell’aumento delle forniture militari e del conseguente escalation del conflitto che, a loro dire, dovrebbe portare alla sconfitta della Russia.

In tale ottica, al vertice di Ramstein in Germania, tenutosi all’interno della base militare Usa fra il 20-22 gennaio, i ministri degli esteri dei 40 Paesi del “Gruppo di contatto” hanno approvato una nuova consistente fornitura di armamenti pesanti soprattutto all’Ucraina, fra cui carri armati britannici Challanger 2, blindati da trasporto truppe Bradley e Stryker, sistemi antiaerei Patriot e Samp-T, sistemi antiaerei mobili Gepard, pezzi d’artiglieria M777 di grosso calibro ed altro materiale. In quel contesto, il nostro ministro degli esteri, Antonio Tajani, ha dichiarato che l’Italia farà la sua parte fornendo il sistema di difesa aerea avanzato Samp/T e nel complesso finanzierà un altro miliardo di euro per l’Ucraina23.

Stiamo vivendo il paradosso per il quale mentre continuiamo a gettare miliardi nella voragine ucraina senza impegnarci in alcuna strategia di risoluzione del conflitto, il nostro Servizio Sanitario Nazionale, definanziato di ben 37 miliardi di euro fra il 2010 e 2019, si trova ormai al collasso senza che i fondi per salvarlo vengano stanziati, come conferma la legge di bilancio 2023 del governo Meloni in perfetta continuità col piano finanziario sulla sanità 2022-2025 varato da Draghi24.

Nonostante le corpose forniture decise a Ramstein, Zelensky, evidentemente non soddisfatto, ha continuato a premere nei giorni successivi ottenendo, già il 24 gennaio25, la promessa di fornitura dei micidiali carro armati tedeschi Leopard 2 e di quelli statunitensi M1 Abrams, superando un’altra linea rossa ritenuta dagli occidentali fino a quel momento invalicabile e provocando il risentimento di Mosca che ha reagito intensificando ulteriormente gli attacchi militari26.

Ormai entrati in un irrefrenabile vortice, i Paesi occidentali al vertice Nato di Bruxelles del 14-15 febbraio, nel cui contesto i ministri della difesa dei Paesi membri, hanno in maggioranza espresso la posizione di aumentare le spese militari nazionali oltre la soglia prefissata del 2% del Pil, portandola addirittura al 3 o al 4%, confermando anche la loro determinazione a sostenere l’Ucraina con ulteriori, e tecnologicamente più avanzate, forniture di armamenti. In conclusione del vertice un gongolante Jens Stoltemberg ha annunciato che Stati Uniti, Francia, Germania, Norvegia e altri Stati membri hanno sottoscritto contratti con aziende del settore degli armamenti per incrementarne la produzione, precisando che “si stanno rafforzando sia le linee produttive esistenti che investendo in nuove fabbriche“. Nessun riferimento invece a soluzioni concordate del conflitto o quantomeno ad un cessate il fuoco.

Nel ben congegnato gioco delle parti, il Parlamento europeo, il giorno seguente al vertice di Bruxelles ha approvato a larghissima maggioranza, con 444 voti favorevoli, 26 contrari e 37 astensioni, una Risoluzione nella quale sollecita la Commissione a fornire all’Ucraina “aiuti militari per tutto il tempo necessario” invitando “a prendere in seria considerazione la fornitura di aerei da combattimento, elicotteri, sistemi missilistici (a più lunga gittata in grado di colpire anche il territorio russo, ndr) e un aumento delle munizioni27. Il testo approvato, fra le varie, chiede anche di rafforzare le sanzioni e di avviare i negoziati per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. La richiesta di fornitura di aerei da combattimento, non solo va in direzione diametralmente opposta rispetto al sentire dell’opinione pubblica europea in maggioranza non favorevole a nuovi invii di armi e all’escalation militare, ma se recepita dalla Commissione comporterebbe di fatto l’entrata diretta nel conflitto dei Paesi comunitari, con tutte le gravi conseguenze che ne scaturirebbero.

Riteniamo, inoltre, opportuno effettuare una seria riflessione sulle politiche dell’Ue, la quale, da un lato, impone stringenti parametri ai bilanci pubblici degli Stati membri che si riflettono in cospicui tagli ai welfare nazionali a danno dei ceti sociali inferiori, mentre, dall’altro, non pone alcun limite alle spese per forniture di armi all’ Ucraina che a dicembre scorso avevano già raggiunto i 40 miliardi di euro28.

In base alla ricerca “Ucraina Support Tracker” dell’autorevole Kiel Institute of the world Economy (ifw), i trasferimenti avvenuti da parte di 40 governi, quasi in toto, occidentali al governo ucraino, fra il 24 gennaio e il 20 novembre 2022, in armamenti, aiuti umanitari e sostegno finanziario, ammontavano alla stratosferica cifra di 113 miliardi di euro, la quota principale dei quali, 52 miliardi, sostenuta dall’Ue, con gli Stati Uniti a breve distanza con 48 miliardi ed i restanti 38 Paesi che hanno coperto i residui 13 miliardi29.

Il perdurare della guerra ed il suo inasprimento sta sensibilmente alimentando i fatturati delle aziende produttrici di armamenti, le quali hanno chiuso i bilanci del 2022 in netta crescita: la nostra Leonardo, per il 30,2% a partecipazione pubblica, ha registrato un aumento degli ordinativi del 26%, la tedesca Rehinmetal del 32% e la franco-tedesca Airbus annuncia una crescita fra il 6 e il 21% a seconda del segmento dei prodotti.

Come uscire dalla spirale guerra – sanzioni – crisi economica e sociale?

Il proseguimento sine die del conflitto in Ucraina, iniziato nel 2014 come ha ammesso lo stesso Stoltemberg30, è frutto esclusivo di decisioni assunte dai vertici politici occidentali e da Zelensky, poiché dal punto di vista militare risulta evidente che sul terreno la situazione sia sostanzialmente impantanata in un sanguinoso stallo ormai da mesi. Nessuno dei due contendenti, pur registrando un numero molto elevato di vittime, non riesce a sfondare le linee avversarie e gli spostamenti del fronte, salvo l’avanzata iniziale russa e la controffensiva ucraina di autunno, risultano lenti e sovente a direzione alterna. Da settimane i media occidentali preannunciano una massiccia offensiva russa in primavera ma, ad oggi nonostante gli sforzi profusi da dicembre, l’unica recente vittoria riportata da Mosca è risultata la presa di Soledar mentre i combattimenti per Bakhmut infervorano ormai da settimane in quello che il comandante della Compagnia privata Wagner, Prigozhin, ha definito un “tritacarne”31.

Alla 59esima Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera (MSC) del 17-19 febbraio, nel cui contesto si sono riuniti, escludendo la Russia, i vertici politici e militari di ben 96 Paesi, è stato riservato ampio spazio a Zelensky che ha aperto il summit chiedendo nuove forniture militari al fine di arrivare alla sconfitta della Russia. I Paesi europei ancora una volta non sono riusciti a ritagliarsi uno ruolo geopolitico adeguato al proprio rango economico, rimanendo schiacciati fra la volontà politica di Washington di proseguire la guerra fino alla sfiancamento della Russia e la retorica bellicista di Zelensky, come ha dovuto amaramente ammettere il presidente francese Macron, uno dei leader occidentali più propensi al negoziato, dichiarando che “non è ancora l’ora del dialogo32.

La linea politica della guerra ad oltranza è stata confermata anche durante la visita a sorpresa effettuata il 20 febbraio dal presidente statunitense Biden a Kiev, durante la quale, alimentando la consolidata retorica guerrafondaia, ha annunciato un nuovo pacchetto di forniture all’Ucraina comprensivo di missili Himers a più lungo raggio e del sistema di contraerea Patriot, oltre ad un sostegno finanziario di 18 miliardi.

Il pellegrinaggio dei leader occidentali nella capitale ucraina è proseguito il giorno seguente con l’arrivo del nostro Presidente del Consiglio Meloni, il quale ha esaltato le virtù dell’atlantismo, enfatizzato l’eroica resistenza ucraina e rassicurato Zelensky che “il governo italiano è al fianco dell’Ucraina fino alla vittoria“.

Come a Monaco, anche in queste due occasioni, nemmeno un accenno ad un cessate il fuoco e all’apertura di un dialogo per una soluzione diplomatica, sortendo come unico effetto la reazione di Mosca, la quale ha annunciato la sospensione dal Trattato New Start sulla limitazioni della armi nucleari strategiche sottoscritto con gli Usa nel 2010 ed entrato in vigore l’anno successivo. Anche se prossimi alla scadenza dello stesso prevista per il 2026, risulta evidente come ad ogni upgrade delle forniture occidentali all’Ucraina la Russia risponda da par suo, in un pericoloso avvitamento dai foschi orizzonti indefiniti33.

I connotati del conflitto in corso risultano quelli di una tradizionale e sanguinosa guerra d’attrito che alla luce delle forze in campo, da un lato, la Russia seconda potenza militare mondiale e, dall’altro, l’Ucraina sostenuta, armata e finanziata da ben 40 Paesi, difficilmente porterà ad una netta vittoria sul campo.

In tal senso risultano molto eloquenti le dichiarazioni rilasciate in una intervista al Financial time dal Capo di Stato maggiore Usa, generale Mark Milley in base alle quali “né la Russia, né l’Ucraina saranno in grado di vincere la guerra e che il conflitto terminerà solamente ad un tavolo negoziale“, perché “sarà praticamente impossibile per i russi raggiungere i loro obiettivi ed è improbabile che la Russia riesca a conquistare l’Ucraina. Non succederà. Ed molto, molto difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Putin nei loro territori”. E quella di Malley, fra i vertici militari occidentali, non risulta l’unica voce in tal senso.

Il conflitto viene quindi procrastinato ad oltranza, sulla pelle del popolo ucraino, per meri interessi geopolitici: la Russia non vuole basi militari a ridosso del proprio territorio ed dichiara di voler tutelare la propria sicurezza nazionale, dall’altra gli Stati Uniti e la Nato, i quali come ha dichiarato l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare, generale Antonio Tricarico “evidentemente non vogliono la pace e so quello che dico. Biden non vuole la pace e se non la vuole lui non la vogliono tutti gli altri”, specificando che Stoltemberg fa da “cassa di risonanza di Biden”. Tricarico conclude l’intervista a Tagadà su la 7 affermando che “Biden vuole vedere Putin nella polvere. Doveva restare a casa sua senza muoversi più [ ] invece questo attivismo in Siria e nel Mediterraneo ha dato fastidio perché ha riempito gli spazi che gli Stati Uniti hanno lasciato vuoti34.

Le inequivocabili affermazioni del generale Tricarico confortano la nostra analisi in merito alla genesi del conflitto in Ucraina che da tempo abbiamo inquadrato nella strategia Usa di affrontare separatamente le due potenze mondiali che la stanno insidiando, ognuno nel proprio settore di forza, al vertice del potere unipolare mondiale: la Russia in campo militare, impegnata ad ampliare la propria sfera d’influenza in Africa e Medio Oriente e riconquistare il ruolo di superpotenza che fu dell’Urss e la Cina, seconda potenza economica mondiale in rapida ascesa, a cui gli Usa cercano di rallentarne la crescita. A proposito del Gigante asiatico, in tale chiave va interpretata la guerra commerciale scatenata da Trump e quella di Biden sui microchip, come d’altronde le visite di alti esponenti politici Usa a Taiwan che stanno facendo salire la tensione diplomatica e militare nel Mar Cinese Meridionale.

La decisa escalation militare in cui si sta avvitando nelle ultime settimane la guerra in Ucraina sta destando forti preoccupazioni in vasti settori dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, oltre che in alcune forze politiche di sinistra che si riconoscono nei valori della pace e si oppongono all’invio di armi. In particolare l’organizzazione politica spagnola Podemos si è fatta promotrice il 19 febbraio, in contemporanea con la Conferenza di Monaco, di una Conferenza per la pace europea a Madrid nella quale la sua leader, Iole Bellarra, ha dichiarato senza mezzi termini ai convenuti che “l’escalation bellica ci trascina tutti a fondo”. La stessa leader ha concluso il suo intervento, molto applaudito dai presenti e dagli esponenti di circa venti formazioni politiche di sinistra europee convenuti, affermando che “la Spagna può diventare parte della soluzione e smettere di essere parte del problema [..] Non vogliamo vedere Madrid mandare truppe per nessuna guerra pianificata dai potenti di altri Paesi, ed è proprio lì che ci sta portando l’irresponsabilità di alcuni”.

L’inequivocabile messaggio della leader di Podemos per riuscire a far cambiare rotta al governo di Sanchez, del quale è componente essenziale, in merito all’invio delle armi all’Ucraina ad oltranza, necessita di essere sostenuto da un significativo movimento popolare che porti avanti una visione alternativa e spinga alla soluzione negoziale del conflitto.

Crediamo sia assolutamente necessario che a 20 anni esatti dalle grandi manifestazioni nelle principali città mondiali, che portarono in piazza ben 110 milioni di persone e 3 milioni a Roma, in quella che è passata alla storia come la più imponente mobilitazione della storia contro la guerra, il movimento per la pace si mobiliti per contrastare la deriva militarista senza fine.

Occorre che la maggioranza dell’opinione pubblica europea, che è bene ricordarlo è contraria alla guerra e a nuovi invii delle armi, faccia sentire in modo chiaro e deciso la sua voce presso i propri governi per spingerli alla trattativa e alla ricerca di una via negoziale al conflitto, al cui scopo potrebbe risultare utile il Piano di pace diffuso il 24 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, al termine del lungo tour europeo del capo della diplomazia del Partito Comunista Cinese, Wang Yi, durante il quale è stato richiesto da più parti alla Cina di farsi promotrice di un’azione diplomatica per porre fine alla guerra. Il documento articolato in 12 punti, fra le varie, propone il cessate il fuoco e una soluzione politica, precisando che il dialogo “è l’unico modo per risolvere” la crisi e che è necessario “prevenire la proliferazione nucleare ed evitare una crisi nucleare” e che la Cina si oppone “a qualsiasi sanzione unilaterale non autorizzata dall’Onu e allo sviluppo di armi biologiche e chimiche” da parte di qualsiasi Paese.

Quando i vertici politici sembrano aver smarrito il lume della ragione, è necessario che i popoli, veri vittime delle guerre, scendano in campo e si trasformino in soggetti politici in grado di indirizzare l’operato di governi che al di là dei proclami, risultano in realtà assoggettati ai dettami atlantisti e incapaci, non solo di arrestare la sempre più pericolosa escalation, ma anche di tutelare gli interessi delle proprie popolazioni.

Andrea Vento – 3 marzo 2023

Gruppo insegnanti di Geografia Autorganizzati

Carta 1: votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu di condanna dell’invasione russa del 3 marzo 2022

Carta 2: gli stati applicano (in rosso) e che non applicano (in celeste) le sanzioni alla Russia

NOTE

1 https://www.adnkronos.com/ucraina-von-der-leyen-decimo-pacchetto-sanzioni-per-indebolire-macchina-guerra-russa_2RpWD7rqkyRoUHu0CYTsgs?refresh_ce

2 https://www.focus.it/comportamento/economia/default-Russia-putin-conseguenze-economia-mondiale

https://it.euronews.com/2022/03/03/russia-lo-spettro-del-default-rublo-sempre-ai-minimi-storici-e-debito-declassato-a-spazzat

3 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2023/01/31/world-economic-outlook-update-january-2023#Overview

4 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/tutti-i-buchi-delle-sanzioni-alla-russia-34533

5 https://www.nigrizia.it/notizia/la-russia-espande-la-sua-influenza-in-africa

6 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2022%3A230%3AFIN&qid=1653033742483

7 https://www.infomercatiesteri.it/scambi_commerciali.php?id_paesi=88#

8 Solo per il gas importato tramite il gasdotto che arriva al Tarvisio l’import dalla Russia è passato da 29,1 miliardi di m3 del 2021a 11,2 del 2022, una riduzione pari al 61%

9 https://www.istat.it/it/archivio/278879

10 https://www.istat.it/it/archivio/276683

11 https://www.istat.it/it/archivio/280321

12https://www.istat.it/it/archivio/281464

13 https://www.soldionline.it/notizie/macroeconomia/inflazione-europa-2022#:~:text=IL%20DATO%20DI%20OTTOBRE%202022,dello%20stesso%20mese%20del%202021.

14 https://www.agi.it/economia/news/2023-03-02/eurozona-inflazione-febbraio-in-leggero-calo-20324969/

15 https://luce-gas.it/guida/mercato/ttf-gas

16 https://www.milanofinanza.it/news/la-bce-alza-i-tassi-di-50-punti-pronto-un-altro-aumento-di-mezzo-punto-anche-a-marzo-202302021421332292

17 Secondo i dati dell’Agenzia dell’Ue per la cooperazione tra i regolatori dell’energia, al 24 febbraio 2022, la Germania importava il 49% del gas dalla Russia e l’Italia il 46%.

18 https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-08-09/russia-more-than-triples-current-account-surplus-to-167-billion

19 https://www.rainews.it/maratona/2023/02/guerra-in-ucraina-la-cronaca-minuto-per-minuto-giorno-358-252f6161-3a2c-4097-ac75-204d39adc579.html

20 https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2023/02/14/pil-eurozona-01-nel-quarto-trimestre-in-italia-01_a0457ad0-ff9c-47c7-82c7-909795361405.html

21 https://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/prima-pagina/dettaglio/bilancia-commerciale-istat-deficit-di-31-miliardi-nel-2022-rco-nRC_16022023_1020_228211763.html

22 https://www.tag24.it/433153-italiani-poverta-assoluta-poveri-2023-numeri-quanti-sono-statistiche/

23 https://www.affarinternazionali.it/vertice-ramstein-aiuti-militari-ucraina/

24 https://cambiailmondo.org/2023/01/30/la-crisi-della-sanita-italiana-dalla-riforma-del-titolo-v-alle-soglie-della-pandemia/

25 https://www.rainews.it/articoli/2023/01/media-gli-usa-inclini-ad-inviare-i-loro-potenti-carri-armati-abrams-in-ucraina-5c0300da-866f-444d-a351-b7ea5128259a.html

26 https://www.limesonline.com/notizie-mondo-oggi-26-gennaio-guerra-ucraina-russia-abrams-leopard-polonia-usa-cina-australia/130847#:~:text=I%2031%20carri%20armati%20americani,prevista%20nuova%20offensiva%20russa%20di

27 https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2023/02/16/nessuno-puo-vincere.-ne-e-convinto-il-capo-di-stato-maggiore-degli-usa_578c59ad-8c10-4cc2-ab51-0e15ee85b29a.html

28 https://www.analisidifesa.it/2022/12/la-guerra-logora-anche-chi-non-la-fa/

29 https://www-ifw–kiel-de.translate.goog/topics/war-against-ukraine/ukraine-support-tracker/?cookieLevel=not-set&_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc

30 https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/02/14/ucraina-stoltenberg-la-guerra-non-e-iniziata-a-febbraio-dal-2014-la-nato-ha-supportato-kiev-con-addestramenti-ed-equipaggiamenti/7065190/

31 https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2023/02/14/prigozhin-bakhmut-non-sara-catturata-tanto-presto_bc0008bc-d55f-4abf-95fd-aa2b3c04b16d.html

32 https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-monaco-ue-motori-india-bbc-kenya-sudafrica-usa-cina/131177

33 https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/02/21/cosa-prevede-il-trattato-new-start-tra-usa-e-russia_79ca06d7-dd18-4763-9dd6-a908bf09af60.html

34 ltempo.it/attualita/2022/04/11/news/guerra-russia-ucraina-generale-tricarico-tagada-joe-biden-vuole-putin-nella-polvere-nato-stoltenberg-confine-est-ridicolo-31176551/

La liquidazione dell’eredità della rivoluzione come ideologia dell’invasione russa

di Andrij Movčan

21 febbraio 2023

Anno 1991, Leningrado. Ufficio personale del vicesindaco della città. Il corrispondente di un canale televisivo cittadino intervista un giovane funzionario della squadra di Anatolj Sobčak. Sullo schermo compare un uomo dal viso infantile in camicia bianca. Alle sue spalle si vedono le tapparelle, una TV, una lampada da tavolo, un telefono, cartelle aperte con documenti. Il tipico ambiente di un ufficio sovietico. Però manca qualcosa. La voce fuori campo del giornalista riferisce che ieri ha visto un busto di Lenin in questo ufficio, ma oggi non c’è più. Cos’è successo?

«Difficile dire cos’è successo. Perché dev’essere stato portato via da uno dei miei assistenti, — risponde il funzionario. — Se le interessa la mia opinione su quest’uomo, sulla dottrina che rappresentava, allora direi […] che tutto era solo una bella favola nociva. Nociva, perché la sua attuazione, o il tentativo di attuarla, nel nostro Paese ha causato danni enormi. A questo proposito, vorrei parlare della tragedia che stiamo vivendo oggi. Vale a dire, la tragedia del collasso del nostro stato. Non si può chiamarla in altro modo, se non tragedia. Penso che siano stati gli autori dell’ottobre 1917 a piazzare una bomba a orologeria sotto l’edificio di uno stato unitario, che si chiamava Russia. Cosa hanno fatto? Hanno diviso la nostra patria in feudi separati, che prima non apparivano affatto sulla carta geografica, hanno dotato questi feudi di governi e parlamenti, e ora abbiamo quello che abbiamo […] È in gran parte colpa di quelle persone, che lo volessero oppure no».

Il funzionario dell’ufficio del sindaco di San Pietroburgo che attaccava l’eredità della rivoluzione e la persona di Lenin con critiche così devastanti era il 39enne Vladimir Putin. In seguito, avendo già assunto la carica di Presidente della Federazione Russa, avrebbe ripetuto più volte nelle sue interviste e nei suoi discorsi l’idea che il crollo dell’Unione Sovietica sia stata “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, e che i colpevoli di questa catastrofe siano stati degli avventurieri rivoluzionari che sognavano di realizzare i loro progetti utopici a qualsiasi prezzo, o meglio, al prezzo dello smantellamento della preesistente statualità russa.

Putin ha ripetuto lo stesso concetto nel suo discorso programmatico del 21 febbraio 2022, in cui sono stati proclamati i fondamenti ideologici dell’invasione dell’Ucraina iniziata tre giorni dopo.

«Dunque, inizierò con il fatto che l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia, e più precisamente dalla Russia bolscevica e comunista. Questo processo iniziò quasi immediatamente dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e la sua banda lo realizzarono in modo molto rude nei confronti della Russia stessa, strappando e separando dal paese parte dei suoi territori storici».

«I bolscevichi sacrificano la Russia all’Internazionale» — caricatura bianca (monarchica), 1918-1919

Perché è stato scelto il 1917 come punto di partenza di questa escursione storica? Perché non il lontano passato o, al contrario, alcuni eventi più vicini al presente? La rivoluzione è stata un punto di svolta che, secondo Putin, ha determinato le sfide che la Russia deve affrontare in questo momento. E Putin stesso si sente in qualche modo predestinato ad affrontarle.

Ma cosa ha significato la rivoluzione? Putin in seguito approfondisce questo argomento. La rivoluzione ha infranto un dato millenario ordine incrollabile delle cose: l’Impero russo «unito e indivisibile». Ha abolito improvvisamente le secolari conquiste territoriali dell’impero, dando ai popoli conquistati il diritto all’autodeterminazione. Ecco il suo principale «peccato».

«…Le idee di Lenin di un sistema statale confederale e la parola d’ordine sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione fino alla secessione, sono state, infatti, la base della statualità sovietica, — dice Vladimir Putin. — … Molte domande sorgono immediatamente qui. E la prima, anzi la principale, è questa: era proprio necessario soddisfare le ambizioni nazionaliste illimitate che si andavano diffondendo alla periferia dell’ex impero? […] e ancora, dare persino alle repubbliche il diritto di separarsi dallo stato unitario senza alcuna condizione?»

Sembra che Putin non capisca, o finga di non capire, che il problema più acuto delle oppresse “periferie nazionali” dell’Impero russo è stato uno dei fattori trainanti di tutte e tre le rivoluzioni del primo Novecento. L’ordine della Russia imperiale era diventato obsoleto e le modifiche necessarie non potevano aggirare la questione nazionale, che richiedeva anch’essa una soluzione. Le contraddizioni che si erano accumulate nel 1917 non sollevavano affatto la questione di come e perché preservare lo stato «unito e indivisibile», ma sul fatto che l’impero si dovesse dividere in un certo numero di stati-nazione o dovesse pensare condizioni di convivenza tra le nazioni fondamentalmente nuove e molto più paritarie.

«Abbasso l’aquila!», dipinto di Ivan Vladimirov, 1917

I rivoluzionari di quei tempi credevano sinceramente nella possibilità di un nuovo mondo senza oppressione, ed anche senza oppressione imperiale da parte di alcuni popoli sugli altri, e con la loro lotta cercavano di avvicinare questo mondo. Per Putin invece il riconoscimento della soggettività dei popoli dell’ex impero rappresentava lo sperpero di territori conquistati in seguito a secoli di guerre di aggressione. Per i rivoluzionari si trattava di qualcosa di completamente opposto: la risoluzione delle urgenti contraddizioni nate in seguito a quelle stesse conquiste. La liberazione dei popoli dall’oppressione imperiale era per i rivoluzionari l’incarnazione delle loro idee e convinzioni su una nuova società libera dai resti del passato.

«…I principi di costruzione dello stato di Lenin si sono rivelati non solo un errore, ma, si può dire, molto peggio di un errore. Dopo il crollo dell’URSS nel 1991, questo è diventato assolutamente evidente, — dice Putin, — come risultato della politica bolscevica, è nata l’Ucraina sovietica, che ancora oggi può essere giustamente chiamata “Ucraina firmata Vladimir Il’ič Lenin”. Ne è stato l’autore e l’architetto».

Ovviamente Lenin non ha creato l’Ucraina. L’Ucraina, i suoi movimenti politici e di massa a quel tempo erano già diventati un fattore reale non solo nella politica russa ma anche internazionale. Riconoscendo all’Ucraina la sua soggettività e il diritto all’autodeterminazione, Lenin ha riconosciuto solo lo stato di cose effettivo, che era già impossibile ignorare. E Putin non può perdonare questo al leader dei bolscevichi.

Senza il riconoscimento della soggettività ucraina e il diritto all’autodeterminazione, difficilmente sarebbe stato possibile ricomporre i territori dell’ex impero in un’unica entità statale. Lenin lo capiva molto chiaramente. È significativo che nella sua bozza di un nuovo stato la stessa parola “Russia” non fosse nemmeno presente: la nuova associazione era chiamata unione delle repubbliche, dove alla repubblica russa era stato effettivamente assegnato lo stesso posto degli altri membri dell’unione. Niente doveva ricordare il passato imperiale. Senza concedere all’Ucraina ampi diritti nazionali, sarebbe stato possibile mantenerla in una sorta di «Grande Russia», che Putin sogna retrospettivamente, solo con la forza bruta. E sarebbe poi stato veramente possibile?

«La Russia zarista come prigione dei popoli. Le aspirazioni predatorie dell’imperialismo zarista», carta proveniente dai materiali dell’Istituto Izostat: « Album di diagrammi, carte, cartogrammi e schemi per l’insegnamento di Lenin sull’imperialismo». Izogiz, 1936

È interessante notare che nel suo discorso del 21 febbraio Putin attacca in modo più aggressivo proprio i primi anni del potere sovietico, quando le idee rivoluzionarie erano fresche, le persone erano piene di entusiasmo e la politica, come mai prima o dopo, era guidata da principi e ideali, e non da cinico calcolo. Allo stesso tempo, Putin accoglie in ogni modo possibile l’allontanamento dai principi proclamati dalla rivoluzione ai tempi di Stalin come un ritorno a un certo «ordine naturale delle cose»:

«…la vita stessa ha subito dimostrato che preservare un territorio così vasto e complesso, o gestirlo secondo i principi proposti, amorfi, appunto confederali, era semplicemente impossibile. […] [Gli eventi successivi hanno trasformato] in una semplice dichiarazione, in una formalità, i principi dichiarati, ma non funzionanti, della struttura statale. In realtà le repubbliche dell’Unione non possedevano alcun diritto sovrano, semplicemente questi non esistevano. Nella pratica è stato creato uno stato rigorosamente centralizzato, assolutamente unitario».

Successivamente alle idee rivoluzionarie dell’uguaglianza tra le nazioni, Putin vede un ritorno alla buona vecchia Russia «una e indivisibile», e ovviamente questo gli piace. Ma un ritorno completo non era ormai più possibile. La «peste rivoluzionaria» era stata posta da Lenin alle fondamenta stesse della nuova statualità.

«Ed è un peccato, è un peccato che dalle basi fondamentali, formalmente legali su cui è stata costruita la nostra intera statualità, non siano state eliminate in tempo le fantasie odiose e utopiche ispirate dalla rivoluzione, assolutamente distruttive per qualsiasi paese normale».

Raccolta di articoli di Vladimir Lenin sulla questione nazionale. Politizdat, 1969

È difficile capire cosa sia per Putin un «qualsiasi paese normale». Se si parla di imperi coloniali basati su sanguinose conquiste e sottomissione di altri popoli, allora tali stati difficilmente possono essere definiti normali o addirittura in grado di continuare a funzionare nelle attuali condizioni storiche.

La prima guerra mondiale pose fine a quattro grandi imperi: quello ottomano, quello austro-ungarico, quello tedesco e quello russo. Dopo la seconda guerra mondiale, tutti quelli che erano sopravvissuti cessarono di esistere (gli imperi britannico, francese, portoghese, belga, olandese e giapponese). No, l’imperialismo in senso leninista non è scomparso: la sua forma coloniale-imperiale è stata sostituita da forme più sofisticate di influenza e controllo non territoriali.

L’unico stato gigantesco che ha ereditato quasi tutte le conquiste territoriali del precedente impero è stata l’Unione Sovietica con il suo famoso ⅙ della superficie terrestre. Ma la possibilità di ricomporre e mantenere questa unità statale per altri 70 anni non è avvenuta grazie alla concezione imperiale, bensì, al contrario, grazie al suo rifiuto.

L’idea di un’unione di repubbliche socialiste consisteva proprio nel fatto che i lavoratori di popoli diversi si unissero volontariamente in tale alleanza per raggiungere insieme obiettivi comuni: costruire una nuova società senza sfruttamento e oppressione. Inoltre, il modello pensato da Lenin presupponeva la possibilità di espandere questa unione. Secondo la sua idea, le nuove repubbliche dove la rivoluzione avesse vinto, avrebbero potuto aderire all’unione, e la Russia storica non avrebbe dovuto necessariamente rimanere il perno dell’unione. La stessa Germania avrebbe potuto diventarne il centro, se vi avesse trionfato la rivoluzione proletaria. Come risultato, Lenin aspirava ad un’unione di repubbliche su scala mondiale.

Russia – URSS – URSS Mondiale: raccolta. Autori: soldati dell’Armata Rossa e lavoratori stranieri; Profizdat, 1932

Inoltre, la creazione dell’URSS nel formato del 1922 non era inclusa nei piani originali dei bolscevichi. La sua fondazione è stata il risultato del fallimento delle aspettative iniziali, ovvero la rivoluzione mondiale. Il fatto che la rivoluzione proletaria sia stata sconfitta in Europa e abbia avuto successo solo sul territorio dell’ex impero russo è la principale tragedia del progetto socialista del XX secolo. Infatti, insieme al territorio dell’ex impero, l’URSS ha ereditato molte contraddizioni e problemi di difficile soluzione insiti nel progetto politico statuale attivo precedentemente su queste terre.

La realizzazione del progetto socialista entro i confini dell’ex impero russo naturalmente, sebbene non inevitabilmente, portò al fatto che sia all’interno che all’esterno l’URSS cominciasse a essere percepita come una sorta di erede e continuazione dello stato russo. La conseguenza di ciò fu il ripetersi delle contraddizioni nazionali: ad un certo punto il governo centrale iniziò a percepire il rafforzamento delle culture nazionali e l’indipendenza delle repubbliche come una minaccia all’unità del progetto, e invece la cultura russa e la continuità statale come una sorta di solide fondamenta.

Queste tendenze si sarebbero verificate se i confini dello Stato socialista avessero preso forma in altre configurazioni e non fossero stati simili a quelli della preesistente Russia imperiale? Probabilmente sarebbe stata una storia completamente diversa. Ma nel caso dell’URSS, è accaduto che diverse generazioni di persone sia in patria che all’estero sono cresciute con la convinzione che «Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche» e «Russia» fossero praticamente sinonimi. Putin è uno di questi.

«Dopotutto, cos’è stato il crollo dell’Unione Sovietica? È stato il crollo della Russia storica, definita come Unione Sovietica» — ha dichiarato Vladimir Putin nel documentario «Russia. Storia recente» nel dicembre 2021.

Forse l’unico aspetto positivo che Putin vede nel progetto sovietico è che si è realizzato nei confini dell’ex impero russo e col tempo, allontanandosi dai principi «utopistici» originali, ha acquisito nuovamente alcune delle caratteristiche preesistenti, diventando l’erede della statualità russa. In altre parole, egli esalta proprio i tratti più reazionari acquisiti dall’URSS nel corso della sua complessa formazione. E critica proprio le idee su cui si basava l’unione: uguaglianza e fratellanza tra tutti i popoli, genuino internazionalismo, odio per l’autocrazia e il potere aristocratico, odio per le guerre di conquista e di predazione, un autentico spirito democratico che avrebbe dato accesso alla politica a masse di milioni di persone.

È interessante notare che la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista, nelle interpretazioni su cui è costruito il moderno mito nazionale russo, non sia per Putin una vittoria delle idee di umanesimo ed egualitarismo sulle idee di radicale anti egualitarismo ed anti umanesimo, non sia una vittoria della vittima dell’aggressione sull’aggressore. Nell’attuale mitologia dello stato, questa è la vittoria della «Russia storica» sulla Germania, sull’Europa, sull’Occidente. Un trionfo della statualità russa e l’espansione dei suoi confini. Proprio come la rivoluzione e l’uscita dalla prima guerra mondiale non rappresentano il rifiuto di partecipare al massacro imperialista, ma una vergognosa capitolazione della «Russia storica», un infido coltello nella schiena dello Stato da parte di fanatici utopisti. Un attentato contro lo stato russo, e la sua quasi distruzione.

«I bolscevichi durante la prima guerra mondiale volevano la sconfitta per la loro patria, e quando gli eroici soldati e ufficiali russi versavano sangue sui fronti della prima guerra mondiale, qualcuno scuoteva la Russia dall’interno e si arrivò al punto che la Russia come stato crollò e si dichiarò sconfitta da uno stato sconfitto [la Germania]. Sciocchezze, assurdità, ma intanto è successo, questo è stato un completo tradimento degli interessi nazionali! Ancora oggi tra noi ci sono persone del genere.», — ha detto Putin nell’agosto 2016 al campo giovanile di Seliger.

«La patria è in pericolo. Il sangue che abbiamo versato richiede la guerra per la vittoria. Compagni soldati, subito in trincea. Restituiamo Lenin a Guglielmo» — slogan di una manifestazione antibolscevica a Pietrogrado, aprile 1917

Da queste citazioni, non è difficile indovinare quanto sinceramente Putin incolpi per i guai della Russia la «maledizione della rivoluzione». Se nell’Ucraina contemporanea il progetto sovietico è accusato di portare «troppa Russia», al contrario Putin del progetto sovietico apprezza proprio questo [se non solo questo]. Se in Ucraina si dice che Lenin non ha dato agli ucraini una vera autodeterminazione, Putin lo accusa del contrario: di aver dato troppa libertà all’Ucraina.

Torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio. Perché il discorso programmatico del presidente russo prima dell’invasione è diventato una vera e propria diffamazione della rivoluzione? Perché è proprio nella rivoluzione che egli vede la vera radice delle disavventure della Russia. Ma ormai non si limita più ad accusare Lenin di aver tradito la Russia e di crimini contro l’integrità imperiale del paese. Putin ha deciso che è arrivato il momento di correggere il «peggio degli errori» di Lenin e di revocare il diritto all’autodeterminazione degli ucraini: questa è l’eredità «tre volte maledetta» della rivoluzione.

«Volete la decomunizzazione? Beh, per noi va benissimo. Ma non è necessario, come si suol dire, fermarsi a metà. Siamo pronti a mostrarvi cosa significa la vera decomunizzazione per l’Ucraina»

Il 24 febbraio, i carri armati russi sono entrati nel territorio dell’Ucraina per privare il suo popolo della statualità, uno dei risultati più importanti delle rivoluzioni dell’inizio del secolo scorso.

Traduzione dal russo di Marco Ferrentino

FONTE: https://september.media/ru/articles/antirevolution-ru

L’imperialismo “Woke”

di Chris Hedges

La cultura “Woke”, priva di coscienza di classe e di impegno a stare dalla parte degli oppressi, è un altro strumento nell’arsenale dello Stato imperiale.

Il brutale omicidio di Tyre Nichols da parte di cinque agenti di polizia neri di Memphis dovrebbe essere sufficiente a far implodere la fantasia secondo cui le politiche identitarie e la diversità risolveranno il degrado sociale, economico e politico che affligge gli Stati Uniti. Non solo gli ex agenti sono neri, ma il dipartimento di polizia della città è guidato da Cerelyn Davis, una donna nera. Niente di tutto questo ha aiutato Nichols, un’altra vittima di un moderno linciaggio da parte della polizia.

I militaristi, le multinazionali, gli oligarchi, i politici, gli accademici e i conglomerati mediatici sostengono la politica dell’identità e della diversità perché non fa nulla per affrontare le ingiustizie sistemiche o il flagello della guerra permanente che affligge gli Stati Uniti. È un espediente pubblicitario, un marchio, usato per mascherare la crescente disuguaglianza sociale e la follia imperiale. Impegna i liberali e i colti con un attivismo da boutique, che non solo è inefficace, ma esaspera il divario tra i privilegiati e una classe operaia in profondo disagio economico. I ricchi rimproverano ai poveri le loro cattive maniere, il razzismo, l’insensibilità linguistica e la sgarbatezza, ignorando le cause profonde del loro disagio economico. Gli oligarchi non potrebbero essere più felici.

La vita dei nativi americani è migliorata a seguito della legislazione che imponeva l’assimilazione e la revoca dei titoli di proprietà delle terre tribali, promossa da Charles Curtis, il primo vicepresidente nativo americano? Stiamo meglio con Clarence Thomas, che si oppone all’azione positiva, alla Corte Suprema, o con Victoria Nuland, un falco della guerra al Dipartimento di Stato? La nostra perpetuazione della guerra permanente è più accettabile perché Lloyd Austin, un afroamericano, è il Segretario alla Difesa? L’esercito è più umano perché accetta i soldati transgender? La disuguaglianza sociale e lo stato di sorveglianza che la controlla sono migliorati perché Sundar Pichai – nato in India – è il CEO di Google e Alphabet? L’industria bellica è migliorata perché Kathy J. Warden, una donna, è l’amministratore delegato di Northop Grumman e un’altra donna, Phebe Novakovic, è l’amministratore delegato di General Dynamics? Le famiglie dei lavoratori stanno meglio con Janet Yellen, che promuove l’aumento della disoccupazione e la “precarietà del lavoro” per ridurre l’inflazione, come Segretario del Tesoro? L’industria cinematografica è migliorata quando una regista donna, Kathryn Bigelow, realizza “Zero Dark Thirty”, che è un’agit-prop per la CIA? Date un’occhiata a questo annuncio di reclutamento pubblicato dalla CIA. Riassume l’assurdità della situazione in cui siamo finiti.

I regimi coloniali trovano leader indigeni compiacenti – “Papa Doc” François Duvalier ad Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Mobutu Sese Seko in Congo, Mohammad Reza Pahlavi in Iran – disposti a fare il lavoro sporco mentre sfruttano e saccheggiano i Paesi che controllano. Per ostacolare le aspirazioni popolari alla giustizia, le forze di polizia coloniali hanno regolarmente compiuto atrocità per conto degli oppressori. I combattenti per la libertà indigeni che lottano a sostegno dei poveri e degli emarginati vengono solitamente estromessi dal potere o assassinati, come nel caso del leader indipendentista congolese Patrice Lumumba e del presidente cileno Salvador Allende. Il capo Lakota Toro Seduto è stato ucciso da membri della sua stessa tribù, che prestavano servizio nella polizia della riserva di Standing Rock. Se si sta dalla parte degli oppressi, si finisce quasi sempre per essere trattati come tali. È per questo che l’FBI, insieme alla polizia di Chicago, ha ucciso Fred Hampton ed è quasi certamente coinvolta nell’omicidio di Malcolm X, che si riferiva ai quartieri urbani impoveriti come “colonie interne”. Le forze di polizia militarizzate negli Stati Uniti funzionano come eserciti di occupazione. Gli agenti di polizia che hanno ucciso Tyre Nichols non sono diversi da quelli delle riserve e delle forze di polizia coloniali.

Viviamo sotto una specie di colonialismo aziendale. I motori della supremazia bianca, che hanno costruito le forme di razzismo istituzionale ed economico che mantengono poveri i poveri, sono oscurati dietro personalità politiche attraenti come Barack Obama, che Cornel West ha definito “una mascotte nera per Wall Street”. Questi volti della diversità sono controllati e selezionati dalla classe dirigente. Obama è stato preparato e promosso dalla macchina politica di Chicago, una delle più sporche e corrotte del Paese.

“È un insulto ai movimenti organizzati di persone che queste istituzioni affermano di voler includere”, mi ha detto nel 2018 Glen Ford, il defunto editore di The Black Agenda Report. “Queste istituzioni scrivono il copione. È il loro dramma. Scelgono gli attori, le facce nere, marroni, gialle, rosse che vogliono”.

Ford ha definito coloro che promuovono le politiche identitarie “rappresentazionisti” che “vogliono vedere alcuni neri rappresentati in tutti i settori della leadership, in tutti i settori della società. Vogliono scienziati neri. Vogliono stelle del cinema nere. Vogliono studiosi neri ad Harvard. Vogliono neri a Wall Street. Ma è solo una rappresentanza. Tutto qui”.

Il tributo del capitalismo aziendale alle persone che questi “rappresentativi” pretendono di rappresentare smaschera l’imbroglio. Gli afroamericani hanno perso il 40% della loro ricchezza dal crollo finanziario del 2008, a causa dell’impatto sproporzionato del calo del patrimonio netto delle case, dei prestiti predatori, dei pignoramenti e della perdita del lavoro. Secondo l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti e il Dipartimento per la salute e i servizi umani, i neri e i nativi americani sono al secondo posto per tasso di povertà (21,7%), seguiti dagli ispanici (17,6%) e dai bianchi (9,5%). Nel 2021, i bambini neri e nativi americani vivevano in povertà rispettivamente al 28 e al 25%, seguiti dai bambini ispanici al 25% e dai bambini bianchi al 10%. Quasi il 40% dei senzatetto della nazione sono afroamericani, sebbene i neri rappresentino circa il 14% della popolazione. Questa cifra non comprende le persone che vivono in abitazioni fatiscenti e sovraffollate o presso parenti o amici a causa di difficoltà economiche. Gli afroamericani sono incarcerati a un tasso quasi cinque volte superiore a quello dei bianchi.

La politica dell’identità e la diversità permettono ai liberali di crogiolarsi in una stucchevole superiorità morale mentre castigano, censurano e deplorano coloro che non si conformano linguisticamente al linguaggio politicamente corretto. Sono i nuovi giacobini. Questo gioco maschera la loro passività di fronte agli abusi delle aziende, al neoliberismo, alla guerra permanente e alla riduzione delle libertà civili. Non affrontano le istituzioni che orchestrano l’ingiustizia sociale ed economica. Cercano di rendere più appetibile la classe dirigente. Con il sostegno del Partito Democratico, i media liberali, il mondo accademico e le piattaforme di social media della Silicon Valley demonizzano le vittime del colpo di stato aziendale e della deindustrializzazione. Fanno le loro principali alleanze politiche con coloro che abbracciano la politica dell’identità, sia che si trovino a Wall Street o al Pentagono. Sono gli utili idioti della classe miliardaria, crociati morali che ampliano le divisioni all’interno della società che gli oligarchi al potere promuovono per mantenere il controllo.

La diversità è importante. Ma la diversità, quando è priva di un programma politico che combatta l’oppressore per conto dell’oppresso, è un’operazione di facciata. Si tratta di incorporare un piccolo segmento di persone emarginate dalla società in strutture ingiuste per perpetuarle.

Il gruppo di un corso che ho tenuto in un carcere di massima sicurezza del New Jersey ha scritto “Caged”, un’opera teatrale sulla loro vita. L’opera è stata rappresentata per quasi un mese al Passage Theatre di Trenton, nel New Jersey, dove ha registrato il tutto esaurito quasi ogni sera. Successivamente è stata pubblicata da Haymarket Books. I 28 studenti della classe hanno insistito affinché l’agente di custodia della storia non fosse bianco. Era troppo facile, dicevano. Era una finzione che permette alle persone di semplificare e mascherare l’apparato oppressivo di banche, aziende, polizia, tribunali e sistema carcerario, che assumono persone diverse. Questi sistemi di sfruttamento e oppressione interna devono essere presi di mira e smantellati, indipendentemente da chi assumono.

Il mio libro, “La nostra classe: Trauma and Transformation in an American Prison”, utilizza l’esperienza della scrittura dell’opera teatrale per raccontare le storie dei miei studenti e trasmettere la loro profonda comprensione delle forze repressive e delle istituzioni schierate contro di loro, le loro famiglie e le loro comunità. Potete vedere la mia intervista in due parti con Hugh Hamilton su “La nostra classe” qui e qui.

L’ultima opera di August Wilson, “Radio Golf”, aveva preannunciato la direzione che avrebbero preso la diversità e le politiche identitarie prive di coscienza di classe. Nella pièce, Harmond Wilks, un immobiliarista istruito dalla Ivy League, sta per lanciare la sua campagna per diventare il primo sindaco nero di Pittsburgh. Sua moglie, Mame, aspira a diventare addetta stampa del governatore. Wilks, navigando nell’universo dell’uomo bianco fatto di privilegi, affari, ricerca di uno status e gioco del golf nel country club, deve asportare e negare la sua identità. Roosevelt Hicks, che era stato compagno di stanza di Wilk all’università Cornell ed è vicepresidente della Mellon Bank, è il suo socio in affari. Sterling Johnson, il cui quartiere Wilks e Hicks stanno facendo pressioni affinché la città lo dichiari degradato per poterlo radere al suolo per il loro progetto di sviluppo multimilionario, dice a Hicks:

Sai cosa sei? Mi ci è voluto un po’ per capirlo. Sei un negro. I bianchi si confondono e ti chiamano negro, ma non lo sanno come lo so io. Io so la verità. Sono un negro. I negri sono la cosa peggiore della creazione di Dio. I negri hanno stile. I negri hanno la cecità. Un cane sa di essere un cane. Un gatto sa di essere un gatto. Ma un negro non sa di essere un negro. Pensa di essere un bianco.

Terribili forze predatorie stanno divorando il Paese. I corporativisti, i militaristi e i mandarini politici che li servono sono il nemico. Il nostro compito non è quello di renderle più attraenti, ma di distruggerle. Tra noi ci sono autentici combattenti per la libertà di tutte le etnie e provenienze, la cui integrità non permette loro di servire il sistema di totalitarismo invertito che ha distrutto la nostra democrazia, impoverito la nazione e perpetuato guerre senza fine. La diversità, quando serve agli oppressi, è una risorsa, ma una truffa quando serve agli oppressori.

FONTE: https://open.substack.com/pub/chrishedges/p/listen-to-this-article-woke-imperialism?r=1tqdxn&utm_campaign=post&utm_medium=email


Woke Imperialism

Woke culture, devoid of class consciousness and a commitment to stand with the oppressed, is another tool in the arsenal of the imperial state.

Identity Politics – by Mr. Fish

The brutal murder of Tyre Nichols by five Black Memphis police officers should be enough to implode the fantasy that identity politics and diversity will solve the social, economic and political decay that besets the United States. Not only are the former officers Black, but the city’s police department is headed by Cerelyn Davis, a Black woman. None of this helped Nichols, another victim of a modern-day police lynching.

The militarists, corporatists, oligarchs, politicians, academics and media conglomerates champion identity politics and diversity because it does nothing to address the systemic injustices or the scourge of permanent war that plague the U.S. It is an advertising gimmick, a brand, used to mask mounting social inequality and imperial folly. It busies liberals and the educated with a boutique activism, which is not only ineffectual but exacerbates the divide between the privileged and a working class in deep economic distress. The haves scold the have-nots for their bad manners, racism, linguistic insensitivity and garishness, while ignoring the root causes of their economic distress. The oligarchs could not be happier.

Did the lives of Native Americans improve as a result of the legislation mandating assimilation and the revoking of tribal land titles pushed through by Charles Curtis, the first Native American Vice President? Are we better off with Clarence Thomas, who opposes affirmative action, on the Supreme Court, or Victoria Nuland, a war hawk in the State Department? Is our perpetuation of permanent war more palatable because Lloyd Austin, an African American, is the Secretary of Defense? Is the military more humane because it accepts transgender soldiers? Is social inequality, and the surveillance state that controls it, ameliorated because Sundar Pichai — who was born in India — is the CEO of Google and Alphabet? Has the weapons industry improved because Kathy J. Warden, a woman, is the CEO of Northop Grumman, and another woman, Phebe Novakovic, is the CEO of General Dynamics? Are working families better off with Janet Yellen, who promotes increasing unemployment and “job insecurity” to lower inflation, as Secretary of the Treasury? Is the movie industry enhanced when a female director, Kathryn Bigelow, makes “Zero Dark Thirty,” which is agitprop for the CIA? Take a look at this recruitment ad put out by the CIA. It sums up the absurdity of where we have ended up.

Colonial regimes find compliant indigenous leaders — “Papa Doc” François Duvalier in Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Mobutu Sese Seko in the Congo, Mohammad Reza Pahlavi in Iran — willing to do their dirty work while they exploit and loot the countries they control. To thwart popular aspirations for justice, colonial police forces routinely carried out atrocities on behalf of the oppressors. The indigenous freedom fighters who fight in support of the poor and the marginalized are usually forced out of power or assassinated, as was the case with Congolese independence leader Patrice Lumumba and Chilean president Salvador Allende. Lakota chief Sitting Bull was gunned down by members of his own tribe, who served in the reservation’s police force at Standing Rock. If you stand with the oppressed, you will almost always end up being treated like the oppressed. This is why the FBI, along with Chicago police, murdered Fred Hampton and was almost certainly involved in the murder of Malcolm X, who referred to impoverished urban neighborhoods as “internal colonies.” Militarized police forces in the U.S. function as armies of occupation. The police officers who killed Tyre Nichols are no different from those in reservation and colonial police forces.

We live under a species of corporate colonialism. The engines of white supremacy, which constructed the forms of institutional and economic racism that keep the poor poor, are obscured behind attractive political personalities such as Barack Obama, whom Cornel West called “a Black mascot for Wall Street.” These faces of diversity are vetted and selected by the ruling class. Obama was groomed and promoted by the Chicago political machine, one of the dirtiest and most corrupt in the country.

“It’s an insult to the organized movements of people these institutions claim to want to include,” Glen Ford, the late editor of The Black Agenda Report told me in 2018. “These institutions write the script. It’s their drama. They choose the actors, whatever black, brown, yellow, red faces they want.”

Ford called those who promote identity politics “representationalists” who “want to see some Black people represented in all sectors of leadership, in all sectors of society. They want Black scientists. They want Black movie stars. They want Black scholars at Harvard. They want Blacks on Wall Street. But it’s just representation. That’s it.”

The toll taken by corporate capitalism on the people these “representationalists” claim to represent exposes the con. African-Americans have lost 40 percent of their wealth since the financial collapse of 2008 from the disproportionate impact of the drop in home equity, predatory loans, foreclosures and job loss. They have the second highest rate of poverty at 21.7 percent, after Native Americans at 25.9 percent, followed by Hispanics at 17.6 percent and whites at 9.5 percent, according to the U.S. Census Bureau and the Department for Health and Human Services. As of 2021, Black and Native American children lived in poverty at 28 and 25 percent respectively, followed by Hispanic children at 25 percent and white children at 10 percent. Nearly 40 percent of the nation’s homeless are African-Americans although Black people make up about 14 percent of our population. This figure does not include people living in dilapidated, overcrowded dwellings or with family or friends due to financial difficulties.  African-Americans are incarcerated at nearly five times the rate of white people.

Identity politics and diversity allow liberals to wallow in a cloying moral superiority as they castigate, censor and deplatform those who do not linguistically conform to politically correct speech. They are the new Jacobins. This game disguises their passivity in the face of corporate abuse, neoliberalism, permanent war and the curtailment of civil liberties. They do not confront the institutions that orchestrate social and economic injustice. They seek to make the ruling class more palatable. With the support of the Democratic Party, the liberal media, academia and social media platforms in Silicon Valley, demonize the victims of the corporate coup d’etat and deindustrialization. They make their primary political alliances with those who embrace identity politics, whether they are on Wall Street or in the Pentagon. They are the useful idiots of the billionaire class, moral crusaders who widen the divisions within society that the ruling oligarchs foster to maintain control. 

Diversity is important. But diversity, when devoid of a political agenda that fights the oppressor on behalf of the oppressed, is window dressing. It is about  incorporating a tiny segment of those marginalized by society into unjust structures to perpetuate them. 

A class I taught in a maximum security prison in New Jersey wrote “Caged,” a play about their lives. The play ran for nearly a month at The Passage Theatre in Trenton, New Jersey, where it was sold out nearly every night. It was subsequently published by Haymarket Books. The 28 students in the class insisted that the corrections officer in the story not be white. That was too easy, they said. That was a feint that allows people to simplify and mask the oppressive apparatus of banks, corporations, police, courts and the prison system, all of which make diversity hires. These systems of internal exploitation and oppression must be targeted and dismantled, no matter whom they employ. 

My book, “Our Class: Trauma and Transformation in an American Prison,” uses the experience of writing the play to tell the stories of my students and impart their profound understanding of the repressive forces and institutions arrayed against them, their families and their communities. You can see my two-part interview with Hugh Hamilton about “Our Class” here and here.

August Wilson’s last play, “Radio Golf,” foretold where diversity and identity politics devoid of class consciousness were headed. In the play, Harmond Wilks, an Ivy League-educated real estate developer, is about to launch his campaign to become Pittsburgh’s first Black mayor. His wife, Mame, is angling to become the governor’s press secretary. Wilks, navigating the white man’s universe of privilege, business deals, status seeking and the country club game of golf, must sanitize and deny his identity. Roosevelt Hicks, who had been Wilk’s college roommate at Cornell and is a vice president at Mellon Bank, is his business partner. Sterling Johnson, whose neighborhood Wilks and Hicks are lobbying to get the city to declare blighted so they can raze it for their multimillion dollar development project, tells Hicks: 

You know what you are? It took me a while to figure it out. You a Negro. White people will get confused and call you a nigger but they don’t know like I know. I know the truth of it. I’m a nigger. Negroes are the worst thing in God’s creation. Niggers got style. Negroes got blindyitis. A dog knows it’s a dog. A cat knows it’s a cat. But a Negro don’t know he’s a Negro. He thinks he’s a white man.

Terrible predatory forces are eating away at the country. The corporatists, militarists and political mandarins that serve them are the enemy. It is not our job to make them more appealing, but to destroy them. There are amongst us genuine freedom fighters of all ethnicities and backgrounds whose integrity does not permit them to serve the system of inverted totalitarianism that has destroyed our democracy, impoverished the nation and perpetuated endless wars. Diversity when it serves the oppressed is an asset, but a con when it serves the oppressors.

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/woke-imperialism

Guerra in Ucraina, profili strategici e divisioni valoriali

di Alberto Bradanini

In un acuto articolo reperibile sulla rete[1], l’antropologo francese Emmanuel Todd ha sviluppato alcune riflessioni sugli accadimenti ucraini che andrebbero valutate da chi dispone del potere di evitare che questa guerra ci conduca nel baratro.

Di seguito i punti cruciali delle riflessioni di Todd, con commenti a margine di chi scrive, quando non diversamente indicato, tenendo a mente che le rappresentazioni della narrazione dominante non sorgono da quel ramo del Lago di Como come i monti manzoniani, essendo fabbricate a tavolino da coloro che muovono i fili della manipolazione, per interesse o sudditanza[2].

L’antropologo citato rileva che all’avvio del conflitto due erano i postulati che gli eventi successivi hanno poi smentito: a) l’Ucraina non resisterà alla pressione militare russa; b) la Russia verrà schiacciata dalle sanzioni occidentali e il suo sistema produttivo, commerciale e finanziario sarà messo in ginocchio.

Inizialmente il conflitto aveva una dimensione territoriale, con un rischio espansivo limitato, sebbene i propositi di Nato-Usa erano stati prefabbricati e avessero obiettivi più estesi. Col passare dei mesi, l’obiettivo dell’Occidente è emerso nella sua evidenza, il dissanguamento della Russia e a caduta l’indebolimento della Cina. In parallelo, da una dimensione circoscritta la guerra è diventata mondiale, seppure con proprie caratteristiche e una bassa intensità militare rispetto a quelle precedenti.

All’avvio delle ostilità, la narrazione mediatica esaltava la forza dell’esercito russo, ben armato e strutturato. Dell’economia russa veniva invece rimarcata la fragilità di fondo, che l’avrebbe fatta crollare sotto il peso delle sanzioni. L’Ucraina, in buona sostanza, sarebbe stata travolta sul piano militare, mentre la Russia su quello economico. Le carte si sono invece ribaltate, una doppia sorpresa che conferma l’azzardo di ogni previsione e l’inattendibilità della macchina manipolatoria, quando i destinatari trovano tempo per approfondire.

Gli analisti dotati di pensiero critico – non certo i funzionari politici e mediatici di sistema, o i partigiani ideologici – restano convinti che sarà la Russia a prevalere, anche se la forma non è prevedibile. L’Ucraina, tuttavia, non è stata schiacciata sul piano militare, pur avendo perso (gennaio 2023) il 16 per cento del territorio. Sul fronte opposto, l’economia regge, non è andata in rovina, il commercio con i paesi non-occidentali è sostenuto e, dalla vigilia della guerra, il rublo ha guadagnato l’8 per cento sul dollaro e il 18 per cento sull’euro.

Sul piano militare l’Occidente non intende esporsi (lo fa con il sangue e il territorio ucraini) per evitare rappresaglie ed escalation, pur fornendo finanziamenti e armamenti che tengono in piedi lo stato ucraino e uccidono soldati russi. In Europa, la guerra danneggia la struttura industriale, causa inflazione e scarsità di energia, aggrava la sua irrilevanza e la sudditanza all’alleato-padrone.

Secondo alcuni, con questa operazione militare speciale Putin avrebbe commesso un errore storico-sociale, avendo rivitalizzato la morente società ucraina. Fino all’avvio delle ostilità l’Ucraina aveva il profilo di un paese fallito, in decomposizione. Dal giorno dell’indipendenza (24 agosto 1991) il paese aveva perso 15 milioni di abitanti, sebbene manchino dati ufficiali perché il censimento è vietato dal 2001, quale riflesso di un’élite che vorrebbe cancellare persino l’esistenza della minoranza russa o russofona.

Secondo le iniziali valutazioni del Cremlino, un paese così fragile sotto il profilo identitario sarebbe facilmente crollato, spalancando le porte a santa madre Russia, dopo essersi liberato delle bande nazionaliste e para-naziste insediatesi nei suoi apparati politici e militari. Ma ciò non è avvenuto. Anzi, lo sviluppo degli eventi ha validato l’assunto che una società in caduta libera come quella ucraina può trovare nella guerra un orizzonte identitario che sembrava perso nelle nebbie del tempo, facendo affidamento su risorse esterne, finanziarie e militari. Persino i russi avevano sottovalutato il collante del sentimento nazionalista, oltre che l’impatto degli aiuti occidentali.

Va rilevato che tra i diversi protagonisti della guerra, la Russia è il paese più facilmente intellegibile, e a ragione. Todd condivide l’analisi del politologo americano di scuola realista, John Mearsheimer, quando osserva che l’esercito ucraino era già di fatto un esercito della Nato (addestrato da statunitensi, britannici e polacchi molto prima del 2014) anche senza la formale adesione di Kiev al Blocco Atlantico. Uno scenario che – come da Putin affermato fino al giorno precedente l’attacco – la Russia non avrebbe tollerato. Le mosse di Mosca sono chiare, essendo motivate da ragioni difensive e preventive. Mearsheimer aggiunge tuttavia che le difficoltà dell’esercito russo non dovrebbero indurre a rallegrarsi, poiché questa guerra ha per Mosca un valore esistenziale. Se crescono le sofferenze, cresce in parallelo l’intensità della sua reazione, e dunque una possibile escalation[3] persino nucleare (un rischio su cui gli incoscienti generali/governo/produttori di armi americani, che manovrano dietro il sipario, sorvolano distrattamente, mentre i paesi europei si eclissano sotto il velo di un’umiliante omertà): qualora vedesse profilarsi la sconfitta, l’esercito russo procederebbe innanzitutto alla sistematica distruzione delle città ucraine, a partire dalla capitale, per poi considerare attacchi convenzionali con missili ipersonici fors’anche contro un paese Nato, fino all’uso di un ordigno nucleare tattico (al quale difficilmente gli Usa reagirebbero, per non rischiare a loro volta di diventare bersagli della controreazione russa).

Si tratta di un’analisi che Todd considera corretta, sebbene le riflessioni di Mearsheimer meritino un’aggiunta: questo conflitto aveva inizialmente caratteristiche esistenziali solo per Mosca. Esso è ora diventato tale anche per Washington, sebbene per ragioni diverse, imprigionando i due antagonisti in una spirale senza apparente via d’uscita. La Russia, come rilevato, non può essere sconfitta, se non scatenando l’Armageddon. Ora, anche la disfatta dell’Occidente-Ucraina verrebbe percepita dagli Stati Uniti, che ne sono la guida, come una ferita esistenziale. Per Washington le sofferenze non comporterebbero sacrifici territoriali o il rischio di un cambio di regime (come in Russia), poiché la struttura del corporativismo americano non ne verrebbe comunque scalfita. Le conseguenze sarebbero di natura geostrategica. Se la Russia dovesse prevalere, l’icona di onnipotenza della superpotenza atlantica ne risentirebbe pesantemente, con riflessi diretti sulla sua influenza nel mondo. Gli Usa, infatti, non intendono certo rinunciare allo status imperiale unipolare – la sola nazione indispensabile, B. Clinton, 1999 – per tornare ad essere una nazione normale e contribuire con onestà alla soluzione dei problemi del mondo. Decisamente no.

In caso di sconfitta dell’Ucraina, dunque, il sistema di potere americano potrebbe scoprirsi esposto e magari percepire i primi cedimenti di quel trono di privilegi sul quale è seduto. La guerra non presenta vie d’uscita bilanciate per le due parti. La torta sarà divisa in modo ineguale, con riflessi imprevedibili sul resto del mondo.

Secondo le dichiarazioni ufficiali, Francia e Germania erano convinte che la Russia mai avrebbe trovato il coraggio d’invadere l’Ucraina, mentre americani, inglesi e polacchi stavano lavorando proprio perché ciò avvenisse. Non ne abbiamo evidenza, ma è presumibile, riflette Todd, che i due paesi non abbiano considerato seriamente tale ipotesi, sebbene le recenti dichiarazioni (comode e tardive) di Hollande e Merkel (i quali nel 2014 guidavano i rispettivi governi) – che gli accordi di Minsk (che avrebbero sancito l’autonomia linguistica nel Donbass sotto sovranità ucraina) erano solo un espediente per guadagnare tempo[4] e consentire all’Ucraina di armarsi in vista di un conflitto con la Russia – lascerebbero supporre il contrario. A tale riguardo, è amaro prendere atto della fredda violazione del diritto internazionale da parte di un paese, la Francia, membro del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite con diritto di veto, poiché gli accordi di Minsk erano stati approvati dalle Nazioni Unite con apposita Risoluzione del CdS[5]. Analogo sentimento di riprovazione andrebbe manifestato verso la Germania, a cui piace presentarsi quale campione di integrità morale e rispetto delle leggi. Un altro plateale inganno.

D’altra parte, essendo da tempo schiacciate sulle strategie Nato-Usa, le due nazioni non dispongono della libertà necessaria di gestire gli eventi in autonomia: il destino del conflitto (e dei suoi riflessi sistemici) si trova dunque nelle mani del tetra-potere Washington (Nato)-Londra-Varsavia-Kiev: il primo guida le danze, gli altri sono attori non protagonisti.

Todd rileva poi che su un punto le riflessioni di Mearsheimer sono meno convincenti, poiché da buon americano sopravvaluta il suo paese quando spiega che gli Stati Uniti potrebbero digerire anche questa sconfitta, dopo quelle in Vietnam, Afghanistan e per certi versi Iraq e Siria, e che dunque – come menzionato – il conflitto in Ucraina abbia un valore esistenziale solo per Mosca, mentre per Washington non sarebbe altro che un divertissement utile a riempire ancor più le tasche dei produttori di armi, già ricchi per conto loro. I rapporti cruciali di potere, conclude Mearsheimer, non verrebbero sconvolti nemmeno da tale eventuale sconfitta. A suo avviso, in buona sostanza, il postulato della geopolitica americana è basato sull’assunto seguente: gli Stati Uniti possono fare quel che vogliono perché sono al sicuro, geograficamente lontani da ogni minaccia, protetti da due oceani. Dunque, non succederà mai nulla, poiché agli occhi dell’impero nulla è davvero esistenziale. Secondo Todd tale asserzione è erronea, e sarebbe sbagliato per gli Stati Uniti (qui intesi come apparati militari-industriali e la cuspide corporativa, non i 330 milioni di cittadini, affetti da un diffuso analfabetismo politico) perseverare nell’autoconvincimento d’onnipresenza. Essi dovrebbero invece cambiare registro e prendere atto, tra le altre cose, della solidità dell’economia materiale russa (gas, petrolio e materie prime indispensabili al mondo) e della fragilità di quella immateriale fondata in parte eccessiva su valori cartacei.

Se Mosca resistesse all’impianto sanzionatorio dell’Occidente, generando benefici anche per il mondo emergente, sempre più infastidito dal costo di guerre occidentali che non lo riguardano, essendo alle prese con altre priorità (lotta a povertà e sottosviluppo), e se anche l’economia europea uscisse strutturalmente deteriorata dal conflitto, la capacità dell’America di controllare monete e finanza ne risentirebbe drammaticamente. Con la difficoltà a sostenere un’economia di carta e l’enorme deficit commerciale, gli Usa potrebbero dover fronteggiare l’inizio di un declino economico/politico/militare, mentre il mondo vedrebbe l’affermarsi di un crescente multipolarismo. Il terreno perso dall’uno verrebbe conquistato dall’altro, nel tragico gioco a somma zero. Su tale palcoscenico, cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, nascondono a malapena la loro esultanza.

Putin e il passato

L’esercito russo è stato forse sopravvalutato, ma esso resta tuttavia solido e ben equipaggiato. Putin d’altro canto può contare anche su altro. Gli anni ’90 furono un periodo d’inenarrabili sofferenze. Con la presidenza Putin, uno dei pochi collaboratori non corrotti si cui Yeltsin poteva contare, il paese è tornato alla stabilità e alla crescita, recuperando sicurezza e benessere. Sono scesi i tassi di suicidi e omicidi, insieme alla mortalità infantile, oggi sotto quella americana. Nella mente e nella prassi del popolo, Putin incarna tale percorso di recupero. Nel paese non manca chi giudica sbagliata la scelta della guerra, ma la maggioranza concorda con il presidente che questa operazione militare speciale sia un conflitto di natura difensiva. Inoltre, la buona tenuta del sistema economico accresce la fiducia di poter fronteggiare egregiamente l’Occidente collettivo, ovvero Stati Uniti e vassalli europei.

I russi, rileva Todd, hanno rispetto per il popolo e l’esercito ucraini, la cui resistenza avrebbe una spiegazione semplice: essi sono coraggiosi come i russi, mai gli occidentali combatterebbero così bene! Putin punta alla vittoria, ma mira anche al mantenimento della stabilità sociale, e la prima ne è il presupposto. La Russia combatte con uno sguardo al principio del risparmio, di uomini innanzitutto, perché il paese è alle prese con un drammatico calo demografico, la fertilità per donna essendo di 1,5 figli (2,1 è quella minima per non far scendere la popolazione). Se la guerra durerà cinque anni, una durata normale per un conflitto mondiale, occorre allora preservare al massimo la vita dei soldati, futuri padri-famiglia. Sorprende che al governo ucraino tale aspetto importi meno, mandando i soldati allo sbaraglio con scarsa considerazione: il ripiegamento russo a Kherson, dopo quelli a Kharkiv e Kiev, città non strategiche, trova spiegazione anche in questa logica.

Il governo di Mosca non nasconde l’auspicio che le economie europee vengano esaurite, poiché esse sono fragili, esposte sull’energia e guidate da governi non sovrani. La strategia russa è dunque intellegibile perché basata su una logica razionale, seppure dura, per usare l’aggettivo di Todd, mentre le incognite sarebbero altrove. Secondo alcuni critici, Mosca non avrebbe ragione a definire il conflitto ucraino come una guerra difensiva, poiché nessun paese ha tentano d’invadere la Russia. Secondo Todd, tuttavia, uno sguardo alla mappa del mondo evidenzia l’accerchiamento al quale la Federazione deve far fronte. Basi militari, dispiegamento di missili, navi, sommergibili Nato-Usa, tutti convergono sul territorio russo, un assedio iniziato ben prima del 24 febbraio 2022. Mentre le trincee dei due eserciti in guerra si trovano a 8400 chilometri da Washington, esse sono invece a soli 130 chilometri dal confine russo.

La dimensione mondiale

Il 75% dei paesi membri delle Nazioni Unite non applica le sanzioni dell’Occidente a guida Usa (rappresentanti 6,5 miliardi di persone i primi, 1,5 miliardi i secondi). I media occidentali si mostrano al riguardo tragicamente diversivi, oltre che divertenti, quando fanno rimarcare l’isolamento della Russia sul piano internazionale.

Jaishankar, ex-ministro indiano degli Affari Esteri (nel suo libro The India Way), pubblicato poco prima del febbraio 2022, ritiene che il confronto Cina-Stati Uniti, sulla scorta della debolezza di questi ultimi, darà più spazio a paesi come l’India e altri, ma non gli europei. Molti paesi hanno preso atto del pur relativo declino statunitense, ma non Europa e Giappone. Ciò avviene, riflette Todd, perché un riflesso del ritracciamento imperiale è la necessità di rafforzare la presa sui paesi-colonie. Ne La Grande Scacchiera Brzezi?ski ripercorre le tappe della formazione dell’impero americano al termine del secondo conflitto mondiale con la sconfitta/conquista di Germania e Giappone, divenuti da allora protettorati (questi dispongono di governi formalmente autonomi, diversamente dalle colonie, che sono invece guidate da governatori nominati). I primi a perdere l’autonomia furono inglesi e australiani (e ancor prima i canadesi). All’interno dell’anglosfera l’intreccio funzionale è tale che le loro élite politiche, mediatiche e accademiche sono ormai integrate nell’universo valoriale americano. Il continente europeo è parzialmente protetto dalle lingue nazionali, ma la sua cessione di sovranità è stata comunque profonda e nelle condizioni date è irreversibile. Solo pochi anni orsono, valutando l’inopportunità della guerra in Iraq, a Chirac, Schröder e Putin era consentito organizzare conferenze-stampa congiunte, esprimendosi in modo critico. Un tale scenario è oggi fantascienza.

Alcuni analisti fanno notare che il Pil (Prodotto interno lordo) della Russia è inferiore a quello della Spagna e dunque potere economico e capacità di resistenza sono sopravvalutate. Anche a tale riguardo, annota Todd, la guerra è un grande rivelatore. Il Pil combinato di Russia e Bielorussia rappresenta solo il 3,3% di quello dei paesi occidentali (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), sulla carta dunque incomparabile. Ciò induce a chiedersi come possa la Russia far fronte a un conflitto così gravoso, continuando a produrre armi sofisticate senza ridurre il benessere dei cittadini.  La spiegazione è legata alla struttura materiale dell’economia russa, la cui natura è messa in ombra dalla narrazione occidentale. Il Pil è una misura fittizia della produzione. Se a quello degli Stati Uniti si sottrae l’enorme spesa sanitaria, la ricchezza prodotta da avvocati, il costo dei penitenziari (i più affollati al mondo), i servizi pagati con carta-moneta, il prodotto di 20.000 accademici-economisti con stipendi di 120.000 dollari, emerge all’evidenza che una parte cospicua del Pil statunitense è solo vapore acqueo.

La guerra in Ucraina ci obbliga a guardare con maggior attenzione all’economia reale, secondo la quale la vera ricchezza di una nazione è costituita dalla capacità di produrre. Sulla base di tale postulato, l’economia russa è quanto mai solida. Nel 2014, sono state adottate le prime serie sanzioni contro la Russia. Da allora, la produzione di grano è passata da 40 milioni di tonnellate a 90 nel 2020. Negli Stati Uniti, grazie alle politiche neoliberiste, dal 1980 al 2020 la produzione di grano è scesa da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è diventata anche il più grande esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, secondo gli americani, la Russia era in tale stato di disfacimento che anche la sua forza militare e nucleare ne avrebbe risentito profondamente. Oggi Mosca dispone di missili ipersonici, anche nucleari, più potenti di quelli americani e mostra una straordinaria capacità di crescere e adattarsi. Quando si vuole irridere alle economie centralizzate, se ne enfatizza la rigidità, e quando si vuol glorificare il capitalismo, se ne loda la flessibilità. Bene. Per garantire flessibilità a un sistema economico sono necessari adeguati meccanismi di mercato, finanziari e monetari. Ma prima ancora è necessario disporre di forza lavoro e competenze. La popolazione degli Stati Uniti è oltre il doppio di quella della Russia (2,2 volte nelle fasce di età studentesche). Tuttavia, con percentuali comparabili di giovani nell’istruzione superiore, negli Stati Uniti il 7% studia ingegneria, in Russia il 25%. Con un numero 2,2 volte inferiore di studenti, i russi formano il 30% in più di ingegneri. Gli Stati Uniti cercano di attrarre studenti stranieri, che sono per lo più indiani o cinesi, un numero peraltro in diminuzione. Uno dei dilemmi paradossali della loro economia riguarda la competizione strategica con la Repubblica Popolare Cinese, che viene affrontata importando professionisti qualificati proprio dalla Cina. Quanto alla Russia, essa riproduce sotto tale profilo il modello cinese, poiché i settori fondamentali della sua economia sono controllati dallo stato, che tiene a bada in tal modo la pervasività del corporativismo internazionale (e dunque americano-centrico). In buona sostanza, Putin accetta le regole del mercato, ma si riserva la facoltà d’intervento dello stato a garanzia degli interessi collettivi e dunque anche, per quanto riguarda la guerra, della formazione professionale di maestranze essenziali allo sviluppo industriale, civile e militare del paese.

Alcuni in Russia reputano che V. Putin abbia fatto cattivo uso delle risorse disponibili, perché l’economia resterebbe debole e dipendente dall’esterno. Se così fosse, invero, la guerra non sarebbe nemmeno iniziata, elabora Todd. Ciò che rende incerto l’esito del conflitto è semmai il rapporto tra tecnologie militari avanzate e produzioni di massa. Certo, gli Stati Uniti dispongono di armi sofisticate, che sono poi quelli che consentono all’esercito ucraino di resistere. Tuttavia, in una guerra di logoramento che coinvolge ampie risorse umane e materiali, la differenza si misurerà sulla maggiore disponibilità di armamenti di fascia medio-bassa. Nell’attuale globalizzazione fondata sul profitto a ogni costo, l’Occidente ha delocalizzato molte attività industriali, comprese quelle militari o legate alla sicurezza. L’esito della guerra dunque si giocherà sulla capacità di produrre armamenti in quantità costante ed elevata.

Epilogo

In Occidente il conflitto viene presentato anche come una battaglia per la difesa di valori politici (democrazia contro autocrazia), mentre per la Russia, e non solo, esso ha una valenza antropologica, oltre che geopolitica. La Russia si è formata su strutture e valori centrati sul comunitarismo e la famiglia, che sopravvivono tuttora, sebbene in forma moderna. Il patriottismo russo sorge dal subconscio di una nazione che s’identifica con la struttura famigliare, in prevalenza di tipo patri-lineare, dove il genere maschile copre un ruolo centrale. Essa fa fatica ad aderire a quelle innovazioni di genere accettate in Occidente (la Duma ha approvato una legislazione assai restrittiva in merito). Se sotto il profilo della tolleranza sociologica si tratta di una postura discutibile, il 75% del pianeta condivide però tale centralità patri-lineare ed è dunque simpatetica con le posizioni russe. Per il non-Occidente, la Russia esprime valori conservatori, ma rassicuranti.

Sul piano geopolitico contano molto le disponibilità di energia, il potere militare, la produzione industriale e di armamenti, e via dicendo. Ad essa va tuttavia abbinata la dimensione ideologica e culturale, il soft power. L’Urss è stata una formidabile calamita per tutela politica, militare e ideologica, influenzando numerosi paesi, anche occidentali, italiani, francesi, cinesi, vietnamiti, sudamericani, e via dicendo. Il comunismo era però osteggiato nel mondo musulmano per il suo ateismo e ispirava scarsa simpatia in un paese come l’India (a parte il Bengala occidentale e il Kerala), che avrebbe dovuto essere attratto dalla calamita socialista. Ecco, al confronto, la Russia odierna, erede della statualità sovietica, sembrerebbe disporre di armi di seduzione più efficaci, perché si è riposizionata quale grande potenza anticolonialista, ma allo stesso tempo patri-lineare e conservatrice.

Gli americani accusano di tradimento l’Arabia Saudita perché contraria ad aumentare la disponibilità di petrolio diminuita a causa del conflitto, schierandosi di fatto con Mosca. Nella Russia odierna, invero, i sauditi vedono non solo cointeressenze, ma anche una possibile condivisione di valori conservatori. La guerra in Ucraina, in definitiva, ha accelerato l’affermarsi di un multipolarismo sia politico-economico che culturale. Essa ha aperto la strada ad accostamenti di natura antropologica tra nazioni resistenti all’impero unipolare, con riflessi ora poco intellegibili, ma che allargheranno ancor più il fossato da un Occidente destinato a non essere più il cuore del mondo.


[1] https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112

[2] https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-alberto_bradanini__come_opera_la_macchina_della_propaganda/39602_48347/

[3] Konstantin Gavrilov, capo della delegazione russa ai negoziati di Vienna sulla sicurezza militare e il controllo degli armamenti, ha dichiarato all’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa): Sappiamo che i carri armati Leopard 2, così come i veicoli da combattimento blindati Bradley e Marder, possono utilizzare proiettili all’uranio impoverito[3] in grado di contaminare il terreno, proprio come era accaduto in Jugoslavia e in Iraq. Se Kiev dovesse essere rifornita di tali munizioni per l’utilizzo in mezzi militari pesanti occidentali, lo considereremmo come un attacco con ‘bombe nucleari sporche’ contro la Russia, con tutte le conseguenze del caso. Il governo statunitense e la Nato hanno stoccato in Europa munizioni al berillio e all’uranio impoverito. Il cannone M-242 montato sui Bradley, che secondo Voice of America, arriveranno presto in Ucraina, utilizza munizioni all’uranio impoverito (UI), così come i carri britannici Challenger. L’UI è stato utilizzato in Afghanistan e in Iraq, nelle munizioni per aerei, carri armati e veicoli da combattimento[3], come riporta Iraq Veterans Against the War.Durante l’invasione di quel paese, il governo statunitense aveva autorizzato l’uso dei proiettili all’UI anche nei quartieri civili. Il gruppo pacifista olandese Pax ha ottenuto le coordinate dei siti iracheni dove jet e carri armati statunitensi avevano scaricato 10.000 proiettili all’UI nel solo 2003,” (The Guardian, 2014). Se si tenta di verificare tali informazioni sul sito dell’IKV Pax Christi, una pagina avverte che il sito è pericoloso e potrebbe essere hackerato. In altre parole, le notizie sull’UI in Iraq e Afghanistan, comprese quelle riguardanti gravi danni alla salute delle persone e  malformazioni neonatali, non possono essere di dominio pubblico. Gavrilov, il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov e il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, hanno segnalato che la consegna di missili a lunga gittata all’Ucraina porterà ad un disastro globale e misure di ritorsione da parte di Mosca con l’uso di armi più potenti. Nelle parole di Gavrilov Mosca intraprenderà dure azioni di ritorsione se il governo statunitense persisterà nel consegnare a Kiev missili a lungo raggio e munizioni all’uranio impoverito, che la Russia considera alla stregua di bombe nucleare sporche.

[4] https://contropiano.org/news/internazionale-news/2022/12/11/angela-merkel-ricordi-e-bugie-sugli-accordi-di-minsk-0155287

[5] https://press.un.org/en/2015/sc11785.doc.htmAlberto Bradanini

Alberto Bradanini

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i molti incarichi ricoperti, è stato anche Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Ucraina: La guerra sbagliata

Il sostegno della NATO alla guerra in Ucraina, progettata per degradare l’esercito russo e cacciare Vladimir Putin dal potere, non sta andando secondo i piani. Il nuovo sofisticato hardware militare non aiuterà.

Di Chris Edges (da The Chris Edges Report)

Everything Must Go – Mr. Fish

Gli imperi in declino terminale passano da un fiasco militare all’altro. La guerra in Ucraina, un altro tentativo malriuscito di riaffermare l’egemonia globale degli Stati Uniti, rientra in questo schema. Il pericolo è che, più la situazione si aggrava, più gli Stati Uniti inaspriscono il conflitto, provocando potenzialmente un confronto aperto con la Russia. Se la Russia effettuerà attacchi di rappresaglia alle basi di rifornimento e addestramento nei Paesi NATO vicini, o utilizzerà armi nucleari tattiche, la NATO risponderà quasi certamente attaccando le forze russe. Avremo scatenato la Terza Guerra Mondiale, che potrebbe sfociare in un olocausto nucleare.

Il sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina è iniziato con le basi: munizioni e armi d’assalto. L’amministrazione Biden, tuttavia, ha presto superato diverse linee rosse autoimposte per fornire un’ondata di macchinari bellici letali: Sistemi antiaerei Stinger; sistemi anti-corazza Javelin; obici trainati M777; razzi GRAD da 122 mm; lanciarazzi multipli M142, o HIMARS; missili Tube-Launched, Optically-Tracked, Wire-Guided (TOW); batterie di difesa aerea Patriot; National Advanced Surface-to-Air Missile Systems (NASAMS); M113 Armored Personnel Carriers; e ora 31 M1 Abrams, come parte di un nuovo pacchetto da 400 milioni di dollari. A questi carri armati si aggiungeranno 14 carri tedeschi Leopard 2A6, 14 carri britannici Challenger 2 e carri armati di altri membri della NATO, tra cui la Polonia. La prossima lista è quella delle munizioni perforanti all’uranio impoverito (DU) e dei jet da combattimento F-15 e F-16.

Dall’invasione russa del 24 febbraio 2022, il Congresso ha approvato oltre 113 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina e alle nazioni alleate che sostengono la guerra in Ucraina. Tre quinti di questi aiuti, 67 miliardi di dollari, sono stati destinati alle spese militari. Sono 28 i Paesi che trasferiscono armi all’Ucraina. Tutti, ad eccezione di Australia, Canada e Stati Uniti, sono in Europa.

Il rapido aggiornamento di hardware militare sofisticato e gli aiuti forniti all’Ucraina non sono un buon segno per l’alleanza NATO. Ci vogliono molti mesi, se non anni, di addestramento per far funzionare e coordinare questi sistemi d’arma. Le battaglie con i carri armati – come reporter ho partecipato all’ultima grande battaglia con i carri armati fuori Kuwait City durante la prima guerra del Golfo – sono operazioni altamente coreografiche e complesse. I carri armati devono lavorare in stretta collaborazione con il potere aereo, le navi da guerra, la fanteria e le batterie di artiglieria. Ci vorranno molti mesi, se non anni, prima che le forze ucraine ricevano un addestramento adeguato per far funzionare queste attrezzature e coordinare le diverse componenti di un campo di battaglia moderno. In effetti, gli Stati Uniti non sono mai riusciti ad addestrare gli eserciti iracheno e afghano alla guerra di manovra ad armi combinate, nonostante due decenni di occupazione.

Nel febbraio 1991 ero con le unità del Corpo dei Marines che hanno spinto le forze irachene fuori dalla città saudita di Khafji. Dotati di un equipaggiamento militare superiore, i soldati sauditi che tenevano Khafji opponevano una resistenza inefficace.

Quando siamo entrati in città, abbiamo visto truppe saudite su autopompe requisite, che scappavano verso sud per sfuggire ai combattimenti. Tutto l’hardware militare di lusso, che i sauditi avevano acquistato dagli Stati Uniti, si è rivelato inutile perché non sapevano come usarlo.

I comandanti militari della NATO sono consapevoli che l’infusione di questi sistemi di armamento nella guerra non modificherà quello che è, nella migliore delle ipotesi, uno stallo, definito in gran parte da duelli di artiglieria su centinaia di chilometri di linea del fronte. L’acquisto di questi sistemi d’arma – un carro armato M1 Abrams costa 10 milioni di dollari se si includono l’addestramento e la manutenzione – aumenta i profitti dei produttori di armi. L’uso di queste armi in Ucraina permette di testarle in condizioni da campo di battaglia, rendendo la guerra un laboratorio per i produttori di armi come Lockheed Martin. Tutto questo è utile alla NATO e all’industria degli armamenti. Ma non è molto utile all’Ucraina.

L’altro problema dei sistemi d’arma avanzati come l’M1 Abrams, che ha motori a turbina da 1.500 cavalli che funzionano con il carburante dei jet, è che sono capricciosi e richiedono una manutenzione altamente qualificata e quasi costante. Non sono indulgenti con chi li utilizza e commette errori; anzi, gli errori possono essere letali. Lo scenario più ottimistico per il dispiegamento dei carri armati M1-Abrams in Ucraina è di sei-otto mesi, più probabilmente di più. Se la Russia lancia una grande offensiva in primavera, come ci si aspetta, gli M1 Abrams non faranno parte dell’arsenale ucraino. Anche quando arriveranno, non modificheranno in modo significativo l’equilibrio di potere, soprattutto se i russi saranno in grado di trasformare i carri armati, gestiti da equipaggi inesperti, in relitti carbonizzati.

Allora perché tutta questa infusione di armi ad alta tecnologia? Possiamo riassumerlo in una parola: panico.

Dopo aver dichiarato una guerra de facto alla Russia e aver chiesto apertamente la rimozione di Vladimir Putin, i protettori della guerra neoconservatori guardano con terrore l’Ucraina che viene martoriata da un’implacabile guerra di logoramento russa. L’Ucraina ha subito quasi 18.000 vittime civili (6.919 morti e 11.075 feriti). Ha inoltre visto distrutto o danneggiato circa l’8% del totale delle sue abitazioni e il 50% delle sue infrastrutture energetiche ha subito un impatto diretto con frequenti interruzioni di corrente. L’Ucraina ha bisogno di almeno 3 miliardi di dollari al mese di aiuti esterni per mantenere a galla la sua economia, ha dichiarato recentemente il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Quasi 14 milioni di ucraini sono stati sfollati – 8 milioni in Europa e 6 milioni internamente – e fino a 18 milioni di persone, ovvero il 40% della popolazione ucraina, avranno presto bisogno di assistenza umanitaria. L’economia ucraina si è contratta del 35% nel 2022 e, secondo le stime della Banca Mondiale, il 60% degli ucraini vive con meno di 5,5 dollari al giorno. Nove milioni di ucraini sono senza elettricità e acqua a temperature sotto lo zero, ha dichiarato il presidente ucraino. Secondo le stime dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, a partire dallo scorso novembre sono stati uccisi in guerra 100.000 soldati ucraini e 100.000 russi.

“La mia sensazione è che ci troviamo in un momento cruciale del conflitto, in cui lo slancio potrebbe spostarsi a favore della Russia se non agiamo con decisione e rapidità”, ha dichiarato l’ex senatore statunitense Rob Portman al World Economic Forum in un post del Consiglio Atlantico. “È necessario un aumento”.

Ribaltando la logica, i sostenitori della guerra affermano che “la più grande minaccia nucleare che abbiamo di fronte è una vittoria russa”. L’atteggiamento cavilloso nei confronti di un potenziale confronto nucleare con la Russia da parte dei sostenitori della guerra in Ucraina è molto, molto spaventoso, soprattutto alla luce dei fallimenti che hanno supervisionato per vent’anni in Medio Oriente.

Gli appelli quasi isterici a sostenere l’Ucraina come baluardo di libertà e democrazia da parte dei mandarini di Washington sono una risposta al palpabile marciume e al declino dell’impero statunitense. L’autorità globale dell’America è stata decimata da crimini di guerra ben pubblicizzati, dalla tortura, dal declino economico, dalla disintegrazione sociale – tra cui l’assalto alla capitale il 6 gennaio scorso, la risposta fallimentare alla pandemia, il calo delle aspettative di vita e la piaga delle sparatorie di massa – e da una serie di debacle militari dal Vietnam all’Afghanistan. I colpi di Stato, gli assassinii politici, i brogli elettorali, la propaganda nera, i ricatti, i rapimenti, le brutali campagne di contro-insurrezione, i massacri sanzionati dagli Stati Uniti, le torture nei siti neri globali, le guerre per procura e gli interventi militari condotti dagli Stati Uniti in tutto il mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale non hanno mai portato all’instaurazione di un governo democratico.

Invece, questi interventi hanno causato oltre 20 milioni di morti e hanno generato una repulsione globale per l’imperialismo statunitense.

Nella disperazione, l’impero pompa somme sempre maggiori nella sua macchina da guerra. L’ultima legge di spesa da 1.700 miliardi di dollari include 847 miliardi di dollari per le forze armate; il totale sale a 858 miliardi di dollari se si considerano i conti che non rientrano nella giurisdizione dei comitati per i servizi armati, come il Dipartimento dell’energia, che sovrintende alla manutenzione delle armi nucleari e alle infrastrutture che le sviluppano. Nel 2021, quando gli Stati Uniti avevano un bilancio militare di 801 miliardi di dollari, costituivano quasi il 40% di tutte le spese militari globali, più di quanto i nove Paesi successivi, tra cui Russia e Cina, spendessero per i loro eserciti messi insieme.

Come osservò Edward Gibbon a proposito della fatale brama di guerra infinita dell’Impero Romano: “Il declino di Roma fu l’effetto naturale e inevitabile di una grandezza smodata. La prosperità maturò il principio della decadenza; le cause della distruzione si moltiplicarono con l’estensione delle conquiste; e, non appena il tempo o il caso rimossero i sostegni artificiali, lo stupendo tessuto cedette alla pressione del suo stesso peso. La storia della rovina è semplice e ovvia; e invece di chiedersi perché l’Impero Romano sia stato distrutto, dovremmo piuttosto stupirci che sia esistito così a lungo”.

Uno stato di guerra permanente crea burocrazie complesse, sostenute da politici, giornalisti, scienziati, tecnocrati e accademici compiacenti, che servono ossequiosamente la macchina bellica. Questo militarismo ha bisogno di nemici mortali – gli ultimi sono la Russia e la Cina – anche quando coloro che vengono demonizzati non hanno alcuna intenzione o capacità, come nel caso dell’Iraq, di danneggiare gli Stati Uniti. Siamo ostaggio di queste strutture istituzionali incestuose.

All’inizio di questo mese, le commissioni per i servizi armati di Camera e Senato, ad esempio, hanno nominato otto commissari per rivedere la Strategia di Difesa Nazionale (NDS) di Biden per “esaminare i presupposti, gli obiettivi, gli investimenti nella difesa, la posizione e la struttura delle forze, i concetti operativi e i rischi militari della NDS”. La commissione, come scrive Eli Clifton del Quincy Institute for Responsible Statecraft, è “in gran parte composta da individui con legami finanziari con l’industria degli armamenti e con gli appaltatori del governo degli Stati Uniti, sollevando dubbi sul fatto che la commissione avrà un occhio critico nei confronti degli appaltatori che ricevono 400 miliardi di dollari degli 858 miliardi di dollari del bilancio della difesa per l’anno fiscale 2023”. Il presidente della commissione, osserva Clifton, è l’ex rappresentante Jane Harman (D-CA), che “siede nel consiglio di amministrazione di Iridium Communications, un’azienda di comunicazioni satellitari che si è aggiudicata un contratto settennale da 738,5 milioni di dollari con il Dipartimento della Difesa nel 2019”.

Le notizie sulle interferenze russe nelle elezioni e sui bot russi che manipolano l’opinione pubblica – che il recente reportage di Matt Taibbi sui “Twitter Files” smaschera come un elaborato pezzo di propaganda nera – sono state amplificate acriticamente dalla stampa. Ha sedotto i Democratici e i loro sostenitori liberali a vedere la Russia come un nemico mortale. Il sostegno quasi universale a una guerra prolungata con l’Ucraina non sarebbe stato possibile senza questa truffa.

I due partiti al potere in America dipendono dai fondi per le campagne elettorali dell’industria bellica e subiscono le pressioni dei produttori di armi dei loro Stati o distretti, che danno lavoro ai loro elettori, per approvare bilanci militari mastodontici. I politici sanno bene che sfidare l’economia di guerra permanente significa essere attaccati come antipatriottici e di solito è un atto di suicidio politico.

“L’anima schiava della guerra grida di essere liberata”, scrive Simone Weil nel suo saggio “L’Iliade o il poema della forza”, “ma la liberazione stessa le appare come un aspetto estremo e tragico, l’aspetto della distruzione”.

Gli storici definiscono “micro-militarismo” il tentativo donchisciottesco degli imperi in declino di riconquistare l’egemonia perduta attraverso l’avventurismo militare. Durante la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) gli Ateniesi invasero la Sicilia, perdendo 200 navi e migliaia di soldati. La sconfitta scatenò una serie di rivolte di successo in tutto l’impero ateniese. L’Impero romano, che al suo apice durò due secoli, divenne prigioniero del suo esercito di un solo uomo che, come l’industria bellica statunitense, era uno Stato nello Stato. Le legioni di Roma, un tempo potenti, nell’ultima fase dell’impero subirono una sconfitta dopo l’altra, estraendo sempre più risorse da uno Stato fatiscente e impoverito. Alla fine, l’élite della Guardia Pretoriana mise all’asta l’impero al miglior offerente. L’Impero britannico, già decimato dalla follia militare suicida della Prima Guerra Mondiale, esalò il suo ultimo respiro nel 1956, quando attaccò l’Egitto in una disputa sulla nazionalizzazione del Canale di Suez. La Gran Bretagna si ritirò umiliata e divenne un’appendice degli Stati Uniti. Una guerra decennale in Afghanistan segnò il destino di un’Unione Sovietica ormai decrepita.

“Mentre gli imperi in ascesa sono spesso accorti, persino razionali, nell’uso della forza armata per la conquista e il controllo dei domini d’oltremare, gli imperi in declino sono inclini ad esibizioni di potere sconsiderate, sognando audaci capolavori militari che possano in qualche modo recuperare il prestigio e il potere perduti”, scrive lo storico Alfred W. McCoy nel suo libro “In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of US Global Power”. “Spesso irrazionali anche da un punto di vista imperiale, queste micro-operazioni militari possono produrre un’emorragia di spese o umilianti sconfitte che non fanno altro che accelerare il processo già in atto”.

Il piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio Oriente. Sta alimentando una crisi alimentare globale e devastando l’Europa con un’inflazione quasi a due cifre. Sta mettendo a nudo l’impotenza, ancora una volta, degli Stati Uniti e la bancarotta degli oligarchi al potere. Come contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale negli Stati Uniti. Washington sta fornendo all’Ucraina sistemi di armamento sempre più sofisticati e aiuti per miliardi e miliardi nel futile tentativo di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di salvare se stessa.

(Traduzione Cambiailmondo.org)

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/ukraine-the-war-that-went-wrong?utm_source=twitter&utm_campaign=auto_share&r=1afom

Rapporto Oxfam 2023: per la prima volta negli ultimi 25 anni aumentano al contempo disuguaglianze, fame e povertà estrema

di Andrea Vento

L’annuale rapporto dell’organizzazione Oxfam sulla disuguaglianza globale viene regolarmente emesso in concomitanza del Word Economic Forum di Davos in Svizzera, allo scopo di indurre la leadership planetaria a riflettere sui nefasti effetti sociali e ambientali prodotti delle loro politiche, le quali continuano a portare esclusivo vantaggio ad una ristretta elite a discapito della maggioranza della popolazione mondiale.

Quest’anno, i 2.700 leader mondiali fra politici, amministratori delegati delle principali multinazionali e big della finanza presenti alla consueta passerella mondiale, ormai giunta alla 53esima edizione, hanno visto aleggiare sul loro summit l’immancabile ombra delle critiche dei movimenti e del rapporto Oxfam che non casualmente in italiano è stato tradotto in “La disuguaglianza non conosce crisi”.

La ratio del titolo è conseguente al fatto che nel biennio 2020-21, i più ricchi fra i ricchi del pianeta, vale a dire il top 1%, ha continuato come da trend consolidato ad accumulare ricchezza più di tutto il resto dell’umanità. Tale incremento ha, tuttavia, toccato livelli di crescita inediti, mentre, in contemporanea, per la prima volta, a livello mondiale negli ultimi 25 anni è aumentata anche la povertà e la fame.

Il dominante capitalismo liberista ha, dunque, impresso alla forbice della disuguaglianza un ampliamento mai registrato in precedenza. Ciò in conseguenza del sovrapporsi della crisi economica pandemica a quella ambientale, quest’ultima caratterizzata da fenomeni estremi, come siccità, cicloni e inondazioni, sempre più devastanti, i quali hanno inevitabilmente innescato una drammatica crisi sociale che ha spinto milioni di persone sotto la soglia della povertà estrema e nel baratro della fame, costringendone una massa crescente a migrare forzatamente. Tutto ciò mentre le grandi multinazionali, soprattutto quelle operanti in rete, hanno conseguito, al pari della grande finanza, profitti stratosferici, i quali hanno generato una concentrazione apicale della ricchezza mai registrata in precedenza.

Guardando alle cifre del rapporto rileviamo come nel biennio 2020-2021, l’1% più ricco della Terra si è accaparrato quasi 2/3 della nuova ricchezza generata, mentre le principali 95 multinazionali dell’energia e dell’agro-business hanno più che raddoppiato i profitti rispetto alla media del periodo 2018-2020. Con il drammatico paradosso che, nel 2022, mentre queste ultime si arricchivano col commercio di beni e prodotti alimentari e distribuivano, grazie agli extra-profitti, dividendi pari a 257 miliardi di dollari ai propri azionisti, al contempo 800 milioni di persone soffrivano la fame.

In sostanza, per ogni 100 dollari di nuova ricchezza prodotta, sempre nel biennio in questione, 63 dollari sono stati appannaggio dell’1% straricco e appena 10 dollari sono andati al 90% più povero, mentre i restanti 27 dollari ai restanti ricchi, pari al 9% della popolazione mondiale (grafico 1). In termini reali, in 2 anni, l’1% degli ultraricchi ha registrato un incremento dei propri patrimoni pari alla stratosferica cifra di 26.000 miliardi di dollari, poco più di una volta e mezzo il Pil della Cina (16.500 miliardi di dollari nel 2021), mentre il, redditualmente variegato, restante 99% dell’umanità si è fermato a 16.000 miliardi di dollari.

Gli effetti della crisi pandemica, secondo la Banca Mondiale, hanno prodotto sul 40% più povero dell’umanità, perdite di reddito doppie rispetto a quelle subite dal 40% più ricco, determinando inevitabilmente anche un aumento nella disparità globale di reddito, oltre a quelle di ricchezza.

L’eccezionale incremento della concentrazione di ricchezza risulta frutto, sia della compiacente azione dei governi, sia della politica monetaria non convenzionale adottata dalle Banche Centrali, il “Quantitavie Easing” (QE), tramite il quale le stesse hanno immesso una enorme massa di liquidità nei propri sistemi monetari1, ufficialmente per favorire la ripresa economica e far salire il tasso di inflazione intorno allo strategico obiettivo del 2%. Tali politiche monetarie espansive, attuate con tempistica ed entità differenziate dalle varie Banche Centrali occidentali2 nell’arco di tempo compreso fra la fase successiva alla crisi economico-finanziaria del 2008-2009 fino alla ripresa post-covid, hanno in realtà sortito principale effetto di incrementare i valori degli asset finanziari e, conseguentemente, i patrimoni dei miliardari.

Grafico 1: quote di nuova ricchezza acquisita dal 1% più ricco e dai restanti 99% e 90% , confronto 2012-2021 (colonna verde chiaro) e 2020-2021 (colonna verde scuro). Fonte: Oxfam su dati Credit Suisse

Sicuramente le misure di intervento dei governi a sostegno delle proprie economie e delle fasce sociali più deboli, durante la Grande crisi del 2008-2009, è stata una strategia appropriata; tuttavia, forti critiche hanno, invece, investito le politiche di austerità fiscale implementate nell’Area dell’euro nella successiva fase di ripresa, le quali hanno finito per innescare la crisi debitoria di inizio anni ’10 nei paesi marginali dell’Eurozona, denominati col dispregiativo appellativo di Piigs3. Infatti, mentre buona parte dell’area monetaria comune tornava in recessione, contemporaneamente negli Stati Uniti, grazie a tempestive politiche monetarie (QE) e fiscali espansive, la ripresa continuava ad apprezzabili tassi di crescita (grafico 2)

Grafico 2: variazione annua del Pil nell’Eurozona, negli Usa e in Giappone fra 2008 e 2015. Fonte: Ocse

La Bce a causa delle resistenze dei Paesi “falchi” dell’Austerity, Paesi Bassi, Finlandia e Germania in primis, il QE è stato introdotto dall’allora presidente della Bce, Mario Draghi, solo all’inizio del 2015, quando l’intera Eurozona si trovava sull’orlo del collasso. Tuttavia, gli effetti del QE sono risultati alquanto modesti sia in termini di ripresa economica, ad oggi il nostro Paese si trova ancora al di sotto del picco del 2007 (grafico 3), che di rialzo dell’inflazione, in quanto i governi e la Commissione Europea non si sono impegnati nel garantire che l’enorme liquidità immessa avesse concrete ricadute sull’economia reale o, quantomeno, che le cospicue plusvalenze ottenute dalla grande finanza venissero ridistribuite tramite la leva fiscale.

Grafico 3: andamento del Pil italiano su base trimestrale fra il 1996 e il 2022. Fonte: Istat

Conseguentemente le fortune dei miliardari, grazie anche al periodo pandemico, durante il quale alcune tipologie di imprese collegate alla rete hanno conseguito extraprofitti stratosferici, sono continuate ad aumentare, tant’è che l’1% più ricco della popolazione mondiale, a fine 2022, è arrivato a detenere il 45,6% della ricchezza globale, mentre la metà più povera dell’umanità appena lo 0,75%. Inoltre, il ghota degli 81 principali miliardari hanno accumulato più ricchezza di metà della popolazione mondiale.

Squilibri interni all’interno sistema economico-sociale globalizzato, non solo eticamente inaccettabili, ma addirittura nel medio periodo, forieri di destabilizzazione dello stesso.

Gli effetti della crisi economica, alimentare e ambientale

Contemporaneamente all’eccezionale aumento di ricchezza conseguito dal 1% più ricco a livello mondiale e agli extraprofitti delle grandi multinazionali di alcuni comparti, in questi primi anni del decennio ’20 a seguito della crisi pandemica, di inappropriate politiche governative e dell’impennata inflattiva, abbiamo registrato anche una crescita della povertà e della fame, oltre a una diminuzione dei posti di lavoro e dei salari che hanno pesantemente impattato sulle vite delle persone già in condizione di fragilità sociale.

Il consolidato trentennale trend globale di riduzione della povertà si è, infatti, bruscamente interrotto determinando la paradossale ed inedita situazione nella quale la ricchezza e la povertà, entrambe estreme, sono al contempo sensibilmente aumentate. Ben 70 milioni di persone sono, infatti, precipitate nel 2020 sotto la soglia di povertà, dei 2,15 dollari al giorno di reddito, corrispondenti ad un aumento dell’11%.

Nonostante nel 2021 tale tendenza abbia subito un’inversione, per l’anno appena concluso l’UNDP, il programma dell’Onu per lo sviluppo, stima che solo nel suo secondo trimestre 71 milioni di persone siano nuovamente scese in povertà a causa del rialzo dei prezzi delle materie prime (+ 18% beni alimentari e +59% energia). Le causa della fiammata inflattiva, peraltro iniziata già nell’autunno 2021, è riconducibile a difficoltà di approvvigionamento causati dalla ripresa della domanda nella fase post-pandemica e dalla guerra in Ucraina, alle spregiudicate attività della speculazione finanziaria ed alle ciniche strategie delle multinazionali, non che al crescente impatto dei cambiamenti climatici sulle produzioni agricole. Conseguentemente, sono state stimate dalla Banca Mondiale in 828 milioni le persone che nel 2021 hanno sofferto la fame, pari al 10% dell’umanità, il 60% delle quali donne e ragazze4.

Per quanto riguarda l’aspetto salariale, dall’analisi condotta in 96 Paesi da Oxfam sui valori delle retribuzioni, è emerso come 1,7 miliardi di lavoratori abbiano subito una crescita dell’inflazione superiore a quella dei salari. La contrazione dei salari reali, misurata in base all’effettivo potere d’acquisto, avrà come inevitabile riflesso sia un aumento dei lavoratori in condizione di povertà, i cosiddetti working poors, che delle disuguaglianze, queste ultime aggravate dalla crescita del lavoro informale che su scala globale sta superando addirittura quella dell’occupazione regolare.

Conclusioni

Il quadro appena dipinto caratterizzato da crescenti disuguaglianze e maggiori difficoltà sociali, rischia di aggravarsi nell’anno appena iniziato, anche alla luce delle dichiarazione della Presidente del Fmi Kristalina Georgieva, la quale, in una intervista di inizio gennaio alla Tv statunitense CBS, ha affermato che dal punto di vista economico il 2023 risulterà “più duro dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle” e che l’istituzione di cui è a capo ritiene che “un terzo dell’economia mondiale sarà in recessione” a causa del rallentamento di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Alla luce delle fosche previsioni della presidente del Fmi sull’andamento dell’economia mondiale, non vediamo altra strada possibile all’implementazione di politiche fiscali espansive (vale a dire aumentare la spesa pubblica) per far fronte all’aumento della povertà e della fame, ai cambiamenti climatici e all’impatto dell’inflazione sui ceti sociali più fragili. Ciò a causa del fatto che, ancora una volta, la maggioranza dei governi sono intenzionati a proseguire sulla fallimentare strada dell’austerità fiscale, riducendo la spesa pubblica, principalmente a causa delle imposizione delle istituzioni finanziarie sovranazionali. La stessa Oxfam prevede, infatti che, nel quinquennio 2023-27, attueranno politiche restrittive di bilancio a danno della spesa sociale, pari a ben 6.700 miliardi di dollari, circa 2/3 dei Paesi mondiali (148 per la precisione), e che nel 2023, il 54% degli Stati lo stanno già pianificando.

Le politiche economiche neoliberiste e restrittive di bilancio hanno già mostrato la loro inefficacia dal punto di vista economico, come nella crisi debitoria dei Paesi marginali dell’Eurozona, e i loro nefasti effetti a livello sociale. In considerazione di ciò, è assolutamente necessario un riposizionamento in senso diametralmente opposto introducendo misure straordinarie, come la tassazione aggiuntiva degli extraprofitti, e altre strutturali, come la reintroduzione di una fiscalità progressiva più incisiva sui redditi elevati e sul capital gain, l’utile da capitale.

Gli effetti socialmente disastrosi che abbiamo appena esposto, pur avendo radici profonde, risultano frutto anche delle politiche economiche attuate durante la crisi pandemica, nel cui contesto, non solo il 95% dei Paesi non ha aumentato la già discendente e blanda pressione fiscale in essere sui redditi più elevati (grafico 4), sulle grandi imprese e sul capital gain della speculazione finanziaria, ma, addirittura, in alcuni casi l’hanno anche diminuita, a beneficio dei “soliti noti”.

Grafico 4: l’andamento delle aliquote massime, quindi sui redditi più elevati, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche fra il 1980 e il 2022 in Africa (linea verde chiaro), America Latina (grigio), Asia (nero) OECED in italiano OCSE (verde scuro). Fonte: calcoli Oxfam su dati OCSE

La riduzione della pressione fiscale sui redditi più elevati in corso ormai da 40 anni e gli sgravi fiscali a vantaggio dei ricchi e delle multinazionali, risultano la causa originaria dell’aumento delle disuguaglianze, col paradosso che in molti Paesi i ceti sociali subalterni e i lavoratori risultano soggetti ad una tassazione maggiore. Il proprietario di Tesla, Elon Musk primo miliardario mondiale nel 2022 secondo Forbes5, fra il 2014 e il 2018, ha pagato un’irrisoria “effettiva aliquota fiscale” di circa il 3%.

A livello mondiale solo il 4% dell’intero gettito fiscale proviene dalle imposte sui patrimoni posseduti, anche a causa del fatto che circa la metà dei miliardari mondiali ha la residenza fiscale in Paesi che non contemplano tasse di successione sui discendenti diretti, avendo così l’opportunità di trasferire ai loro eredi ricchezze complessive pari a 5.000 miliardi di dollari,una cifra maggiore del Pil annuo dell’intero continente africano.

Il reddito dei miliardari, in prevalenza frutto di rendite, risulta tassato mediamente al 18%, la metà dell’aliquota massima applicata su salari e stipendi. Un sistema fiscale, frutto della visione neoliberista del sistema capitalistico che sta portando l’umanità verso il collasso economico e sociale e che necessita di essere radicalmente riformato, reintroducendo una significativa progressività fiscale, come era in vigore fino agli inizi degli anni ’80. Negli Stati Uniti, infatti, l’aliquota massima federale sullo scaglione più elevato di reddito, si attestava su di una media dell’81% fra il 1944 e il 1981, all’alba della nefasta era Reagan. Anche in Italia, fino agli anni ’80, l’aliquota massima raggiungeva il 73% ed era inserita in un contesto fiscale progressivo il cui gettito, impiegato tramite appropriate politiche ha consentito di coniugare crescita economica e progresso sociale, grazie alla creazione di un ampio Welfare state a vantaggio soprattutto dei ceti inferiori.

Per reintrodurre un minimo principio di equità fiscale, secondo Oxfam basterebbe applicare una tassa annua del solo 5% sui più ricchi della Terra per ottenere un gettito fiscale di 1.700 miliardi di dollari all’anno, i quali sarebbero sufficienti ad estirpare la povertà e la fame a livello mondiale, a varare un piano di riduzione degli impatti dei cambiamenti climatici e a garantire assistenza sanitaria e protezione sociale a tutte le popolazioni dei Paesi a medio e a basso reddito6.

Le strade per rimediare a questa catastrofe sociale, umanitaria e ambientale esistono, ce lo insegna la storia economia, sono le volontà politiche che, invece, mancano.

Non è pensabile di combattere l’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, l’aumento delle sofferenze sociali e le devastazioni ambientali procrastinando le stesse politiche che ne sono state causa; il cambio di paradigma potrà, tuttavia, avvenire solo tramite presa di coscienza della situazione da parte dei ceti sociali subalterni di ogni latitudine e imbastendo una lotta, duratura e coordinata a livello internazionale, contro la ristretta plutocrazia mondiale ed il ceto politico dominante ad essa subalterno.

Andrea Vento – 24 gennaio 2023

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Scarica il Rapporto Oxfam

NOTE:

1 Il QE realizzato dalla Fed dal 2009 al 2014 per un ammontare di oltre 3.500 miliardi di dollari  https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/saggi/1470-il-quantitative-easing-della-bce-unoperazione-necessaria-non-sufficiente

La Bce in 7 anni di QE (marzo 2015-luglio 22) ha acquistato titoli governativi e corporate per un totale di 4.900 miliardi di euro. https://www.ilsole24ore.com/art/liberarsi-titoli-stato-possibile-strategia-bce-e-sue-conseguenze-AElxiZKC

2 Fed, BoE, Bce e BoJ, rispettivamente Federal Reserve, Bank of England, Banca Centrale Europea e Bank of Japan.

3 Acronimo dispregiativo per indicare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna

4 https://www.worldbank.org/en/home

5 https://forbes.it/2022/04/05/elon-musk-e-per-la-prima-volta-al-comando-della-classifica-dei-piu-ricchi-del-mondo/

6 Fonte: Fight Inequality Alliance dell’Institute for Policy Studies di Oxfam e dei Patriotic Millionaires

Il generale tedesco Vad: L’est ucraino vuole stare coi russi. Gli Usa mettano fine a questa follia.

Erich Vad: Quali sono gli obiettivi di guerra?

Erich Vad è un ex generale di brigata. Dal 2006 al 2013 è stato consigliere per la politica militare del cancelliere tedesco Angela Merkel. È una delle rare voci che si è pronunciata pubblicamente contro le forniture di armi all’Ucraina fin dall’inizio, senza strategie politiche e sforzi diplomatici. Anche ora sta dicendo una verità scomoda.

di Annika Ross (dalla rivist Emma.de)

Signor Vad, cosa ne pensa della consegna dei 40 Marder all’Ucraina appena annunciata dal Cancelliere Scholz?
Si tratta di un’escalation militare, anche nella percezione dei russi – anche se il Marder, vecchio di oltre 40 anni, non è un’arma miracolosa. Stiamo scendendo su una china scivolosa. Questo potrebbe sviluppare una dinamica che non possiamo più controllare. Naturalmente era ed è giusto sostenere l’Ucraina e naturalmente l’invasione di Putin non è conforme al diritto internazionale – ma ora bisogna finalmente considerare le conseguenze!

E quali potrebbero essere queste conseguenze?
L’intenzione è quella di ottenere la disponibilità a negoziare fornendo carri armati? Vogliono riconquistare il Donbass o la Crimea? O vogliono sconfiggere del tutto la Russia? Non esiste una definizione realistica di stato finale. E senza un concetto politico e strategico generale, le consegne di armi sono puro militarismo.

Che cosa significa?
Abbiamo una situazione di stallo militare che non possiamo risolvere militarmente. Per inciso, questa è anche l’opinione del Capo di Stato Maggiore americano, Mark Milley. Ha affermato che non ci si può aspettare una vittoria militare per l’Ucraina e che i negoziati sono l’unica strada possibile. Qualsiasi altra cosa significherebbe un dispendio insensato di vite umane.

La dichiarazione del generale Milley ha provocato molta rabbia a Washington ed è stata anche pesantemente criticata pubblicamente.
Ha detto una verità scomoda. Una verità, tra l’altro, che non è stata quasi per nulla pubblicata dai media tedeschi. L’intervista a Milley da parte della CNN non è apparsa da nessuna parte, eppure è il Capo di Stato Maggiore della principale potenza occidentale. Quella che si sta conducendo in Ucraina è una guerra di logoramento. È una guerra di logoramento, con quasi 200.000 soldati uccisi e feriti da entrambe le parti, 50.000 morti tra i civili e milioni di rifugiati. Milley ha così tracciato un parallelo con la Prima guerra mondiale che non potrebbe essere più azzeccato. Nella Prima Guerra Mondiale, il cosiddetto “Mulino di sangue di Verdun”, concepito come una battaglia di logoramento, portò alla morte di quasi un milione di giovani francesi e tedeschi. All’epoca caddero per nulla. Il rifiuto delle parti in guerra di negoziare ha portato a milioni di morti in più. Questa strategia non ha funzionato militarmente allora – e non funzionerà adesso.

Anche lei è stato attaccato per aver chiesto un negoziato.
Sì, come l’ispettore generale della Bundeswehr, il generale Eberhard Zorn, che, come me, ha messo in guardia dal sopravvalutare le offensive regionali limitate degli ucraini nei mesi estivi. Gli esperti militari – che sanno cosa succede tra i servizi di intelligence, cosa sembra sul campo e cosa significa veramente la guerra – sono in gran parte esclusi dal discorso. Non si adattano alla formazione delle opinioni da parte dei media. In larga misura, stiamo assistendo a un conformismo mediatico che non ho mai visto prima nella Repubblica Federale Tedesca. Questa è pura speculazione. E non per conto dello Stato, come è noto nei regimi totalitari, ma per puro spirito di protagonismo.

Sono tutti attaccati dai media su un ampio fronte, dalla BILD alla FAZ e allo Spiegel, e così anche le 500.000 persone che hanno firmato la Lettera aperta al Cancelliere promossa da Alice Schwarzer.
Proprio così. Fortunatamente, Alice Schwarzer ha i suoi media indipendenti per poter aprire questo discorso. Probabilmente non avrebbe funzionato con i principali media. La maggioranza della popolazione è contraria a ulteriori forniture di armi da molto tempo e secondo gli ultimi sondaggi. Ma nulla di tutto ciò viene riportato. Non c’è più un discorso equo e aperto sulla guerra in Ucraina, e lo trovo molto preoccupante. Questo dimostra quanto avesse ragione Helmut Schmidt. In una conversazione con il Cancelliere Merkel ha detto: “La Germania è e rimane una nazione a rischio”.

Qual è la sua valutazione della politica del Ministro degli Esteri?
Le operazioni militari devono sempre essere collegate ai tentativi di trovare soluzioni politiche. La monodimensionalità dell’attuale politica estera è difficile da sopportare. È molto incentrato sulle armi. Ma il compito principale della politica estera è e rimane la diplomazia, la riconciliazione degli interessi, la comprensione e la risoluzione dei conflitti. Questo è ciò che mi manca qui. Sono felice che finalmente in Germania ci sia un ministro degli Esteri donna, ma non basta fare retorica di guerra e andare in giro per Kiev o per il Donbass indossando elmetto e giubbotto antiproiettile. Non è sufficiente.

Eppure Baerbock è un membro dei Verdi, l’ex partito della pace.
Non capisco la mutazione dei Verdi da partito pacifista a partito di guerra. Io stesso non conosco nessun Verde che abbia fatto il servizio militare. Anton Hofreiter è per me il miglior esempio di questo doppio standard. Antje Vollmer, invece, che annovererei tra i Verdi “originali”, chiama le cose con il loro nome. E il fatto che un singolo partito abbia così tanta influenza politica da poterci manovrare in una guerra è molto preoccupante.

Se il Cancelliere Scholz l’avesse sostituita al suo predecessore e lei fosse ancora il consigliere militare del Cancelliere, cosa gli avrebbe consigliato di fare nel febbraio 2022?
Gli avrei consigliato di sostenere militarmente l’Ucraina, ma in modo misurato e prudente, per evitare di scivolare sulla china scivolosa di un partito di guerra. E gli avrei consigliato di influenzare il nostro più importante alleato politico, gli Stati Uniti. La chiave per la soluzione della guerra risiede infatti a Washington e a Mosca. Mi è piaciuto il percorso del Cancelliere negli ultimi mesi. Ma i Verdi, l’FDP e l’opposizione borghese – affiancati da un accompagnamento mediatico ampiamente unanime – stanno esercitando una pressione tale che il cancelliere difficilmente può assorbirla.

E se venisse consegnato anche il Leopard?
Si ripropone quindi la domanda su cosa dovrebbe accadere con le consegne dei carri armati. Per conquistare la Crimea o il Donbass, il Marder e il Leopard non sono sufficienti. Nell’Ucraina orientale, nella zona di Bachmut, i russi sono chiaramente in avanzata. Probabilmente tra non molto avranno conquistato completamente il Donbass. Basta considerare la superiorità numerica dei russi rispetto all’Ucraina. La Russia può mobilitare fino a due milioni di riservisti. L’Occidente può inviare 100 Marder e 100 Leopard, ma non cambierà la situazione militare generale. E la domanda più importante è come superare un simile conflitto con una potenza nucleare belligerante – tra l’altro, la più forte potenza nucleare del mondo! – senza entrare in una terza guerra mondiale. E questo è esattamente ciò che i politici e i giornalisti qui in Germania non pensano!

L’argomentazione è che Putin non vuole negoziare e che bisogna metterlo all’angolo per evitare che continui a infierire sull’Europa.
È vero che bisogna dare un segnale ai russi: Fin qui e non oltre! Non si può permettere che una simile guerra di aggressione continui. Per questo è giusto che la NATO aumenti la sua presenza militare a est e che la Germania si unisca a essa. Ma il rifiuto di Putin di negoziare non è sostenibile. Sia i russi che gli ucraini erano pronti per un accordo di pace all’inizio della guerra, a fine marzo, inizio aprile 2022. Poi non se ne fece nulla. Dopo tutto, anche l’accordo sul grano è stato negoziato durante la guerra da russi e ucraini con il coinvolgimento delle Nazioni Unite.

Ora la morte continua.
Si può continuare a logorare i russi, il che significa centinaia di migliaia di morti, ma da entrambe le parti. E significa l’ulteriore distruzione dell’Ucraina. Cosa resta di questo paese? Sarà raso al suolo. In definitiva, anche questa non è più un’opzione per l’Ucraina. La chiave per risolvere il conflitto non sta a Kiev, né a Berlino, Bruxelles o Parigi, ma a Washington e Mosca. È ridicolo dire che l’Ucraina deve decidere.

Con questa interpretazione, in Germania si viene subito considerati teorici della cospirazione…
Io stesso sono un atlantista convinto. Vi dirò onestamente che, nel dubbio, preferirei vivere sotto un’egemonia americana piuttosto che sotto una russa o cinese. All’inizio, questa guerra era solo una disputa politica interna all’Ucraina. È iniziata nel 2014, tra i gruppi etnici di lingua russa e gli stessi ucraini. È stata quindi una guerra civile. Ora, dopo l’invasione della Russia, è diventata una guerra interstatale tra Ucraina e Russia. È anche una lotta per l’indipendenza dell’Ucraina e la sua integrità territoriale. È tutto vero. Ma non è tutta la verità. Si tratta anche di una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, e nella regione del Mar Nero sono in gioco interessi geopolitici molto concreti.

Che cosa sono?
La regione del Mar Nero è importante per i russi e la loro flotta del Mar Nero quanto i Caraibi o la regione di Panama per gli Stati Uniti. Importante quanto il Mar Cinese Meridionale e Taiwan per la Cina. Importante quanto la zona di protezione della Turchia, che ha istituito contro i curdi in violazione del diritto internazionale. In questo contesto e per ragioni strategiche, anche i russi non possono uscirne. A parte il fatto che in un referendum in Crimea la popolazione si pronuncerebbe sicuramente a favore della Russia.

Come si può continuare?
Se i russi fossero costretti da un massiccio intervento occidentale a ritirarsi dalla regione del Mar Nero, prima di uscire dalla scena mondiale ricorrerebbero sicuramente alle armi nucleari. Trovo ingenua la convinzione che un attacco nucleare da parte della Russia non avverrà mai. Sulla falsariga di “stanno solo bluffando”.

Ma quale potrebbe essere la soluzione?
Bisognerebbe semplicemente chiedere alle persone della regione, cioè del Donbass e della Crimea, a chi vogliono appartenere. L’integrità territoriale dell’Ucraina dovrebbe essere ripristinata, con alcune garanzie occidentali. Anche i russi hanno bisogno di una simile garanzia di sicurezza. Quindi niente adesione alla NATO per l’Ucraina. Sin dal vertice di Bucarest del 2008, è stato chiaro che questa è la linea rossa dei russi.

E cosa pensa che possa fare la Germania?
Dobbiamo dosare il nostro sostegno militare in modo da non scivolare in una terza guerra mondiale. Nessuno di coloro che andarono in guerra nel 1914 con grande entusiasmo era ancora dell’idea che fosse la cosa giusta da fare. Se l’obiettivo è un’Ucraina indipendente, bisogna anche chiedersi in prospettiva come dovrebbe essere un ordine europeo che coinvolga la Russia. La Russia non scomparirà semplicemente dalla carta geografica. Dobbiamo evitare di spingere i russi nelle braccia dei cinesi, spostando così l’ordine multipolare a nostro svantaggio. Abbiamo anche bisogno della Russia come potenza leader di uno Stato multietnico per evitare l’esplosione di scontri e guerre. E francamente non vedo l’Ucraina diventare un membro dell’UE, tanto meno della NATO. In Ucraina, come in Russia, abbiamo un’elevata corruzione e il dominio degli oligarchi. Quello che noi in Turchia – giustamente – denunciamo in termini di Stato di diritto, lo abbiamo anche in Ucraina.

Cosa pensa, signor Vad, di quello che ci aspetta nel 2023?
A Washington deve esserci un fronte più ampio per la pace. E questo insensato attivismo della politica tedesca deve finalmente finire. Altrimenti ci sveglieremo una mattina e ci ritroveremo nel bel mezzo della Terza Guerra Mondiale.

(Traduzione Cambiailmondo.org)

Fonte: https://www.emma.de/artikel/erich-vad-was-sind-die-kriegsziele-340045


Erich Vad: Was sind die Kriegsziele?

Erich Vad ist Ex-Brigade-General. Von 2006 bis 2013 war er der militärpolitische Berater von Bundeskanzlerin Angela Merkel. Er gehört zu den raren Stimmen, die sich früh öffentlich gegen Waffenlieferungen an die Ukraine ausgesprochen haben, ohne politische Strategie und diplomatische Bemühungen. Auch jetzt spricht er eine unbequeme Wahrheit aus.

Herr Vad, was sagen Sie zu der gerade von Kanzler Scholz verkündeten Lieferung der 40 Marder an die Ukraine?
Das ist eine militärische Eskalation, auch in der Wahrnehmung der Russen – auch wenn der über 40 Jahre alte Marder keine Wunderwaffe ist. Wir begeben uns auf eine Rutschbahn. Das könnte eine Eigendynamik entwickeln, die wir nicht mehr steuern können. Natürlich war und ist es richtig, die Ukraine zu unterstützen und natürlich ist Putins Überfall nicht völkerrechtskonform – aber nun müssen doch endlich die Folgen bedacht werden!

Und was könnten die Folgen sein?
Will man mit den Lieferungen der Panzer Verhandlungsbereitschaft erreichen? Will man damit den Donbass oder die Krim zurückerobern? Oder will man Russland gar ganz besiegen? Es gibt keine realistische End-State-Definition. Und ohne ein politisch strategisches Gesamtkonzept sind Waffenlieferungen Militarismus pur.

Was heißt das?
Wir haben eine militärisch operative Patt-Situation, die wir aber militärisch nicht lösen können. Das ist übrigens auch die Meinung des amerikanischen Generalstabschefs Mark Milley. Er hat  gesagt, dass ein militärischer Sieg der Ukraine nicht zu erwarten sei und dass Verhandlungen der einzig mögliche Weg seien. Alles andere bedeutet den sinnlosen Verschleiß von Menschenleben.

General Milley löste mit seiner Aussage in Washington viel Ärger aus und wurde auch öffentlich stark kritisiert.
Er hat eine unbequeme Wahrheit ausgesprochen. Eine Wahrheit, die in den deutschen Medien übrigens so gut wie gar nicht publiziert wurde. Das Interview mit Milley von CNN tauchte nirgendwo größer auf, dabei ist er der Generalstabschef unserer westlichen Führungsmacht. Was in der Ukraine betrieben wird, ist ein Abnutzungskrieg. Und zwar einer mit mittlerweile annähernd 200.000 gefallenen und verwundeten Soldaten auf beiden Seiten, mit 50.000 zivilen Toten und mit Millionen von Flüchtlingen. Milley hat damit eine Parallele zum Ersten Weltkrieg gezogen, die treffender nicht sein könnte. Im Ersten Weltkrieg hat allein die sogenannte ‚Blutmühle von Verdun‘, die als Abnutzungsschlacht konzipiert war, zum Tod von fast einer Million junger Franzosen und Deutscher geführt. Sie sind damals für nichts gefallen. Das Verweigern der Kriegsparteien von Verhandlungen hat also zu Millionen zusätzlicher Toter geführt. Diese Strategie hat damals militärisch nicht funktioniert – und wird das auch heute nicht tun.

Auch Sie sind für die Forderung nach Verhandlungen angegriffen worden.
Ja, ebenso der Generalinspekteur der Bundeswehr, General Eberhard Zorn, der wie ich davor gewarnt hat, die regionalbegrenzten Offensiven der Ukrainer in den Sommermonaten zu überschätzen. Militärische Fachleute – die wissen, was unter den Geheimdiensten läuft, wie es vor Ort aussieht und was Krieg wirklich bedeutet – werden weitestgehend aus dem Diskurs ausgeschlossen. Sie passen nicht zur medialen Meinungsbildung. Wir erleben weitgehend eine Gleichschaltung der Medien, wie ich sie so in der Bundesrepublik noch nie erlebt habe. Das ist pure Meinungsmache. Und zwar nicht im staatlichen Auftrag, wie es aus totalitären Regimen bekannt ist, sondern aus reiner Selbstermächtigung.

Sie werden von den Medien auf breiter Front angegriffen, von BILD bis FAZ und Spiegel, und damit auch die 500.000 Menschen, die den von Alice Schwarzer initiierten Offenen Brief an den Kanzler unterzeichnet haben.
So ist es. Zum Glück hat Alice Schwarzer ihr eigenes unabhängiges Medium, um diesen Diskurs überhaupt eröffnen zu können. In den Leitmedien hätte das wohl nicht funktioniert. Dabei ist die Mehrheit der Bevölkerung schon länger und auch laut aktueller Umfrage gegen weitere Waffenlieferungen. Das alles wird jedoch nicht berichtet. Es gibt weitestgehend keinen fairen offenen Diskurs mehr zum Ukraine-Krieg, und das finde ich sehr verstörend. Das zeigt mir, wie recht Helmut Schmidt hatte. Er sagte in einem Gespräch mit Kanzlerin Merkel: Deutschland ist und bleibt eine gefährdete Nation.

Wie beurteilen Sie die Politik der Außenministerin?
Militärische Operationen müssen immer an den Versuch gekoppelt werden, politische Lösungen herbeizuführen. Die Eindimensionalität der aktuellen Außenpolitik ist nur schwer zu ertragen. Sie ist sehr stark fokussiert auf Waffen. Die Hauptaufgabe der Außenpolitik aber ist und bleibt Diplomatie, Interessenausgleich, Verständigung und Konfliktbewältigung. Das fehlt mir hier. Ich bin ja froh, dass wir endlich mal eine Außenministerin in Deutschland haben, aber es reicht nicht, nur Kriegsrhetorik zu betreiben und mit Helm und Splitterschutzweste in Kiew oder im Donbass herumzulaufen. Das ist zu wenig.

Dabei ist Baerbock doch Mitglied der Grünen, der ehemaligen Friedenspartei.
Die Mutation der Grünen von einer pazifistischen zu einer Kriegspartei verstehe ich nicht. Ich selbst kenne keinen Grünen, der überhaupt auch nur den Militärdienst geleistet hätte. Anton Hofreiter ist für mich das beste Beispiel dieser Doppelmoral. Antje Vollmer hingegen, die ich zu den ‚ursprünglichen‘ Grünen zählen würde, nennt die Dinge beim Namen. Und dass eine einzige Partei so viel politischen Einfluss hat, dass sie uns in einen Krieg manövrieren kann, das ist schon sehr bedenklich.

Wenn Kanzler Scholz Sie von seiner Vorgängerin übernommen hätte und Sie noch der militärische Berater des Kanzlers wären, was hätten Sie ihm im Februar 2022 geraten?
Ich hätte ihm geraten, die Ukraine militärisch zu unterstützen, aber dosiert und besonnen, um Rutschbahneffekte in eine Kriegspartei zu vermeiden. Und ich hätte ihm geraten, auf unseren wichtigsten politischen Verbündeten, die USA, einzuwirken. Denn der Schlüssel für eine Lösung des Krieges liegt in Washington und Moskau. Mir hat der Kurs des Kanzlers in den letzten Monaten gefallen. Aber Grüne, FDP und die bürgerliche Opposition machen – flankiert von weitestgehend einstimmiger medialer Begleitmusik – dermaßen Druck, dass der Kanzler das kaum noch auffangen kann.

Und was, wenn auch der Leopard geliefert wird?
Dann stellt sich erneut die Frage, was mit den Lieferungen der Panzer überhaupt passieren soll. Um die Krim oder den Donbass zu übernehmen, reichen die Marder und Leoparden nicht aus. In der Ostkukraine, im Raum Bachmut, sind die Russen eindeutig auf dem Vormarsch. Sie werden wahrscheinlich den Donbass in Kürze vollständig erobert haben. Man muss sich nur allein die numerische Überlegenheit der Russen gegenüber der Ukraine vor Augen führen. Russland kann bis zu zwei Millionen Reservisten mobil machen. Da kann der Westen 100 Marder und 100 Leoparden hinschicken, sie ändern an der militärischen Gesamtlage nichts. Und die alles entscheidende Frage ist doch, wie man einen derartigen Konflikt mit einer kriegerischen Nuklearmacht – wohlbemerkt der stärksten Nuklearmacht der Welt! – durchstehen will, ohne in einen Dritten Weltkrieg zu gehen. Und genau das geht hier in Deutschland in die Köpfe der Politiker und der Journalisten nicht hinein!

Das Argument ist, Putin wolle nicht verhandeln und dass man ihn in seine Schranken weisen müsse, damit er in Europa nicht weiter wütet.
Es stimmt, dass man den Russen signalisieren muss: Bis hierher und nicht weiter! So ein Angriffskrieg darf nicht Schule machen. Deshalb ist es richtig, dass die Nato ihre militärische Präsenz im Osten erhöht und Deutschland hier mitmacht. Aber dass Putin nicht verhandeln will, ist unglaubwürdig. Beide, die Russen und Ukrainer waren am Anfang des Krieges Ende März, Anfang April 2022 zu einer Friedensvereinbarung bereit. Daraus ist dann nichts geworden. Es wurde schließlich auch während des Krieges das Getreideabkommen von den Russen und Ukrainern unter Einbeziehung der Vereinten Nationen fertig verhandelt.

Nun geht das Sterben weiter.
Man kann die Russen weiter abnutzen, was wiederum Hundertausende Tote bedeutet, aber auf beiden Seiten. Und es bedeutet die weitere Zerstörung der Ukraine. Was bleibt denn von diesem Land noch übrig? Es wird dem Erdboden gleichgemacht. Letztendlich ist das für die Ukraine auch keine Option mehr. Der Schlüssel für die Lösung des Konfliktes liegt nicht in Kiew, er liegt auch nicht in Berlin, Brüssel oder Paris, er liegt in Washington und Moskau. Es ist doch lächerlich zu sagen, die Ukraine müsse das entscheiden.

Mit dieser Deutung gilt man in Deutschland schnell als Verschwörungstheoretiker…
Ich bin selber überzeugter Transatlantiker. Ich sage Ihnen ehrlich, ich möchte im Zweifelsfall lieber unter einer amerikanischen Hegemonie als unter einer russischen oder chinesischen leben. Dieser Krieg war anfangs nur eine innenpolitische Auseinandersetzung der Ukraine. Die ging bereits 2014 los, zwischen den russischsprachigen ethnischen Gruppen und den Ukrainern selber. Es ist also ein Bürgerkrieg gewesen. Jetzt, nach dem Überfall Russlands, ist es ein zwischenstaatlicher Krieg zwischen Ukraine und Russland geworden. Es ist auch ein Kampf um die Unabhängigkeit der Ukraine und ihrer territorialen Integrität. Das ist alles richtig. Aber es ist nicht die ganze Wahrheit. Es ist eben auch ein Stellvertreter-Krieg zwischen den USA und Russland, und da geht es um ganz konkrete geopolitische Interessen in der Schwarzmeerregion.

Die da wären?
Die Schwarzmeerregion ist für die Russen und ihre Schwarzmeerflotte so wichtig wie die Karibik oder die Region um Panama für die USA. So wichtig wie das südchinesische Meer und Taiwan für China. So wichtig wie die Schutzzone der Türkei, die sie völkerrechtswidrig gegenüber den Kurden etabliert haben. Vor diesem Hintergrund und aus strategischen Gründen können die Russen da auch nicht raus. Mal abgesehen davon, dass sich bei einer Volksabstimmung auf der Krim die Bevölkerung mit Sicherheit für Russland entscheiden würde.

Wie soll das also weitergehen?
Wenn die Russen durch massive westliche Intervention dazu gezwungen würden, sich aus der Schwarzmeerregion zurückzuziehen, dann würden sie, bevor sie von der Weltbühne abtreten, mit Sicherheit zu den Nuklearwaffen greifen. Ich finde den Glauben naiv, ein Atomschlag Russlands würde niemals passieren. Nach dem Motto, ‚Die bluffen doch nur‘.

Aber was könnte die Lösung sein?
Man sollte die Menschen in der Region, also im Donbass und auf der Krim, einfach fragen, zu wem sie gehören wollen. Man müsste die territoriale Integrität der Ukraine wiederherstellen, mit bestimmten westlichen Garantien. Und die Russen brauchen so eine Sicherheitsgarantie eben auch. Also keine Nato-Mitgliedschaft für die Ukraine. Seit dem Gipfel von Bukarest von 2008 ist klar, dass das die rote Linie der Russen ist.

Und was kann Deutschland Ihrer Meinung nach tun?
Wir müssen unsere militärische Unterstützung so dosieren, dass wir nicht in einen Dritten Weltkrieg gleiten. Keiner von denen, die 1914 mit großer Begeisterung in den Krieg gezogen sind, war hinterher noch der Meinung, dass das richtig war. Wenn das Ziel eine unabhängige Ukraine ist, muss man sich perspektivisch auch die Frage stellen, wie eine europäische Ordnung unter Einbeziehung Russlands aussehen soll. Russland wird ja nicht einfach von der Landkarte verschwinden. Wir müssen vermeiden, die Russen in die Arme der Chinesen zu treiben, und damit die multipolare Ordnung zu unseren Ungunsten zu verschieben. Wir brauchen Russland auch als Führungsmacht eines Vielvölkerstaates, um aufflammende Kämpfe und Kriege zu vermeiden. Und ehrlich gesagt sehe ich nicht, dass die Ukraine Mitglied der EU und erst recht nicht Mitglied der Nato wird. Wir haben in der Ukraine ebenso wie in Russland eine hohe Korruption und die Herrschaft von Oligarchen. Das, was wir in der Türkei – mit Recht – in puncto Rechtsstaatlichkeit anprangern, das Problem haben wir in der Ukraine auch.

Was meinen Sie, Herr Vad, was erwartet uns im Jahr 2023?
Es muss sich in Washington eine breitere Front für Frieden aufbauen. Und dieser sinnfreie Aktionismus in der deutschen Politik, der muss endlich ein Ende finden. Sonst wachen wir eines Morgens auf und sind mittendrin im Dritten Weltkrieg.

Fonte: https://www.emma.de/artikel/erich-vad-was-sind-die-kriegsziele-340045

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