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Libertà di espressione e censura mediatica

di Marco Consolo

Lo scorso 2 maggio, Nasser Abu Baker, Presidente del Sindacato dei Giornalisti della Palestina, ha ricevuto a Santiago del Cile il “Premio Mondiale della libertà di Stampa” dell’UNESCO (l’Agenzia dell’ONU), intitolato a Guillermo Cano. A nome di tutti-e i-le giornalisti-e palestinesi, Abu Baker ha ricordato le più di 135 vittime tra i-le colleghi-e che documentavano il genocidio israeliano a Gaza.

L’immediata rappresaglia mediatica israeliana è stata la chiusura di Al Jazeera ed il furto delle sue apparecchiature. Per i più smemorati, nel 2021, con un bombardamento, Israele aveva raso al suolo il grattacielo sede di Al Jazeera e dell’ Associated Press a Gaza.

Argentina e Telesur

In America Latina, la capa del Comando Sud degli Stati Uniti, la sorridente generale Laura Richardson, nella sua recente visita in Argentina aveva puntato il dito sui canali TV di Russia Today e di TeleSUR. La loro “colpa” è quella di avere un diverso punto di vista sul declinante strapotere USA nella regione.  Detto (ordinato) e fatto. Il 3 maggio, in Argentina, il “fedele scudiero” neo-sionista Milei ha oscurato il segnale di TeleSUR, nella griglia della Televisione Digitale Aperta. Poche settimane fa, il presidente Milei aveva già chiuso TELAM, la storica agenzia pubblica di notizie.

Nel 2018, il governo degli Stati Uniti ha silenziato diversi media, come il canale turco TRT World, quello russo Russia Today America, due canali cinesi CGTN1 e CGTN2, un canale sudcoreano Arirang, e poi Africa Today, France 24, TeleSUR, la tedesca Deutsche Welle,  in quanto “agenti stranieri”. Più recentemente il governo statunitense ha chiuso Press TV e sta dando l’assalto alla cinese TikTok (con 170 milioni di utenti negli States), mentre la “democratica” Unione Europea ha da tempo oscurato il segnale di Russia Today.

Per non rimanere indietro, la piattaforma X di Elon Musk ha censurato l’iraniana Hispan TV ed altri media “scomodi”.

E nell’Italia del governo neo-fascista, la RAI si è trasformata in “Tele Meloni”, umiliando il servizio pubblico, chi ci lavora e i-le cittadini-e.

Censura mediatica, democrazia e libertà di espressione

Il veto dei canali russi in Occidente o la costrizione a riferire su temi sensibili come il conflitto in Ucraina, il massacro in corso a Gaza, la pandemia del COVID-19 o la corruzione, hanno evidenziato il modo in cui i “latifondi mediatici” cercano di censurare e manipolare, mentre pretendono dare lezioni al mondo sui diritti e le libertà.

In nome del genocidio e della guerra, del turbo-liberismo e delle “magnifiche sorti” del capitalismo, censurano la tanto declamata libertà di espressione. Hanno paura di voci fuori dal coro, tra le altre quella dello stesso Papa, evidentemente non abbastanza “arruolato”. Nella battaglia mediatica per conquistare i cuori e le menti, la voce del padrone, “il pensiero unico del Ministero della Verità” non ammette controcanto, solo i cori ipocriti e stonati dei suoi sostenitori.

Nel mondo al rovescio, avanza la censura mediatica in nome della “democrazia” e della “libertà di espressione”.

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/liberta-di-espressione-e-censura-mediatica/

IO CELEBRO IL 9 MAGGIO, QUANDO I SOVIETICI SCONFISSERO I NAZISTI

Oggi, nella sede dell’ambasciata russa di Roma, Moni Ovadia ha celebreto la vittoria dell’Armata Rossa sui nazifascisti. Questo un brano del suo intervento.

“Il 9 maggio 1945 dovrebbe essere considerata come una delle più importanti e cruciali date di tutto il Novecento e anche dell’intera storia umana. Quel giorno memorabile le forze dell’Armata Rossa e delle brigate partigiane sovietiche sconfissero definitivamente i criminali eserciti nazifascisti sul vasto fronte orientale.
Senza la straordinaria resistenza sovietica, l’esercito tedesco avrebbe potuto dilagare a Est, impadronirsi delle più preziose materie prime e sconfiggere gli alleati anglo-franco-americani. La Germania nazista era vicina alla realizzazione della bomba atomica e disponeva di una scienza missilistica di almeno 15 anni più avanzata di quella dei suoi nemici.
Verosimilmente l’Europa sarebbe diventata un campo di morte, una terra disseminata di campi di sterminio, di camere a gas e forni crematori, non un solo ebreo sarebbe sopravvissuto, i popoli slavi avrebbero conosciuto una nuova schiavitù.
Per contrastare questo incubo, i popoli sovietici hanno sacrificato 27 milioni di vite, di cui 12 milioni russe, hanno patito distruzioni e sofferenze inenarrabili e hanno affrontato una guerra il cui scopo era lo sterminio totale, questo era l’intento dichiarato di Adolf Hitler, soggiogare i popoli slavi, sterminare il popolo russo.

L’eroismo dei combattenti dell’Armata Rossa e dei cittadini sovietici sfida le più iperboliche narrazioni di epopee eroiche. Si pensi a Stalingrado e se è possibile ancora di più a Leningrado, assediata per tre anni.
Nella Venezia del Nord la resistenza dei cittadini oltre che dei combattenti fu sovrumana.
In questa grandiosa città gli abitanti e chi li guidava riuscirono a concepire l’inaudito, edificarono una strada, la famosa “Via della Vita”, sul lago ghiacciato Ladoga per portare rifornimenti alla città martoriata.
In seguito, a guerra non ancora terminata, appena morto Roosevelt, Henry Truman, nuovo presidente Usa individuò nell’Unione Sovietica il nemico ideale del dopoguerra.
Gli apparati di propaganda del governo, del Pentagono e dei servizi segreti statunitensi approntarono un infernale campagna di propaganda basata su una miscela tossica di russofobia e anticomunismo isterico per rappresentare l’Urss come il regno del male. Alcune istituzioni, create espressamente, seminavano le menzogne più infami.

L’Europa comunitaria progressivamente sintonizzandosi sulla temperie stelle e strisce ha finito con l’allinearsi alla stessa propaganda, sulla spinta di governi fascistoidi di alcuni paesi dell’Europa dell’Est, fino alla perversione di apparentare comunismo e nazismo con l’intenzione di criminalizzare la Federazione Russa.

Tutto ciò ha portato a ignorare artatamente la ricorrenza del 9 di maggio, a gettare l’oblio sul sacrificio di 27 milioni di cittadini russi e sovietici.

E’ nostra intenzione riparare a questa vergogna per restituire onore e giustizia a quegli straordinari esseri umani a cui ogni cittadino europeo e non solo deve imperitura gratitudine.

Oggi, nella sede dell’ambasciata russa di Roma, Moni Ovadia ha celebreto la vittoria dell’Armata Rossa sui nazifascisti. Questo un brano del suo intervento.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 9 maggio 2024


Una parte del discorso di Putin in occasione della commemorazione da Mosca

https://www.la7.it/omnibus/video/ucraina-le-parole-di-vladimir-putin-nessuno-puo-minacciarci-ma-le-nostre-forze-nucleari-sempre-in-09-05-2024-541241

UCRAINA: diritti civili e umani sacrificati alla nuova mobilitazione e alla prosecuzione della guerra

30 Aprile 2024: Si apprende in queste ore, da fonti di informazione ucraine e polacche che sono in corso colloqui tra Kiev e Bruxelles per decidere sul trasferimento dei cittadini in età di leva in Ucraina che si trovano nei paesi UE; lo ha dichiarato il vice primo ministro e ministro della Difesa polacco Wladyslaw Kosiniak-Kamysz dopo una riunione del governo polacco, auspicando che la decisione sia presa a livello europeo.

“L’Ucraina”, secondo il settimanale tedesco Bild, “non ha abbastanza soldati per fermare Putin”. Questo il titolo con cui è uscito un articolo della Bild che contiene commenti di militari ucraini e portavoce occidentali che criticano la leadership ucraina per aver “ritardato la mobilitazione”. Nello stesso articolo si suggerisce di abbassare il limite di età per la mobilitazione.

L’articolo contiene commenti di militari ucraini e portavoce occidentali che criticano la leadership ucraina che suggeriscono che il limite di età per la mobilitazione dovrebbe essere abbassato. Allo stesso tempo, viene riferito che il 15% degli uomini in età di leva è già ora nell’esercito.

“Stiamo resistendo, ma abbiamo un problema. Una volta dicevo che il problema più grande era la carenza di proiettili d’artiglieria, ma oggi è la carenza di risorse umane”, ha detto Dmytro Kukharchuk, un ufficiale della 3ª Brigata indipendente.

Un marine ucraino con il nome di battaglia “Military Explorer” lamenta che “dopo che il presidente ha rimandato la mobilitazione per così tanto tempo”, l’Occidente ora “fornisce armi ed equipaggiamento, ma nessuno è addestrato ad usarli”.

Singoli portavoce dell’Occidente affermano inoltre che: “A parte il lento e insufficiente sostegno militare, finanziario e politico da parte dell’Occidente, il grande dilemma dell’Ucraina è la mobilitazione”. Uno dei compiti principali di Zelensky è quello di creare una strategia e un modello di mobilitazione che porti a una maggiore equità, prevedibilità e mantenga un alto valore di combattimento. Un sistema del genere non esiste ancora in Ucraina”, ha detto l’esperto di difesa dell’UE Roderich Kiesewetter.

L’ex funzionario del Ministero della Difesa tedesco e attuale esperto militare, Nico Lange, afferma che la leadership ucraina ha “perso molto tempo in discussioni tattiche” e invita Zelensky a mostrare “leadership”.

“Per quanto onorevole sia l’idea ucraina di non arruolare i giovani, il carico di lavoro fisico è elevato, l’equipaggiamento e le munizioni sono molto pesanti, e i giovani soldati se la caveranno meglio di molti quarantacinquenni che si incontrano ora sul fronte”, ha affermato.

Mentre secondo il il deputato Kamelchuk, circa 15mila militari avrebbero disertato, l’ex parlamentare ucraino Ihor Lutsenko, ora comandante di una compagnia di droni d’attacco, ha annunciato la formazione di un’unità UAV femminile e il Ministro dell’Economia Yulia Sviridenko ha dichiarato che l’Ucraina sta cercando di coinvolgere più donne nel processo di sminamento.

“Il Consiglio dei Ministri cerca di garantire la realizzazione professionale e l’integrazione sociale delle donne, dei veterani e delle veterane, delle persone colpite da rischi di esplosione e delle persone con disabilità attraverso il coinvolgimento nel lavoro di sminamento”, ha dichiarato Sviridenko. “Questa iniziativa”, spiega, “è un ulteriore passo verso una politica di ‘parità di genere’ in Ucraina”.

Nel frattempo le truppe russe stanno avanzando su tutto il fronte orientale e l’obiettivo principale sarebbe quello di prendere la città di Kostiantynivka che è il punto di rifornimento per le truppe ucraine su gran parte del fronte orientale.

La guerra a Gaza ha ridotto l’attenzione su ciò che sta realmente accadendo in Ucraina, né i governi e i media occidentali hanno interesse a far conoscere gli sviluppi interni al paese che ha già perso, dal 2014 ad oggi oltre due terzi della sua popolazione, in gran parte profuga in Russia e in Europa occidentale.

Il sacrificio imposto al popolo ucraino dalla Nato e dai governi occidentali, in accordo con la leadership politica locale, con l’obiettivo di mettere al tappeto la Russia, si sta rivelando una vera catastrofe anche dal punto di vista umanitario. Mentre l’irresponsabile narrazione continua a concentrarsi, in Italia e in Europa, sulla legittimità della “resistenza” ucraina e sulla indispensabile prosecuzione nel rifornimento di armamenti.

Ma il clima interno nel paese è decisamente cambiato e le misure di ulteriore pressione sulla popolazione per mandare uomini al fronte sta diventando insopportabile. Il Ministro degli Esteri Kuleba ha imposto la sospensione dei servizi consolari – documenti,, ecc. – per coloro che si trovano all’estero e sono in età di coscrizione (25-60 anni). Allo stesso tempo la compressione dei diritti civili e umani viene affermata ormai senza ritegno. Lo testimoniano diversi reportage, tra cui quelli che seguono, tratti da СТРАНА.ua (“Strana”) che riportiamo di seguito.

Di ciò che sta davvero accadendo in Ucraina non sembra esserci traccia su giornali e tv. E sarà da vedere in che modo si comporterà l’Europa liberale e libertaria rispetto alla stretta autoritaria in corso.

Il richiamo d’oltremare. Come il divieto dei servizi consolari influenzerà il corso della guerra e della mobilitazione

In Ucraina, uno dei temi principali degli ultimi giorni è la decisione del Ministero degli Affari Esteri di interrompere la fornitura di servizi consolari alle persone soggette al servizio militare fino all’entrata in vigore della legge sulla nuova procedura di mobilitazione, nonché la decisione del Consiglio dei Ministri di vietare il rilascio di passaporti stranieri al di fuori dell’Ucraina agli uomini tra i 18 e i 60 anni.

Ciò ha provocato una grave spaccatura all’interno della società. Le autorità, attraverso il Ministro degli Esteri Kuleba, hanno di fatto dichiarato che tutti gli ucraini che si trovano all’estero e non vogliono tornare in Ucraina durante la guerra sono traditori.

Gli ucraini all’estero si sono duramente indignati. Gli ucraini in patria si sono divisi in due campi. Alcuni gongolano per il fatto che anche coloro che sono “fuggiti all’estero” ora si sentiranno male. Altri sottolineano che tali approcci potrebbero incoraggiare milioni di ucraini a tagliare per sempre i ponti con il loro Paese. Si teme inoltre che tali misure drastiche vengano prese non solo all’estero, ma anche all’interno del Paese. Nel complesso, gli esperti ritengono che tutto ciò aumenti l’ansia nella società per l’ulteriore corso degli eventi.

Strana ha analizzato le conseguenze politiche che tutto ciò ha già causato e potrebbe causare.

In anticipo sulla legge

Abbiamo già analizzato in dettaglio le sfumature dell’introduzione delle restrizioni sui servizi consolari, che potete leggere qui e nel canale Telegram “Politica del Paese”.

In breve, dal 23 aprile il Ministero degli Affari Esteri ha vietato alle missioni diplomatiche di accettare nuove domande da parte di uomini in età di mobilitazione per azioni consolari, tra cui il rilascio e la ricezione di passaporti.

Il Ministero degli Esteri ha dichiarato in un comunicato che si tratta di una misura temporanea in attesa dell’entrata in vigore, il 18 maggio, della legge “Sulla modifica di alcuni atti legislativi dell’Ucraina su alcune questioni relative al servizio militare, alla mobilitazione e alla registrazione militare” adottata dalla Verkhovna Rada l’11 aprile.

La legge stabilisce che gli uomini di età compresa tra i 18 e i 60 anni che soggiornano all’estero avranno pieno accesso ai servizi consolari dopo l’entrata in vigore della legge solo se confermeranno i loro dati nel database della registrazione militare. Allo stesso tempo, il Ministero degli Affari Esteri riconosce che il meccanismo di conferma previsto dalla legge non è ancora del tutto pronto. A quanto pare, si tratta della versione dell’armadio elettronico dei coscritti, che funzionerà, a giudicare dalle dichiarazioni del Ministero della Difesa, nel secondo trimestre (molto probabilmente, più o meno nello stesso periodo in cui funzionerà la legge sulla “mobilitazione”). Ricordiamo che dopo l’entrata in vigore della legge sulla mobilitazione più severa, gli uomini soggetti al servizio di leva dovranno confermare le loro credenziali in un modo o nell’altro entro 60 giorni e portare sempre con sé un tesserino militare.

Ma fino ad allora le missioni diplomatiche non accetteranno i militari di leva, a meno che non abbiano fatto richiesta di servizi consolari prima del 23 aprile o si siano trovati in una situazione di emergenza all’estero.

In seguito, il Consiglio dei Ministri ha emesso un decreto che vieta il rilascio di passaporti agli uomini in età di leva in qualsiasi luogo al di fuori dell’Ucraina.

Le voci degli insoddisfatti

Come scrive “Strana”, la società è venuta a conoscenza di questa iniziativa del Ministero degli Affari Esteri (le autorità) per caso – dalla lettera “trapelata” ai rappresentanti diplomatici firmata dal primo viceministro degli Affari Esteri Andrei Sibiga, recentemente nominato, in cui si dà istruzione di non fornire servizi consolari agli uomini.

È scoppiato uno scandalo, in cui le autorità hanno dovuto giustificarsi. Tuttavia, il Ministero degli Esteri si è immediatamente assunto la paternità dell’iniziativa. Inoltre, il capo del Ministero degli Esteri Dmytro Kuleba ha effettivamente definito traditori tutti i militari ucraini arruolati all’estero.

“Come appare ora: un uomo in età di leva è andato all’estero, ha mostrato al suo Stato che non si preoccupa della sua sopravvivenza, e poi viene e vuole ricevere servizi da questo Stato. Non funziona così. Il nostro Paese è in guerra”, ha scritto Kuleba sulla sua pagina Facebook.

Nelle ambasciate – almeno in Europa – intanto si registrano agitazioni e litigi con il personale, a cui viene chiesto di rilasciare documenti presumibilmente pronti.

Nella società si sono formati due grandi gruppi di sostenitori e oppositori di regole consolari più severe. Il primo gruppo comprende le persone in guerra e i loro parenti, amici e suoceri, così come le persone che sostengono misure severe contro gli evasori (che includono indistintamente tutti gli uomini attualmente all’estero).

La seconda è più interessante: non ci sono solo coloro che hanno affrontato le restrizioni nelle ambasciate, ma anche coloro che sono insoddisfatti della decisione stessa. Mettono in dubbio la sua legalità. E tra questi ci sono anche deputati del popolo.

“In base a quali norme vengono bloccati i servizi consolari? Le autorità violano la legge, la Costituzione e i trattati internazionali! Come possono pretendere che la gente rispetti la legge quando loro stessi la violano?”. – Ha dichiarato il deputato Dmytro Razumkov (non affiliato), che guida l’associazione di opposizione dei deputati “Politica ragionevole” nella Rada.

Un membro della commissione parlamentare “difesa”, Solomiya Bobrovska (Golos), ha definito la decisione di Kuleba “semi-legale” in un commento ai media, ritenendo che abbia “un risultato, un’adeguatezza e un contenuto discutibili”.

Il deputato Volodymyr Vyatrovych ha affermato che il vantaggio è “solo per la Russia”.

“Solo il nostro nemico trae vantaggio dalla spaccatura tra gli ucraini lungo qualsiasi linea, e dalla restrizione dei diritti di alcuni cittadini ucraini, e dal declino del livello di sostegno internazionale per l’Ucraina, e dal disastro demografico, che si adatta perfettamente ai loro piani per distruggere gli ucraini come nazione”, scrive Vyatrovych.

Egli definisce la risoluzione di Kuleba “arbitraria”. E osserva che nessuna legge, compresa la nuova legge sulla mobilitazione, vieta ai cittadini di ottenere passaporti all’estero.

Vyatrovych è sicuro che nessuno si arruolerà nell’esercito sotto questa pressione. Al contrario, interromperanno i contatti con la loro patria, aggravando la “catastrofe demografica” già esistente.

“Il rifiuto dello Stato di rilasciare passaporti o di fornire servizi consolari ai propri cittadini è un disprezzo per la democrazia e i diritti umani. Nemmeno la Russia fa una cosa del genere. Questo è un modo diretto per peggiorare l’atteggiamento verso il nostro Stato in Occidente, e quindi per ridurre il livello di sostegno, da cui dipende in modo critico la nostra sopravvivenza”, scrive il deputato.

La società accumula negatività

In generale, si può parlare di un aggravamento della già difficile situazione della mobilitazione. Le autorità sono ovviamente pronte a portarla avanti in modo rigido, indipendentemente dalle conseguenze politiche e di altro tipo. Ma forse non ha ancora affrontato quelle più gravi.

“Ora mobiliteranno persone che per la maggior parte non vogliono andare in guerra. Va detto che se l’Occidente non avesse fornito nuovi pacchetti di aiuti militari, la mobilitazione sarebbe diventata un problema colossale. In base agli attuali sviluppi, non porterà a una crisi politica, ma vediamo come sarà condotta, se e quanti eccessi ci saranno. In generale, questo è un altro passo nella direzione dell’impopolarità del governo”, commenta a Strana il politologo Ruslan Bortnik.

vAllo stesso tempo, richiama l’attenzione sull’iniziativa del Ministero degli Esteri in questa materia. “Il Ministero degli Esteri ha deciso di fare giochi politici, per dimostrare, come il governo e il parlamento, il suo sostegno alla linea generale delle autorità”, ha detto l’esperto.

L’analista politico Andrei Zolotaryov ha definito la decisione del Ministero degli Esteri sui servizi consolari come un elemento delle attività di uno “Stato militare-poliziesco”.

“Il rapporto tra Stato e cittadini non è a senso unico. Dobbiamo guardare non solo ai doveri dei cittadini, ma anche a come lo Stato adempie ai propri. È necessaria una sorta di equilibrio. E ultimamente queste relazioni hanno iniziato ad assomigliare al comportamento di un signore feudale con i suoi sudditi”, commenta Zolotarev a Strana.

Le autorità rischiano non solo perdite di reputazione, prevede.

E non è nemmeno detto che molti cittadini ucraini all’estero “metteranno i loro passaporti in uno scaffale lontano”.

“A causa di questa politica, la mobilitazione appare agli occhi dei cittadini con i colori più scuri. Vedono che le autorità sono pronte a prendere le misure più severe. Ne vedremo le conseguenze in termini di calo del rating del presidente, del governo e delle autorità in generale. La negatività si sta accumulando nella società e può concretizzarsi in aggressioni. Stiamo già sentendo i campanelli d’allarme. Non sarebbe esagerato dire che ora molte persone stanno pensando a come vivere meglio, a come uscire dalla “fossa” attuale. E per alcuni questa scelta non è legata all’Ucraina. Probabilmente le autorità se ne rendono conto decidendo di aumentare il numero di guardie di frontiera contemporaneamente alla cancellazione dei servizi consolari”, ha detto Zolotariov.

Anche il politologo Bortnik richiama l’attenzione sui punti di vista opposti sulla necessità di servire. “Si percepisce la spaccatura della società a questo proposito. Sia i sostenitori che gli oppositori della mobilitazione della forza sono, ovviamente, ostaggio della situazione. Ma la divisione tra chi ha servito e chi no, tra chi ha aiutato al fronte e chi si è “seduto fuori” può manifestarsi per molto, molto tempo dopo la guerra, aumentando il conflitto nella società”, ritiene l’esperto.

Tuttavia, le conseguenze possono essere più ampie. Tra cui l’atteggiamento della popolazione nei confronti delle prospettive della guerra e delle opzioni per la sua fine. Gli esperti ritengono che ciò potrebbe colpire il morale della società e aumentare il numero di coloro che sono favorevoli a terminare la guerra il prima possibile.

FONTE: https://strana.news/articles/analysis/463048-vlijanie-zapreta-na-konsulskie-usluhi-na-khod-vojny-i-mobilizatsii-v-ukraine.html

Articolo del 26 Aprile 2024

(Traduzione: cambiailmondo.org)

L’Ucraina ha dichiarato al Consiglio d’Europa che non rispetterà tutti i diritti umani durante la guerra

Il 4 aprile 2024, l’Ucraina ha presentato al Consiglio d’Europa una dichiarazione scritta sulla deroga parziale all’osservanza della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà.

La notizia è riportata sul sito web del Consiglio.

La dichiarazione afferma che durante la legge marziale, i diritti umani sanciti da una serie di articoli della Costituzione possono essere limitati. Tra questi, il diritto a libere elezioni.

Gli articoli della Costituzione soggetti a restrizioni garantiscono:

– L’inviolabilità del domicilio (articolo 30);

– Segretezza della corrispondenza, delle conversazioni telefoniche e di altri scambi epistolari
(art. 31);

– Non interferenza nella vita privata e familiare (art. 32);

– Libertà di movimento, libera scelta del luogo di residenza e diritto di lasciare e tornare liberamente nel territorio ucraino (art. 33);

– Il diritto alla libertà di pensiero e di parola, alla libera espressione di opinioni e convinzioni, e il diritto di raccogliere, conservare, utilizzare e diffondere liberamente le informazioni (art. 34);

– Il diritto di partecipare alla gestione degli affari pubblici, ai referendum, il diritto di eleggere ed essere eletti liberamente negli organi di governo statali e locali e la parità di accesso ai servizi pubblici (art. 38);

– Il diritto di tenere riunioni, comizi, marce e dimostrazioni e il diritto di sciopero (artt. 39 e 44);

– Il diritto di possedere, usare e disporre dei propri beni (art. 41);

– Il diritto all’imprenditorialità e al lavoro (artt. 42 e 43);

– Il diritto all’istruzione (art. 53).

Il documento elenca inoltre le misure applicate in Ucraina che, durante la legge marziale, possono essere considerate una deroga alla Convenzione per la protezione dei diritti umani e al Patto internazionale sui diritti civili e politici. In particolare:

– L’alienazione forzata di proprietà private o comunali per le esigenze dello Stato;
l’imposizione del coprifuoco;

– Regimi speciali di ingresso e uscita, restrizioni alla circolazione dei cittadini, degli stranieri e degli apolidi e alla circolazione dei mezzi di trasporto,

– Ispezione degli effetti personali dei cittadini, dei trasporti, dei bagagli, delle merci, degli uffici e delle abitazioni;

– Divieto di assemblee pacifiche, riunioni, marce, dimostrazioni e altri eventi;

– Divieto o restrizione nella scelta del luogo di soggiorno o di residenza;

– Divieto per i cittadini iscritti nei registri militari o speciali di cambiare il luogo di residenza o di soggiorno senza un’adeguata autorizzazione;

– Istituzione di una tassa militare per le persone fisiche e giuridiche.

Il Ministro della Giustizia Denys Malyuska ha commentato la lettera dell’Ucraina al Consiglio d’Europa sulla restrizione dei diritti umani. Secondo il ministro, si tratta di una pratica comune per un Paese belligerante: dopo il 24 febbraio 2022, l’Ucraina aveva già inviato al Consiglio d’Europa avvertimenti sulla restrizione dei diritti, mentre nell’attuale lettera l’elenco di tali restrizioni è stato ridotto.

“Abbiamo inviato un messaggio sulla possibilità di applicare restrizioni ad alcuni diritti quasi immediatamente dopo l’introduzione della legge marziale nel 2022 – questo fa parte dei nostri obblighi internazionali (tali messaggi sono stati inviati dal 2015). Non si tratta di una novità: è quello che fanno tutti i Paesi in guerra. E nell’aprile del 2024 abbiamo nuovamente chiarito l’elenco delle restrizioni esistenti e lo abbiamo ridotto”, ha scritto Maliushka su Facebook.

FONTE: https://strana.news/news/463353-ukraina-podala-v-sovet-evropy-pismennoe-zajavlenie-o-chastichnom-otstuplenii-ot-sobljudenija-evropejskoj-konventsii.html

Articolo del 28 Aprile 2024

(Traduzione: cambiailmondo.org)

COLONIALISMO: come la Palestina divenne dipendente da Israele

100 ANNI Dal mandato britannico a oggi: l’estrazione di valore a favore dell’economia israeliana, aiutata da leggi e forza militare, ha impoverito i palestinesi e li ha messi alla mercé del “vicino”

di Clara Mattei (da Il Fatto Quotidiano, 29/04/24)

Nel suo magistrale libro Jaccuse (Fuoriscena), in cui mette in luce la violenza strutturale della colonizzazione e la violazione di diritti umani perpetrata da Israele, la special rapporteur delle Nazioni Unite Francesca Albanese riproduce la giornata tipo di un lavoratore palestinese: “Alle 7.30 ti svegli, vuoi fare una doccia ma l’acqua la devi comprare da Mekorot, l’azienda idrica di Israele, che ha preso il controllo dell’80% delle risorse idriche della West Bank.
Alle 8.30 sali in auto per andare al lavoro, in un percorso simbolico, come può essere quello da Betlemme a Ramallah. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha una rete di 97 check-point fissi e centinaia di posti di blocco ‘volanti, che compaiono e scompaiono senza preavviso.
Lunghe code, controllo documenti, spesso chiusure — collettive o verso singole persone senza spiegazioni. Ogni lavoratore palestinese deve muoversi da casa con largo anticipo.
In pausa pranzo, per comprare un panino o fare la spesa, si usa solo lo shekel israeliano, non avendo Mai avuto una moneta palestinese.
Magari devi tare benzina, solo da gestori israeliani, che hanno il totale controllo delle risorse energetiche. Se lavori con l’estero, qualsiasi viaggio tu voglia fare, per qualsiasi motivo, dipende dall’autorizzazione che ti sarà eventualmente concessa da Israele, che controlla tutti i punti di accesso e di uscita dalla Palestina”.

QUESTA IMMAGINE è emblematica di una ultra-decennale storia di oppressione economico-politica, che gli economisti critici chiamano “teoria della dipendenza”: la vicinanza geografica tra Israele e Palestina ne è un caso da manuale. L’idea fondamentale è quella per cui lo “sviluppo” delle nazioni ricche non accade in maniera indipendente, ma deriva dall’attiva creazione di “povertà” in quelle povere. La struttura economica della periferia (Palestina) è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro (Israele). Prova ne sia il Pil di Israele: il doppio di quello palestinese nel 1967, oltre 14 volte tanto nel 2022 (in valori assoluti oggi e quasi 20 volte quello palestinese).
L’economia palestinese ha perso nel tempo un‘autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola. L’estrazione di valore è dunque oggi tutta a favore dello Stato ebraico, che ne beneficia in un doppio senso: Riceve risorse naturali, materie prime e forza lavoro da un lato; ha a disposizione un mercato per le proprie merci dall’altro. La Palestina deve infatti importare i più costosi beni finiti sviluppando un deficit commerciale che ne aumenta la vulnerabilità economica e monetaria: negli ultimi cinquant’anni il 75-80% di tutti i beni importati ed esportati dalla Palestina sono stati scambiati con l’economia israeliana; nel 50% dei casi impor palestinese ha riguardato beni in passato prodotti in Palestina (abbigliamento, calzature, bibite, mobili, eccetera).

Per studiare il fenomeno della dipendenza economica palestinese, e quanto sia inscindibile da chiare decisioni politiche, dobbiamo fare un passo indietro e guardare agli anni del mandato britannico (1922-1947). La Gran Bretagna, in collaborazione con le organizzazioni sioniste del tempo (Palestine Jewish Colonization Association, The Jewish National Fund, The Palestine Land Development Company e via elencando), ebbe un ruolo cruciale nel plasmare l’economia dell’area in direzione capitalistica: facilitò la crescita dell’industria israeliana e la proletarizzazione dei palestinesi, allontanandoli dalla terra che costituiva la base della loro economia di sussistenza.

La terra acquistata dalle organizzazioni sioniste fu censita come “terra soltanto per ebrei’, non più vendibile ai non ebrei. Gli inglesi favorirono, inoltre, grandi donazioni e investimenti per le industrie ebraiche.
E ancora: l’impero britannico richiese le tasse agricole in denaro, causando l’indebitamento dei contadini palestinesi e costringendoli a prendere denaro in prestito, rendendoli cosi pià dipendenti dal mercato. D’altro canto, la Gran Bretagna assicurò fondamentali concessioni sulle risorse naturali alle compagnie ebraiche: la Rutenberg Electricity Company (1922), la la Atlit Salt Company (1929) e la Palestine Potash Company (1929),società – quest’ultima – di estrazione mineraria.
LA POLITICA DISEGUALE dei dazi giocò poi un ruolo fondamentale per creare le condizioni dipendenza palestinesi. Gli inglesi mandatari abolirono i dazi sulle merci prodotte da ebrei e sulle importazioni di materie prime, mentre imposero alte tariffe sulle merci che potevano competere con I’industria ebraica. Il trattamento opposto fu riservato all’industria araba, con l’imposizione di alte tariffe sul sapone e l’olio di oliva, i loro primari settori economici. Non solo: la “open border policy”, già sperimentata in India, comportò che i contadini palestinesi non fossero più in grado di competere coi prodotti agricoli importati, aumentando il loro debito e portandoli a vendere le terre a grandi proprietari terrieri.
Venticinque anni dopo, al momento del piano di partizione del 1947 e della guerra del 1948 – la Nakba, “la catastrofe” degli arabi, durante la quale ”80% della popolazione palestinese divenne profuga e più di 700 villaggi furono distrutti – il peso dell’economia ebraica era molto più forte della sua controparte araba: la quota ebraica della produzione nazionale era del 53%, ma quella della produzione industriale dell’89% e gli investimenti in capitale I’88% di quelli totali.
Il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica fu però l’occupazione del 1967, in cui la Palestina fu ridotta al 22% del territorio rispetto alla Palestina del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Tra le varie ordinanze militari emesse da Israele si possono ricordare quelle che stabilirono la chiusura di tutte le banche operanti in Cisgiordania tranne due, poste sotto supervisione israeliana; o l’impossibilità di importare nuove macchine (l’unica opzione era acquistarle di seconda mano); o ancora quelle che misero in atto una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni, in vigore ancora oggi, che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale. Tra il 2016 e il 2018, le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% dei permessi di costruzione nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania.

Da allora la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori per proteggere l’agricoltura israeliana.
Ogni commercio col resto del mondo deve passare attraverso Israele ed essere gestito da personale israeliano: qualsiasi Merce importata o esportata da singoli o da imprese palestinesi passa dalla dogana israeliana, che può bloccare e tutto e che da anni trattiene i dazi doganali invece di girarli come da Accordi di Oslo all’Autorità nazionale palestinese. Per di più le autorità israeliane hanno proibito gli investimenti da Israele – o dall’estero – nell’economia palestinese e l’esercito israeliano ha esercitato il pieno controllo sui bilanci in Cisgiordania e Gaza, compresa la tassazione e la raccolta: i palestinesi sono stati costretti a pagare imposte sul reddito dal 3 al 10% più alte rispetto a quelle applicate agli israeliani per la stessa fascia di reddito.

L’OCCUPAZIONE MILITARE ha confiscato nel tempo vaste aree di terre pubbliche e private palestinesi per la costruzione di insediamenti e riserve naturali.
Alla meta degli anni 80, il 39% della Cisgiordania e circa il 31% della Striscia di Gaza erano state Mappate come terre statali israeliane: secondo il gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, durante i primi 36 anni di occupazione Israele sequestro quasi 200mila ettari di terre palestinesi affittandole a enti, associazioni e privati per la costruzione di insediamenti.

Le confische di terreni e le restrizioni al commercio e agli investimenti causarono il collasso dell’agricoltura palestinese, che un tempo impiegava gran parte della forza lavoro autoctona: nel 1967 l’economia agricola nei Territori assorbiva quasi il 40% della forza lavoro, nel 1993 degli Accordi di Oslo meno del 20%. Comunità autosufficienti videro scomparire i loro mezzi di sostentamento e il risultato fu una diffusa “proletarizzazione” della società palestinese: molti passarono dall’essere lavoratori autonomi nell’agricoltura locale a salariati nell’economia israeliana. Nei primi vent’anni dell’occupazione, la percentuale di individui che cercavano lavoro all’interno di Israele o dei suoi insediamenti aumentò in modo esponenziale: da pressoché zero prima del 1967 a circa il 40% nel 1987, quando scoppio la Prima Intifada.

IL LAVORO PALESTINESE serve Israele in molteplici modi. La presenza di un grosso esercito industriale di riserva riduce i costi dei salari e garantisce sufficiente estrazione di plusvalore per l’industria israeliana.
Come ha detto un imprenditore al giornale Haaretz: “E quasi impossibile licenziare un lavoratore israeliano o spostarlo senza il suo permesso e un aumento del salario, invece un lavoratore arabo è eccezionalmente mobile, può essere licenziato senza preavviso e spostato da un luogo all’altro. Non fanno scioperi, non presentano richieste.

La riduzione dei costi di produzione permette di vendere merci a prezzi migliori: è dunque un vantaggio competitivo rispetto all’estero, Palestina compresa, ma come spiega Ibrahim Shikaki, professore di economia al Trinity College in Connecticut, l’esercito industriale di riserva palestinese aiuta anche a togliere potere contrattuale ai lavoratori israeliani.

Come già fu in Sud Africa, i palestinesi sono autorizzati a lavorare solo per il datore di lavoro indicato sul loro permesso (che contiene i dettagli di entrambi), a viaggiare solo nell’area del loro lavoro e devono rientrare entro un determinato orario, pena l’arresto. I permessi sono carte biometriche necessarie per attraversare i check-point, in alcuni dei quali Israele ha implementato per i palestinesi il riconoscimento facciale automatico con l’intelligenza artificiale.

I flussi di lavoro palestinese verso Israele hanno coinvolto negli anni fino al 40% dei lavoratori della Striscia di Gaza e il 30% di quelli della Cisgiordania, dove ancora oggi sono più di 200mila: “Una volta che si sottrae una cosi massiccia forza lavoro a un’economia, non può che conseguirne miseria”, spiega al Fatto il professor Shikaki, i cui studi mostrano chiaramente che il tasso di disoccupazione palestinese è ormai strettamente correlato al ciclo economico di Israele. Con un corollario non da poco: “Oggi poi, sotto le bombe e col blocco totale delle frontiere, non si può neppure più lavorare..”.

FONTE. Il Fatto Quotidiano, 29 Aprile 2024

Libertà accademica I ragazzi lo sanno: la ricerca va decolonizzata (cioè de-sionizzata)

di IAIN C HAMBERS

Forse, di fronte a uno Stato che persegue la pulizia etnica con intenzioni genocide, che rifiuta il diritto internazionale e si considera al di sopra delle decisioni delle Nazioni unite comportandosi come uno «Stato canaglia», è giunto il momento di parlare di come affrontare direttamente Israele. Se appartiene all’Occidente moderno e democratico, come sostiene, ha bisogno di una seria riforma o altrimenti di essere messo in quarantena.

La questione non deve essere semplicemente dominata dalle relazioni internazionali, richiede una risposta etica e democratica. Siamo chiari. Il sionismo, in quanto impresa esplicitamente coloniale – e i suoi fondatori non hanno avuto remore a riconoscerlo – non può essere democratico nelle sue intenzioni. La protezione del suo dominio etnocratico richiede la purezza razziale e l’apartheid, ora incarnati nel suo apparato giuridico e nella sua costituzione.

L’opposizione a questa critica di Israele, invariabilmente etichettata come antisemitismo, è essa stessa un attacco alla democrazia e alla ricerca della giustizia storica nell’analisi sociale e politica.

In questo momento, l’ideologia sionista e la sua occupazione militare della Palestina stanno perseguendo, come in tutti i colonialismi, l’eliminazione dei nativi, proprio come in precedenza nell’imperium anglofono del Nord America, dell’Australia e del Sudafrica.

La formazione violenta delle identità occidentali produce storie taciute e geografie dimenticate. Tuttavia, come ci insegnano i palestinesi, queste storie resistono e persistono.

All’Orientale di Napoli il 23 aprile scorso si è tenuto un importante seminario su «Israele, l’industria delle armi e il ruolo dell’università». Tra i contributi, c’era la presentazione dell’accademica israeliana Nurit Peled el-Hanan sul genocidio simbolico dei palestinesi nei libri scolastici israeliani. In questi testi, controllati e approvati dal ministero dell’Istruzione israeliano, non ci sono singoli palestinesi, ma solo una categoria anonima e disumanizzata chiamata arabi.

Tra i palestinesi non ci sono scienziati, artisti, accademici o politici, ma solo un gruppo etnicamente distinto che minaccia la vita di Israele con il suo sottosviluppo e il suo terrorismo: il nemico del moderno Israele e del progetto sionista di civiltà occidentale. Questa semiotica pedagogica, come ha illustrato in dettaglio Nurit Peled el-Hanan, è centrale nei meccanismi di razzializzazione di uno Stato di apartheid, nella sua educazione fascista (parole sue) e nel suo dominio militare sui colonizzati. Dire la verità al potere in questo modo ha un prezzo.

Nurit Peled el-Hanan è stata recentemente sospesa dal suo incarico universitario. Oggi le università israeliane si dichiarano esplicitamente sioniste. Insistono sul fatto che il loro ruolo è quello di difendere il sionismo e la narrativa dello Stato etnonazionalista. Alla faccia della scientificità e della neutralità accademica.

Ora, questa narrazione non è limitata a un piccolo ma potentissimo Stato del Mediterraneo orientale. È stata adottata per decenni in tutto l’Occidente. Anzi, è stata storicamente coltivata fin dalle prime mappature del mondo all’inizio del XIX secolo, soprattutto da parte della Londra imperiale.

Quello che l’intellettuale palestinese Edward Said, formatosi a Princeton e Harvard, ha definito in tempi più recenti «orientalismo», si è sedimentato nel senso comune dei pronunciamenti politici e culturali in Europa e Nord America: dalla Casa Bianca agli studi televisivi e ai giornali. Contestare questa configurazione di conoscenza e la sua gestione del globo significa inevitabilmente impegnarsi in una discussione con la nostra società e con la creazione di noi stessi.

Come ha detto acutamente James Baldwin: «Proprio nel momento in cui inizi a sviluppare una coscienza, devi trovarti in guerra con la tua società».
Mi piace pensare che questo sia un riassunto preciso di quello che è il lavoro critico e analitico. È anche il momento in cui si devono fare i collegamenti impensabili, ormai che la cortina di fumo liberale evapora e assistiamo all’esercizio brutale del potere nudo, tra il campo di sterminio di Gaza e l’esecuzione giuridica dei migranti nel Mediterraneo.

La conclusione è che le istituzioni occidentali, gli enti governativi, le agenzie di ricerca e le università, insieme alla più ovvia partecipazione dei produttori di armi, delle aziende tecnologiche e dei servizi finanziari, sono parte integrante di un apparato coloniale. Se la trasformazione del conflitto in capitale è una cosa, sostenuta in modo ipocrita dalla ricerca del benessere economico, la sua analisi critica è un’altra. Gli studenti qui in Italia e, soprattutto, nei campus americani, stanno giustamente insegnando ai loro insegnanti e amministratori quest’ultima prospettiva. Per evocare Hannah Arendt, stanno tirando fuori dai denti della storia ufficiale una narrazione più onesta e democratica della condizione umana.

FONTE: Il Manifesto del 27.04.2024

Nuova Patto di stabilità EU: “Serve una vera Liberazione, contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari”

di MARCO BERSANI

«L’ Europa è preoccupata? Se vinciamo noi è finita la pacchia!». Così urlava Giorgia Meloni all’ultimo comizio elettorale del settembre 2022. Siamo nell’aprile 2024, Meloni ha vinto e l’Unione Europea ha approvato il “nuovo” patto di stabilità dopo la sospensione triennale post pandemia.
Guardando le misure introdotte, si può dire che Meloni avesse ragione dal punto di vista letterale, ma avendo invertito soggetti attivi e soggetti passivi dell’affermazione.

Perché la pacchia -peraltro mai pervenuta dalle parti delle fasce deboli e medie della popolazione- è davvero finita e ritorna in grande stile la gabbia del debito e delle politiche di austerità.

Cosa prevede infatti il nuovo patto di stabilità? Intanto ripropone i numeri magici (60% rapporto debito/Pil e 3% rapporto deficit/Pil) i cui stessi ideatori dichiararono a più riprese di averli letteralmente inventati senza alcuna base scientifica. Su come raggiungerli e sulle procedure d’infrazione nel caso di mancato risultato, i mass media e le elite politiche si sbracciano per dire che c’è un allentamento rispetto alle misure previste in passato. Ma il focus è ancora una volta sbagliato.

Vediamo i dettagli. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil, i Paesi con un debito tra il 60% e il 90% del Pil dovranno ridurlo dello 0,5% ogni anno, mentre i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil (è il caso dell’Italia) dovranno ridurlo dell’1% annuo. Se è vero che il patto di stabilità precedente prevedeva un rientro del 5% all’anno, è altrettanto vero che prima tutti i Paesi erano consapevoli della totale impossibilità di un rientro così drastico, mentre ora il risultato è esigibile e quindi con conseguenze reali in termini di impatto economico e sociale. Per quanto riguarda il deficit, le nuove misure sono drasticamente peggiorative, perché, pur mantenendo il 3% come tetto non soggetto a procedura d’infrazione, spinge i Paesi ad arrivare all’1,5%, in modo da avere una più cogente stabilità finanziaria che consenta di affrontare eventi straordinari (vedi pandemia) senza mai superare il mitico 3%.

E come si raggiunge questo risultato? Con un miglioramento del saldo primario strutturale (entrate maggiori delle uscite) del 0,4% annuo del Pil nel caso di un percorso di aggiustamento di quattro anni o del 0,25% annuo del Pil nel caso il percorso sia di sette anni. Come riporta uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato sui calcoli del centro studi Bruegel (https://www.etuc.org/en/pressrelease/100bn-cuts-next-year-under-council-aust erity-plan), si tratta per l’Italia di tagli al bilancio di 25,4 mld/anno (percorso quadriennale) o di 13,5 mld/anno (percorso settennale). E se il buongiorno si vede dal mattino, segniamoci la data del 19 giugno (post-elezioni) perché sarà allora che si aprirà la prima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il deficit eccessivo registrato nel 2023.

Non di soli numeri si parla nel “nuovo” patto di stabilità, bensì anche di democrazia. Già perché l’altra novità è che per i Paesi con debito alto sarà direttamente Bruxelles “a indicare la traiettoria di riferimento della spesa primaria netta”, ovvero a decidere quanti soldi andranno alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica, mentre un occhio di riguardo nei conteggi sarà riservato per tutti gli investimenti che riguardano il bilancio della Difesa e le spese militari.

Torna la gabbia, dunque, e la ridicola astensione al voto da parte della maggioranza di governo di destra, così come quella del Pd, hanno il sapore della foglia di fico pre-elettorale.

Oggi più che mai serve una vera Liberazione: contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari.

FONTE: Il Manifesto del 27 Aprile 2024

Yanis Varoufakis: Il discorso che mi ha fatto bandire dalla Germania

Olaf Kosinsky, CC BY-SA 3.0 DE , via Wikimedia Commons

Oggi, a Yanis Varoufakis è stato vietato non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a videoconferenze sulla politica ospitate in Germania. Ecco l’appello per l’umanità e la giustizia in Palestina che lo ha portato al bando.

di Yanis Varoufakis

Oggi, il ministero degli Interni tedesco ha emesso contro di me un “betätigungsverbot”, un divieto di qualsiasi attività politica, non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a eventi Zoom ospitati nel paese. Non posso nemmeno avere un mio video registrato riprodotto agli eventi tedeschi.

I problemi sono iniziati sul serio ieri, quando la polizia tedesca ha fatto irruzione in una sede di Berlino per sciogliere il nostro congresso sulla Palestina, ospitato dal Movimento per la Democrazia in Europa 2025 (DiEM25). Giudicate voi stessi che tipo di società sta diventando la Germania se la sua polizia mette al bando i sentimenti riportati di seguito.

Congratulazioni e ringraziamenti di cuore per essere qui – nonostante le minacce, nonostante la polizia corazzata fuori da questa sede, nonostante la panoplia della stampa tedesca, nonostante lo Stato tedesco, nonostante il sistema politico tedesco che ti demonizza per essere qui.

“Perché un congresso palestinese, signor Varoufakis?” mi ha chiesto recentemente un giornalista tedesco. Perché, come disse una volta Hanan Ashrawi, “non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che sono messi a tacere ci parlino della loro sofferenza”.

Oggi, la ragione di Ashrawi è diventata tristemente più forte, perché non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che vengono messi a tacere, anch’essi massacrati e affamati, ci parlino dei massacri e della fame.

Ma c’è anche un’altra ragione: perché un popolo orgoglioso e rispettabile, il popolo tedesco, viene condotto lungo una strada pericolosa verso una società senza cuore, essendo costretto ad associarsi a un altro genocidio compiuto in suo nome, con la sua complicità.

Non sono né ebreo né palestinese. Ma sono incredibilmente orgoglioso di essere qui tra ebrei e palestinesi – per unire la mia voce per la pace e i diritti umani universali con le voci ebraiche per la pace e i diritti umani universali, con le voci palestinesi per la pace e i diritti umani universali. Essere qui insieme oggi è la prova che la convivenza non solo è possibile, ma che esiste già.

“Perché non un congresso ebraico, signor Varoufakis?” mi ha chiesto lo stesso giornalista tedesco, immaginando che facesse il furbo. Ho accolto con favore la sua domanda.

Perché se un singolo ebreo viene minacciato, ovunque, solo perché è ebreo, indosserò la Stella di David sul bavero e offrirò la mia solidarietà, qualunque sia il costo, qualunque sia il costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Quindi cerchiamo di essere chiari: se gli ebrei fossero sotto attacco, in qualsiasi parte del mondo, sarei il primo a sollecitare un congresso ebraico in cui registrare la nostra solidarietà.

Allo stesso modo, quando i palestinesi vengono massacrati perché sono palestinesi – secondo il dogma secondo cui per essere morti e palestinesi devono essere stati Hamas – indosserò la mia kefiah e offrirò la mia solidarietà a qualunque costo, a qualunque costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Con questo in mente, ho risposto alla domanda del giornalista tedesco con alcune delle mie:

  • Due milioni di ebrei israeliani, che furono cacciati dalle loro case e rinchiusi in una prigione a cielo aperto ottant’anni fa, sono ancora tenuti in quella prigione a cielo aperto, senza accesso al mondo esterno, con cibo e acqua minimi, senza alcuna possibilità? di una vita normale o di viaggiare ovunque, pur essendo bombardato periodicamente per questi ottant’anni? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono fatti morire di fame intenzionalmente da un esercito di occupazione, mentre i loro figli si contorcono sul pavimento, urlando dalla fame? NO.
  • Ci sono migliaia di bambini ebrei feriti senza genitori sopravvissuti che strisciano tra le macerie di quelle che erano le loro case? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono bombardati dagli aerei e dalle bombe più sofisticati del mondo? NO.
  • Gli ebrei israeliani stanno vivendo un totale ecocidio di quella piccola terra che possono ancora chiamare propria, senza un solo albero sotto il quale possano cercare ombra o di cui possano gustare i frutti? NO.
  • I bambini ebrei israeliani vengono uccisi oggi dai cecchini per ordine di uno stato membro delle Nazioni Unite (ONU)? NO.
  • Oggi gli ebrei israeliani vengono cacciati dalle loro case da bande armate? NO.
  • Israele sta lottando per la propria esistenza oggi? NO.

Se la risposta a una qualsiasi di queste domande fosse sì, oggi parteciperei a un congresso di solidarietà ebraica.

Oggi ci sarebbe piaciuto avere un dibattito dignitoso, democratico e reciprocamente rispettoso su come portare la pace e i diritti umani universali a tutti – ebrei e palestinesi, beduini e cristiani – dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo con persone che la pensano diversamente da noi. noi.

Purtroppo l’intero sistema politico tedesco ha deciso di non permetterlo. In una dichiarazione congiunta alla quale partecipano non solo la CDU-CSU (Unione Cristiano-Democratica-Unione Cristiano-Sociale della Baviera) e il FDP (Partito Democratico Libero), ma anche l’SPD (Partito Socialdemocratico), i Verdi e, sorprendentemente, due leader del partito Die Linke (La Sinistra), lo spettro politico tedesco ha unito le forze per garantire che un dibattito così civile, sul quale possiamo essere piacevolmente in disaccordo, non abbia mai luogo in Germania.

Dico loro: volete metterci a tacere, metterci al bando, demonizzarci, accusarci. Pertanto non ci lasci altra scelta se non quella di rispondere alle tue ridicole accuse con le nostre razionali accuse. Hai scelto questo, non noi.

Ci accusate di odio antisemita. Ti accusiamo di essere il migliore amico dell’antisemita equiparando il diritto di Israele a commettere crimini di guerra con il diritto degli ebrei israeliani a difendersi.

Ci accusate di sostenere il terrorismo. Ti accusiamo di equiparare la legittima resistenza a uno stato di apartheid alle atrocità contro i civili che ho sempre e sempre condannerò, chiunque le commetta: palestinesi, coloni ebrei, la mia stessa famiglia, chiunque. Vi accusiamo di non riconoscere il dovere del popolo di Gaza di abbattere il muro della prigione a cielo aperto in cui è stato rinchiuso per ottant’anni – e di equiparare questo atto di abbattere il muro della vergogna, che non è più difendibile di fu il Muro di Berlino, con atti di terrore.

Ci accusate di banalizzare il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Vi accusiamo di banalizzare gli ottant’anni di pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele e l’erezione di un ferreo sistema di apartheid in tutto Israele-Palestina. La accusiamo di banalizzare il sostegno a lungo termine di Benjamin Netanyahu a Hamas come mezzo per distruggere la soluzione dei due Stati che lei sostiene di favorire. Vi accusiamo di banalizzare il terrore senza precedenti scatenato dall’esercito israeliano sulla popolazione di Gaza, in Cisgiordania. e Gerusalemme Est.

Lei accusa gli organizzatori del congresso di oggi di essere, cito testualmente, “non interessati a parlare delle possibilità di coesistenza pacifica in Medio Oriente nel contesto della guerra a Gaza”. Sei serio? Hai perso la testa?

Vi accusiamo di sostenere uno Stato tedesco che è, dopo gli Stati Uniti, il più grande fornitore delle armi che il governo Netanyahu usa per massacrare i palestinesi come parte di un grande piano per realizzare una soluzione a due Stati e una coesistenza pacifica tra ebrei e Palestinesi, impossibile. La accusiamo di non aver mai risposto alla domanda pertinente a cui ogni tedesco deve rispondere: quanto sangue palestinese dovrà scorrere prima che il suo giustificato senso di colpa per l’Olocausto venga lavato via?

Cerchiamo quindi di essere chiari: siamo qui a Berlino con il nostro congresso palestinese perché, a differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li sta perpetrando. Perché ci opponiamo all’apartheid nella terra di Israele-Palestina, non importa chi abbia il sopravvento, proprio come ci siamo opposti all’apartheid nel Sud americano o in Sud Africa. Perché sosteniamo i diritti umani universali, la libertà e l’uguaglianza tra ebrei, palestinesi, beduini e cristiani nell’antica terra di Palestina.

A differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, noi condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li perpetra.

E così abbiamo ancora più chiare le domande, legittime e maligne, a cui dobbiamo essere sempre pronti a rispondere:

Condanno le atrocità di Hamas?

Condanno ogni singola atrocità, chiunque ne sia l’autore o la vittima. Ciò che non condanno è la resistenza armata a un sistema di apartheid concepito come parte di un programma di pulizia etnica a combustione lenta ma inesorabile. In altre parole, condanno ogni attacco ai civili e, allo stesso tempo, celebro chiunque rischi la propria vita per abbattere il muro.

Israele non è forse impegnato in una guerra per la sua stessa esistenza?

No non lo è. Israele è uno stato dotato di armi nucleari con forse l’esercito tecnologicamente più avanzato del mondo e con la panoplia della macchina militare statunitense alle sue spalle. Non c’è simmetria con Hamas, un gruppo che può causare gravi danni agli israeliani ma non ha alcuna capacità di sconfiggere l’esercito israeliano, o anche solo di impedire a Israele di continuare ad attuare il lento genocidio dei palestinesi sotto il sistema di apartheid che è stato eretto con sostegno di lunga data da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

Gli israeliani non sono forse giustificati a temere che Hamas voglia sterminarli?

Certo che lo sono! Gli ebrei hanno subito un Olocausto che è stato preceduto da pogrom e da un radicato antisemitismo che ha permeato per secoli l’Europa e le Americhe. È naturale che gli israeliani vivano nel timore di un nuovo pogrom se l’esercito israeliano dovesse piegarsi. Tuttavia, imponendo l’apartheid ai propri vicini e trattandoli come subumani, lo Stato israeliano sta alimentando il fuoco dell’antisemitismo e rafforzando palestinesi e israeliani che vogliono solo annientarsi a vicenda. Alla fine, le sue azioni contribuiscono alla terribile insicurezza che divora gli ebrei in Israele e nella diaspora. L’apartheid contro i palestinesi è la peggiore autodifesa degli israeliani.

E l’antisemitismo?

È sempre un pericolo chiaro e presente. E deve essere sradicato, soprattutto tra le fila della sinistra globale e tra i palestinesi che lottano per le libertà civili palestinesi in tutto il mondo.

Perché i palestinesi non perseguono i loro obiettivi con mezzi pacifici?

Loro fecero. L’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) riconobbe Israele e rinunciò alla lotta armata. E cosa hanno ottenuto in cambio? Umiliazione assoluta e pulizia etnica sistematica. Questo è ciò che ha nutrito Hamas e lo ha elevato agli occhi di molti palestinesi come l’unica alternativa a un lento genocidio sotto l’apartheid israeliano.

Cosa si dovrebbe fare adesso? Cosa potrebbe portare la pace in Israele-Palestina?

  • Un cessate il fuoco immediato.
  • Il rilascio di tutti gli ostaggi: quelli di Hamas e le migliaia detenuti da Israele.
  • Un processo di pace, sotto la guida delle Nazioni Unite, sostenuto dall’impegno della comunità internazionale a porre fine all’apartheid e a salvaguardare pari libertà civili per tutti.
  • Per quanto riguarda ciò che dovrà sostituire l’apartheid, spetta a israeliani e palestinesi decidere tra la soluzione dei due Stati e la soluzione di un unico Stato federale laico.

Amici, siamo qui perché la vendetta è una forma pigra di dolore.

Siamo qui per promuovere non la vendetta ma la pace e la coesistenza in tutto Israele-Palestina.

Siamo qui per dire ai democratici tedeschi, compresi i nostri ex compagni di Die Linke, che si sono coperti di vergogna abbastanza a lungo – che due errori non fanno una cosa giusta – e che permettere a Israele di farla franca con i crimini di guerra non migliorerà la situazione l’eredità dei crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Al di là del congresso di oggi, in Germania abbiamo il dovere di cambiare il discorso. Abbiamo il dovere di persuadere la stragrande maggioranza dei tedeschi perbene che ciò che conta sono i diritti umani universali. Questo mai più significa mai più per nessuno. Ebrei, palestinesi, ucraini, russi, yemeniti, sudanesi, ruandesi: per tutti, ovunque.

In questo contesto, sono lieto di annunciare che il partito politico tedesco MERA25 di DiEM25 sarà sulla scheda elettorale delle elezioni del Parlamento Europeo del prossimo giugno, cercando il voto degli umanisti tedeschi che desiderano un membro del Parlamento Europeo che rappresenti la Germania e che chieda all’UE complicità nel genocidio, una complicità che è il più grande dono dell’Europa agli antisemiti in Europa e oltre.

Saluto tutti voi e suggerisco di non dimenticare mai che nessuno di noi è libero se uno di noi è in catene.

DISCORSO DEL DR. GHASSAN ABU SITTAHALLA SUA NOMINA DI RECTOR DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW

Dr. Ghassan Abu-Sittah during his address at the University of Glasgow following his landslide victory as Rector with 80% of the vote, April 11, 2024. (Photo: The University of Glasgow)

L’11 aprile, il dottor Ghassan Abu-Sittah è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione schiacciante con l’80% dei voti.

Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del Dr. Abu-Sittah.

“Ogni generazione deve scoprire la sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati gli arti.
Hanno votato per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e 12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

All’inizio del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale globale sta esaminando la gestione delle popolazioni in eccesso.
Si sono schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da cecchino – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.

Quindi, in realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata ceduta da uno dei precedenti rettori dell’Università di Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dell’Università di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920, mio nonno Sheikh Hussain costruì una scuola con i suoi soldi nel piccolo villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì ha gettato le basi per una relazione che ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio 1nonno furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.

L’anno dopo la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti della sua generazione, si è trasferito nel Golfo per aiutare a costruire il sistema sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.
E fu così che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone al freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come viene modellata la vita delle persone e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel 1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto il genocidio svolgersi.

Tutto quello che sapevo sulle guerre era paragonato a niente di quello che vedevo. Era la differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza, metà dei quali erano bambini. Dopo il mio coming out, gli studenti dell’Università di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come rettore. Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.

Che cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative, sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo. 400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori e presidi e due rettori di università.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto dell’iceberg è costituito da un asse di genocidio. Questo asse del genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari con il paracadute.
Ho anche scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.

  1. I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i quali i bambini palestinesi rimangono insopportabili. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla barbarie di Israele.
  2. Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel prendersi cura del proprio avanzamento personale”.
  3. I terzi sono gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera sull’apatia e non può esistere senza di essa”

Nell’aprile del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e devastare la natura.

Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.
Allora, qual è il nostro piano, questo “selvaggio” e i suoi complici?

Faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.
Il denaro del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.
Ci batteremo per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.
Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.
Combatteremo con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione del popolo palestinese.

Solo questa settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista antisionista ebreo, per antisemitismo.

Durante il volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complicato conta di più”.

90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?” Bene, la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro mondo per cui lottare.

È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari di domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid, sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.
Uno degli scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia famiglia possiamo piangere per i nostri cari.

Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla.

Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish, “Alla nostra terra, ed è un premio di guerra, la libertà di morire per il desiderio e l’incendio e la nostra terra, nella sua notte insanguinata, è un gioiello che brilla per il lontano sul lontano e illumina ciò che è al di fuori di esso…

Quanto a noi, dentro, soffochiamo di più!” E così voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby Sands, “La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

FONTE: https://mondoweiss.net/2024/04/dr-ghassan-abu-sittah-tomorrow-is-a-palestinian-day/

La lunga notte della Repubblica

di Domenico Gallo

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006.

La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni.

Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017).

Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”

(Intervento al convegno del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che si è tenuto il 23 aprile a Roma. Un estratto è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano del 24 aprile con il titolo: Una tempesta perfetta contro la Costituzione)    

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/la-lunga-notte-della-repubblica/

Annotazioni su Black Marxism, con uno o due occhi sulla Sardegna

di Enrico Lobina

Avvertenza

Non ho una conoscenza organica e completa degli studi postcoloniali. Ritengo molto utile conoscerli e studiarli perché ci permettono di fare passi in avanti rispetto al “marxismo bianco”, che ha ancora di più ristretto la capacità di lettura della società di Marx ed Engels. La società ha bisogno di chiavi di lettura, e gli studi postcoloniali lo sono. Anche perché poi, noi, il mondo lo vogliamo cambiare, lo vogliamo più giusto rispetto ad oggi.

“Black marxism – genealogia della tradizione radicale nera” è un libro uscito in lingua inglese nel 1983, e pubblicato per la prima volta in lingua italiana nel 2023, dalla casa editrice Edizioni Alegre. L’autore è Cedric J. Robinson, docente universitario statunitense, e punto di riferimento dei “black studies”. Robinson è venuto a mancare nel 2016.

La traduzione del libro è di Emanuele Gianmarco, e la prefazione e postfazione sono di Miguel Mellino, il quale in questi decenni molto si è prodigato per popolarizzare gli studi postcoloniali in Italia.

Anche perché, proprio in Italia, per ragioni varie, gli studi postcoloniali non hanno suscitato l’interesse, accademico e non solo, registrato in altri paesi dell’Europa occidentale[1]. Rispetto ad un tema che nel libro viene trattato (il sistema schiavistico delle repubbliche marinare), per esempio, Mellino scrive: “non può non colpire, infatti, l’assenza in Italia, diversamente che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, di una ricerca storica sul proprio coinvolgimento nella genesi e nello sviluppo del sistema schiavistico globale moderno. Difficile non interpretare oggi una simile assenza o rimozione, sulla traccia del lavoro di Gloria Wekker, come parte di una tradizionale innocenza bianca italiana”[2].

Il libro, di circa 700 pagine, reinterpreta la storia dell’Europa e degli Stati Uniti, ed in definitiva del mondo non asiatico, alla luce di elementi colpevolmente dimenticati, secondo l’autore, dal pensiero marxista fino a quel momento egemone.

Robinson struttura il libro in parti diverse. Una prima parte è dedicata alla nascita ed alle vicissitudini del radicalismo europeo, al cui interno colloca sicuramente il marxismo, ma anche il nazionalismo.

Già in questa prima parte appare un concetto fondamentale, che sarà una pietra miliare dell’analisi sociale, ancora oggi estremamente utile, per il quale rimarrà famoso probabilmente per sempre: il capitalismo razziale.

Prima di affrontare questo concetto, soffermiamoci su quello di razzialismo. Il razzialismo è una delle caratteristiche più profonde dell’ordinamento della società europea. Non è legato al colore della pelle, in quanto è stato rivolto a tanti popoli che si è inteso dominare e sfruttare, già a partire dal Medioevo. Determinate caste o classi hanno sfruttato ed espropriato i popoli più disparati in nome di una superiorità. Uno degli esempi più conosciuti è quello del popolo irlandese, ma ci potremmo soffermare su tanti altri contesti. Per Robinson:

“Ci sono almeno quattro momenti che dobbiamo tenere a mente nella storia del razzialismo europeo; per due di questi le origini vanno ricercate nella dialettica dello sviluppo europeo, per gli altri due no:

  1. L’ordinamento razziale della società europea a partire dal suo periodo formativo, che si estende nelle epoche medievali e feudali sotto forma di ‘sangue’, credenze e leggende razziali;
  2. La dominazione islamica (ovvero araba, persiana, turca e africana) della civiltà mediterranea e il conseguente ritardo della vita culturale e sociale europea: il Medioevo dei cosiddetti Secoli bui;
  3. L’incorporamento dei popoli africani e asiatici e del Nuovo mondo nel sistema globale emerso dal tardo feudalesimo e col capitalismo mercantile;
  4. La dialettica del colonialismo, della schiavitù piantocratica e della resistenza dal sedicesimo secolo in avanti, e la formazione della manodopera industriale e della manodopera di riserva.

Per convenzione si tende ormai a iniziare l’analisi del razzismo nelle società occidentali con il terzo momento; ignorando interamente il primo e il secondo e facendo i conti solo in parte col quarto”[3].

La necessità di aggiungere l’aggetto “razziale” al sostantivo “capitalismo” è dato dalla sostanziale sottovalutazione, da parte del marxismo bianco, di questi aspetti. Il capitalismo si impone perché è capitalismo razziale, e la schiavitù e la razzializzazione non sono orpelli di uno sviluppo capitalistico, bensì intrinseci alle dinamiche sia di accumulazione originaria che di espansione dello stesso.

Questo concetto arriva sino ai giorni nostri, a società razzializzate in cui la natura proteiforme della società, per riprendere alcuni termini di Franz Fanon, è razzializzata al suo interno, all’interno di quella che una volta era la “metropoli” della colonia. Oggi la segmentazione razziale del lavoro si vive nella ristorazione e nell’industria meccanica dell’Europa e degli Stati Uniti, nell’agricoltura e nella pastorizia. Il colonialismo è formalmente scomparso, ma la razzializzazione è onnipresente.

Il capitalismo senza razzializzazione non sarebbe stato. Il marxismo bianco, compreso quello italiano, quello togliattiano per intenderci, ha obliterano il tema, spesso con l’obiettivo di diventare “forza nazionale”[4].

Si tratta di arricchire e completare una analisi marxista. Come scrive Angela Davis, citata da Mellino nell’introduzione, “‘il termine ‘capitalismo razziale’ […] è stato proposto dal politologo Cedric Robinson come una critica alla tradizione marxista, fondata su quella che egli chiamava la tradizione radicale nera, io credo che tale concetto possa essere anche generativo per continuare a tenere queste due tradizioni intellettuali e attiviste che si sono storicamente intrecciate in una tensione davvero produttiva. Se il nostro scopo sarà cercare di mettere in luce i diversi modi in cui il capitalismo e razzismo si sono storicamente intrecciati, dalle epoche coloniali e dalla schiavitù fino al presente […], non staremo allora operando una semplice distensione del marxismo (per dirla con Fanon), bensì continuando a sviluppare in modo critico le sue intenzioni’. Da questo punto di vista, Black Marxim, soprattutto negli scenari europei, offre notevoli spunti per una decolonizzazione tanto del maxismo occidentale quanto dell’antirazzismo bianco”[5].

Questi ragionamenti sono utili alla Sardegna? Ne sono convinto. Se è vero che è stata prestata poca attenzione al razzismo intra-europeo, è altrettanto vero che, quanto meno a partire dal 1720, è stata prestata poca attenzione al razzismo piemontese verso la Sardegna e i sardi, ritenuti essere inferiori, sostanzialmente sub-umani e, quindi, oggetto di razzializzazione.

Saltando velocemente all’oggi, il politicamente corretto impone che questi termini non si utilizzino più, e che la razzializzazione produttiva si realizzi ma non entri in un discorso pubblico, ma il tema a mio parere rimane. L’Italia ha molti problemi, ed uno è questo: una unificazione nazionale che si è costruita con una sostanziale subordinazione del sud al nord, che oggi si esplica con una emigrazione massiccia di forza lavoro, qualificata e non, per la quale si sono spesi miliardi di euro al Sud e che, successivamente, va a creare plusvalore al Nord[6]. Con tanti saluti alle varie ideologie della CGIA di Mestre e dei loro amici ed alla ideologia del “residuo fiscale”, che oggi partorisce l’autonomia differenziata.

Ma torniamo al libro.

La seconda parte del volume “Le radici del radicalismo nero” è la parte in cui l’analisi storica è più consistente, soprattutto riguardo l’Europa, e su cui sicuramente i modernisti ed i medievalisti più potranno scrivere e dire. L’obiettivo centrale di Robinson, riuscito, è dimostrare che il pensiero radicale nero ha radici, origini, autonome e non dialoganti, quanto meno per secoli, con il pensiero radicale europeo, il quale ha tra le altre cose avuto come risultato il marxismo.

Robinson, anche qua con un aggiornamento necessario, dà voce a chi voce non aveva, gli schiavi e gli africani non schiavizzati, i quali sono stati categorizzati come “negri”, per affermare il loro carattere “sub-umano”.

Robinson passa in rassegna le forme massive di resistenza alla schiavitù, di cui si hanno tracce documentaria già a partire dal seicento, e le localizza territorialmente lungo il continente americano.

Emergono novità eclatanti, quanto meno per il sottoscritto, e mi limito a riportarne una:

“Di continuo, nei rapporti, nelle memorie, nei resoconti ufficiali, nelle testimonianze dirette, nelle vicende di ciascun episodio di questa tradizione, dal sedicesimo secolo fino agli eventi riportati sui quotidiani di un mese fa, di una settimana fa, un aspetto è sempre stato presente e ricorrente: l’assenza di una violenza di massa. Gli osservatori occidentali, spesso sinceri nella loro meraviglia, hanno rimarcato più e più volte come nei moltissimi avvicendamenti fra i neri e i loro oppressori […] i neri abbiano impiegato solo saltuariamente il livello di violenza che essi stessi (gli occidentali) ritenevano adatti all’occasione. Se pensiamo che nel Nuovo mondo del diciannovesimo secolo i circa sessanta bianchi rimasti uccisi nell’insurrezione di Nat Turner abbiano comportato uno degli episodi più gravi di tutto il secolo; se pensiamo che nelle enormi sollevazioni schiavili del 1831 in Giamaica – un paese in cui 300mila schiavi sopravvivevano al dominio di 30mila bianchi – furono accertate soltanto quattordici vittime bianche, quando paragoniamo rivolta dopo rivolta le fortissime e spesso indiscriminate rappresaglie di una civilissima classe padronale (l’impiego del terrore) alla scala di violenza adottata dagli schiavi (e dai loro discendenti oggi) si ha quantomeno l’impressione che in questi popoli così brutalmente oltraggiati esista un ordine diverso e condiviso delle cose”[7].

La seconda parte è propedeutica alla terza, “Radicalismo nero e teoria marxista”, in quanto “La memoria della renitenza nera alla schiavitù e ad altre forme di oppressione, più in dettaglio, è stata metodicamente rimossa o distorta a beneficio di storiografie egemoni razzializzanti ed eurocentriche. La summa di tutto questo è stata la disumanizzazione dei neri” e “la considerazione accordata alla politica rivoluzionaria delle masse nere ha la sua fonte nel radicalismo ‘bianco’”.

Tutta la terza parte è volta, tramite l’esame di alcuni intellettuali di riferimento, a smontare quest convinzione profonda, presente nel marxismo bianco e, più in generale, nelle organizzazioni di classe del XX secolo, ed anche del XXI sui due lati dell’oceano atlantico.

Gli intellettuali esaminati sono William Edward Brughardt Du Bois, abbreviato W.E.B. Du Bois, Cyrill Lionel Robert James, abbreviato C.L.R. James, e Richard Wright.

Robinson discute anche la parabola intellettuale di professori e dirigenti rivoluzionari, che abbracciarono il marxismo e spesso terminarono per acquisire una coscienza più profonda, un pensiero radicale nero.

Robinson lungo tutto il volume, e specialmente in questa terza parte, presenta il dato di fatto che l’élite nera accettò la razzializzazione dei neri, e la usò per potersi ritagliare uno spazio sociale, o di rendita o di intermediazione[8].

Du Bois è stato un grandissimo studioso, ed ha scritto parole non emendabili sulla schiavitù:

“Nelle primissime pagine di Black Reconstruction Du Bois individua subito quale sia per lui la contraddizione fondamentale di tutta la storia americana, quella che avrebbe sovvertito l’ideologia fondante del paese, distorto le sue istituzioni, traumatizzato i rapporti sociali e la formazione delle classi, fino a disorientarne, nel ventesimo secolo, anche i ribelli e rivoluzionari:

sin dal giorno della sua nascita l’anomalia della schiavitù ha infettato una nazione che affermava l’uguaglianza fra tutti gli uomini e ambiva a fondare ogni suo potere di governo sul consenso dei governati. In mezzo a questo coro di proclami vivevano più di mezzo milione di schiavi neri, quasi un quinto di tutti gli abitanti della giovane nazione.

È stato il lavoratore nero, pietra angolare del nuovo sistema economico e del mondo moderno, a portare la guerra civile nell’America del diciannovesimo secolo. Era lui la causa sottintesa, a prescindere da qualsiasi tentativo di individuare nel potere nazionale e in quello dell’Unione le radici del conflitto”[9].

Attraverso le figure dei tre intellettuali citati si esamina anche la storia del rapporto tra il comunismo ortodosso statunitense, ed il Comintern, e la questione nera, o negra, come scriveva allora proprio il Comintern.

Secondo Robinson, “Dopo il 1922, la tutela e la formazione dei quadri neri in Unione Sovietica vennero prese piuttosto seriamente”.

A fine 1928 la “questione negra americana” venne inserita nel rapporto congressuale dal titolo “tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e nelle semi-colonie”. Insomma, il comunismo “ufficiali”, si accetti questa definizione per semplificazione, si accorse della questione negra e la affrontò seriamente.

Ma non bastò. La Terza Internazionale, nel frattempo ideologicamente, politicamente ed organizzativamente egmonizzata dallo stalinismo, non compì quegli sforzi teorici e non ebbe la necessaria dose di coraggio che sarebbe stata necessaria per affrontare, per esempio, quanto scriveva C.L.R. James[10] riguardo Haiti. Nelle parole di Robinson

“Il capitalismo aveva prodotto la sua negazione storica e sociale in entrambi i due poli della sua espropriazione: l’accumulazione capitalistica aveva prodotto il proletariato nel centro manifatturiero; l’accumulazione originaria aveva posto le basi sociali per le masse rivoluzionarie della periferia. Ma ciò che distingueva le formazioni di queste due classi rivoluzionarie era la fonte dei loro sviluppi ideologici e culturali. Mentre il proletariato europeo si era formato attraverso le idee della borghesia  […] ad Haiti e presumibilmente altrove, fra le popolazioni schiave, gli africani avevano costruito la loro propria cultura rivoluzionaria:

E comunque non c’è bisogno di istruzione e di incoraggiamento per coltivare sogni di libertà. Nei riti notturni Voodoo, il loro culto africano, gli schiavi danzavano solitamente al ritmo del canto preferito: […]

Giuriamo di distruggere i bianchi e tutto ciò che posseggono; moriremo piuttosto che infrangere questo voto […]

Siamo davanti a qualcosa di lontanissimo dal modo in cui Marx ed Engels avevano concepito la forza trasformativa e razionalizzante della borghesia. Implicava (e James non se ne accorse) che la cultura, il pensiero e l’ideologia borghese fossero irrilevanti per lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria fra i neri e gli altri popoli del Terzo mondo. Significava rompere con la catena evoluzionistica implicita nel materialismo storico e nella sua dialettica chiusa”[11].

Il lavoro di Robinson, letto a 40 anni dalla sua pubblicazione, per un pubblico italiano oggettivamente lontano da quelle realtà e da quei dibattiti, è importante. Si destruttura la storiografia americana e occidentale. Si pone a critica la tradizione intellettuale socialista ed il marxismo, organizzato e non.

Il movimento radicale nero ha ricreato, con l’impatto con la schiavitù ed il dominio razziale, una chimica collettiva, e personale, che è diventato un movimento sociale (vedi i recenti movimenti Black lives Matter), i quali non affondano le loro radici nel radicalismo europeo.

La categoria di capitalismo razziale resta utilissima, innanzitutto in Europa, sia per il passato che per il presente: “Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale”[12].

Esiste, in altri termini, un vincolo strutturale tra capitalismo e razzismo, che per esempio l’antirazzismo borghese europeo, che poi è quello praticato dalle cosiddette sinistre, non vede.

Ciò non toglie che “Black marxism”, che è un libro del 1983, non vada aggiornato, soprattutto nelle sue analisi storiche, e non sono io in grado di farlo, riguardo ad una messe enorme di studi che hanno approfondito ed introdotto novità riguardo ad una miriade di fenomeni storici analizzati dalla studioso.

Per concludere sul libro ““Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale” e “la questione al cuore del testo: ciò che manca nel marxismo storico, si potrebbe dire, è un’interrogazione più radicale delle origini della civiltà occidentale, così come della sua appartenenza culturale, come movimento teorico-politico, al campo della filosofie europea”.[13]

Postilla – E l’Asia?

L’Asia è completamente assente dal libro di Robinson. È comprensibile. India, Cina, Viet Nam e Giappone, e l’insieme del continente (Russia esclusa) hanno vissuto tra settecento e novecento parabole coloniali diverse rispetto al capitalismo razziale dell’Africa e soprattutto delle Americhe. Non che a quei paesi non si possa adattare il concetto di capitalismo razziale, o che non siano paesi razzializzati, in modi completamente diversi rispetto a quanto possiamo immaginare[14].

La risposta durante il novecento, e questa forse è la ragione del silenzio di Robinson, il quale alla fine aveva comunque un tema ben definito da affrontare, del comunismo asiatico è stata nei fatti diversa rispetto a quella del comunismo ortodosso. In Cina e Viet Nam, infatti, da una parte si aveva una conformazione sociale molto diversa rispetto al capitalismo razzializzato nordamericano ed europeo, perché si aveva un regime coloniale molto duro e con un consenso largo, seppur passivo, tra le élite. Dall’altra, il comunismo cinese e vietnamita è riuscito a far sposare, convivere, e poi far vincere, le loro rispettive “tradizioni radicali” autoctone, con una elaborazione marxista originale, anch’essa autoctona. Da qua la loro vittoria e, probabilmente, la capacità di sopravvivere, insieme al Kerala ed altre realtà, alla caduta del Muro di Berlino



[1] E forse questa è anche una delle ragioni per cui, come da ultimo ha scritto Salvatore Cannavò su Jacobin, “La seconda repubblica si è mangiata la sinistra”. https://jacobinitalia.it/la-seconda-repubblica-si-e-mangiata-la-sinistra/

[2] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 772

[3] Idem, p. 168-169

[4] Per esempio Togliatti ed il PCI decisero di porre in secondo piano, e di non fare emergere come grande questione politica generale, i temi posti sia dall’occupazione delle terre a fine anni quaranta e durante gli anni cinquanta, sia le battaglie contro la emigrazione che, per esempio, vide in Calabria protagonista un gigante del comunismo italiano novecentesco italiano come Paolo Cinanni. Si preferì calcare la mano sul “vento del Nord”, e sostanzialmente non contrastare adeguatamente le emigrazioni di massa dei contadini, mezzadri e semi-proletari del sud Italia, i quali andarono a costituire un segmento lavorativo, parzialmente razzializzato, il quale costituì un serbatoio di manodopera fondamentale per il “miracolo economico italiano”. I “margini” non divennero centrali nell’intervento politico del PCI. Di Paolo Cinanni si veda “Che cos’è l’emigrazione – scritti di Paolo Cinanni”, edito dalla FILEF nel 2016, scaricabile al link https://filef.info/index.php/2017/07/04/che-cose-lemigrazione-scritti-di-paolo-cinanni-e-ora-scaricabile-on-line/

[5] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 18

[6] Sulla emigrazione giovanile qualificata sarda, con qualche riferimento ai costi dell’emigrazione dal sud Italia, cfr. http://www.enricolobina.org/wp/2018/02/04/emigrazione-giovanile-qualificata-in-sardegna-lo-studio/

[7] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 400

[8] Non è successa la stesa cosa per i sardi? La cosiddetta sinistra politica e sindacale sarda, e gli stessi Riformatori Sardi, non sono o aspirano ad essere una élite di mediazione, una membrana che media gli interessi capitalistici italiani per renderli digeribili ai sardi, al contrario della destra, la quale è molto più diretta nella gestione del potere?

Chiaramente questo tema andrebbe approfondito con molta attenzione, al di là dei riferimenti contemporanei. Varrebbe la pena utilizzare la lente di Robinson per discutere della razzializzazione, per esempio, nel settore delle miniere. Consiglio l’articolo di Andria Pili “Capitalismo globale e ordine bianco” rintracciabile qui: https://www.filosofiadelogu.eu/2022/capitalismo-globale-e-ordine-bianco-di-andria-pili/ e, più in generale, tutta l’elaborazione di Filosofia de Logu, https://www.filosofiadelogu.eu/.

[9] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 459.

[10] C.L.R. James è l’autore del libro “I giacobini neri”.

[11] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 614-615.

[12] Idem, p. 722

[13] Idem, pp. 733-735

[14] Chi ha studiato un po’ la Cina sa, anche senza aver studiato il cinese, che il termine straniero in cinese, “lao wai”, è un termine dispregiativo, l’equivalente di “barbaro straniero”.

FONTE: http://www.enricolobina.org/situ/annotazioni-su-black-marxism-con-uno-o-due-occhi-sulla-sardegna/

Gli Usa e il “metodo Giacarta”: il massacro delle popolazioni come politica estera

di Piero Bevilacqua

Chi legge il libro di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta, La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (Einaudi, 2021) ne uscirà con una visione rovesciata della storia mondiale dopo il 1945, e con l’animo sconvolto. È successo anche a me, storico dell’età contemporanea, e testimone del mio tempo, a cui tanti fatti e vicende qui raccontate erano noti. L’autore è un prestigioso giornalista americano, che è stato corrispondente del Washington Post, del Los Angeles Times, del Financial Times, ha scritto per il New York Times e tanti altri giornali americani e inglesi. Già questa appartenenza al giornalismo USA, per quel che racconta di gravissimo in danno dei governi del proprio paese, costituisce una prima garanzia di imparzialità e obiettività. D’altra parte non sarebbe la prima volta. Quello dei giornalisti americani che scavano nelle carte segrete e denunciano le malefatte dei loro governanti è un fenomeno non raro, che fa onore a quei professionisti. È sintomatico dell’onestà di fondo dell’animo e della cultura antropologica di gran parte del popolo americano, comunque ormai ampiamente manipolati. È così clamorosa la contraddizione con gli ideali democratici della loro formazione, che non pochi giornalisti, allorché scoprono azioni omicide segrete del loro Stato, sono spinti a una ribellione morale che li porta a intraprendere vaste indagini e a scrivere libri come questi.

Ma l’autorevolezza del Metodo Giacarta si fonda sullo scrupolo scientifico di Bevins, sulla vastità e rilevanza documentaria delle sue fonti, che sono carte desecretate degli archivi americani e di vari paesi del mondo, pubblicazioni di altri studiosi, registrazioni dirette di riunioni segrete, telegrammi, testimonianze rese dai protagonisti e soprattutto dai sopravvissuti ai massacri ecc. Grazie a questi materiali l’autore ci fa entrare spesso direttamente nel tabernacolo del potere americano, facendoci assistere a conversazioni inquietanti, come quella del 1963, in cui John Kennedy ordina agli uomini della sua amministrazione, che lo informano sulla condotta non gradita del presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem: «fatelo fuori». «Diem venne rapito insieme a suo fratello. I due vennero uccisi a colpi i pistola e a pugnalate nel retro di un furgone blindato». E non meno sconcertanti sono le informazioni che si ricevono su personaggi ai quali, ad esempio, è andata per decenni la nostra simpatia umana e politica. Non si può rimanere indifferenti quando si apprende che dopo il fallito tentativo USA di invadere Cuba alla Baia dei Porci, nel 1961, Robert Kennedy «suggerì di far esplodere il consolato americano per giustificare l’invasione».

Ma in che cosa consiste il rovesciamento della storia ufficiale, da tutti accettata, degli ultimi 70-80 anni di storia mondiale? In breve, a partire dal dopoguerra, gli USA mettono in atto una strategia sempre più perfezionata per controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi che si stavano liberando del colonialismo della Gran Bretagna, della Francia e dell’Olanda. Giova ricordare che in quei paesi, quasi ovunque, si affermano in quegli anni forze politiche nazionaliste che tentano di recuperare e gestire le proprie risorse, con processi di nazionalizzazione, ad esempio delle compagnie petrolifere (come fa in Indonesia il presidente Sukarno), delle miniere, delle piantagioni ecc. A queste riforme di solito si accompagnano programmi di alfabetizzazione della popolazione, costruzione di scuole pubbliche, distribuzione delle terre ai contadini, riforme agrarie. Tali strategie riformatrici di governi che intendono affacciarsi allo sviluppo economico dopo la guerra, seguono una politica equidistante tra Washington e Mosca, anche se talora sono appoggiati dai partiti comunisti nazionali. Ma essi sono guardati con sospetto e ostilità dagli USA che tramano segretamente per il loro rovesciamento. Talora è proprio la scoperta di tale ostilità che porta i dirigenti nazionalisti a guardare con favore e a chiedere appoggio a Mosca o a diventare comunisti, come accadde a Fidel Castro, dopo la fallita invasione americana di Cuba nel 1961.

Spesso a dare il via ai progetti dei colpi di stato sono le pressioni sulle amministrazioni americane delle compagnie petrolifere, o dei grandi proprietari terrieri, che vedono anche semplicemente contrastato il loro vecchio modello di sfruttamento coloniale delle risorse locali. Nel 1954 in Guatemala è il caso della United Fruit Company, sospettata di frodare il fisco. La pretesa del Governo guatemalteco di far rispettare gli obblighi fiscali alla ditta monopolista costò cara al Guatemala. Dopo due falliti colpi di Stato, «la Cia piazzò casse di fucili con l’effige della falce e del martello in modo che fossero “scoperti” e costituissero la prova della infiltrazione dei sovietici». Da li cominciò l’ingerenza armata degli USA, con varie vicende e campagne di terrorismo psicologico, di diffamazione dei comunisti come agenti di Mosca, a cui qui non possiamo neppure accennare. Il colpo di Stato si concluse con l’insediamento di Castillo Armas, il favorito degli USA. «In Guatemala tornò la schiavitù. Nei primi mesi del suo governo, Castillo Armas istituì il Giorno dell’anticomunismo e catturò e uccise dai tre ai cinquemila sostenitori di Arbenz» (il presidente deposto, che aveva avviato la riforma agraria).

Qui davvero è impossibile dar conto delle trame ingerenze messe in atto da tutte le amministrazioni USA degli ultimi 70 anni per controllare i paesi che uscivano dalle antiche colonizzazioni europee, spesso con l’aiuto del Regno Unito, maestro secolare di dominio coloniale, che in tanti casi rese onore alla sua tradizione sanguinaria. Lo fecero spesso con colpi di Stato poche volte falliti, ma spesso ripetuti fino al finale cambio di regime: in Iran (1953), Guatemala (1954), Indonesia (1958 e 1965), Cuba (1961), Vietnam del Sud (1963), Brasile (1964), Ghana (1966), Cile (1973) e un numero incalcolabile di sabotaggi, uccisioni, condizionamenti delle politiche del vari governi. Senza mettere nel conto la guerra contro il Vietnam, scatenata con il falso pretesto dell’“incidente del Tonchino”, che provocò 3 milioni di morti, oltre ai vasti bombardamenti con gli elicotteri dei villaggi contadini «in Cambogia e Laos [dove] ne morirono molti di più». Ricordo che dopo il colpo di stato in Brasile non ci furono più elezioni per 25 anni e la violenta dittatura di Suharto, in Indonesia, durò 32 anni.

Gli strumenti di queste politiche erano – come scrive lapidariamente Bevins – «esercito e finanza». I capi di tanti eserciti nazionali si erano formati spesso nelle scuole militari degli USA, e comunque venivano corrotti da ingenti finanziamenti americani, donazioni e vendite di armi, manovrati dalla Cia. In tante realtà si creò una scissione tra i governi indipendenti, che spesso venivano economicamente strozzati dai sabotaggi commerciali e finanziari, e i sistematici finanziamenti segreti forniti agli eserciti. Ma il cemento ideologico più determinante, e forse in assoluto la leva più potente che rese possibile l’intero progetto, fu la propaganda anticomunista, con tutto il repertorio di orrori fasulli di cui venivano ritenute responsabili le forze che vi si ispiravano. La minaccia del comunismo, oltre ad essere una formidabile arma di controllo sociale interno dei gruppi dirigenti americani, fu il fondamento psicologico e culturale, potremmo definirlo egemonico, su cui i vari golpisti riuscirono a coinvolgere nei massacri anche pezzi di popolazione civile. Uno strumento di persuasione di massa reso possibile dal fatto che in quasi tutti i paesi “attenzionati” dagli USA, la stampa era in mano ai grandi proprietari terrieri, o alle compagnie petrolifere, ostili alle riforme agrarie e alle nazionalizzazioni, in grado di imbastire campagne di falsificazione su larga scala, fondate su racconti di storie inventate, riprese dalle radio, talora trasformati in film e documentari.

Che cosa è il Metodo Giacarta? In breve. L’Indonesia, il quarto paese più popoloso del pianeta, che ospitava il terzo più grande Partito comunista del mondo (PKI), sostenuto da milioni di militanti, non poteva restare indipendente. Dopo vari tentativi falliti, uno riuscì e fu il più sanguinoso dei piani messi in atto dagli USA. Il pretesto definitivo fu un oscuro episodio ancora oggi non chiarito. Alcuni militari sequestrarono cinque generali dell’esercito indonesiano che poi furono trovati uccisi. Fu lanciata allora una campagna su larga scala di terrore psicologico, attraverso la stampa, la radio, i comizi. Venne sparsa la voce che i cinque uomini fossero stati oggetto di sevizie, mutilati dei genitali e poi massacrati, mentre alcune donne danzavano nude intorno a loro, svolgendo riti satanici. Nel 1987, quando tutto era ormai dimenticato, venne alla luce che la storia era un falso, i generali, secondo l’autopsia fatta eseguire allora da Suharto, il golpista a servizio degli USA che estromise il presidente Sukarno, aveva rivelato che erano tutti morti per colpi di arma da fuoco, eccetto uno, ucciso da una lama di baionetta, probabilmente durante il sequestro nel suo appartamento. Quel che seguì a Giacarta e in tutte le isole dell’arcipelago, dopo quella provocazione e quella campagna di caccia ai terroristi comunisti, è difficile da immaginare e da raccontare: «Le persone non venivano ammazzate nelle strade, non venivano giustiziate ufficialmente, le famiglie non erano sicure che fossero morte: venivano arrestate e poi scomparivano nel cuore della notte». Solo giorni dopo, come si vide ad esempio nel fiume Serayu, «gli omicidi di massa divennero evidenti: i corpi ammassati erano così tanti da ostacolare il corso del fiume e il tanfo che emanavano era orribile». In proporzione agli abitanti, l’isola che che subì la quota maggiore di uccisioni fu Bali, il 5% della popolazione, oltre 80 mila persone finite a colpi di machete. Non andò bene alle indonesiane: «Circa il 15% delle persone prese prigioniere furono donne. Vennero sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere», ad alcune «tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque». Alla fine i morti complessivi, secondo calcoli necessariamente sommari, si aggirarono tra 500 mila e 1 milione di persone, mentre un altro milione venne rinchiuso nei campi di concentramento. Il PKi, cui non poté essere addebitata nessuna sommossa o violenza, venne sterminato. A compiere i massacri furono i militari indonesiani, le squadre armate dei proprietari terrieri, bande di persone comuni assoldate o sobillate dalla propaganda. «Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi». Più tardi il Tribunale internazionale del Popolo per il 1965 convocato all’Aja nel 2014, dichiarò i militari indonesiani colpevoli di crimini contro l’umanità, e stabili che il massacro era stato realizzato allo scopo di distruggere il Partito comunista e «sostenere un regime dittatoriale violento» e che esso venne realizzato con il supporto degli USA, del Regno Unito e dell’Australia. Dopo il 1965 il Metodo Giacarta venne teorizzato da molti dirigenti filoamericani dell’Asia e dell’America Latina e usato anche come parola d’ordine con cui venivano terrorizzati i dirigenti comunisti e i politici nazionalisti che proponevano riforme e nazionalizzazioni. Venivano minacciati facendo circolare la voce: «Giacarta sta arrivando» .

Alcune considerazioni per concludere. Noi conosciamo da tempo molte delle operazioni, spesso ben documentate, condotte dagli USA in giro per il mondo almeno a partire dal dopoguerra. Nel voluminoso William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti (Fazi, 2003, ed. orig. Killing Hope. U.S. Military and CIA Interventions Sine World War II, 2003, che meglio rispecchia contenuto del volume e intenzioni dell’autore), se ne trova, da oltre 20 anni, un repertorio vastissimo e di impeccabile serietà storiografica. Ma il libro di Bevins ha qualcosa in più. Esso non mostra soltanto come gli USA abbiano condotto una politica estera fondata sulla violazione sistematica del diritto internazionale, spesso calpestando il diritto alla vita di milioni di persone. Non è solo questo, che sarebbe sufficiente per illuminare di luce meridiana le ragioni dell’attuale “disordine” mondiale. Il Metodo Giacarta mostra che cosa ha prodotto quella guerra segreta, che ha impedito l’emancipazione dei popoli usciti dal dominio coloniale e la nascita di un terzo polo mondiale dei paesi cosiddetti “non allineati”: cioè equidistanti rispetto a Washington e Mosca. Il grande progetto di mutua cooperazione avviato con la Conferenza di Bandung nel 1955, di cui Sukarno era stato uno dei protagonisti, si dissolse. I paesi del Sud del mondo vennero ricacciati nella loro subalternità che in tanti casi si è protratta fino quasi ai nostri giorni.

Perciò Bevins può scrivere, alludendo ai colpi di stato in Brasile e Indonesia: «La cosa più sconvolgente, e la più importante per questo libro, è che i due eventi in molti altri paesi portarono alla creazione di una mostruosa rete internazionale volta allo sterminio di civili – vale a dire al loro sistematico omicidio di massa – e questo sistema ebbe un ruolo fondamentale nel costruire il mondo in cui viviamo oggi». È, infatti, il nostro tempo che questo libro rende comprensibile. Alla luce di quanto accaduto, le guerre intraprese dagli USA, da soli o con la Nato, ispirate alla retorica delle lotta al terrore o all’esportazione della democrazia, in Jugoslavia, Afganistan, Iraq, Libia, Siria e ora in Ucraina, non sono una svolta aggressiva della politica estera USA nel nuovo millennio, ma la continuazione coerente del perseguimento del proprio dominio globale, da mantenere con ogni possibile mezzo.

FONTE: https://volerelaluna.it/mondo/2024/04/22/gli-usa-e-il-metodo-giacarta-il-massacro-delle-popolazioni-come-politica-estera/

LE RICETTE FALLITE DEI 7 NANI E I DUE PESI SU IRAN E ISRAELE

di Elena Basile

Sembra un film distopico. I leader dei Sette Paesi, che un tempo erano i più sviluppati del mondo e oggi costituiscono una minoranza arroccata alla propria potenza militare e in declino economico, diffondono sui media la loro fotografia in una giornata di sole con lo sfondo dei Faraglioni di Capri. E noi abbiamo l’impressione che il genere umano sia ostaggio di politiche deliranti, senza veri scopi strategici, terribilmente dannose per i cittadini occidentali in quanto causano povertà, disparità sociale, recessione, distruzione dell’industria e della transizione verde, negazione dello stato sociale, guerra e rischio di conflitto nucleare.

Si sono riuniti per confermare la strategia che per due anni è risultata perdente: armare l’Ucraina per condurre la Russia a una “pace giusta”. Giusta per chi?
Per Zelensky o per le popolazioni russofone? Giusta per noi occidentali o per i russi? Che significa pace giusta? La pace è stata storicamente il risultato della diplomazia che ha dovuto necessariamente tenere in conto gli opposti interessi in gioco e le forze in campo. Era giusto considerare la Russia il perdente della Guerra fredda?
No, era una constatazione di fatto. Dal 1989 al 2007 Mosca ha dovuto ingoiare le prepotenze occidentali, inclusi i bombardamenti su Belgrado e due allargamenti della Nato. Poi ha rialzato la testa, notando che il mondo cominciava a cambiare e gli emergenti si organizzavano intorno alla Cina. Si è opposta al colpo di Stato ucraino di piazza Maidan e ha conservato le basi di Sebastopoli sul mar Nero annettendo la Crimea. Erano giusti il colpo di Stato a Kiev e la reazione russa di annettere la Crimea senza spargimenti di sangue?

La giustizia nelle relazioni internazionali è una categoria discutibile. Il diritto internazionale dal 1989 in poi, per non andare troppo indietro negli anni, è stato violato ripetutamente dagli Stati Uniti, da Israele e dall’Occidente con le guerre “umanitarie” (Bel grado, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). Come ricorda Piergiorgio Odifreddi, dal 1991 si contano 250 interventi militari Usa al di fuori dei loro confini. In tutto il mondo abbiamo 800 basi militari Usa (la Cina ne ha una sola a Gibuti). In Italia ve ne sono 35, anche nucleari. Come possono i politici delle democrazie europee balbettare parole senza senso che poco hanno a che vedere con la storia e con la realtà? Si creano categorie morali funzionali ai nostri interessi. L’opinione pubblica introietta luoghi comuni che distorcono le vere dinamiche internazionali.

Al G7, su proposta di Ursula von der Leyen – presidente della Commissione che dovrebbe incarnare il pilastro comunitario, la base dei sogni dei federalisti europei – si avallano nuove sanzioni all’Iran, colpevole dopo due attacchi terroristici con centinaia di morti e la violazione israeliana della loro rappresentanza diplomatica, di reagire simbolicamente, concordemente con la Cia, senza provocare morti. I difensori della democrazia liberale e dei diritti umani non impongono alcuna sanzione a Israele che, oltre a violare il diritto internazionale e umanitario, a rendersi colpevole di crimini di guerra a Gaza e in Cisgiordania, con l’attentato all’ambasciata iraniana di Damasco, ha confermato di avere un governo terrorista. Il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, artefice dell’attacco alla Libia, ha avuto la sfrontatezza di affermare che la risposta senza danni e morti di Teheran era sproporzionata rispetto all’attacco all’ambasciata iraniana in Siria con numerose vittime. Mai la classe dirigente è sembrata così lontana dal senso comune, dalla morale comune, come oggi.

Due italiani, Mario Draghi ed Enrico Letta – e dovremmo pure esserne fieri – hanno stilato vecchie proposte in nuovi documenti sul mercato comune, sugli investimenti nei beni comuni, sul debito comune, sulla politica industriale europea, sulla crescita di ricerca e sviluppo, sull’Europa della difesa. Un parziale scimmiottamento di quanto Mario Monti aveva già scritto e i “riformisti” dell’Europa hanno ripetuto per anni senza che nulla mutasse. Ma oggi la dissonanza è più grave. Essi hanno sbagliato previsioni sulla fine della guerra in Ucraina, sono complici del massacro dei diciottenni ucraini e della crisi economica europea, della fine di una voce in grado di proteggere le finalità europee in ambito Nato. A riprova che non esiste la responsabilità per le proprie azioni e i propri sbagli, ritornano sul palco per venderci il sogno di un’Europa unita, indipendente, in grado di investire nei beni comuni, nella sua industria, nella sua ricerca, nella sua difesa.
Già: la difesa in un quadro di autonomia strategica dagli Usa o come braccio armato degli interessi di oltreoceano? Domande ignorate da Tajani e dagli altri esponenti di una Ue che ha sdoganato il mostro fascio-nazista affinché, una volta al potere, si allinei ai voleri delle oligarchie.

FONTE: Il Fatto Quotidiano, 20 Aprile 2024

Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.
C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota aut o m at i c o ” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata .
Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen.

La concorrenza fra le due persone è finta. A chi legga il discorso dell’ex presidente del Consiglio, tutto verrà in mente tranne che un pensatore e un protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione , dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.
Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa“. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).
Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 20 Aprile 2024

L’aziendalizzazione delle politiche di gestione del Servizio Idrico Integrato: il caso del Basso Valdarno

Il caso del Basso Valdarno dove Acque Spa, società a capitale pubblico-privato, gestisce il servizio con logiche manageriali tese alla massimizzazione dei profitti

di Andrea Vento

Il progressivo affermarsi delle politiche neoliberiste durante gli anni ’90 del XX secolo ha comportato per il nostro Paese, non solo una massiccia campagna di privatizzazione di aziende pubbliche strategiche (energetiche, bancarie, siderurgiche, meccaniche, telefoniche ecc..) ma ha anche determinato un graduale passaggio della fornitura di fondamentali servizi per la cittadinanza come rifiuti e acqua da una gestione pubblica al servizio della collettività, ad una caratterizzata da criteri manageriali con finalità di profitto. Questa profonda trasformazione ha praticamente accomunato, , le tre tipologie di società che in quegli anni avevano assunto la gestione del servizio idrico integrato nei neo costituiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in tutto il territorio nazionale1.

La gestione del servizio riguarda le infrastrutture: la proprietà dei beni costituenti la dotazione del Servizio Idrico appartiene allo Stato, alle Province e ai Comuni. Il gestore ne dispone per concessione gratuita e ne usufruisce del possesso.

Il comune può gestire il Servizio Idrico direttamente (in economia) oppure decidere di affidarlo, secondo quanto previsto dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi del settembre 2014, per cui il Servizio idrico Integrato può essere assegnato in gestione attraverso:

• concessione a soggetti privati che abbiano vinto una gara di appalto;

• affidamento a società mista pubblico privato (con progressiva imposizione del gestore unico per ogni ATO, scelto tra coloro che già gestiscono il servizio del 25% della popolazione (art. 7 comma 1 lettera d e lettera i dello Sblocca Italia) vale a dire le grandi aziende e le multiutilities, anche appositamente create;

• affidamento a società per azioni a completo capitale pubblico partecipate dai comuni e/o da enti e società pubbliche locali;

• affidamento in house alla propria società a capitale interamente pubblico.

Ne consegue che il Servizio Idrico in Italia può essere gestito da società interamente pubbliche, da società private o da società miste pubblico/privato. La popolazione italiana nel 2018 risultava servita per:

• il 53% da società totalmente pubbliche;

• il 32% a maggioranza / controllo pubblici;

• il 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio (cosiddetta «gestione in economia»);

• il 2% da società interamente privata;

• l’1% è da società miste a maggioranza privata2.

Soprattutto al Centro Italia, e in Toscana in particolare, il modello societario prescelto per la gestione è risultato quello delle società a capitale misto pubblico-privato ma con management espresso dalla parte privata, tramite affidamento diretto della gestione da parte dell’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (AATO), l’Autorità Idrica Toscana3. Ciò, nonostante il primo referendum sul tema della acqua del giugno 2011 prevedesse, si legge sul sito del Ministero dell’Interno, “L’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali ad operatori privati”4. In sostanza lo schiacciante esito favorevole del 95%, espresso dal 55% degli aventi diritto al voto, che ha imposto il ritorno della gestione del servizio idrico integrato in mano pubblica e con criteri a beneficio della collettività è rimasto in pratica inapplicato, salvo alcune rare eccezione di amministratori locali virtuosi che hanno proceduto in tale direzione. Come nel caso della Giunta De Magistris a Napoli tramite la creazione di Acqua Bene Comune, sorta nel 2013 dalla trasformazione di ARIN, Spa totalmente partecipata dal comune di Napoli, in Azienda Speciale comunale5.

Ed appurato che il secondo quesito referendario relativo alla determinazione delle tariffe del servizio idrico integrato, anch’esso approvato con percentuali analoghe, contemplasse “L’abrogazione parziale delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, il cui importo prevede anche la remunerazione del capitale investito dal gestore”, vale a dire una rendita finanziaria garantita pari al 7% del capitale investito, benefit che non ha in pratica eguali in altri comparti, si sarebbe dovuto procedere alla sottrazione della determinazione delle tariffe dalle logiche del mercato e del profitto, a prescindere dalle tipologie di società che forniscono il servizio.

Il caso dell’Ato Toscana 2 del Basso Valdarno

Dalla nostra analisi relativa alle trasformazioni subite, dalla fine del secolo scorso, dal servizio idrico integrato (SII) del Basso Valdarno, emerge come a seguito del parziale processo di privatizzazione e soprattutto di passaggio alla gestione manageriale, siano stati introdotti profondi cambiamenti rivelatisi particolarmente penalizzanti per gli utenti. Infatti, da un servizio erogato con basse tariffe direttamente dalle amministrazioni comunali, la prima trasformazione è avvenuta con la creazione di società municipalizzate, vale adire Società per azioni controllate interamente dai Comuni. Per poi procedere al successivo passaggio in direzione della radicale trasformazione della finalità gestionali, con la creazione della società a capitale misto pubblico-privato e l’assegnazione diretta del servizio a partire dal 1 gennaio 2002, senza gara di appalto ad Acque Spa.

Acque Spa: cenni storici e composizione societaria

Acque Spa è una società a capitale misto pubblico-privato alla quale, dall’inizio del 2002, l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale ha affidato in forma esclusiva la gestione del servizio idrico integrato di 55 comuni del Basso Valdarno (ATO Toscana 2) distribuiti su 5 province, Pisa, Firenze, Pistoia, Lucca e Siena, ai quali da allora fornisce i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione ad una popolazione che attualmente ammonta a circa 800.000 persone.

La società monopolista sorse il 17 dicembre 2001 dalla concentrazione di cinque società pubbliche operanti su di un vasto territorio che dall’entroterra della Toscana settentrionale arriva fino alla costa tirrenica: Gea di Pisa, Publiservizi di Empoli (Fi), Cerbaie di Pontedera (Pi), Coad di Pescia (Pt) e Acqapur di Capannori (Lu), prevedendo l’ingresso nel capitale sociale di soggetti privati con una importante quota di minoranza. In linea con gli impegni stabiliti dalla convenzione di affidamento del servizio, Acque Spa nel 2003 ha espletato, a suo dire, una gara ad evidenza pubblica a livello europeo per la selezione di un partner privato, che si è conclusa con l’aggiudicazione del 45% del capitale sociale da parte di Abab SpA. Società, con sede a Roma in piazzale Ostiense 2, costituita appositamente in data 21 dicembre 2003 da Acea S.p.A., Ondeo Services Società Anonima di diritto francese (ora Suez Environnement S.A.), Monte dei Paschi di Siena S.p.A., SILM Società Italiana per Lavori Marittimi S.p.A., Ondeo Degremont S.p.A. (ora Degremont S.p.A.) e dal Consorzio Toscano Costruzioni C.T.C. s.c.a.r.l. e, come si apprende dalla visura camerale6, avente per “oggetto l’assunzione e la gestione della partecipazione di minoranza di Acque Spa”.

Carta 1: il territorio dell’ATO Toscana 2 del Basso Valdarno

Il capitale sociale di Abab spa, che nel 2024 ammonta ad 8 milioni di euro, dopo varie modifiche registrate negli anni, attualmente, secondo il sito ufficiale di Acque Spa7, risulta controllato da Acea Spa, Suez Italia Spa, Vianini Lavori Spa e CTC Società Cooperativa.

Senza lasciarsi fuorviare dalla poetica denominazione di Abab spa, acronimo di “Acque blu basso Valdarno”, la società ha come classificazione della propria attività economica (Ateco) “Attività delle società di partecipazione” vale a dire rappresenta una holding, una società che controlla il capitale sociale di altre imprese, ed i cui attuali soci meritano di essere brevemente inquadrati per facilitarne la comprensione delle linee strategiche aziendali.

Acea, acronimo di “Azienda comunale energia e ambiente”, è l’ex municipalizzata del comune di Roma che “nel corso del tempo è cresciuta sino a diventare una multiutility di riferimento del panorama italiano”8 con partecipazioni azionarie in molte ex aziende pubbliche locali di servizi e dal 2000 operante anche all’estero. Divenuta di fatto una multinazionale, attualmente opera nella fornitura di servizi legati ad acqua, gas, rifiuti, energia e mobilità sostenibile, e risulta la prima azienda del settore a livello italiano9.

Suez Italia Spa è la divisione italiana di Suez Environnement, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti, dietro Veolia Environnement, entrambe società a controllo francese.

In origine la società Suez era una compagnia franco-belga nata nel 1997 dalla fusione della Compagnia del Canale di Suez (Belgio) e della Lyonnaise des Eaux (Francia) che si è fusa per incorporazione con Gaz de France (energia) nel 2008, dando vita al gruppo GDF Suez, divenuto poi Engie nel 2015. Contestualmente alla fondazione di GDF Suez nel 2008, le attività di Suez nel settore idrico sono state cedute ad una nuova società che ha preso appunto denominazione di Suez Environnement, controllata al 35% da Engie

Vianini Lavori Spa è invece una società del gruppo Caltagirone fondata a Roma nel 1908, che opera nei settori dell’ingegneria civile e nell’industria dei manufatti in cemento ed ha numerose partecipazioni in aziende italiane ed estere, in vari comparti. Nonostante il suo core business sia nell’ingegneria, nell’edilizia e nelle opere infrastrutturali, ha ampliato il suo raggio di azione in altri settori ritenuti redditizi, come quello della gestione del ciclo delle acque.

Il Consorzio Toscano Cooperative – C.T.C è una società cooperativa nata a Firenze nel 1980, attiva, come da codice Ateco, nella “Costruzione di edifici residenziali e non residenziali”10, e nonostante si legga nella presentazione11 che “Il consorzio è retto e disciplinato dai principi di mutualità senza fini di speculazione privata”, continua a mantenere una proficua quota del capitale di Abab dalla sua fondazione che, in qualità di Spa che rappresenta una forma societaria che per peculiarità proprie persegue la massimizzazione dei profitti12.

La parte pubblica pur controllando il 55% del capitale di Acque Spa, ha una partecipazione suddivisa fra varie società e enti locali: Cerbaie Spa il 16,26%, Acquapur Spa il 5,04%, Gea Servizi Spa il 12,27%, il comune di Chiesina Uzzanese lo 0,31%, quello di Crespina – Lorenzana lo 0,25% e Alia Servizi Ambientali Spa il 19,31% (grafico 1). Quest’ultima, prima multiutility toscana dei servizi pubblici locali, opera nei settori ambiente, ciclo idrico integrato ed energia, ed è stata fondata il 26 gennaio 2023 dalla fusione per incorporazione da parte di Alia Servizi Ambientali Spa di tre società pubbliche della Toscana Centro-Settentrionale: Publiservizi Spa, Consiag Spa e Acqua Toscana Spa.

La nuova società multiservizi risulta al momento partecipata da 66 comuni tra l’Empolese – Val d’Elsa e le province di Firenze, Prato e Pistoia, con le quote ripartite tra i principali Comuni nella seguente modalità: Firenze (37,1%), Prato (18,1%), Pistoia (5,54%), Empoli (3,4%) mentre altri comuni toscani detengono il rimanente 35,9%. Tuttavia sin dalla sua fondazione la nuova multiutility è risultata accompagnata da un programma di apertura al capitale privato e di quotazione in borsa sul modello di Acea13, come puntualmente esposto dal suo Amministratore delegato Alberto Irace, non casualmente amministratore delegato di Acea in carica dal 2014, al termine del quale la parte privata entrerà nella società fino ad una quota massima del 49%, tramite un aumento di capitale sociale14, che non è difficile immaginare possa riguardare anche Acea stessa.

Emerge il paradosso che una multiutility a totale capitale pubblico sia affidata nella conduzione strategica all’Amministratore delegato della principale società nazionale del settore, nota per i suoi criteri di gestione all’insegna della remunerazione degli azionisti, sollevando quindi non infondate perplessità sulla compatibilità con la tutela dell’utenza e della risorsa idrica che dovrebbero essere i principi cardine dell’interesse colletivo.

Grafico 1: la composizione del capitale sociale di Acque Spa

Il management di Acque Spa

Pur controllando la parte pubblica nel suo insieme il 55% del capitale sociale di Acque Spa, la componente privata, in virtù del rappresentare il socio di maggioranza relativa col 45%, riesce ad esprimere il management dell’azienda e a dettarne le linee gestionali. Dall’ultimo rinnovo del Consiglio di amministrazione di fine 2023 è uscita infatti la riconferma ad Amministratore delegato di Fabio Trolese, manager espressione di Acea, già in carica dal 2020, mentre la parte pubblica continua a mantenere cariche prevalentemente di rappresentanza e di controllo come la Presidenza, assegnata all’ex sindaco di Pontedera (Pi) Simone Millozzi, e la vicepresidenza, attribuita ad Antonio Bertolucci, già consigliere comunale e assessore al Comune di Capannori (Lu)15 e da tempo membro del Cda della stessa azienda.

I compensi percepiti dai membri del Consiglio di amministrazioni risultano molto elevati e, in genere, superiori rispetto a quelle di società analoghe, tant’è che il Presidente riceve un compenso lordo di 72.000 euro, il Vicepresidente 26.000 euro, l’Amministratore delegato 67.000 euro e i consiglieri, tre per parte pubblica e altrettanti per quella privata, 21.000 euro ciascuno. Per un totale annuo del 2023 pari a 291.000 euro.

Per avere un termine di paragone con una società toscana che presta lo stesso servizio fra le province di Arezzo e di Siena e dalla analoga struttura a capitale misto pubblico (53,84%) – privato (46,16%), come Nuova Acque Spa, il Presidente viene remunerato con 32.536 lordi e i restanti otto Consiglieri, dei quali uno adempie al ruolo di Amministratore delegato e altro quello di Vicepresidente, solamente 4.648 euro lordi, con l’aggiunta di un gettone di presenza per ogni Consiglio d’amministrazione di 300 euro16.

Tabella 1: comparazione compensi lordi in euro del Cda di Acque Spa e di Nuova Acque Spa.

CaricheCompensi Cda Acque Spa in euroCompensi Cda Nuova Acque Spa in euro
Presidente72.00032.536
Vicepresidente26.0004.648
Amministratore delegato67.0004.648
Consiglieri (n° 6)21.0004.648
Totale compensi lordi Cda291.000101.720
Gettone di presenza riunioni CdaNon previsto300

Compensi indubbiamente eccessivi per una azienda senza particolari rischi di impresa che agisce ad affidamento diretto in regime di monopolio, fornendo un bene primario indispensabile per l’esistenza umana e del quale ne impone le condizioni tariffarie in modo unilaterale finendo per appesantire l’entità delle bollette a carico della cittadinanza.

L’impennata delle tariffe e la rimodulazione degli scaglioni di consumo

Al fine di quantificare l’impatto dell’aumento dei costi della fornitura idrica integrata sulle casse delle famiglie abbiamo effettuato uno studio sull’entità sia delle tariffe che delle fasce di consumo fissate dai 2 gestori che si sono succeduti nel corso degli ultimi 25 anni nei comuni del Basso val d’Arno. Nella tabella 1 riportiamo inizialmente le tariffe applicate, per la sola fornitura idrica, nell’anno 2001 dalla società Gea Spa, a completo controllo pubblico, e, successivamente, quelle di Acque Spa, società mista pubblico-privato, fra il 2002 e il 2013, mentre nella penultima riga troviamo gli esorbitanti aumenti percentuali intercorsi fra il 2001 e il 2013. Nell’ultima, invece, sono riportati gli incrementi registrati fra il 2011 e il 2013, vale a dire nel periodo successivo all’effettuazione dei Referendum del giugno 2011, i cui risultati disponevano, oltre al ritorno del servizio in mano pubblica, anche l’eliminazione della remunerazione del capitale investito.

Il passaggio, fra il 2001 e il 2002, della gestione dalla società pubblica Gea Spa, costituita il 15 giugno 1995 mediante trasformazione dell’allora Consorzio Azienda Servizi Ambientali Area Pisana, ad Acque Spa ha comportato in un solo anno un aumento di 3 volte della Tariffa agevolata sino ad 80 mc di consumo e di 5,5 volte della quota fissa, mentre la Tariffa base è quasi raddoppiata e l’Eccedenza 1 aumentata “solo” del 50%, con l’Eccedenza 2 che invece beneficia di una diminuzione della tariffa. Una dinamica tariffaria non solo in rapida ascesa ma anche estremamente penalizzante per le basse fasce di consumo, come i pensionati, i nuclei familiari poco numerosi e in genere chi consuma poca acqua (tab.2).

Allargando l’arco temporale del raffronto rileviamo come fra il 2001 e il 2013, ultimo anno di uniformità delle fasce di consumo, la Tariffa agevolata sia aumentata vertiginosamente del 615%, mentre le altre in misura sensibilmente minore, con la quota fissa addirittura del 1.280%. Una politica tariffaria chiaramente orientata non solo all’incremento dei profitti, con ricadute negative sull’intero panorama degli utenti ma che infierisce sulle fasce sociali più deboli come i pensionati che, consumando in genere poca acqua, hanno visto lievitare in modo insostenibile sia il costo della fornitura idrica sia quello della quota fissa che colpisce trasversalmente tutti gli utenti a prescindere dal consumo e dal reddito.

Rileviamo infine come Acque Spa e i sindaci dell’ATO 2 conniventi con tali politiche, non solo non hanno proceduto all’attuazione degli esiti dei due referendum sull’acqua del 2011, ma hanno continuato incurantemente ad aumentare le tariffe, tant’è che nei due anni successivi le varie fasce di consumo e la quota fissa sono aumentati fra l’11 e il 13%. Con buona pace della cancellazione del 7% di rendita finanziaria sul capitale investito, procedimento che poteva essere attuato anche senza il ritorno della gestione del servizio idrico totalmente in mano pubblica.

Tabella 2: tariffe della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 (residenti) fra 2001 e 2013



Tariffe in euro della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 periodo 2001-2013
PeriodoGestoreTariffa agevolata al mc (0-80)Tariffa base al mc (81-200)Tariffa I eccedenza al mc (201-300)Tariffa II eccedenza al mc (oltre 300)Quota fissa annua
2001GEA Spa0,1560,3750,6251,2512,784
2002Acque Spa0,5140,6860,9321,11915,493
2009Acque Spa0,8671,1571,5731,88826,395
2011Acque Spa0,9841,3131,7842,14129,891
2013Acque Spa1,1161,4892,0242,42838,44

Aumento 2001-2013
615,38%297,06%223,84%94,08%1.280,74%

Aumento 2011-2013
11.34%13,40%11,34%11,34%12,87%

Dal 2014 Acque Spa ha attuato una rimodulazione delle fasce di consumo con una drastica riduzione da 80 a 30 mc di quella soggetta a Tariffa agevolata, accompagnata da ulteriori aumenti generalizzati delle tariffe negli anni successivi (tab. 3), diabolico combinato disposto che ha impattato negativamente sulla quasi totalità degli utenti.

Tuttavia, restringendo la fascia di consumi a Tariffa agevolata a soli 30 mc/annui, maggiori penalizzazioni vengono subite dalle famiglie con uno o due compenti, alle quali viene applicata in prevalenza la Tariffa base. Ugualmente subiscono marcati aumenti le utenze con i consumi più frequenti, vale a dire le famiglie di 3-4 persone che consumano in media fra 100 e 200 mc annui e che passano da una tariffa di 2,429 euro/mc del 2013 a 3,613 nel 2017 (tab 3).

Il malcontento generato da una politica tariffaria di tale aggressività costringe nel 2018 Acque Spa ad innalzare la fascia di consumo a Tariffa agevolata a 55 mc.

Tabella 3: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2017



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche 1 anno 2017
Tariffe

Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 30 mc0,2260,2340,9161,376
Base da 30 a 90 mc1,7360,2340,9162,886
I eccedenza da 90 a 200 mc2,4630,2340,9163,613
II eccedenza oltre 200 mc3,4610,2340,9164,611
Quota fissa56,35

Tabella 4: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2020



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2020


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,9420,2540,9942,190
Base da 56 a 135 mc1,8850,2540,9943,133
Eccedenza oltre 135 mc3,0450,2540,9944,293
Quota fissa61,17

Tabella 5: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2023



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2023


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,6360,7901,2532,679
Base da 56 a 135 mc1,2720,7901,2533,315
Eccedenza oltre 135 mc2,9350,7901,2534,978
Quota fissa60,21

Dall’analisi della dinamica tariffaria e dai criteri di rimodulazione delle fasce di consumo, risulta quindi palese che la strategia aziendale attuata dal management di Acque Spa si ispiri alla massimizzazione del profitto, con entrambe tese a penalizzare le utenze con consumi più bassi, come i pensionati e i nuclei mono o bi-personali, e coloro che cercano di attuare comportamenti virtuosi orientati alla riduzione dell’utilizzo della risorsa idrica.

Anche per questo riteniamo necessario che la tematica del rispetto della volontà popolare espressa tramite le consultazioni del giugno 2021 sia portata, soprattutto dai movimenti e dai partiti che sostennero il Sì ai due referendum, al centro dei programmi delle imminenti elezioni europee e amministrative di molti comuni italiani. Un messaggio di coerenza che sicuramente contribuirebbe a riavvicinare gli elettori, sempre più disinnamorati da questa politica, ai seggi.

Andrea Vento – 9 aprile 2024

Comitato comunale per l’Acqua pubblica di San Giuliano Terme (Pisa)

NOTE:

1 Gli ATO Acqua sono stati originariamente istituiti dalla Legge del 5 gennaio 1994 n. 36 “Disposizioni in materie di risorse idriche” che ha riorganizzato i servizi idrici aggregando sotto un’unica autorità (L’autorità di Ambito) i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, ivi comprese le relative tariffe.

2 Rapporto Servizio idrico in Italia del marzo 2019, realizzato da Utilitalia la federazione che riunisce 450 aziende di servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’energia elettrica e del gas operanti in Italia.

3 https://www.autoritaidrica.toscana.it/it/page/ait

4 Per i testi e gli esiti elettorali dei referendum dell’12 e 13 giugno 2011: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/altri_speciali_2/referendum_2011/index.html

5 https://www.abc.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=113

6 https://www.ufficiocamerale.it/2460/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa

https://atoka.io/public/it/azienda/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa/1ab8f6f855d1

7 https://cittadinoinformato.it/acque_spa/?doing_wp_cron=1711984551.6514940261840820312500

8 https://www.gruppo.acea.it/conoscere-acea/nostra-storia

9 http://europeanwater.org/it/azioni/focus-per-paese-e-citta/710-acqua-privata-frosinone-e-provincia-si-ribellano-revocato-il-contratto-con-acea

10 https://registroaziende.it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa-firenze

11 https://atoka.io/public/it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa/270196460d42

12 La gestione deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci. https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_per_azioni_(ordinamento_italiano)

13https://www.ilsole24ore.com/art/pronta-varo-multiutility-toscana-l-obiettivo-e-borsa-AEzqHKWB

https://www.arezzonotizie.it/attualita/corte-conti-no-quotazione-borsa-multiutility.html

https://www.utilitalia.it/notizia/dbe68738-6095-4d3d-8dfc-6c28ab59d9e9

14 Irace (Ad multiutility Toscana): l’obiettivo è la quotazione nell’aprile 2024

https://www.milanofinanza.it/news/irace-ad-multiutility-toscana-obiettivo-e-quotazione-aprile-2024-202302101958398899?refresh_cens

15 https://www.acque.net/wp-content/uploads/cv_bertolucci_antonio.pdf

16 https://nuoveacque.it/chi-siamo/#

GAZA – Il Cessate il fuoco non è un optional: è un obbligo!

il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco “per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”. Le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamenti su Gaza e facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari

di Domenico Gallo

Il 25 marzo dopo 170 giorni, durante i quali Israele ha messo a ferro e a fuoco la Striscia di Gaza provocando sofferenze inenarrabili alla sua sfortunata popolazione, finalmente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco“per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”, così come il ritorno in libertà immediato e senza condizioni degli ostaggi e un maggiore accesso degli aiuti umanitari a Gaza.

“Non c’è un momento da perdere – ha scritto la Segretaria Generale di Amnesty International Agnés Callamard- le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamentisu Gazafacilitare l’ingresso degli aiutiumanitari.

Israele, Hamas e gli altri gruppi armati devono operare perché il cessate il fuoco duri. Gli ostaggi civili devono tornare immediatamente in libertà. Tutti i palestinesi arbitrariamente detenuti in Israele, compresi i civili arrestati a Gaza, devono essere a loro volta scarcerati”.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono immediatamente esecutive e vincolanti per tutti gli Stati, eccetto – evidentemente – Israele, che non accetta alcun vincolo fondato sulle regole del diritto. Infatti, Netanyahu non ha battuto ciglio ed ha celebrato le prime 24 ore di “cessate il fuoco” con bombardamenti che hanno provocato 76 morti e nei giorni successivi ha continuato come se niente fosse.

Israele, non ha avuto alcuna remora a continuare l’attacco agli ospedali ed a portare nuovamente la morte all’interno dell’Ospedale Al Shifa di Gaza City.

L’esercito israeliano, infatti, ha comunicato (il 28 marzo) di aver ucciso 200 persone in una settimana di operazioni dentro e attorno all’Ospedale.

Ovviamente si trattava di “terroristi”, anche se medici, pazienti, personale sanitario o giornalisti: il fatto stesso che siano stati uccisi è la prova regina della loro qualità di terroristi.

Malgrado i moniti dei suoi stessi alleati, Israele sta continuando i preparativi per l’assalto finale a Rafah, l’ultima città a confine con l’Egitto, dove sono concentrati 1.500.000 palestinesi sfollati dal centro e dal nord di Gaza.

Il rigetto dell’ordine di cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza ed il rifiuto -nei fatti- di adempiere alle misure dettate dalla Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennai, ribadite con l’ordinanza emessa il 28 marzo, pongono lo Stato di Israele in una condizione veramente singolare nell’ordinamento internazionale. Si tratta dello Stato che realizza (e rivendica) la massima ribellione possibile alle regole che governano la vita della Comunità Internazionale, uno Stato fuorilegge, nel senso letterale del termine.

Eppure tutta la comunità degli Stati occidentali, si è mobilitata per “punire” la Russia, nell’adempimento di un imperativo indiscutibile, quello che Stoltenberg/Stranamore, ha definito: “un mondo fondato sulle regole.”

Che fine fa quest’imperativo del “mondo fondato sulle regole”, che giustifica la guerra da remoto che stiamo conducendo contro la Russia col sangue degli ucraini, di fronte all’aperta ribellione di Israele alle regole fondanti della Comunità internazionale che interdicono la violenza brutale ed il genocidio.?

Se Israele non si sente vincolato al rispetto del diritto internazionale, avendo sperimentato almeno 56 anni di violazione delle regole del diritto internazionale, specialmente il diritto umanitario, senza conseguenza alcuna, sono gli altri Stati che devono agire adottando delle misure adeguate, ai sensi del Cap. VII della Carta dell’ONU, per convincere/costringere Netanyahu a rispettare le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e i provvedimenti della Corte internazionale di Giustizia che ha ordinato ad Israele di smettere di uccidere le persone protette e di far soffrire la fame al gruppo etnico palestinese, a rischio di genocidio.

L’Unione europea ha adottato una caterva di sanzioni a danno della Russia per sanzionare la “violazione delle regole”. Ricordiamo sommessamente che in un documento del Parlamento Europeo (29/2/2024) si rinfaccia alla Russia di aver provocato la morte di 520 minori ucraini: il fatto che Israele, in soli cinque mesi di guerra abbia causato la morte di 13.000 minori a Gaza, non ha provocato alcun turbamento nelle bronzee facce dei leader politici italiani ed europei, mentre un silenzio di tomba è caduto di fronte all’aperta ribellione di Israele all’ordine di cessate il fuoco.

Si tratta di uno scandalo che non può essere tollerato oltre.

E’ questo il momento di agire, l’Unione Europea, e tutti i suoi Stati membri devono deliberare delle misure urgenti volte a far valere l’obbligo di cessare il fuoco. Per quanto riguarda l’Italia, la fornitura di armi ad Israele (per 2,1 milioni dall’inizio del conflitto) ed il definanziamento dell’UNRWA ci rendono complici delle stragi compiute dall’esercito israeliano e dello strangolamento della popolazione di Gaza attraverso la privazione dei beni essenziali per la vita.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/il-cessate-il-fuoco-non-e-un-optional-e-un-obbligo/

Il popolo russo, Putin, la democrazia

di Piero Bevilacqua

Pensare con idee ricevute. E’ davvero stupefacente leggere o ascoltare intellettuali e studiosi democratici e di sinistra, talora di sinistra avanzata o radicale (cioè di sinistra, ma il termine è stato infamato dal cosiddetto centro-sinistra) che ancora oggi, dopo due anni di guerra in Ucraina, dopo tutte le rivelazioni di fonti americane, le ricostruzioni storiche dei precedenti che hanno preparato quel conflitto, continuano a ripetere lo slogan << la brutale invasione russa>> , <<l’occupazione violenta della Crimea>>, ecc. Gli stessi stereotipi e retoriche si ripetono per il massacro in corso nella martoriata Gaza. I combattenti di Hamas sono terroristi perché hanno ucciso civili israeliani con il progrom del 7 ottobre (cosa, ahimé, terribilmente vera e ovviamente da condannare, ma non bisognerebbe mai dimenticare la storia che la precede e predispone) mentre  i soldati di Israele che di civili palestinesi, e soprattutto di bambini, ne hanno ucciso e ne vanno ammazzando un numero spaventosamente superiore, restano soldati. Intendiamoci, la guerra è sempre un errore, è l’ingresso al più grande degli orrori. Quindi condanniamo quella scelta di Putin. Ma chi non riconosce che la Russia è stata trascinata in quel massacro è persona non informata dei fatti.

Svolgo le considerazioni che seguono non solo per il dispiacere che provo a sentire anche tanti amici e studiosi di valore ripetere queste espressioni che sono il calco della vulgata occidentale, ma perché ovviamente tale subalternità interpretativa all’informazione corrente indebolisce gravemente l’opposizione politica all’atlantismo, che ci chiama alla guerra, all’involuzione antidemocraitca dell’UE, frena l’azione a favore delle trattative e della pace. Le svolgo anche perché mi vado convincendo di un fenomeno culturale che meriterebbe di essere approfondito e che qui accenno appena.Le sempre più spinte specializzazioni scientifiche del nostro tempo –  per cui chi si occupa di sociologia finisce col sapere tanto del suo specifico campo sociologico, ma poco del resto, e così   chi si occupa di fisica, di diritto, economia,  ecc –  espone la mente di tanti studiosi a dipendere, per la propria visione della situazione politica mondiale, dalla idee circolanti e inverificate elaborate dai media dominanti. Media, come sappiamo, che orchestrano campagne di persuasione  sistematiche e di vasta portata ormai da decenni. Se non si conoscono  in maniera circostanziata le questioni, la comodità di avere, con poco sforzo e a portata di mano, una spiegazione semplice e rassicurante  fa perdere la libertà di un giudizio indipendente. Credo di poter parlare anche a nome personale. Chi conosce un po’ la mia biografia intellettuale sa che non mi sono mai rinchiuso nella mia specializzazione di storico. Eppure, anche io ero convinto di tante verità che erano idee ricevute accettate passivamente, spesso purissime menzogne. Superate solo dopo aver studiato su libri e documenti come sono andate realmente le cose. Purtroppo bisogna constatare che non si possono capire anche i gravi fatti del nostro tempo se ciascuno non compie uno sforzo supplementare di studio e di analisi, fuori dal proprio specialismo e non confidando nel giornalismo corrente. Troppo potenti e ben confezionate sono le falsificazioni che si respirano nell’aria per restare indenni. Quante prove ulteriori noi italiani dobbiamo avere, per come è stata raccontata la  guerra in Ucraina, per riconoscere che i nostri media sono una fabbrica di contraffazioni della realtà? Senza, dunque, uno sforzo di documentazione supplementare si resta vittime di una versione costruita da interessi  potenti.Perché forse mai, come oggi, le élites dominanti sono in grado di sovrapporre alla realtà effettiva la loro manipolata narrazione, puntello fondativo del loro dominio, imponendola come un qualunque seducente prodotto di consumo.

Un’altra ragione di stupore è l’evidente pregiudizio antirusso che in Italia circola in ogni canto di strada.E il fenomeno, quando vede protagonisti sinceri democratici, è davvero incomprensibile o comprensibile assai bene, quale prova della forza del punto di vista americano che è diventato anche il nostro.Ma come facciamo a giudicare la Russia prescindendo completamente dal popolo russo, dalla sua storia, dai sacrifici immani che credo nessun popolo ha dovuto sostenere in età contemporanea? Come può accadere che c’è così poca empatia e curiosità storica disinteressata per la sua storia? Nessuno trae ragione di ammirazione da quel che questo popolo è stato in grado di fare per difendere il proprio paese da forze sovrastanti?  Chi si ricorda che i russi hanno dovuto dare alle fiamme Mosca, la loro amata città, per  poter resistere all’invasione dell’esercito napoleonico? Qualcuno   rammenta battaglia di Stalingrado, la carneficina urbana durata quasi 6 mesi che ha inflitto la più grave sconfitta strategica all’esercito di Hitler? Quell’esercito che nessuna potenza europea aveva potuto fermare? Uno sforzo bellico che costò alla Russia circa 20 milioni di morti. Oggi nell’immaginario collettivo americanizzato sono stati gli USA a vincere la guerra, cancellando la vittoria russa a Stalingrado, dimenticando che l’Armata Rossa è arrivata Berlino, nel cuore dell’invincibile Reich, nell’aprile del 1945, precedendo addirittura gli eserciti alleati. Se la Russia fosse crollata Hitler avrebbe  molto probabilmente vinto la guerra e avrebbe imposto all’Europa il suo feroce dominio.  Chi ha liberato i lager dove si era consumato l’olocausto? Eppure persino un comico geniale come Benigni ha messo le divise americane  ai soldati che entrano nei campi di concentramento ne La vita è bella.

La rivoluzione d’Ottobre

Meno stupore desta l’oblio o perfino la dannazione della rivoluzione d’Ottobre. Essa viene fatta sparire sotto la facile demonizzazione dello stalinismo e dei suoi crimini, sotto la burocratizzazione elefantiaca dello stato russo del dopoguerra, sino alla sua finale dissoluzione nel 1991. Sappiamo quanto diffusa sia l’opinione, soprattutto nel campo un tempo di sinistra, che quella vicenda sia stata nient’altro che un  unico e  prolungato errore. Eppure non c’è giudizio più superficiale ed erroneo di questo. La rivoluzione del 1917, la prima rivoluzione proletaria della storia, a dispetto dei suoi errori e del sangue fatto scorrere, ha cambiato il corso della storia contemporanea. Qui basti ricordare, a parte l’eversione, spesso con prezzi umani drammatici, delle strutture feudali della Russia, che essa fin da subito ha avuto effetti di radicale trasformazione  nella società del tempo spesso ignoti. Chi sa, ad esempio, che per effetto della rivoluzione, nell’Europa Centrale tra le due guerre, vennero avviate ampie riforme agrarie con divisione  e distribuzione dei latifondi ai contadini  per timore delle rivolte  che avevano rovesciato gli Zar? Quelle riforme che in Italia spezzarono il latifondo solo nel 1950? Ma la rivoluzione, che già nel 1918 gli occidentali, compresi gli USA ( situati al di là dell’oceano), cercarono di soffocare sul nascere, ebbe effetti sotterranei nelle campagne dell’Asia e mise in moto vari movimenti contadini da cui prese slancio anche la Rivoluzione cinese.

Nel dopoguerra  

il sostegno economico, militare, politico dell’URSS rese possibile e comunque facilitò enormemente la lotta anticoloniale dei Paesi del Sud del mondo, la liberazione di numerosi popoli da una dominazione secolare.Un stato burocratico e autoritario, che espresse anche dirigenti nefasti come Breznev, tuttavia, anche quando si muoveva per interessi geopolitici di potenza, svolgeva un ruolo prezioso per il processo di emancipazione  dei paesi poveri.

Ma non si può tacere un altro esito che ci riguarda. La Rivoluzione d’ ottobre rese possibile la nascita dei partiti comunisti dell’Occidente – fenomeno represso sul nascere negli USA democratici – forze politiche moderne che non solo hanno concorso alla lotta antifascista nel dopoguerra, ma hanno svolto un ruolo decisivo nel processo di  sviluppo sociale  e di costruzione di stati democratici moderni, dotati di un costituzione.Il caso del Partito comunista italiano  costituisce un capitolo  esemplare di questa storia. Come si sarebbe potuto affermare il welfare – teorizzato peraltro da capi di stato lungimiranti come Roosevelt o da economisti come   William Beveridge – senza il concorso e le lotte dei partiti comunisti e socialisti, la  grande forza popolare e la mobilitazione dei sindacati? La storia non è una partita di calcio in cui si vince o si perde, e nulla accade mai invano.

Basterebbero questi brevi cenni per far  comprendere quanto diversamente siano andate le cose rispetto alle convinzioni interessate e  false che si sono affermate, specie negli ultimi decenni in cui la Verità Neoliberista ha riscritto il nostro passato. Del resto, una volta tanto, la storia offre la possibilità di una verifica, per così dire controffattuale, per giudicare il valore della Rivoluzione d’ottobre e di quel che ne è seguito. Che cosa è accaduto alle società occidentali dopo il crollo dell’URSS, quando è venuto a mancare un antagonista al capitalismo occidentale? Che cosa è accaduto al pensiero politico, diventato pensiero unico?  Che cosa al welfare, al lavoro, ai sistemi politici, alla democrazia, agli equilibri mondiali? Chi di noi avrebbe mai immaginato il ritorno in grande stile del lavoro schiavile nelle campagne? Eppure, dalla California all’Italia, passando per il Regno Unito e la Spagna, questa è diventata una gloria tangibile dell’Occidente.E’ stata dunque un’errore la Rivoluzione d’ottobre?

E’ questa falsa coscienza, radicata nelle menti, che non consente di ragionare, che porta  a guardare alla Russia come un ostacolo all’avanzare della democrazia nel mondo,  e a Putin come un mostro assetato di sangue. Cosi dobbiamo sentire in TV, ormai Ministero della Verità, giornalisti anche intelligenti e non faziosi, come ad esempio Corrado Augias, i quali si chiedono che cosa accadrà agli altri territori contermini << se si cede sull’Ucraina>>. Un’espressione che mostra l’assoluta ignoranza delle ragioni di questa guerra, che in parte  è una guerra civile, ma che riduce la Russia attuale a una caricatura. Ma quali interessi dovrebbero  spingere la Russia ad espandersi ulteriormente ? Il suo territorio statale è <<la più vasta entità territoriale del mondo>> (Treccani)  e assomma a 17.075.400 km2, con una popolazione intorno ai 160 milioni di abitanti. L’Europa, tanto per fare un raffronto eloquente, è estesa 4.950.000 km2 ed è popolata da circa 500 milioni di persone. Quale dissennato uomo di stato può spingere un tale paese, letteralmente spopolato, a occupare nuovi territori portando a morire un buona parte dei suoi scarsissimi giovani? Possibile che così pochi, in Italia e in Europa, sono  in grado di sospettare che la dirigenza Russa non aveva nessuna convenienza a invadere l’Ucraina, con cui aveva convissuto per decenni, se non fosse stata minacciata dalla Nato ai suoi confini, se gli USA non si fossero mostrati indegni di qualunque fiducia, se la popolazione russofona non fosse stata sottoposta a ripetute persecuzioni? Ma chi grida al pericolo di un’espansione imperialistica ha una idea salottierea della guerra. Dimentica che essa costa la vita di migliaia e migliaia di soldati. Quanta intelligenza c’è nel pensare che anche un’autocrate come Putin può sacrificare, spensieratamente e senza conseguenze, la propria gioventù (sottratta peraltro a un’economia che ne necessita incessantemente) per astratti disegni di dominio?

Putin come Hitler?

Per finire alcune considerazioni su Putin. Ho da poco ascoltato in TV Massimo Giannini, un giornalista democratico e intelligente (a dispetto dei giornali padronali per cui scrive) lanciare grida di dolore di fronte alla notizia  che Putin era stato riconfermato presidente con un’affermazione plebiscitaria di quasi il 90% dei votanti.<< Una grave sconfitta per l’Occidente >> l’ha definita con tono angosciato. Espressione che costituisce un involontario smascheramento dell’immagine caricaturale che i media, a partire dai giornali per cui Giannini scrive, hanno deliberatamente costruito della Russia e di Putin. Le nostre  élites si rivoltolano negli errori e nelle finzioni che essi stessi propagandano. Esse hanno infatti inventato l’immagine di un dittatore sanguinario che estorce il consenso  al suo popolo con il terrore. A questo servono pagine e pagine dedicate alla morte di Alexej Navalny, le decine e decine di trasmissioni televisive in cui si ricostruisce e ripete fine all’esaurimento lo stesso evento. Se avessero un approccio meno propagandistico alla realtà  potrebbero capire come stanno realmente le cose.  Ricordo che dagli elettori residenti all’estero Putin ha ricevuto il 72, 1% dei voti. E costoro certamente non subivano nessuna pressione o condizionamento. So che dispiace a tantissimi, ma quello del presidente russo è un autentico consenso popolare, dipendente da ragioni molto solide, che il giornalismo democratico dovrebbe avere l’onestà di ricostruire. Onestà di cui è gravemente sguarnito. Putin, agli occhi del  suo popolo ha il grande merito di aver sottratto il paese all’anarchia, alla spaventosa povertà di massa creata dal decennio dei governi di Eltsin, rimettendolo sulla strada di uno sviluppo sempre più ordinato e apportatore di benessere. Sviluppo capitalistico, beninteso, in un’economia di libero mercato, con una forte presenza statale. Quella che servirebbe tanto all’Italia e all’ Europa. A lui riconosce il merito di aver domato in gran parte  lo strapotere degli oligarchi, di aver limitato la corruzione dilagante, di  aver soffocato il terrorismo ceceno che  faceva esplodere bombe nei locali pubblici delle città e persino a Mosca. Repressione dolorosamente  sanguinosa, certo, ma contro un nemico anch’esso sanguinario  che  prendeva di mira i civili. A Putin il popolo russo è grato  per avergli restituito, dopo l’umiliazione del crollo dell‘URSS, l’orgoglio della propria storia, della propria identità. Questo rinato patriottismo – certo, spesso condito da Putin con improbabili e inopportuni richiami retorici alla Russia degli zar – viene demonizzato in Occidente per poterlo trasformare in imperialismo aggressivo. Eppure non si capisce perché il patriottismo sia invece considerato lecito e benefico per la Francia di Macron, che vuole inviare truppe europee contro la Russia, o per l ‘Italia del governo di guerra della sovranista Meloni, che lo ha preventivamente ceduto agli USA per ragioni di legittimazione politica. Ma il  popolo russo ha rafforzato il suo consenso a Putin negli ultimi  anni perché ancora una volta avverte i venti di guerra che soffiano contro di lei. La Nato  e l’intero Occidente minacciano di “sconfiggerla” sul suo territorio, cioè ancora una volta di invaderla,  e noi  ci stupiamo che il suo popolo moltiplichi il proprio appoggio al leader che si è mostrato più capace di difenderlo da questa minaccia mortale?  Ma come pensano i nostri analisti?

Infine, sempre dedicato agli intellettuali democratici e di sinistra, qualche considerazione su Putin dittatore spietato, argomento impervio, ma che credo di poter affrontare col dovuto equilibrio e freddezza. E’ un compito  sgradevole che mi assumo non certo per difendere Putin, ma perché attraverso la sua demonizzazione si fa strada la propaganda bellicista dell’esportazione della democrazia e del regime change: il vero obiettivo per cui gli USA hanno provocato la guerra in Ucraina. Confido perciò nell’intelligenza del lettore. Comincio col dire che io immagino Putin come uomo di grande intelligenza politica, ma sicuramente spietato. Lo credo anche capace di ispirare l’eliminazione di qualche avversario politico. La sua provenienza e la sua esperienza autorizzano questa visione. D’altra parte, è noto, come qualche volta sosteneva Marx, che gli uomini fanno la storia, ma anche l’inverso, che cioé è la storia a fare gli uomini. Del resto come avrebbe potuto rimettere in piedi un moderno stato, in un paese sprofondato nel caos, senza un certo grado di spietatezza? Nella patria di Machiavelli queste considerazioni non dovrebbero destare stupore. Tuttavia quando gli si attribuiscono responsabilità dirette nella morte di un oppositore come Navalny o nell’uccisione della giornalista Anna Politkovskaja, ogni serio analista, che non può contare su nessuna prova che non siano le opinioni dei nostri giornalisti, dovrebbe avere l’intelligenza di porsi delle domande. Occorre sempre esaminare le “convenienze” degli attori in campo per comprendere le dinamiche della politica. E’ davvero giovata a Putin la morte del prigioniero Navalny? Abbiamo poi saputo, del resto, che era destinato a uno scambio di detenuti. E Putin temeva a tal punto la giornalista Anna Politkovskaja, da farla assassinare in  quel modo plateale, esponendosi alla condanna universale dei paesi occidentali?

Quel che appare inaccettabile in queste ricostruzioni inverificate e spesso infondate è la rappresentazione del presidente russo come un signorotto feudale, che comanda a piacimento i propri sudditi, riducendo la Russia a un villaggio rurale dell’ ‘800. Si dimentica che anche in quel paese esiste una magistratura che gode di una relativa indipendenza, formata da magistrati che vi accedono per concorsi. Si sopprime interamente la complessità di quella società, al cui interno operano servizi segreti, anche stranieri, criminalità organizzata, fazioni politiche in lotta reciproca, ecc.. L’assassino della Politkovskaja, è stato infatti individuato e condannato a 20 anni di carcere. Come si fa a rappresentare Putin come un grande burattinaio se non per legittimare un suo rovesciamento progettato negli studi degli strategici americani? E infatti non si fanno campagne diffamatorie contro il turco Erdogan, l’egiziano Abdel al Sisi,  l’indiano Modi, il saudita Mohammed bin Salman, com’è noto campioni di democrazia liberale.

La democrazia e il popolo russo

In una delle tante interviste rilasciate da Giulietto Chiesa prima di morire questo grande esperto delle cose russe e amico di quel paese, pur riconoscendo a Putin molti meriti, gli rimproverava di non aver fatto avanzare il processo di democratizzazione e liberalizzazione di quella società. La giusta critica che tutti gli rivolgeremmo se la propaganda USA non lo avesse trasformato nel nemico numero uno dell’Occidente. E tuttavia una riflessione sulle difficoltà di fare avanzare il processo di democratizzazione in Russia andrebbe fatto, coinvolgendo il suo passato storico e l’antropologia del suo popolo. Certo, il processo di espansione della Nato e la continuazione della guerra fredda da parte degli USA, anche dopo il crollo dell’URSS, ha ostacolato i processi di democratizzazione interni di quel paese. I dirigenti russi sanno bene quanto danaro e forza organizzativa i servizi segreti USA sono in grado di impiegare per  dar vita a formazioni politiche eversive, organizzare rivolte e colpi di stato. Non avevano bisogno di aspettare il rovesciamento del  legittimo governo di Kiev nel 2014. D’altra parte non bisogna dimenticare che dopo Eltsin la Russia si è aperta a un’economia di mercato, capitalistica, in cui operano liberi imprenditori,  che godono più o meno delle stesse libertà che in Occidente. Dunque l’evoluzione in senso democratico del sistema politico sarebbe naturale, se le relazioni internazionali fossero meno minacciose e agitate. E tuttavia l’inimicizia ricercata e orchestrata dagli USA e dalla Nato per ragioni geopolitiche non basta a spiegare la lentezza dei processi di democratizzazione, anche se appare sufficiente per giustificare la loro recente involuzione.

La democrazia non è un semplice costrutto giuridico, non si esaurisce nella sua architettura istituzionale. E’ una forma di organizzazione della società frutto di un lungo processo storico. Perciò la storia appare come la disciplina chiave per avvicinarsi con meno superficialità ai fenomeni complessi che riguardano questo sconosciuto paese.

E anche in questo caso guardare il corso delle cose dal lato del popolo è importante. Non bisogna dimenticare che in Russia la  servitù della gleba è stata abolita, sul piano giuridico, solo nel 1861. Quindi mentre in Italia si avviava il processo di unificazione del paese la Russia, ma solo sul piano meramente formale, cominciava a uscire dal Medioevo. Era una società dominata da una immobile burocrazia imperiale con alla base l’immenso popolo dei contadini, un mondo ai margini della modernità,  che noi conosciamo grazie  a narratori giganteschi, alla più grande letteratura dell’età contemporanea. La Rivoluzione d’ottobre mandò in aria quel pachiderma e vide  per qualche tempo il protagonismo delle masse popolari sino a che la dittatura del proletariato non si trasformò in dittatura tout court. Per oltre 40 anni il sistema di potere dominato da Stalin tolse al popolo ma anche all’intelligentija ogni possibilità di iniziativa e di creatività. Le cose non cambiarono di molto dopo la morte del dittatore e l’esplosione della guerra fredda, la corsa agli armamenti, ecc., non aiutarono l’evoluzione liberale di quella società-apparato. Il tentativo di Kruscev, com’è noto, venne risucchiato dagli elementi conservatori che puntarono al rafforzamento della difesa e agli armamenti per fronteggiare gli USA. Da qui ovviamente le tragedie delle repressioni, prima in Ungheria nel 1956, l’occupazione di Praga nel 1968. Dunque sin quasi all’avvento di Gorbaciov alla dirigenza del paese, il controllo burocratico della popolazione russa è stato sistematico, spesso soffocante. Come si fa a non comprendere la passivizzazione civile  della popolazione che ne è derivata, la sua scarsa confidenza con la democrazia, la sua apatia partecipativa?  Come si poteva costruire la democrazia con tali precedenti storici se non attraverso un lungo processo?  Bruno Giancotti, un italiano che ha lavorato nello staff giornalistico di Gorbaciov e vive in Russia da 40 anni, mi ha spiegato che tra i russi domina una particolare attitudine a demandare il potere a chi sta più in alto, si sentono rassicurati dalla protezione del  “Nachalnik”, che vuol dire il “tuo capo”.

Non è un caso che il processo di democratizzazione della Perestrojka, avviato da Gorbaciov forse con non piena consapevolezza della complessità del compito, crollò in poco tempo, trascinando l’URSS nel collasso. Ma come era possibile trasformare in una democrazia liberale, nel giro di mesi, un società senza stato, surrogato da un partito burocratizzato e in parte corrotto, priva di  un vero parlamento, di partiti indipendenti, magistratura, sindacati e corpi intermedi autonomi, senza una libera stampa, una tradizione popolare di partecipazione alla vita politica? Perciò il decennio di Eltsin fu una fase fra le più dolorose nella storia del popolo russo in tempo di pace. Dunque, Putin – che, come è emerso nella recente intervista al giornalista Dmitrij Kisilev, aveva rifiutato, in un primo tempo, di fronte alle difficoltà immani del compito, di  assumere la responsabilità della presidenza, offertagli da Jeltsin, – dovette ricostruire uno stato che non c’era e ricomporre un’organizzazione economica e sociale devastata dall’improvvisa apertura al mercato, di una società che nelle sue strutture amministrative e rappresentative non doveva essere molto  più dinamica di quella zarista. E dunque solo uno statista privo di senno poteva cercare di rimettere  in piedi una società interamente collassata – forse un caso unico  per dimensioni nell’età contemporanea – ripercorrendo la strada fallimentare di chi l’aveva preceduto. E infatti lo avrebbero preteso, dai loro tranquilli studi, le anime belle del giornalismo occidentale. Senza un elevato tasso di governo autoritario dei processi di riorganizzazione, visto tra l’altro la forza eslege che avevano guadagnato moltitudini di oligarchi, il terrorismo nelle regioni del Caucaso (che si è tragicamente rifatto vivo il 22 marzo) e la corruzione dilagante,  il tentativo era destinato al fallimento.

E’ dunque questa, per brevissimi cenni, la storia, sono questi i processi che spiegano Putin  e la sua gestione autoritaria che i democratici dovrebbero considerare. La sua demonizzazione non serve né a comprendere le cose, né a favorire il processo di democratizzazione della società russa. Giova   all’atlantismo e all’imperialismo guerriero della dirigenza USA, che ha un interesse supremo nel costruire un nemico impresentabile per tenere unita la propria società lacerata un sistema politico esaurito. Quella dirigenza che oggi mostra al mondo la sua feroce capacità di mentire, fingendo di opporsi a Netanyahu, ma continuando a inviargli armi perché completi il massacro a Gaza. Capire dunque  un un po’ meglio la storia giova alla causa ragionevole della pace.

FONTE: https://transform-italia.it/il-popolo-russo-putin-la-democrazia/

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta.

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta. Alla faccia di lavoratori, agricoltori e cittadini

di Monica Di Sisto

Nemmeno la cornice iper-futuristica di Abou Dhabi è riuscita a restituire al commercio internazionale una direzione condivisa da parte dei diversi capitalismi che si contendono lo scacchiere globale. Una riunione tempestosa, la 13esima ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), prolungata di quasi due giorni pieni alla ricerca di un consenso mai raggiunto, e conclusa con un “ci vediamo nel quartier generale di Ginevra e ne riparliamo”.

Mentre il cambiamento climatico riduce la portata del canale di Panama e il passaggio delle navi-cargo fino al 40% e la guerra in Medio Oriente ne blocca fino al 60%, i dossier più urgenti sono rimasti tutti aperti sui tavoli dei negoziati: dallo stop ai sussidi sulla pesca da parte dei grandi Paesi esportatori, che devasta la biodiversità e schiaccia la pesca territoriale, alla facilitazione dei beni e servizi ambientali; da una soluzione permanente per consentire ai Paesi in via di sviluppo di gestire stock alimentari pubblici per calmierare i prezzi interni, a co-regolare (e tassare) il commercio digitale.

I 164 Paesi della Wto si sono spaccati lungo le faglie della nuova guerra fredda in corso: da un lato gli Stati Uniti, determinati a difendere il proprio mercato interno e il livello attuale di sussidi e di competitività delle sue grandi imprese tecnologiche e digitali, anche continuando a indebolire l’organo di risoluzione delle dispute commerciali globali azzoppato da Trump. Dall’altro la Cina, che pur continuando ad aderire alla Wto sta costruendo un proprio sistema commerciale, con accordi regionali e bilaterali con quasi trenta Paesi, che rappresentano quasi il 40% delle sue esportazioni.

“I paesi ricchi possono giocare al gioco dei sussidi – è stata l’amara costatazione della direttrice generale della Wto, Ngozi Okonjo-Iweala – i paesi più poveri non possono permetterselo”. E infatti Sudafrica e India hanno giocato il ruolo di catalizzatori dello scontento “da sud”: il primo sul tema dei brevetti, il secondo su quello dell’agricoltura. E il banco è saltato.

Chi è mancata al tavolo delle decisioni che contano è stata, come accade da tempo, l’Unione europea: paralizzata tra retorica democratica e pratica liberista, mentre le aziende piccole e medie del settore agroalimentare invadevano di trattori le strade delle nostre città, l’Ue si è affrettata a portare all’approvazione del Parlamento europeo tre nuovi trattati di liberalizzazione commerciale con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya, che sicuramente non allevieranno la pressione competitiva sulla produzione primaria nazionale e comunitaria.

L’Italia, in questa cornice, ha saputo tuttavia battere tutti i record di scarsa lungimiranza e incoerenza. Il governo considerato più sovranista nella storia della Repubblica sta infatti provando a far ratificare dal Parlamento l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada (Ceta), che proprio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva definito “una porcata contro i bisogni dei popoli”, annunciando che FdI si sarebbe battuto in Italia contro la ratifica. “Chi vota il Ceta – aveva aggiunto Meloni – fa un favore alle grandi produzioni, e sputa in faccia agli italiani che si sono rifiutati di mettere schifezze nei loro prodotti”.

Noi siamo rimasti della stessa opinione, e personalmente, nel corso dell’audizione che ho svolto per la mia associazione presso la commissione Affari esteri della Camera con Movimento Consumatori e Cgil, ho ricordato al presidente, Giulio Tremonti di avergli passato il microfono su un palco di protesta contro la ratifica, avviata a quel tempo dal governo Gentiloni, dal quale lui ci aveva spiegato la sua contrarietà e i motivi per i quali facevamo bene a opporci.

In una condizione di commercio globale in assoluta ritirata, e di fronte a un’esigenza di proteggere la capacità d’acquisto di cittadini e consumatori, alimentare la concorrenza sleale da parte di Paesi che non hanno il nostro sistema regolatorio, e la guerra al ribasso tra grandi imprese che si gioca sui diritti di lavoratori e natura, non può che premere ancora di più sui nostri salari e sulla nostra speranza di futuro. Un gioco al massacro che dobbiamo essere sempre più in grado di leggere e contrastare.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-06-2024/3119-mentre-il-wto-si-impantana-la-sovranista-meloni-rilancia-il-ceta-alla-faccia-di-lavoratori-agricoltori-e-cittadini-di-monica-di-sisto

«L’Europa si sta suicidando»: il 24 marzo 1999 le bombe Nato nell’ex Jugoslavia

di Marinella Correggia

Il ricordo. Sono passati 25 anni da una guerra che, con l’Italia in prima fila, ha fatto segnare molti terribili primati: la prima combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri.

«L’Europa si sta suicidando»: a Belgrado, sotto un terso cielo primaverile offeso dalle bombe, un medico commentava così, parlando a un gruppo di pacifisti italiani, le «operazioni aeree nella Repubblica federale di Jugoslavia» (secondo il comunicato ufficiale della Nato), avviate la sera del 24 marzo 1999. Decisivo il supporto dell’Italia che offre tutto, aerei, basi, propaganda. E pazienza per la Costituzione. Nessun mandato da parte del Consiglio di sicurezza Onu. Sabotati in precedenza i tentativi di accordo, nemmeno discusse le proposte serbe (autonomia per il Kosovo e presenza dei militari dell’Osce a tutela); e certo Belgrado non poteva accettare la proposta di un’occupazione a tempo indeterminato da parte delle truppe Nato di tutto il territorio jugoslavo.

IN QUEI GIORNI A BELGRADO e in altre città sotto attacco, la delegazione italiana si può dire fortunata. All’arrivo scende dal pullman e bussa all’hotel Jugoslavia. Tutte le stanze sono libere ma troppo costose per le tasche autogestite. Si finisce in un albergo più economico, nel quartiere Zemun. E la mattina seguente, il portiere comunica: «L’hotel Jugoslavia è stato bombardato stanotte». Qualche giorno dopo, la visita a Novi Sad avviene in un raro giorno di calma, fra un attacco e l’altro. La «guerra umanitaria» invoca la necessità di salvare i kosovari (in realtà ogni conflitto a fuoco fra le due parti passa strumentalmente per «pulizia etnica», inoltre il grosso degli incidenti si verifica dopo l’inizio dei bombardamenti Nato). Ma le bombe cadono anche su obiettivi di infrastrutture civili. Colpiti indistintamente serbi, profughi serbi di Croazia, rom, profughi serbi kosovari, profughi serbi di Bosnia e anche profughi albanesi del Kosovo, morti a metà aprile sul treno che percorreva un ponte centrato dalla Nato. I 78 giorni di Allied Force avrebbero provocato, a seconda delle fonti, fra i 500 e i 2.500 morti civili, oltre a migliaia di feriti.

SEGNI DI RESISTENZA come le proteste degli abitanti di Belgrado e Novi Sad con il famoso cartello Target, o la porta sbarrata del McDonald’s, si mescolano alle macerie dei ponti e della fabbrica Zastava a Kragujevac, alle notizie sui giornalisti e tecnici della televisione uccisi, sull’ambasciata cinese bombardata, all’allarme sanitario per l’attacco agli impianti petrolchimici di Pancevo, alle denunce sull’uso di bombe a grappolo e dell’uranio impoverito nei proiettili anticarro. Il seguito post-bellico vedrà il moltiplicarsi di malattie oncologiche a causa dell’uso di uranio impoverito in quei mesi di attacco.

NELL’HOTEL DI ZEMUN, i pacifisti incontrano Vesna, Neboish e il loro figlio Stephan di sette anni. Sfollati da Sarajevo, vivono lì da anni. Il letto dove dormono in tre, i quaderni di scuola, il fornellino dove frigge la frittatina palacinka, «se non c’era la guerra te la facevo più buona, con le noci», i fagotti da profughi, le foto della loro casa e di un antico, unico viaggio (a Venezia), la chitarra e la Bhagavad Gita di Neboish. Vesna si dichiara «jugoslava, io sono ancora jugoslava». Neboish, mobilitato durante la guerra in Bosnia, si è ritrovato invalido, una pensione di 50 marchi. Si arrangia lei, commerciando in biancheria, «ma adesso, temendo una lunga guerra, tutti risparmiano». Il senso di ospitalità e la voglia di amicizia supera la barriera delle lingue. Amare considerazioni: «Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti e altri sfollati; porta anche odio. Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada – così si dice da noi». Tornare a Sarajevo? «No, la nostra casa è abitata da altri. Spero nella pace qui, un giorno». Sulle bombe, Vesna sdrammatizza: «Non c’è morte senza destino. Ma certo il cielo sembra esserci nemico. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Devo chiedere il risarcimento danni psicologici alla Nato!».

RISARCIMENTI? A distanza di decenni, nessuna causa è andata in porto. La Nato è un’anguilla. Anni fa, in un dibattito pubblico, Carla del Ponte (procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia) a domanda rispondeva: «Noi come tribunale abbiamo aperto un caso contro gli statunitensi per aver ucciso dei civili sapendo che erano tali; ma poi se non si arriva a fare l’inchiesta perché la Nato non dà accesso alla documentazione, se nessuna capitale europea collabora, come si fa? Abbiamo dovuto abbandonare per mancanza di prove».

UNA SERIE DI TRISTI PRIMATI, questo è stata l’Allied Force Nato del 1999. Li elencava Luciana Castellina nell’inserto del manifesto in ricordo dei 20 anni: la prima guerra combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che veniva stracciato l’accordo di Helsinki sull’intangibilità dei confini statuali; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri in prima fila. Concludeva Luciana Castellina: «A 20 anni di distanza le macerie della Jugoslavia, una delle più significative nazioni emerse dalla Resistenza nel 1945, uno Stato al quale dobbiamo quello straordinario schieramento internazionale che fu chiamato “Movimento dei non allineati”, sono tutte lì: nessuno degli Stati emersi dallo smembramento fa bella figura di sé». A Belgrado i 25 anni dall’aggressione sono celebrati in questi giorni con un convegno internazionale.

FONTE: https://ilmanifesto.it/leuropa-si-sta-suicidando-il-24-marzo-1999-le-bombe-nato-nellex-jugoslavia

La “campagna di Russia” dell’Europa

Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia perseguita con stolido accanimento dalle élite politiche europee, sorde e cieche ad ogni criterio di responsabilità.

Quos Deus perdere vult, dementat prius (quelli che Dio vuole perdere, per prima cosa li rende dementi).

di Domenico Gallo

Questa locuzione fu usata da Lev Tolstoj in Guerra e Pace per descrivere Napoleone Bonaparte che ordina l’avanzata in territorio russo nel 1812. La catastrofe della guerra in Russia indubbiamente fu frutto del delirio di potenza che aveva oscurato la mente di Napoleone. Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia perseguita con stolido accanimento dalle élite politiche europee, sorde e cieche ad ogni criterio di responsabilità. Lasciamo perdere la NATO che, come struttura militare per esistere e prosperare, ha bisogno di un nemico contro il quale prepararsi a combattere. Per questo non possiamo stupirci delle dichiarazioni dall’Ammiraglio olandese Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO che il 18 gennaio ha dichiarato: “”Vivere in pace non è un dato di fatto. Ed è per questo che ci stiamo preparando per un conflitto con la Russia“, che potrebbe scoppiare entro “i prossimi 20 anni“. Neppure possiamo stupirci delle dichiarazioni del Segretario Generale della NATO, Stoltemberg/Stranamore, secondo cui “i membri della NATO devono prepararsi a un possibile scontro con la Russia che potrebbe durare decenni”. Il problema sono le scelte della politica. In questi giorni stiamo assistendo ad una nuova levata di scudi. Due anni di guerra catastrofica ed il fallimento in un mare di sangue della tanto invocata controffensiva ucraina, non hanno insegnato nulla sull’insensatezza dei massacri in corso alla frontiera orientale dell’Europa. In Europa si è formato un partito unico della guerra, in cui confluiscono tutte le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra, nel quale i verdi ed i socialisti si contendono la prima fila con i popolari ed i conservatori.

E’ particolarmente inquietante che il Parlamento europeo, con l’ultima risoluzione del 29 febbraio, abbia continuato a istigare la costruzione di nuovi cimiteri di guerra in Ucraina e a percorrere la strada dell’escalation del conflitto.

Secondo il Parlamento europeo non bisogna lasciare nessuna scelta alla Russia, non ci deve essere nessun negoziato per porre fine alla guerra, nessuna mediazione fra gli interessi contrapposti. La guerra deve finire necessariamente con la “vittoria” dell’Ucraina e con la sconfitta della Russia. La vittoria consiste nel recupero manu militari da parte dell’Ucraina di tutti territori perduti a partire dal 2014, ivi compresa la Crimea. In particolare, il Parlamento Europeo: “ricorda l’importanza di liberare la penisola di Crimea, occupata dalla Russia da ormai un decennio – e allo scopo – sostiene gli sforzi dell’Ucraina volti a reintegrare la Crimea, in particolare la piattaforma per la Crimea”.

Per consentire all’Ucraina di conseguire una vittoria militare, che al momento appare impossibile, bisogna proseguire con la fornitura di aiuti militari all’Ucraina “per tutto il tempo necessario.” Il sostegno militare deve essere incrementato quanto bisogna: “per consentire all’Ucraina non solo di difendersi dagli attacchi russi, ma anche di riconquistare il pieno controllo di tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale”. Per questo non ci deve essere più alcuna restrizione alla fornitura di sistemi d’arma più performanti e a lungo raggio: “come i missili TAURUS, Storm Shadow/SCALP e altri  –di cui l’Ucraina ha bisogno, assieme a– moderni aerei da combattimento, vari tipi di artiglieria e munizioni (in particolare da 155 mm), droni e armi per contrastarli.” Naturalmente tutto ciò ha un costo, per cui il Parlamento Europeo: “appoggia la proposta secondo la quale tutti gli Stati membri dell’UE e gli alleati della NATO dovrebbero sostenere militarmente l’Ucraina con almeno lo 0,25 % del loro PIL annuo.”

Il linguaggio della guerra si alimenta di miti (come lo scontro fra autoritarismo e democrazia) per offuscare la ragione collettiva e occultare la dimensione reale di sofferenza, distruzione e morte che tali scelte politiche producono. La nuova campagna di Russia lanciata dagli irresponsabili leader europei, sulla orme di Biden, è molto più disastrosa di quella di Napoleone perché all’epoca non esistevano le armi nucleari. Pretendere di disgregare la Russia, staccandone la Crimea, che dal 2014 costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa, in virtù di una decisione assunta pacificamente dalla sua popolazione con un referendum, vuol dire puntare all’umiliazione del nemico ed escludere ogni possibilità di negoziato.

Molto sangue sarà versato e non sarà solo sangue ucraino, destinato ad esaurirsi. Se si continua su questa strada, ce l’ha ricordato il miniNapoleone francese, sarà inevitabile l’invio di truppe di Stati europei. Se la Russia dovesse trovarsi con le spalle al muro, niente può escludere che metta mano al grilletto nucleare. Di fronte all’irresponsabilità delle élite europee, brilla la saggezza del Presidente John F. Kennedy che sessanta anni fa riuscì a scongiurare la guerra con l’Unione sovietica per effetto della crisi dei missili a Cuba, osservando che: “Le Potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva”.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/03/la-campagna-di-russia-delleuropa/

L’Europa sconfitta cerca l’unità nella guerra

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di Piero Bevilacqua  (storico e saggista)

L’Unione Europea deve fronteggiare, in questo momento, le due più gravi sconfitte storiche subite da quando esiste. Due disfatte in parte intrecciate e che si condizionano a vicenda.

La prima è in conseguenza dello scacco inflitto dalla Russia alla Nato in Ucraina, la seconda si racchiude nel bilancio fallimentare delle politiche economiche ordoliberistiche su cui l’Unione è nata, che continuano a ispirare la condotta degli Stati membri.

Negli ultimi due anni quasi tutti i governi europei si sono messi a servizio degli USA e della Nato per sostenere la cosiddetta resistenza ucraina contro l’invasione russa. Hanno inviato armi e sostegni di vario genere, imposto sanzioni con cui danneggiavano anche le proprie economie, e sottratto risorse economiche alle proprie attività produttive e al welfare.

L’Europa, poi, ha continuato e addirittura rafforzato il proprio impegno a favore delle operazioni della Nato, anche quando la vera ragione di quella guerra è apparsa pienamente manifesta: sconfiggere la Russia, disgregare il corpo composito della Federazione, con i suoi 24 Stati e circa 200 etnie, effettuare un cambio di regime, poter controllare quell’immenso Paese senza dover rischiare un conflitto atomico, per poi aprire la partita definitiva con la Cina.

Ora l’esito di due anni di guerra – da cui la Russia emerge militarmente vittoriosa, rafforzata sotto il profilo economico, rinsaldata sia nel suo gruppo dirigente sia nel collante nazionalistico che rende coesa la popolazione (vistasi minacciare di invasione da tutto l’Occidente) – mette a nudo l’errore strategico compiuto dai Paesi UE al carro della Nato e conferma, in modo drammatico, la pochezza della politica estera dell’Unione Europa.

Sul piano economico il gigante UE, arrivato a 28 Stati prima della Brexit, che aspirava a risultati straordinari di sviluppo, oggi mostra un non diverso bilancio fallimentare. Anche solo utilizzando il parzialissimo indicatore del Prodotto interno lordo (PIL) vediamo che la sua crescita è stata volatile e modesta, non oltre il 3% a partire dal 2000, con fasi di forte ristagno dal 2008 al 2012, e con marcati squilibri al suo interno. Se la Germania con la sua sleale politica commerciale si è notevolmente rafforzata, l’Italia, com’è noto, è stata trascinata in un conclamato declino. Naturalmente l’economia non si esaurisce nel solo andamento numerico di un indicatore astratto, essa è metafisica senza la società. E, dovremmo aggiungere, senza l’ambiente e il calcolo dei danni a esso inflitto. Qui, però, non c’è spazio per affrontare il tema.

La società europea ha assistito, negli ultimi 30 anni, a fenomeni devastanti: il declassamento del ceto medio, base storica della sua stabilità sociale; la crescita lacerante delle disuguaglianze a livello di ceti sociali e di territori; l’esplosione del precariato e la ricomparsa del lavoro povero, come agli inizi della rivoluzione industriale. Nelle campagne è rinato il lavoro schiavile o semi schiavile. Un esercito di dannati, immigrati dai più diversi Paesi, che consente i prezzi relativamente bassi dei generi alimentari e i profitti dei giganti dell’agrobusiness e delle catene di distribuzione. Le temperature in costante ascesa e il caos climatico accrescono poi, di anno in anno, i danni agli habitat del territorio continentale (incendi, alluvioni, eccetera).

Queste due evidenti sconfitte, la seconda manifesta ormai da tempo, hanno un evidente impatto di impopolarità sulle élites dirigenti che hanno governato sin qui il vecchio Continente.

E i partiti da essi rappresentati (la CDU tedesca, il PD, il PPE spagnolo, i vari partiti francesi, dal 2017 con En Marche di Macron, eccetera) hanno visto rafforzata la loro politica moderata anche con il convergere sulle loro posizioni di gran parte dei partiti socialisti e sedicenti di sinistra (su tutti la SPD tedesca).

Grazie alla crescente evanescenza politico-ideologica dei socialisti negli ultimi anni, il Parlamento UE ha trovato delle forme davvero sinistre di unità. Quando ad esempio ha ratificato, con aperta disonestà intellettuale, l’equiparazione del comunismo al nazismo; allorché ha votato l’appoggio militare all’Ucraina e quando si è opposto al cessate il fuoco a Gaza. Una indistinzione di posizioni che fa di queste élites un corpo unico su cui, assai facilmente, si sta sollevando da tempo un vasto fronte oppositivo tanto della società civile che delle forze politiche, che a ragione lo individuano come il responsabile unico dei fallimenti di cui ragioniamo.

Quali sono queste forze, qual è la loro cultura, qual è il loro indirizzo politico, quali le loro prospettive? Non è facile in un breve articolo (ammesso che ne possieda la competenza) dare un’idea, sia pure sommaria. Quel che si può dire con una certa sicurezza è che, in altre condizioni storiche, una élite che ha così clamorosamente fallito su tutti i piani presi in considerazione sarebbe stata tolta rapidamente di scena, forse anche in forme violente.

Quel che sta accadendo mostra i segni di un altro scenario: l’avanzata a tutto campo delle formazioni di destra e di estrema destra. Formazioni con cui, molto probabilmente, i partiti responsabili di 25 anni di politica UE si accorderanno per una strategia dagli esiti ancora incerti. Esiti sicuramente nefasti per le condizioni sociali dell’Europa e per i suoi progetti progressisti: in primis le politiche dell’immigrazione e i programmi ambientalisti del Green New Deal. La drammatica frantumazione dei partiti e partitini della sinistra, ancora impegnati a lacerarsi, incapaci di comprendere che una qualunque forma compromissoria di unità varrebbe mille volte più di qualunque intransigente purezza programmatica, mostra in largo anticipo che la più grave crisi dell’Europa dalla Seconda guerra mondiale non avrà, al momento, uno sbocco progressista e di avanzamento della democrazia.

E’ necessario, perciò, interrogarsi, nella ristretta economia di queste note, su quali possono essere le linee di azione delle forze politiche che vorranno contrastare lo scenario emergente dalle elezioni europee del 6 giugno 2024. Ricordiamo che la sconfitta in Ucraina diventa il pretesto per una politica di riarmo generale del vecchio Continente. Il 10 febbraio 2024 il Consiglio e il Parlamento europeo hanno approvato il nuovo Patto di stabilità che prevede l’aumento delle spese militari di tutti gli Stati membri, come programma obbligatorio soggetto a sanzioni. La Germania, il Paese origine e agente di due guerre mondiali, progetta un riarmo atomico. La SPD, capeggiata da Olaf Scholz, un nano politico che si è fatto umiliare dagli USA, e ha trascinato la Germania nella più grave crisi economica degli ultimi decenni, fa ritornare il suo partito ai fasti dei crediti di guerra del 1914, varati per finanziare l’esercito destinato al massacro del primo conflitto mondiale.

Credo – anche se i governi sono divisi su questa strategia – che la conversione al bellicismo nasconda intenzioni e finalità non dette. Intanto, è una forma propagandistica di riscatto di fronte all’umiliazione anche tecnologico militare subita in Ucraina. È probabilmente un avvio – camuffato, per non impensierire troppo le amministrazioni USA – di una politica di difesa europea indipendente dalla Nato. L’incombenza della ipotetica rielezione di Donald Trump alla presidenza degli USA, del resto pare renderlo necessario. Tuttavia, come già osserviamo, queste élites – sinora divise, incapaci di una politica estera comune, assolutamente prive di senso morale e mancanti di visione generale – cercheranno la loro unità e il consenso presso l’opinione pubblica continentale trasformando l’immaginario collettivo con una campagna informativa, senza precedenti, di retoriche belliciste. In Italia si sta facendo già nella pubblicità televisiva, nelle scuole, nel confronto politico corrente, eccetera.

Credo che questa nuovo atteggiamento militaresco, nefasto e pericoloso offra, tuttavia, una grandissima occasione di ricomposizione nel Continente del fronte progressista. Una sinistra popolare, liberata dai settarismi novecenteschi, può ovviamente trovare largo consenso di massa denunciando l’assurdo di una crescente spesa per la guerra a fronte del disinvestimento nella sanità, nella scuola, eccetera. Tutto l’arcipelago dei movimenti ambientalisti può essere coinvolto in un ampio fronte pacifista, al fine di denunciare i governi che costruiscono mezzi di annientamento degli uomini e di distruzione della natura, sottraendo risorse agli impegni per fronteggiare gli squilibri ambientali e il riscaldamento climatico.

Infine, ricordiamo un’altra potenzialità politica che la drammatica virata militarista dell’UE offre. È noto che si tenterà di costruire non solo una difesa europea, che sarebbe accettabile, ma anche un esercito europeo. Ebbene, una volta tanto, anche la sinistra potrà mettere in campo, nel discorso pubblico, l’arma potente della paura. Potrà denunciare che alle nuove generazioni, a cui è stata tolta la stabilità del lavoro, a cui viene messa in forse la speranza di poter vivere in un pianeta abitabile, viene ora prospettata la minaccia dell’arruolamento militare, l’avvenire fosco di una nuova guerra in territorio europeo. Noi possiamo dunque urlare alle famiglie del Continente che le attuali élites della UE preparano ai propri figli, dopo tante promesse di magnifiche e progressive sorti, un avvenire di morte in trincea.

Foto di Mediamodifier da Pixabay

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

L’Euro, il Lavoro, la Sinistra

Euro.

di Massimo D’Antoni

L’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.

Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».

Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice

Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi. Nel corso degli anni Ottanta l’obiettivo di controllo dell’inflazione aveva finito per prevalere sulla lotta alla disoccupazione. Hahn, studioso di equilibrio economico generale, tutt’altro che un eterodosso su piano scientifico e di orientamento politico liberale, arrivava ad affermare in quell’intervista che «il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice».

C’era una volta il PCI

Consapevolezza del fatto che tra irrigidimento del cambio e piena occupazione ci fosse un potenziale conflitto aveva del resto mostrato il PCI quando, nel 1978, si era opposto all’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo. Durante la discussione alla Camera, l’allora on. Napolitano aveva evidenziato come l’adesione allo SME, in presenza di una “tendenza” della lira a svalutarsi rispetto al marco tedesco, avrebbe determinato la necessità di adottare politiche restrittive: «il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita».

Un quindicennio dopo, agli inizi degli anni Novanta, la posizione delle forze politiche, anche quelle di sinistra, è ben diversa. Nel frattempo molte cose sono del resto cambiate, sul piano politico economico e culturale. Il decennio segnato dall’egemonia reaganiana e thatcheriana ha segnato profondamente gli orientamenti di politica economica in tutti i paesi. Il vecchio modello di crescita, caratterizzato dall’aumento dei consumi di massa trainato dalla crescita dei salari è ormai un ricordo, lo si è sostituito con l’invito ad arricchirsi, a sfruttare le opportunità offerte dallo sviluppo dei mercati finanziari, dalla mobilità dei capitali. La crescita delle diseguaglianze non è percepita come un problema, ma semmai come un ostacolo al perseguimento dell’efficienza e all’ampiamento dei margini di profitto. Di questo nuovo modello, che incoraggia l’indebitamento privato, si vedrà l’esito con la crisi finanziaria del 2007.

Poi venne Maastricht, la moneta senza Stato

È in questo contesto culturale che viene definita l’architettura dell’Unione europea e vengono disegnate le istituzioni che porteranno all’Unione monetaria e all’adozione dell’euro. Il Trattato di Maastricht è figlio di quest’epoca e si vede.

Alla Banca centrale europea, concepita sul modello della Bundesbank. viene assegnato un mandato limitato al perseguimento della stabilità dei prezzi. Una differenza non marginale rispetto alla “cugina” americana, visto che alla Federal Reserve persegue l’obiettivo di controllo dell’inflazione congiuntamente a quello di massimizzare l’occupazione. Un mandato definito in modo così ristretto è del resto una logica conseguenza del fatto che la BCE viene costituita come istituzione sovranazionale, in assenza di una vera controparte politica dotata di un’autonoma capacità fiscale. L’euro nasce come esperimento di “moneta senza Stato”.

Si può ben argomentare che la natura tecnica della BCE sia in realtà una finzione. All’interno del direttorio il peso politico degli stati conta eccome e del resto non potrebbe essere altrimenti, essendo del tutto fantasiosa l’idea di una politica monetaria che non abbia, per l’appunto, un carattere fortemente politico. La vernice “tecnica” che si dà all’istituzione di Francoforte ha semmai l’effetto di renderne l’indirizzo politico meno trasparente, funzione di rapporti di forza che riflettono il grado di “ricattabilità” dei paesi in funzione della loro esposizione alle pressioni dei mercati finanziari. Nella intervista già citata, Frank Hahn aveva affermato che è «difficile pensare a una istituzione politicamente più destabilizzante» di una Banca centrale europea in assenza di un governo federale.

L’imperativo della mobilità dei capitali

Nel sottolineare questi aspetti non vorremmo dare l’impressione che l’impianto del Trattato di Maastricht e della moneta unica sia stato definito nella totale inconsapevolezza dei protagonisti dell’epoca. Le scelte di quegli anni arrivarono dopo quasi due decenni di tentativi di trovare una nuova definizione dei rapporti tra valute dopo la fine del sistema di Bretton Woods. Nell’ambito di tale sistema la stabilità dei cambi veniva assicurata dalle limitazioni dei movimenti dei capitali e della possibilità di aggiustamenti concordati del cambio in presenza di squilibri fondamentali tra le economie. Vent’anni dopo il problema era ulteriormente complicato dalla progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata nel corso degli anni Ottanta e fissata come uno dei cardini, una delle “quattro libertà” che segnavano il passaggio dalla Comunità economica all’Unione europea. È noto come fissità del cambio, mobilità dei capitali e conduzione di un’autonoma politica monetaria rappresentino una “triade impossibile”: delle tre, almeno una deve essere necessariamente abbandonata. Dopo la difficile esperienza del Sistema monetario europeo, culminata per il nostro paese con l’uscita forzata dopo la svalutazione traumatica del settembre 1992, sembrò che la soluzione fosse quella di rilanciare: la moneta unica avrebbe escluso la possibilità di ripetere tale esperienza rendendo il cambio immodificabile e avrebbe consentito di recuperare una relativa capacità di gestione della politica monetaria a livello sovranazionale. La verità è che si era affermata la convinzione, di impronta monetarista, che le politiche di stabilizzazione macroeconomica dovessero avere un ruolo ben più limitato di quanto indicato dall’impianto teorico keynesiano. Anche per questo sembrò che il prezzo da pagare, la rinuncia all’utilizzo della leva monetaria, fosse modesto.

Venne scartata l’alternativa del cambio flessibile. Si diceva che un cambio flessibile avrebbe comportato ostacoli al commercio intracomunitario, ma nessun economista internazionale darebbe credito a un’argomentazione del genere. È invece chiaro che il cambio flessibile avrebbe ostacolato la mobilità dei capitali, che evidentemente non si voleva in alcun modo sacrificare.

Il modello tedesco e la cura degli squilibri a colpi di austerità

Il modus operandi della BCE era ispirato, lo abbiamo detto, a quello della Bundesbank, con il suo orientamento “conservatore” e una nozione estrema di indipendenza dalla politica (indipendenza che, come abbiamo detto, non esclude che le scelte della banca centrale avessero una rilevante dimensione politica). La storia monetaria della Germania federale racconta l’utilizzo della leva monetaria come strumento di contenimento delle richieste sindacali, e quindi della competitività attraverso il contenimento dei costi, nonché di promozione di una moneta forte in grado di attrarre capitali da impiegare nel finanziamento del commercio estero.

La creazione dell’euro nei fatti era coerente con l’estensione all’intera area del “modello tedesco”, di un’economia orientata all’export, che non esita a contenere la domanda interna per mantenere un avanzo di parte corrente.  Anche da questo punto di vista l’unione si presentava come una sfida alla ragione economica. Il compianto Marcello De Cecco, che pure non ha mai ritenuto che vi fossero alternative all’adesione all’euro, sottolineava un poco “invidiabile” primato storico della zona euro: «è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla.»

La speranza, o l’illusione, di coloro che vedevano nell’unione monetaria un’occasione per attuare, liberati dal vincolo della difesa della valuta, politiche espansive e favorevoli alla crescita, doveva scontrarsi con la realtà dei rapporti di forza interni all’UE. Come è stato reso evidente dalla risposta alla crisi dei debiti sovrani, nell’Europa dell’euro ha sempre prevalso l’idea che gli squilibri andassero curati a colpi di austerità e che il problema fossero l’eccesso di indebitamento e la crescita della spesa pubblica.

Vincolo esterno, scelte impopolari e prive di sostegno democratico

Ma non è nostra intenzione caricare di eccessive responsabilità la Germania. Il tema del rapporto tra Europa e lavoro ha molto a che vedere anche con il modo in cui l’appartenenza all’Unione è stata interpretata dalla classe politica nazionale. L’idea del «vincolo esterno» capace di far apparire come necessarie scelte impopolari e prive di sostegno democratico è stata oggetto di numerose analisi.

In un saggio scritto insieme a Lucio Baccaro [Baccaro e D’Antoni, 2022] abbiamo provato a capire in che misura l’utilizzo del vincolo europeo possa essere alla base della stagnazione economica italiana a partire da metà anni Novanta. La nostra tesi è che il vincolo sia stato utilizzato per «forzare» un insieme di riforme di impronta neoliberale che, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbero dovuto realizzare la modernizzazione economica del Paese, liberando il sistema dai vincoli di natura ideologica (incarnati dalle tradizioni “popolari” cattolica e comunista) e istituzionale che frenavano un pieno dispiegamento delle forze della concorrenza.

Nello studio prendiamo in esame l’utilizzo del vincolo esterno dal punto di vista delle politiche di bilancio, di quelle industriali e delle politiche del lavoro, mostrando come in ciascuno di questi ambiti gli effetti siano stati ben diversi, probabilmente di segno contrario, rispetto a quanto preventivato. L’analisi può arrivare a giustificare la conclusione che sarebbe stato meglio ritardare o addirittura evitare l’ingresso del Paese nella moneta unica.

La progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro

Con riferimento specifico al mercato del lavoro, ovvero l’aspetto che più da vicino rileva per questo intervento, l’adesione alla moneta unica ha favorito e giustificato la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, iniziata con le «riforme Treu» a fine anni Novanta, e proseguita fino alla riforma dell’art. 18 attuata dal governo Renzi, passando per il progressivo allentamento dei vincoli all’utilizzo dei contratti temporanei da parte dei governi Berlusconi. L’effetto della riduzione delle garanzie a tutela del lavoro è stato quello di aumentare l’incidenza di forme precarie di occupazione. L’adozione del vincolo esterno del cambio super-fisso ha costretto alla rimozione del «vincolo interno» del mercato del lavoro, consentendo la creazione di lavori a basso costo e bassa tutela. Ciò ha consentito a molte imprese di sopravvivere in una situazione di perdita di competitività, ma ha anche scoraggiato gli investimenti per la creazione di lavoro qualificato. In una situazione di elevata sostituibilità del lavoratore e accorciamento dell’orizzonte temporale dell’impiego in una stessa impresa, né impresa né lavoratore hanno incentivo a investire in capitale umano. La modesta dinamica della produttività osservata dall’adozione dell’euro in poi nel nostro Paese trova qui una spiegazione ben più convincente rispetto ad altre interpretazioni che puntano il dito sulla mancanza di meritocrazia o altri mali antichi del nostro Paese.

I peccati di ingenuità della sinistra

Il nostro sommario richiamo ad aspetti che sono ormai noti nel dibattito lascia aperti diversi interrogativi. Alcuni relativi al passato. Perché la sinistra ha aderito in modo così acritico a un processo di integrazione attuato con modalità che indebolivano la sua base sociale di riferimento? Perché il mondo culturale e accademico progressista non ha saputo mettere insieme elementi e conclusioni consolidate nell’analisi economica, così da evidenziare per lo meno sui rischi cui si stava andando incontro? Naturalmente, la dimensione economica è solo un aspetto della questione. L’ampio consenso con il quale sono stati accolti i passaggi che hanno portato prima al mercato comune, poi alla comunità economica e infine all’unione economica e monetaria, sono stati giustificati, in particolare a sinistra, con l’idea che il governo dei processi di globalizzazione e la protezione dalle turbolenze dei mercati finanziari e valutari rendessero necessaria una dimensione adeguata, ben superiore a quella degli stati nazionali. Ora vediamo più chiaramente che anche da questo punto di vista si è peccato, quanto meno, di ingenuità: lungi dal rappresentare una protezione, l’Unione europea è diventata in molte occasioni veicolo di quelle stesse forze dalle quali avrebbe dovuto fornire protezione.

L’illusione di «correggere» con una «vera» unione politica e fiscale

Una seconda e più fondamentale domanda riguarda le prospettive. Quali sono gli spazi per attenuare i vincoli descritti e tornare a proporre politiche favorevoli al lavoro e in grado di limitare l’erosione dei sistemi di welfare? Una risposta a questa domanda appare particolarmente difficile. Se da un lato è irrealistico immaginare di tornare indietro, smantellando l’architettura creata in questi trent’anni, dall’altro appare ugualmente velleitaria la prospettiva di chi immagina di «correggere» tale architettura completandola con una vera unione politica e fiscale. Per tale obiettivo mancano infatti le condizioni minime. Ingredienti base sarebbero sul piano fiscale un meccanismo di trasferimento e redistribuzione comunitario analogo a quello di un vero stato federale, sul piano politico un cambiamento istituzionale radicale, che sostituisca l’approccio intergovernativo con forme di partecipazione politica e democratica a livello di Unione che non si vedono all’orizzonte. Non basterebbe infatti un’operazione di ingegneria istituzionale, sarebbe necessario creare un vero «demos» europeo. Qualcosa che appare tano meno probabile quanto più l’unione si allarga per includere paesi distanti culturalmente e per collocazione geo-politica.

Il nodo della collocazione geopolitica

Se non è possibile andare né avanti né indietro, in termini pragmatici ciò che si può fare è cercare di conquistare, nel contesto presente, quanto più spazio è possibile per la difesa delle ragioni del lavoro e della giustizia sociale. In questo senso, comprendere la natura dei vincoli e dei processi che li hanno generati può essere un passo importante per non farsi trovare impreparati e non ripetere in futuro gli stessi errori. Del resto, la situazione è ben lungi dall’essere immobile. Non ci sembra azzardato affermare che le dinamiche puramente economiche hanno oggi meno rilevanza che nel passato prossimo e sembrano invece piegarsi alla logica di trasformazioni di altra natura. Prima fra tutte il ridisegno dei rapporti internazionali, con la probabile fine del modello unipolare che ha caratterizzato il periodo successivo all’implosione del blocco sovietico. Da questo punto di vista, una capacità di lettura della realtà che non si limiti alle categorie economiche ma le integri con una conoscenza interdisciplinare, che tenga adeguatamente conto della dimensione geo-politica, appare quanto mai urgente.

FONTE: https://fuoricollana.it/leuro-il-lavoro-la-sinistra/

MARIO DRAGHI: La globalizzazione ha fallito

Il discorso tenuto da Mario Draghi al Nabe, Economic Policy Conference di Washington è utile oggetto di lettura e di riflessione. Possibilmente senza restare avvinghiati dalla terminologia liturgica (d’obbligo per Draghi) dell’economia mainstream. Tentando quindi di estrarre dal lungo e in molte parti condivisibile ragionamento le questioni essenziali che possono anche essere riepilogate con un altro linguaggio, più comprensibile e svincolato dallo schema ideologico approntato nei territori del “miliardo d’oro” per attraversare la declinante epoca post-globale: quella per cui, come sostiene Mario Draghi, si dovrebbero preservare i valori alla base della civiltà occidentale evitando che le spinte interne ed esterne mettano definitivamente al tappeto questa costruzione.

Al netto dunque, dell'”ingratitudine” con cui Cina e altri paesi emergenti hanno colto il meglio di ciò che potevano ricevere dalla globalizzazione neoliberista senza venire abbagliati e penetrati dal complesso di valori che dovevano andare a braccetto con essa e conservando le architetture – autoritarie… – proprie degli altri mondi; al netto del fatto che la loro apertura all’occidente è stata solo utilitaristica e non ha consentito “l’esportazione della democrazia”; al netto cioè delle espressioni di natura ideologica a cui evidentemente ci si deve continuare ad aggrappare, tuttavia il discorso di Mario Draghi fotografa lo stato dell’arte di questi ultimi decenni in un modo che fino ad ora non aveva azzardato. E i consigli che dispensa senza remore sembrano essere un messaggio forte alle elites politiche e finanziarie, in parte ancora immerse nel sogno di un mercato che se la può cavare anche senza la politica, o meglio, orientando, come loro meglio aggrada, la dimensione politica nazionale e continentale europea.

Draghi taglia la storia in un prima (di cui è stato uno dei massimi interpreti) e un dopo (in cui sembra aspirare a mantenere quantomeno un ruolo di suggeritore di rango): l’epoca di prima è finita ed è fallita rispetto ai suoi obiettivi; ne è arrivata un’altra, che necessita di una impalcatura molto diversa, soprattutto per l’indispensabile funzione di riequilibrio che la politica dovrà svolgervi se non si vuole che il fallimento si trasformi in sconfitta definitiva.

La politica, nella nuova fase, è chiamata a garantire la riproduzione del territorio – spaziale e valoriale – dell’ Occidentale (una sorta di arrocco preservativo), ma soprattutto a riprodurre concrete condizioni di egemonia all’interno di questo spazio; vale a dire le condizioni materiali per cui gli abitanti/produttori/consumatori/elettori che lo abitano possano garantire il consenso necessario alla sua stabilizzazione. Altrimenti la creatura andrà in fumo, attratta, come sarà, dalle sirene dell’autoritarismo o di altre prospettive e aggredita da una frantumazione ideale e culturale.

Depurato dai suoi elementi ideologici, il discorso propone alcune correzioni al modello: recupera approcci di riequilibrio tra mercato e politica, (con la prevalenza della seconda che dovrebbe caratterizzare l’epoca in cui siamo entrati), di riequilibrio tra flussi di capitale (da sottrarre alla speculazione e riorientare verso gli investimenti), di riequilibrio nella distribuzione della ricchezza (con adeguate politiche salariali, fiscali e monetarie) in modo tale che le spinte disgregative vengano contenute e ricomposte.

Si tratta di una sorta di manuale di politica interna allo spazio occidentale e ai singoli paesi che lo compongono: i quali dovrebbero quindi attrezzarsi alla modifica sostanziale degli approcci prevalenti seguiti fino ad ora, con il passaggio dall’orientamento all’export che ha consentito enormi surplus solo ad alcuni paesi guida della fase di globalizzazione (e alle loro grandi imprese multinazionali, non citate), ad un ri-orientamento al/ai mercati interni tale da migliorarne le condizioni di vita e ambientali.

Un nuovo modello di competizione quindi, che dovrebbe recuperare la logica dei “massimi e migliori sistemi”, (inevitabilmente analoga al tempo della guerra fredda) che è al tempo stesso competizione culturale, organizzativa e redistributiva, quindi competizione ideale che deve essere corroborata da evidenti e concreti risultati ben percepibili dalle masse.

In tutto il discorso Draghi non cita, se non indirettamente quando accenna alle delocalizzazioni e alla competizione sul costo del lavoro, il ruolo centrale delle grandi imprese globali che sono state i soggetti reali della globalizzazione e i veri percettori dei sui vantaggi, come si evince dai picchi di ricchezza raggiunti e accumulati in sempre meno mani: ciò che in senso traslato definiamo “i mercati”. Ma si capisce che il bersaglio sono proprio loro. Non l’astratta globalizzazione ha fallito, ma queste grandi imprese hanno fallito nella loro presunzione di regolare il mondo e gli stessi Stati con gli annessi popoli che li abitano.

E allo stesso tempo, a parte le ovvie e necessitate invettive sull’autoritarismo, sembra di cogliere il riconoscimento di una superiorità verificabile di quei paesi che hanno mantenuto o potenziato la funzione della politica come centro decisivo di progettazione e programmazione economica e sociale: la Cina, da questo punto di vista è certamente l’esempio principe, nella sua capacità di aver utilizzato tutte le opportunità offerte dalla globalizzazione sottraendosi però alla reclamata (da USA & C.) permeabilità totale dei flussi di capitale, a meno che non fossero destinati o destinabili agli investimenti. Ma è proprio il mancato rispetto di queste “regole” di libertà di scorazzare dei flussi di capitale internazionale ad aver consentito il grande sviluppo della Cina, poiché il loro orientamento produttivo ha permesso con successive messe a punto, un sensibile miglioramento delle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone. (Cosa che non ha fatto in maniera adeguata l’Occidente).

In questa competizione tra modelli e sistemi, tra grandi gruppi monopolistici e Stato, sembrano aver fallito i primi e aver vinto il secondo. Dunque, da quanto si coglie dal discorso, bisognerebbe seguire il modello vincente; rivisto e corretto sulla base dei principi costitutivi dello spazio occidentale.

Che questa scelta debba necessariamente implicare un nuovo keynesismo di guerra con massicci investimenti sulla “sicurezza” militare non viene detto. Forse è una variabile implicita dell’approccio proposto. O forse no. La questione, è che ciò che è da salvaguardare non è un generico e impersonale Occidente, ma i suoi attori reali (che continuano ad essere in primis le grandi imprese globali non citate). Il discorso di Draghi puntualizza cioè il perimetro del confronto tra le elìtes di questa parte di mondo e della vaga Europa.


Discorso integrale di Mario Draghi al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale. Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale. Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.

Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia. Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’Ue, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti. Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi Paese o gruppo di Paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.

Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), la Cina non ha notificato all’Omc alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’Omc avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla. Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.

La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera. Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato.

Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia. Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’Ue erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del Pil nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del Pil mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria. Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione.

Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950. Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione. Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno.

La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti. Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione. Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.

La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di Ide che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento. E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito.

L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’Ue danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio. Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui. Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito. In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di Gnl costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo. Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia. Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati.

Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino. La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria. Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul Pil con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’Ue, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere. Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione. Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del Pil. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica. Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto. Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati. Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali.

In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali. Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi. In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani. In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’Ue è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine. In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione.

Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva. In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde.

E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate. Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

Maccartismo in salsa europea

Coloro che dissentono dalla verità ufficiale del Parlamento Europeo che ha identificato la Russia come il nemico da combattere, sono le quinte colonne del nemico, che bisogna smascherare e mettere a tacere.

di Domenico Gallo

Il termine “maccartismo” deriva dal nome del senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy che diresse, negli anni 50 del secolo scorso, la principale Commissione del Senato USA per la repressione delle “attività antiamericane”. L’attività della Commissione consisteva in quella che fu definita la “caccia alle streghe”. La guerra fredda generò, sul piano internazionale una forte contrapposizione fra blocchi militari che si fronteggiarono in Europa in una guerra simulata intorno ad un confine percepito come una “cortina di ferro”. Sul versante interno la guerra fu combattuta identificando come nemici gli attivisti del partito comunista, i funzionari pubblici, gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, sospettati di simpatie comuniste o, semplicemente, antifascisti. Professare idee non conformi alla narrazione ideologica ufficiale, o essere semplicemente sospettati di averle, comportava ogni genere di discriminazione o di esclusione dalla vita sociale. Il film Il prestanome   di Woody Allen (1976) rievocò in modo magistrale la condizione dell’industria culturale nel periodo del maccartismo, quando centinaia di attori, registi e sceneggiatori, sospettati di idee sovversive, furono iscritti nella cosiddetta lista nera in seguito alle indagini della Commissione per le attività antiamericane, perdendo ogni possibilità di continuare a lavorare.

Adesso che lo spirito e la cultura della guerra fredda è ritornato in auge, attraverso la guerra calda combattuta contro la Russia sulla pelle della popolazione ucraina, ci tocca assistere anche al ritorno del maccartismo. Incredibilmente il Parlamento Europeo, che dovrebbe essere la culla dei diritti di libertà, faticosamente conquistati dai popoli europei, ha resuscitato il maccartismo, calpestando i principi solennemente sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalle tradizioni costituzionali comuni ai suoi Stati membri. Lo ha fatto con una Risoluzione approvata l’8 febbraio 2024 avente ad oggetto l’ingerenza russa nei processi democratici europei. Il leit motiv della Risoluzione è lo stesso posto a fondamento del maccartismo: c’è uno Stato nemico (la Russia) i cui “agenti di influenza prendono attivamente di mira tutti i settori della vita pubblica, in particolare la cultura, la memoria storica, i media e le comunità religiose, nonché i politici e le loro famiglie” diffondendo la manipolazione delle informazioni. Vi sono esponenti politici che, prezzolati o meno, assumono posizioni filorusse, volte ad alleviare le sanzioni e l’isolamento internazionale della Russia, col rischio di influenzare i Governi e lo stesso Parlamento europeo. Coloro che dissentono dalla verità ufficiale del Parlamento Europeo che ha identificato la Russia, (già qualificata Stato sponsor del terrorismo), come il nemico contro il quale bisogna prepararsi a combattere, sono le quinte colonne del nemico, che bisogna smascherare e mettere a tacere.  Per combattere meglio la disinformazione e la minaccia di ingerenze straniere, la Risoluzione raccomanda “una più stretta cooperazione con la NATO”. Dunque le c.d. “attività antiamericane” che ossessionavano il sen. MacCarty che ritornano in salsa europea e spingono il Parlamento Europeo a dichiarare che l’ingerenza russa, attraverso le quinte colonne europee “non deve restare impunita”.

La Risoluzione infine: “sottolinea il ruolo chiave del giornalismo investigativo nel rivelare i tentativi di ingerenza straniera e attività occulte”, evidentemente apprezzando quei giornali che, anche in Italia hanno costruito le liste di proscrizione dei filoputiniani, mentre si dimentica di Julen Assange, che rischia la condanna a morte nelle carceri americane per aver rivelato i crimini di guerra dello zio Sam.

Si dice che le tragedie storiche quando si ripetono si trasformano in farsa; anche in questo caso il maccartismo in salsa europea ha il sapore di una farsa, soprattutto perché in Europa la caccia alle streghe è un po’ più difficile da attuare a causa dei vincoli fastidiosi del diritto. Tuttavia la farsa può trasformarsi in tragedia poiché la delegittimazione politica di ogni pensiero critico può favorire l’avverarsi della profezia nera della guerra inevitabile con la Russia, rilanciata, da ultimo, dall’Ammiraglio olandese Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO. Bauer il 18 gennaio ha dichiarato: “Vivere in pace non è un dato di fatto. Ed è per questo che ci stiamo preparando per un conflitto con la Russia”, che potrebbe scoppiare entro “i prossimi 20 anni”. Dobbiamo evitare che la previsione dell’Ammiraglio Bauer diventi una profezia che si autoavvera. Durante le fasi più acute della Guerra Fredda, nessun leader politico o militare si era mai azzardato a dichiarare inevitabile la guerra totale con l’URSS, che infatti è stata evitata. Forse sarebbe il caso di rassegnarsi un po’ di meno alla guerra e prepararsi alla pace, valorizzando il naturale istinto di sopravvivenza del genere umano.

(articolo pubblicato sul Fatto Qutidiano del 16 febbraio 2024 con il titolo: Il maccartismo europeo sogna 20 anni di guerra)

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/02/maccartismo-in-salsa-europea/

LEGGI ANCHE: https://cambiailmondo.org/2024/02/19/la-ridicola-isteria-russofoba-del-parlamento-europeo/

La ridicola isteria russofoba del Parlamento Europeo.

Il parlamento europeo ha approvato, lo scorso 8 ottobre, una risoluzione degna della migliore tradizione della caccia alle streghe; in questo caso, russe, ma sempre eretiche rispetto ad una ortodossia presunta che è la nostra, o meglio quella di chi ci governa.

La Russia attraverso pratiche di spionaggio, corruzione, finanziamenti occulti a partiti di estrema destra e di estrema sinistra o a singoli parlamentari, o a movimenti secessionisti, o con l’uso massiccio di campagne social mirate, ecc. ecc., starebbe mettendo a rischio la democrazia nella U.E., la sua integrità (sic!), i suoi valori (supremi)…

Torna alla mente l’antica favola di Esopo, quella del lupo e dell’agnello che beveva a valle del ruscello e che il lupo accusava di sporcargli l’acqua (a monte).

Il problema pare essere che i russi, dopo aver subito le intrusioni Nato/Ue nel Caucaso, in Ucraina, ecc., siano diventati abili quanto gli occidentali nell’opera di depistaggio, influenza e orientamento delle opinioni pubbliche di altri paesi e comincia a infiltrarsi tra le sue stesse classi dirigenti (compresi i parlamentari europei) parte delle quali sosterrebbero le posizioni e la narrazione russa degli eventi politici (ovviamente quella della guerra Ucraina-Russia, ma supponiamo anche quella che sostiene la necessità di un mondo multipolare rappresentata dai Brics); una pratica antica che ha raggiunto i suoi apici storici nella progettazione scientifica di operazioni in cui hanno brillato anglosassoni e altre potenze centro-europee fino a pochi anni fa e che i russi starebbero ora applicando contro di noi. TUTTO CIO’ E’ ovviamente INSOPPORTABILE !!

Perché questa capacità era riservata solo alla sacra Europa e al Nord America, territori che si sono distinti nel corso della storia, per la tutela della libertà, del diritto, ecc. ecc. (a parte i vari genocidi e massacri che ne hanno costellato la proiezione negli altri continenti).

A prescindere dalla valenza euristica del documento approvato dal Parlamento Europeo – che ha valore nullo in termini scientifici, storici e del diritto – le sue indicazioni e impegni sembrano piuttosto riaffermare – senza spiegarne la valenza e i perché – la dogmatica dell’interpretazione vigente oggi in Europa rispetto al resto del mondo (esclusa ovviamente la Nato e i paesi che vi sono inglobati) e alla Russia in particolare, che è vista come la testa di ariete che scardinerebbe l’ordine costituito (che però fa acqua e da tempo da tutte le parti e in questo senso la risoluzione conferma questo stato di cose).

In realtà il documento appare essere di più un monito e un dispositivo intimidatorio per chi esprime letture, analisi e interpretazioni dei fatti, delle relazioni e rapporti tra l’occidente e altri paesi che non corrispondano ai documenti strategici degli Usa, della Nato e di una UE la cui autonomia politica è chiaramente un miraggio, come mostrano sia la vicenda ucraina, col suo strascico di crisi endemica che ha coinvolto la Germania e tutto il continente e come mostra la sua impressionante paralisi sulla tragica guerra israelo-palestinese.

Il Parlamento europeo, a rigore, avrebbe dovuto emettere nel recente passato qualche sua posizione sul sabotaggio al North Stream che ha intaccato l’economia continentale costringendo centinaia di migliaia di imprese europee fuori mercato e alla loro chiusura o alla delocalizzazione (negli USA) di altre grandi storiche imprese; il parlamento europeo, avrebbe dovuto emettere qualche comunicazione sul genocidio in corso a Gaza; il Parlamento europeo avrebbe potuto impegnarsi sulla vicenda delle intercettazioni USA contro i paesi alleati europei; sull’operato dei servizi segreti Usa e anglosassoni in Europa nei diversi paesi nel corso dell’ultimo mezzo secolo; sulla vicenda della Grecia, la cui economia e società è stata distrutta sugli altari del debito; sulla carcerazione di Julian Assange, che impersona proprio quei valori di libertà che ritiene di rappresentare; su tante altre questioni che riguardano la sovranità stessa dell’Europa nel suo insieme e dei diversi paesi dell’Unione.

Se lo fa ora, in questo modo verso la Russia (paese europeo) non è molto credibile; anzi, rischia di sconfinare nel ridicolo, anche perché la sintonia coi popoli che dovrebbe rappresentare è scarsissima: tutte le indagini demoscopiche degli ultimi mesi danno una maggioranza contro la prosecuzione della guerra in Ucraina e un giudizio chiaro contro Israele per ciò che sta facendo in Palestina.

Viene spontanea la domanda su cosa sia questo Parlamento europeo, nell’anno in cui siamo chiamati a rinnovarlo. E di cosa sia questa Europa che si atteggia a garante di valori essenziali razzolando tranquillamente nell’aia come un cane al guinzaglio che abbaia verso il nemico che le indica il padrone.

Invitiamo alla lettura attenta della risoluzione del P.E. così da prepararci in modo opportuno al voto del prossimo giugno.

FONTE: https://emigrazione-notizie.org/?p=45028

Leggi o scarica il documento del P.E.

Parlamento europeo 2019-2024

TESTI APPROVATI P9_TA(2024)0079

Russiagate: le accuse di interferenza russa nei processi democratici dell’Unione europea.

Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 2024 sul Russiagate: le accuse di ingerenza russa nei processi democratici dell’Unione europea (2024/2548(RSP))

Il Parlamento europeo,

– vista la sua decisione del 13 settembre 2023 sulle modifiche al regolamento del Parlamento al fine di rafforzare l’integrità, l’indipendenza e la responsabilità,

– vista la sua risoluzione del 13 luglio 2023 sulle raccomandazioni per una riforma delle norme del Parlamento europeo in materia di trasparenza, integrità, responsabilità e lotta alla corruzione,

– vista la sua risoluzione del 1º giugno 2023 sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea, inclusa la disinformazione,

– vista la sua risoluzione del 9 marzo 2022 sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea, inclusa la disinformazione,

– viste le sue precedenti risoluzioni sulle relazioni UE-Russia, in particolare quella del 23 novembre 2022 sul riconoscimento della Federazione russa come Stato sostenitore del terrorismo,

– vista la sua risoluzione del 19 settembre 2019 sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa,

– vista la sua risoluzione del 17 gennaio 2024 sulla coscienza storica europea,

– vista la sua risoluzione del 1° marzo 2022 sull’aggressione russa contro l’Ucraina,

– vista la relazione del Servizio europeo per l’azione esterna del 23 gennaio 2024 dal titolo “Seconda relazione del SEAE sulla manipolazione delle informazioni e le minacce di ingerenza estere – Un quadro per la difesa in rete”,

– vista la comunicazione della Commissione del 12 dicembre 2023 dal titolo “Difesa della democrazia” (COM(2023)0630),

– vista la proposta presentata dalla Commissione di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2023, che stabilisce requisiti armonizzati nel mercato interno sulla trasparenza della rappresentanza d’interessi esercitata per conto di paesi terzi e che modifica la direttiva (UE) 2019/1937 (COM(2023)0637),

– vista la comunicazione della Commissione del 3 dicembre 2020 sul piano d’azione per la democrazia europea (COM(2020)0790),

– visto il principio giuridico della presunzione di innocenza,

– visti il suo regolamento e il codice di condotta dei deputati al Parlamento europeo,

– vista la sua risoluzione del 16 settembre 2021 sul tema “Rafforzare la trasparenza e l’integrità nelle istituzioni dell’UE creando un organismo europeo indipendente responsabile delle questioni di etica”,

– visto l’articolo 132, paragrafi 2 e 4, del suo regolamento,

A. considerando che le ingerenze straniere, la manipolazione delle informazioni e la disinformazione costituiscono una grave violazione dei valori e principi universali su cui si fonda l’Unione, quali la dignità umana, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la democrazia e lo Stato di diritto;

che la fiducia nell’integrità del Parlamento e nello Stato di diritto è fondamentale per il funzionamento della democrazia europea;

B. considerando che vi sono prove di ingerenza e manipolazioni da parte della Russia in molte democrazie, nonché del suo sostegno pratico a forze estremiste ed entità radicali per promuovere la destabilizzazione dell’Unione;

C. considerando che la commissione speciale del Parlamento sulle ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell’Unione europea, inclusa la disinformazione, ha evidenziato in dettaglio gli sforzi e le operazioni guidati dalla Russia per infiltrare le democrazie europee e le istituzioni dell’UE ed esercitare su di esse la propria influenza e ingerenza; che la risposta del Parlamento europeo alle ingerenze straniere è diventata più attenta; che, tuttavia, devono essere ancora adottate misure più rigorose e riforme interne per garantire una protezione efficace contro indebite ingerenze esterne;

D. considerando che la Russia sta utilizzando un’ampia gamma di tattiche di guerra ibrida per conseguire i suoi obiettivi, nell’ambito di una strategia più ampia volta a danneggiare il corretto funzionamento dei processi democratici europei; che il ricorso alle ingerenze straniere e alla manipolazione delle informazioni, come mezzo per dividere le società democratiche, è stato il precursore della guerra di aggressione non provocata della Russia nei confronti dell’Ucraina, e da allora è aumentato; che la diffusione della disinformazione da parte della Russia attraverso gli organi di informazione tradizionali e le piattaforme dei social media, l'”elite capture”, la pirateria informatica contro i candidati alle elezioni e gli attacchi informatici sono aumentati a un livello senza precedenti;

E. considerando che la falsificazione sistematica della storia fa parte della guerra dell’informazione russa da decenni;

F. considerando che il Cremlino gestisce un’ampia rete di agenti di influenza in tutta l’UE, che hanno condizionato i processi elettorali e le politiche su questioni strategiche fondamentali quali le infrastrutture energetiche; che tali agenti di influenza prendono attivamente di mira tutti i settori della vita pubblica, in particolare la cultura, la memoria storica, i media e le comunità religiose, nonché i politici e le loro famiglie; che decine di indagini hanno dimostrato legami tra importanti attori politici e pubblici europei, attivi o in pensione, e il Cremlino;

G. considerando che continuano a essere rivelati i finanziamenti provenienti da paesi terzi per attività politiche e a favore di politici all’interno dell’Unione europea prima e dopo il 24 febbraio 2022, in particolare dalla Russia; che tali finanziamenti rappresentano un rischio per l’integrità dei processi democratici negli Stati membri dell’UE e necessitano di indagini approfondite per chiamare i complici a rispondere delle loro azioni; che il Cremlino ha patrocinato e sostenuto una serie di partiti e politici di estrema destra e di estrema sinistra in Europa e, tra l’altro, ha permesso al partito di Marine Le Pen di ottenere un prestito di 9,4 milioni di EUR nel 2013; che da allora Le Pen e i membri del suo partito hanno espresso in numerose occasioni la loro posizione a favore del Cremlino;

H. considerando che la Russia ha stabilito contatti con partiti, personalità e movimenti per poter contare su attori all’interno delle istituzioni dell’Unione in modo da legittimare le proprie posizioni, sostenere i movimenti indipendentisti e i propri governi per procura ed esercitare pressioni affinché vengano alleviate le sanzioni e attenuate le conseguenze dell’isolamento internazionale; che i deputati al Parlamento europeo di alcuni gruppi politici, nonché alcuni deputati non iscritti, hanno diffuso in Parlamento una propaganda spudorata a favore del Cremlino;

I. considerando che vi sono anche esponenti politici “Russlandversteher” (che comprendono le motivazioni della Russia) all’interno di partiti politici tradizionali; che diverse personalità pubbliche degli Stati membri dell’UE, compresi ex capi di governo e membri di gabinetto, tra i quali spicca Gerhard Schröder, hanno ricoperto posizioni ben retribuite in società energetiche controllate dal Cremlino; che, anche dopo l’aggressione su vasta scala contro l’Ucraina, alcune di queste persone hanno deciso di non dimettersi e hanno continuato a ricevere dal Cremlino denaro macchiato di sangue, con la complicità silenziosa dei loro partiti politici; che queste persone continuano a utilizzare la loro influenza filorussa sulla loro scena politica sia nazionale che europea;

J. considerando che relazioni di organi di informazione indipendenti del 29 gennaio 2024 hanno presentato prove concrete attestanti che l’on. Tatjana Ždanoka potrebbe aver agito come informatrice per la quinta sezione del Servizio federale di sicurezza della Federazione russa almeno dal 2004 al 2017;

K. considerando che le sue azioni sono state descritte come comprendenti azioni di sensibilizzazione politica per conto della Federazione russa, attraverso l’organizzazione di eventi e la trasmissione di informazioni sul funzionamento interno del Parlamento; che l’inchiesta giornalistica suggerisce che la deputata in questione abbia chiesto almeno una volta ai suoi referenti un pagamento per coprire le spese sostenute in relazione ai servizi resi;

L. considerando che tali accuse si basano, tra l’altro, su quanto è descritto come scambi di posta elettronica trapelati tra la deputata in questione e due funzionari della quinta sezione del Servizio federale di sicurezza russo a partire dal 3 ottobre 2005 in poi;

M. considerando che la deputata in questione è ben nota per la sua posizione a favore della Russia e la costante diffusione di narrazioni contro la Lettonia e contro l’UE durante tutto il suo mandato di deputato al Parlamento europeo, compresa la sua opposizione all’esistenza della Lettonia come paese sovrano e il suo rifiuto di condannare l’invasione russa dell’Ucraina; che la deputata al Parlamento europeo è altresì nota per la sua condotta politica altamente problematica, tra cui la sua partecipazione a una visita di osservazione del referendum nella Crimea occupata dalla Russia nel 2014, una visita al dittatore siriano Bashar al-Assad nel 2016 e la sua partecipazione a Mosca a trasmissioni televisive di propaganda a favore del Cremlino; che la deputata al Parlamento europeo ha deliberatamente dato l’impressione che tali viaggi fossero effettuati per conto del Parlamento europeo o dell’UE; che la deputata in questione ha organizzato e promosso eventi al Parlamento europeo con rappresentanti pro-Cremlino delle regioni Donetska e Luhanska prima della loro annessione illegale; che le attività della deputata sarebbero spesso state patrocinate da gruppi di facciata finanziati dal Cremlino, come la Fondazione Russkiy Mir; che la deputata in questione, insieme ad altri deputati al Parlamento europeo, ha organizzato eventi pubblici e si è recata in Lituania per dimostrare il proprio sostegno a Algirdas Paleckis, cittadino lituano ed ex diplomatico e politico condannato per spionaggio a favore della Russia;

N. considerando che le inchieste giornalistiche hanno da tempo evidenziato i contatti e le strette relazioni personali tra secessionisti in Catalogna, comprese le autorità del governo della comunità autonoma della Catalogna, e il Cremlino; che, secondo quanto riportato da giornalisti investigativi, l’ex diplomatico russo Nikolai Sadovnikov ha incontrato l’allora leader separatista e attualmente deputato al Parlamento europeo Carles Puigdemont a Barcellona alla vigilia del referendum illegale della Catalogna nell’ottobre 2017; che la Russia, coltivando contatti e relazioni, mira a costruire un’influenza politica ed economica per destabilizzare la democrazia nell’Unione europea; che il tribunale d’istruzione n. 1 di Barcellona incaricato dell’indagine sul caso Voloh, che collega, tra l’altro, l’ex Presidente della Catalogna e il suo entourage con la Russia, ha recentemente prorogato l’indagine per sei mesi; che i rappresentanti di un gruppo di secessionisti catalani in Spagna che hanno intrattenuto relazioni con personalità vicine al Cremlino, tra cui la deputata in questione, stanno chiedendo un’amnistia per i loro presunti reati;

O. considerando che la deputata al Parlamento europeo in questione è stata esclusa dal suo gruppo politico e ora siede come membro non iscritto; che la deputata ha ottenuto il sostegno di alcuni altri deputati al Parlamento europeo aventi posizioni pubbliche su questioni internazionali non molto diverse dalle sue;

P. considerando che, a seguito di tali rivelazioni, la Presidente del Parlamento europeo ha immediatamente annunciato l’avvio di un’indagine interna, compreso il deferimento al comitato consultivo sulla condotta dei deputati; che l’indagine è attualmente in corso; che le possibili sanzioni previste dal regolamento comprendono la perdita del diritto all’indennità giornaliera, la sospensione temporanea della partecipazione a tutte o ad alcune delle attività del Parlamento e limitazioni al diritto di accesso alle informazioni riservate o classificate; che il servizio di sicurezza lettone ha annunciato che indagherà sulle accuse;

Q. considerando che la deputata in questione non è l’unico membro del Parlamento europeo ad avere svolto attività che comprendono la partecipazione a false missioni di osservazione elettorale in territori occupati dalla Russia che possono essere confuse con missioni ufficiali del Parlamento europeo; che diversi deputati al Parlamento europeo sono stati sanzionati per tale infrazione in virtù della procedura del gruppo per il sostegno alla democrazia e il coordinamento elettorale; che tali visite si sono svolte sistematicamente in Russia e in territori occupati dalla Russia;

R. considerando che sono stati segnalati casi di deputati al Parlamento europeo che hanno utilizzato le risorse del Parlamento per sostenere e promuovere attività direttamente o indirettamente collegate a casi di ingerenze straniere, ad esempio nel dicembre 2022, quando il canale di propaganda statale bielorusso STV ha avuto accesso ai locali del Parlamento e alla struttura di registrazione video VoxBox all’interno del Parlamento e, di conseguenza, i locali del Parlamento sono stati utilizzati da diversi deputati per creare contenuti di disinformazione a favore del Cremlino e contro l’UE;

S. considerando che nel 2016 il partito al potere in Russia, Edinaja Rossija (Russia Unita), ha firmato un accordo di cooperazione con il partito austriaco di estrema destra FPÖ (Partito della libertà), chiedendo una maggiore cooperazione tra i due partiti e il rafforzamento dei legami politici ed economici tra Vienna e Mosca; che tale accordo è stato firmato alla presenza di un deputato al Parlamento europeo dell’FPÖ, che, da allora, ha ripetutamente chiesto di allentare le sanzioni dell’UE nei confronti della Russia e ha diffuso disinformazione a favore del Cremlino;

T. considerando che il ministero tedesco degli Affari esteri ha smascherato una campagna di disinformazione su vasta scala, presumibilmente orchestrata dalla Russia, sulla piattaforma X, precedentemente nota come Twitter, finalizzata a manipolare l’opinione pubblica; che autorevoli media tedeschi hanno svelato che un dipendente di un membro del Bundestag tedesco appartenente al partito Alternative für Deutschland (AfD, Alternativa per la Germania) è stato identificato come persona di contatto del Servizio federale di sicurezza russo;

U. considerando che da diversi anni alcuni deputati al Parlamento europeo hanno assunto e impiegato cittadini russi simpatizzanti del regime di Putin come tirocinanti, assistenti parlamentari accreditati e consiglieri di gruppo e non hanno smesso di farlo nemmeno dopo l’inizio della guerra di aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina; che nel 2018 e nel 2019 Elizaveta Peskova, figlia di Dmitry Peskov, portavoce di Vladimir Putin, ha lavorato come tirocinante presso un deputato al PE;

V. considerando che, a seguito delle rivelazioni relative al Qatargate, nel settembre 2023 il Parlamento ha aggiornato e rafforzato in modo significativo il suo quadro di integrità interna, tra l’altro sottoponendo ad approfondita revisione il suo regolamento, il codice di condotta dei deputati al Parlamento europeo e le pertinenti decisioni dell’Ufficio di presidenza;

W. considerando che il 2024 è un anno elettorale cruciale e che negli Stati membri sono in programma diverse elezioni presidenziali, nazionali, locali e regionali, oltre alle elezioni europee previste per il 6-9 giugno 2024; che le elezioni europee del 2024 saranno probabilmente un bersaglio speciale per le campagne di disinformazione a livello locale, regionale e dell’UE;

1. esprime la sua totale indignazione e profonda preoccupazione per i continui sforzi della Russia volti a minare la democrazia europea; è costernato per le notizie attendibili che gettano luce sugli sforzi della Russia intesi a fomentare le divisioni tra i cittadini europei reclutando deputati al Parlamento europeo come agenti di influenza e sui suoi tentativi volti a creare sistematicamente un sistema di dipendenze tramite partiti politici europei che fungono poi da amplificatori della propaganda del Cremlino e ne servono gli interessi; ricorda che, perseguendo una strategia a lungo termine di ingerenza straniera, la Russia sta cercando di minare e, in ultima analisi, distruggere la democrazia in Europa; mette in evidenza gli sforzi compiuti da Putin per smantellare completamente qualsiasi forma di democrazia all’interno della Russia e sottolinea che ciò deve essere visto come un segnale di avvertimento a non essere condiscendenti verso gli obiettivi a lungo termine di Putin e pertanto a trattare questi tentativi di ingerenza russa come una questione di estrema gravità; sottolinea che il ricorso a tali tattiche non deve restare impunito; ribadisce il suo invito agli Stati membri a sviluppare e perfezionare ulteriormente i pacchetti di sanzioni adottati nei confronti della Federazione russa e a colmare le lacune nell’applicazione delle misure restrittive attualmente in vigore;

2. condanna inequivocabilmente gli sforzi in atto da parte della Russia per strumentalizzare e falsificare la memoria storica dei periodi più tragici dell’Europa, comprese le conseguenze del patto Molotov-Ribbentrop e del terrore che ne seguì per i territori conquistati dalla Germania nazista e dalla Russia comunista, nel tentativo di giustificare la sua attuale aggressione brutale, illegale e disumana e la sua politica espansionista;

3. esprime profonda preoccupazione per le notizie secondo cui la deputata Tatjana Ždanoka avrebbe agito come informatrice per la quinta sezione del Servizio federale di sicurezza russo mentre esercitava il suo mandato di deputata al Parlamento europeo; sottolinea che un informatore del Servizio federale di sicurezza russo che abbia accesso a benefici e informazioni in qualità di deputato al Parlamento europeo costituirebbe una grave minaccia per la sicurezza e la democrazia dell’Unione; sottolinea che è essenziale che il Parlamento europeo e le autorità lettoni indaghino in modo approfondito sulla questione al fine di determinare senza indugio le sanzioni e i procedimenti penali adeguati;

4. sottolinea che la deputata in questione è stata esclusa dal suo gruppo politico per motivi legati alle sue posizioni sulla Russia e l’Ucraina e ora non è affiliata a nessun gruppo; sottolinea che la stragrande maggioranza dei deputati al Parlamento europeo non condivide le opinioni della deputata in questione e ha condannato in misura egemone l’invasione illegale russa dell’Ucraina, il ricorso della Russia a tattiche di guerra ibrida contro la democrazia europea e altre sue scelte politiche aggressive e antidemocratiche degli ultimi anni; osserva tuttavia che un ristretto numero di deputati al PE ha partecipato ad azioni congiunte con la deputata in questione, esprimendo punti di vista simili e schierandosi apertamente con la Russia;

5. si impegna a fornire pieno sostegno e cooperazione alle autorità lettoni nella loro indagine sulla condotta della deputata in questione; invita le autorità competenti a verificare se la deputata in questione sia perseguibile ai sensi del diritto penale nazionale e rimane pronto a fornire pieno sostegno e cooperazione a tal riguardo;

6. accoglie con favore il deferimento della deputata in questione al comitato consultivo sulla condotta dei deputati; si impegna a porre pienamente in essere il proprio quadro sanzionatorio interno applicabile; osserva che i presunti fatti sono anteriori alla recente adozione della riforma del quadro di integrità del Parlamento; ritiene che le norme di per sé non avrebbero impedito il presunto comportamento riprovevole della deputata al Parlamento europeo; resta tuttavia pronto a valutare e perfezionare ulteriormente il funzionamento e le sanzioni del quadro di integrità del Parlamento, che è stato rafforzato a seguito del Qatargate;

7. sostiene le indagini in corso, ma sottolinea la necessità di rispettare il giusto processo, lo Stato di diritto e i diritti fondamentali; ribadisce che le scelte politiche non possono essere criminalizzate e che i deputati al Parlamento europeo non devono subire ulteriori restrizioni all’espressione delle loro opinioni nell’esercizio del loro legittimo mandato;

8. mette in evidenza altri casi di deputati al Parlamento europeo che servono consapevolmente gli interessi della Russia; sottolinea che le attività di tali deputati al Parlamento europeo stanno compromettendo la sicurezza, la credibilità e la resilienza democratica dell’UE; esprime profonda preoccupazione per i legami che la deputata in questione può avere intrattenuto con altri deputati al Parlamento europeo e denuncia fermamente qualsiasi tentativo interno coordinato di portare avanti l’agenda politica del Cremlino in seno al Parlamento; ritiene indispensabile condurre immediatamente un’indagine interna approfondita al fine di valutare tutti i possibili casi di ingerenze straniere da parte della Russia o altri tipi di ingerenze malevole nell’attività del Parlamento europeo;

9. esprime particolare preoccupazione per le recenti notizie secondo cui le autorità russe stanno fornendo narrazioni specifiche ai partiti politici e agli attori di estrema destra in diversi paesi dell’UE, in particolare in Germania e Francia, al fine di minare il sostegno pubblico all’Ucraina a seguito dell’invasione su vasta scala da parte della Russia nel 2022; sottolinea la gravità dei legami della Russia con partiti e responsabili politici nell’Unione e la sua considerevole ingerenza in movimenti secessionisti che interessano territori europei, come la Catalogna;

10. ribadisce la propria indignazione per le regolari rivelazioni su finanziamenti russi su vasta scala a favore di partiti, esponenti politici, funzionari e movimenti in diversi paesi democratici nel tentativo di interferire e ottenere influenza nei loro processi interni; riconosce che la stragrande maggioranza degli Stati membri ha vietato, in tutto o in parte, le donazioni estere a partiti e candidati politici; esprime preoccupazione per i legami della Russia con diversi partiti ed esponenti politici nell’UE; ricorda che, anche laddove la legge limita le fonti di finanziamento politico, gli attori russi hanno trovato modi per eluderla e hanno offerto sostegno ai propri alleati contraendo prestiti presso banche estere (come nel caso del Front National nel 2016), sottoscrivendo contratti commerciali e di acquisto (come riportato da Der Spiegel e Süddeutsche Zeitung il 17 maggio 2019 relativamente al partito FPÖ e da Buzzfeeds e L’Espresso il 10 luglio 2019 a proposito della Lega per Salvini premier) e facilitando attività finanziarie (come riferito dalla stampa britannica in merito alla campagna Leave.eu);

11. esprime profonda preoccupazione per le presunte relazioni tra i secessionisti catalani e l’amministrazione russa; osserva che l’ingerenza russa in Catalogna, se confermata, formerebbe parte di una strategia più ampia della Russia volta a promuovere la destabilizzazione interna e la disunità dell’UE; esprime profonda preoccupazione per le campagne di disinformazione su larga scala che la Russia ha condotto in Catalogna, così come per i presunti intensi contatti e i numerosi incontri tra gli agenti responsabili dell’ingerenza russa e il movimento indipendentista e il governo regionale della comunità autonoma della Catalogna; invita le autorità giudiziarie competenti a indagare efficacemente sui legami dei deputati al Parlamento europeo asseritamente associati al Cremlino e sui tentativi di destabilizzazione e ingerenza da parte della Russia nell’UE e nei suoi Stati membri; deplora tutti gli attacchi contro i giudici che indagano su tali attività di ingerenza; chiede che i casi dei deputati al Parlamento europeo catalani in questione siano deferiti al comitato consultivo sulla condotta dei deputati;

12. condanna fermamente il recente incidente in Slovacchia, dove il Servizio di intelligence esterno russo, con una mossa provocatoria, ha rilasciato una dichiarazione durante la moratoria preelettorale in cui metteva in discussione l’integrità del processo elettorale della Repubblica slovacca; esprime preoccupazione per il ruolo visibile e diretto che la diplomazia russa svolge nella vita pubblica e politica slovacca sin dalle elezioni parlamentari del settembre 2023;

13. condanna fermamente la campagna di disinformazione su vasta scala portata alla luce dal ministero tedesco degli Affari esteri, presumibilmente orchestrata dalla Russia sulla piattaforma X, con l’intenzione di manipolare l’opinione pubblica in Germania;

14. osserva con preoccupazione che X ha cessato di seguire il codice volontario di buone pratiche sulla disinformazione; esprime preoccupazione per la diffusione di disinformazione e di contenuti illegali sulla piattaforma;

15. ribadisce la sua precedente posizione secondo cui il carattere eccezionale dell’ingerenza straniera russa richiede che le istituzioni nazionali e dell’UE, compreso il Parlamento europeo, profondano sforzi speciali per identificare, affrontare e superare questa minaccia specifica;

16. condanna fermamente i fatti allarmanti rivelati da autorevoli organi di informazione tedeschi secondo cui un impiegato affiliato al partito Alternative für Deutschland (AfD) e associato a un deputato al Bundestag tedesco è stato identificato come persona di contatto del Servizio federale di sicurezza russo, il che desta gravi preoccupazioni riguardo alla potenziale ingerenza straniera all’interno del mondo politico tedesco;

17. ricorda che le ingerenze straniere sono una minaccia sistemica che va contrastata con determinazione; sottolinea che la guerra ibrida e la manipolazione delle informazioni e le ingerenze straniere non sono soltanto questioni di politica estera e di sicurezza, ma minacciano di fatto la vera e propria base delle nostre democrazie; esorta le istituzioni dell’UE ad adottare un approccio trasversale permanente per combattere con maggior efficacia la manipolazione delle informazioni e le ingerenze straniere; ritiene che le ingerenze elettorali che si verificano in uno Stato membro incidano sull’UE nel suo complesso nella misura in cui esse si possono ripercuotere sulla composizione delle istituzioni dell’UE; ritiene che le autorità nazionali non siano in grado di affrontare tali minacce lavorando in isolamento e che l’autoregolamentazione del settore privato non possa risolvere tutti i problemi; plaude al lavoro svolto dal Servizio europeo per l’azione esterna nella sua seconda relazione sulla manipolazione delle informazioni e le minacce di ingerenza estere, pubblicata il 23 gennaio 2024, e raccomanda una più stretta cooperazione con la NATO in tale ambito; resta determinato a portare avanti il suo impegno volto a combattere le ingerenze straniere nell’UE negli anni a venire, tra l’altro attraverso un apposito organo parlamentare;

18. continua a sostenere con fermezza gli sforzi per migliorare e applicare le norme che tutelano l’integrità di questa Istituzione quale pilastro della democrazia europea; ritiene che le accuse riguardanti la deputata in questione evidenzino la necessità di rafforzare la cultura della sicurezza in seno al Parlamento europeo; chiede che sia prestato il massimo livello di attenzione politica e amministrativa alle raccomandazioni per una riforma delle norme del Parlamento europeo in materia di trasparenza, integrità, responsabilità e lotta alla corruzione, adottate il 13 luglio 2023, e chiede la piena attuazione delle misure proposte, tra cui una formazione obbligatoria e periodica in materia di sicurezza e integrità per i deputati e il personale del PE, un adeguato nulla osta di sicurezza e un controllo rafforzato del personale, in particolare di coloro che partecipano a riunioni a porte chiuse; chiede un controllo più rigoroso dell’organizzazione di eventi, degli inviti a ospiti esterni presso il Parlamento e dell’accesso alle piattaforme di comunicazione dell’Istituzione; invita le autorità nazionali a seguire le procedure e un calendario comune ogni volta che viene loro richiesto di rilasciare il nulla osta di sicurezza ai deputati e al personale del Parlamento europeo, nonché per qualsiasi controllo di sicurezza relativo alle istituzioni dell’UE; è fermamente convinto che le risorse del Parlamento, come il patrocinio di eventi o viaggi, la concessione dell’accesso a studi di videoregistrazione e altre piattaforme di comunicazione e il finanziamento di progetti di comunicazione dei gruppi politici o dei deputati al Parlamento europeo, non dovrebbero essere utilizzate per minare i valori dell’UE o per disseminare informazioni ostili da parte di regimi autoritari; ribadisce la propria richiesta di norme più rigorose per i viaggi effettuati dai deputati al Parlamento europeo e pagati da paesi ed entità stranieri; ritiene che andrebbero elaborate norme analoghe per i viaggi effettuati dagli assistenti parlamentari accreditati o dal personale dei gruppi politici;

19. insiste sul suo forte impegno a continuare a realizzare riforme serie e concrete in seno al Parlamento europeo al fine di mostrare tolleranza zero in materia di corruzione e ingerenze politiche improntate alla corruzione e proteggere la democrazia europea;

20. ribadisce il suo sostegno alla creazione, quanto prima possibile, di un organismo indipendente responsabile delle questioni di etica, in linea con la sua risoluzione del 16 settembre 2021; esorta tutte le istituzioni dell’UE a elevare le proprie ambizioni riguardo alla creazione di tale organismo;

21. invita il segretariato del registro per la trasparenza dell’UE a mettere al bando qualsiasi entità che abbia relazioni dirette o indirette con il governo russo, a norma della decisione del Consiglio del 3 giugno 2022 concernente misure restrittive;

22. si attende che la Commissione e il Consiglio attuino il pacchetto per la difesa della democrazia al fine di intervenire con urgenza e colmare le numerose lacune presenti nella legislazione dell’UE sul finanziamento ai partiti, elaborare un regime normativo obbligatorio per le grandi piattaforme e potenziare la ciberdifesa dell’UE contro possibili attacchi al nostro sistema elettorale; esorta le istituzioni dell’UE e gli Stati membri a realizzare investimenti significativi e duraturi nel rafforzamento della nostra resilienza democratica e dello Stato di diritto, anche attraverso misure volte a rafforzare le capacità di controspionaggio dell’UE; sottolinea che le indagini penali sulle accuse di spionaggio sono di competenza degli Stati membri; sottolinea che, in quasi tutti gli Stati membri, sono state scoperte reti di spionaggio russe; invita gli Stati membri a intensificare gli sforzi e la cooperazione, anche per neutralizzare i tentativi di acquisire tecnologie sensibili da imprese dell’UE per alimentare le capacità militari della Russia; accoglie con favore il fatto che diversi paesi dell’UE hanno istituito commissioni speciali di inchiesta dedicate a contrastare l’influenza russa;

23. condanna tutti i tipi di “élite capture” e la tecnica della cooptazione di funzionari pubblici di alto livello ed ex politici dell’UE, tra gli altri, fornendo loro posti di lavoro lucrativi in imprese collegate a governi attivamente impegnati in azioni di ingerenza contro l’UE; chiede di vietare ai deputati al Parlamento europeo di svolgere lavori secondari o attività collaterali retribuiti per conto di organizzazioni o individui inclusi nel registro per la trasparenza o per conto di paesi terzi, al fine di limitare potenziali conflitti di interesse e ingerenze straniere;

24. osserva che le leggi sono essenziali per contrastare la corruzione e i comportamenti criminali ma da sole non bastano per impedire che singoli deputati al PE commettano reati e azioni contrari all’etica; sottolinea che a tutti i gruppi politici del Parlamento europeo spetta una certa responsabilità di monitorare le azioni dei rispettivi deputati e conseguentemente ricorda a tutti i gruppi di agire rapidamente nel caso in cui vengano a conoscenza di un comportamento che desta dubbi circa l’integrità di uno dei loro deputati; esorta tutti i deputati al Parlamento europeo e tutti i gruppi a cooperare pienamente con le pertinenti autorità nazionali e dell’UE in questo contesto;

25. ritiene che elezioni libere ed eque siano al centro del processo democratico ed esorta pertanto le istituzioni dell’UE e gli Stati membri a intraprendere azioni decisive per garantire che l’autorità di governo si basi esclusivamente sulla volontà dei cittadini, senza ingerenze straniere da parte di attori malevoli, prestando particolare attenzione ai preparativi per le elezioni europee del 6-9 giugno 2024; invita gli Stati membri e le istituzioni dell’UE ad attuare strategie di resilienza per le elezioni e sottolinea la necessità di intensificare gli sforzi di monitoraggio permanente e di potenziarne l’attuazione con largo anticipo rispetto alle elezioni, ai referendum e ad altri importanti processi politici in tutta Europa;

26. sottolinea il ruolo chiave del giornalismo investigativo nel rivelare i tentativi di ingerenza straniera e attività occulte; ribadisce il suo appello alle istituzioni dell’UE e agli Stati membri affinché garantiscano finanziamenti sufficienti e sostenibili al giornalismo investigativo;

27. incarica la sua Presidente di trasmettere la presente risoluzione al Consiglio, alla Commissione e al vicepresidente della Commissione / alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza.

Moni Ovadia: Il sionismo è l’opposto dell’ebraismo. Il sionismo è antisemitismo. (VIDEO)

FONTE: OttolinaTV

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