di Jeffrey D. Sachs* per Common Dreams
[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]
George Orwell scrisse in “1984” che “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.” I governi lavorano incessantemente per distorcere la percezione pubblica del passato. Per quanto riguarda la guerra d’Ucraina, l’amministrazione Biden ha ripetutamente e falsamente affermato che la guerra d’Ucraina è iniziata con un attacco non provocato della Russia all’Ucraina il 24 febbraio 2022. In realtà, la guerra è stata provocata dagli Stati Uniti in modi che i principali diplomatici statunitensi avevano previsto per decenni nel periodo precedente la guerra, il che significa che la guerra avrebbe potuto essere evitata e che ora dovrebbe essere fermata attraverso i negoziati.
Riconoscere che la guerra è stata provocata ci aiuta a capire come fermarla. Non giustifica l’invasione della Russia. Un approccio di gran lunga migliore per la Russia sarebbe stato quello di intensificare la diplomazia con l’Europa e con il mondo non occidentale per spiegare e opporsi al militarismo e all’unilateralismo degli Stati Uniti. In effetti, l’incessante spinta statunitense ad espandere la NATO è ampiamente osteggiata in tutto il mondo, quindi la diplomazia russa, piuttosto che la guerra, sarebbe stata probabilmente efficace.
Il team di Biden usa senza tregua la parola “non provocata”, di recente nell’importante discorso di Biden per il primo anniversario della guerra, in una recente dichiarazione della NATO e nell’ultima dichiarazione del G7. I media mainstream favorevoli a Biden si limitano a ripetere le parole della Casa Bianca. Il New York Times è il principale colpevole: ha descritto l’invasione come “non provocata” non meno di 26 volte, in cinque editoriali, 14 colonne di opinione di scrittori del NYT e 7 op-editoriali ospiti!
In realtà le provocazioni statunitensi sono state principalmente due. La prima è stata l’intenzione degli Stati Uniti di espandere la NATO all’Ucraina e alla Georgia per poter circondare la Russia nella regione del Mar Nero con una cintura della NATO (Ucraina, Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia, in ordine antiorario). Il secondo è stato il ruolo degli Stati Uniti nell’installazione di un regime russofobico in Ucraina con il rovesciamento violento del presidente filorusso Viktor Yanukovych nel febbraio 2014. La guerra in Ucraina è iniziata con il rovesciamento di Yanukovych nove anni fa, non nel febbraio 2022 come vorrebbero farci credere il governo statunitense, la NATO e i leader del G7.
La chiave per la pace in Ucraina è rappresentata da negoziati basati sulla neutralità dell’Ucraina e sul non allargamento della NATO.
Biden e la sua squadra di politica estera si rifiutano di discutere queste radici della guerra. Riconoscerle minerebbe l’amministrazione in tre modi. In primo luogo, rivelerebbe il fatto che la guerra avrebbe potuto essere evitata, o fermata in anticipo, risparmiando all’Ucraina l’attuale devastazione e agli Stati Uniti oltre 100 miliardi di dollari di spese finora sostenute. In secondo luogo, rivelerebbe il ruolo personale del Presidente Biden nella guerra, come partecipante al rovesciamento di Yanukovych e, prima ancora, come convinto sostenitore del complesso militar-industriale e precursore dell’allargamento della NATO. In terzo luogo, spingerebbe Biden al tavolo dei negoziati, minando la continua spinta dell’amministrazione all’espansione della NATO.
Gli archivi mostrano in modo inconfutabile che i governi statunitense e tedesco promisero ripetutamente al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che la NATO non si sarebbe mossa “di un solo centimetro verso est” quando l’Unione Sovietica avesse sciolto l’alleanza militare del Patto di Varsavia. Ciononostante, la pianificazione statunitense per l’espansione della NATO è iniziata all’inizio degli anni ’90, ben prima che Vladimir Putin diventasse presidente della Russia. Nel 1997, l’esperto di sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski ha delineato la tempistica dell’espansione della NATO con notevole precisione.
I diplomatici statunitensi e i leader ucraini sapevano bene che l’allargamento della NATO avrebbe potuto portare alla guerra. Il grande statista statunitense George Kennan definì l’allargamento della NATO un “errore fatale”, scrivendo sul New York Times che “ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche dell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; che ripristini l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni tra Est e Ovest e che spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non gradite”.
Il Segretario alla Difesa del Presidente Bill Clinton, William Perry, considerò di dimettersi per protestare contro l’allargamento della NATO. Ricordando questo momento cruciale a metà degli anni ’90, Perry ha detto quanto segue nel 2016: “La nostra prima azione che ci ha davvero portato in una cattiva direzione è stata quando la NATO ha iniziato ad espandersi, coinvolgendo le nazioni dell’Europa orientale, alcune delle quali confinanti con la Russia. A quel tempo, stavamo lavorando a stretto contatto con la Russia, che cominciava ad abituarsi all’idea che la NATO potesse essere un’amica piuttosto che un nemico… ma era molto a disagio all’idea di avere la NATO proprio sul suo confine e ci ha fatto un forte appello a non andare avanti”.
Nel 2008, l’allora ambasciatore americano in Russia, e ora direttore della CIA, William Burns, inviò un cablogramma un cablogramma a Washington in cui avvertiva a lungo dei gravi rischi dell’allargamento della NATO: “Le aspirazioni alla NATO dell’Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, ma suscitano serie preoccupazioni per le conseguenze sulla stabilità della regione. La Russia non solo percepisce l’accerchiamento e gli sforzi per minare l’influenza della Russia nella regione, ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che potrebbero compromettere seriamente gli interessi della sicurezza russa. Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni in Ucraina sull’adesione alla NATO, con gran parte della comunità etnica russa contraria all’adesione, possano portare a una grande spaccatura, con violenze o, nel peggiore dei casi, alla guerra civile. In questa eventualità, la Russia dovrebbe decidere se intervenire o meno; una decisione che la Russia non vuole affrontare.”
I leader ucraini sapevano chiaramente che fare pressione per l’allargamento della NATO all’Ucraina avrebbe significato la guerra. L’ex consigliere di Zelensky Oleksiy Arestovych ha dichiarato in un’intervista del 2019 “che il nostro prezzo per entrare nella NATO è una grande guerra con la Russia”.
Nel periodo 2010-2013, Yanukovych ha spinto per la neutralità, in linea con l’opinione pubblica ucraina. Gli Stati Uniti hanno lavorato segretamente per rovesciare Yanukovych, come si evince vivamente dal nastro dell’allora vicesegretaria di Stato americana Victoria Nuland e dell’ambasciatore statunitense Geoffrey Pyatt che pianificano il governo post-Yanukovych settimane prima del violento rovesciamento di Yanukovych. Nella telefonata, Nuland chiarisce che si stava coordinando strettamente con l’allora vicepresidente Biden e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, lo stesso team Biden-Nuland-Sullivan ora al centro della politica statunitense nei confronti dell’Ucraina.
Dopo il rovesciamento di Yanukovych, è scoppiata la guerra nel Donbas, mentre la Russia rivendicava la Crimea. Il nuovo governo ucraino ha chiesto l’adesione alla NATO e gli Stati Uniti hanno armato e aiutato a ristrutturare l’esercito ucraino per renderlo interoperabile con la NATO. Nel 2021, la NATO e l’amministrazione Biden si sono fortemente impegnati per il futuro dell’Ucraina nella NATO.
Nel periodo immediatamente precedente l’invasione della Russia, l’allargamento della NATO è stato al centro dell’attenzione. Il progetto di trattato USA-Russia di Putin (17 dicembre 2021) chiedeva di fermare l’allargamento della NATO. I leader russi hanno indicato l’allargamento della NATO come causa della guerra nella riunione del Consiglio di sicurezza nazionale russo del 21 febbraio 2022. Nel suo discorso alla nazione di quel giorno, Putin dichiarò che l’allargamento della NATO era una delle ragioni principali dell’invasione.
Lo storico Geoffrey Roberts ha recentemente scritto: “Si sarebbe potuta evitare la guerra con un accordo russo-occidentale che avesse fermato l’espansione della NATO e neutralizzato l’Ucraina in cambio di solide garanzie di indipendenza e sovranità ucraina? Probabilmente sì.” Nel marzo 2022, la Russia e l’Ucraina hanno riferito di aver fatto progressi verso una rapida fine negoziata della guerra, basata sulla neutralità dell’Ucraina. Secondo Naftali Bennett, ex primo ministro israeliano, che ha svolto il ruolo di mediatore, un accordo era vicino ad essere raggiunto prima che Stati Uniti, Regno Unito e Francia lo bloccassero.
Mentre l’amministrazione Biden dichiara che l’invasione russa non è stata provocata, nel 2021 la Russia ha cercato opzioni diplomatiche per evitare la guerra, mentre Biden ha rifiutato la diplomazia, insistendo sul fatto che la Russia non aveva voce in capitolo sulla questione dell’allargamento della NATO. Nel marzo 2022, la Russia ha insistito sulla diplomazia, mentre il team di Biden ha nuovamente bloccato la fine della guerra per via diplomatica.
Riconoscendo che la questione dell’allargamento della NATO è al centro di questa guerra, capiamo perché gli armamenti statunitensi non porranno fine a questa guerra. La Russia si intensificherà se necessario per impedire l’allargamento della NATO all’Ucraina. La chiave per la pace in Ucraina è rappresentata dai negoziati basati sulla neutralità dell’Ucraina e sul non allargamento della NATO. L’insistenza dell’amministrazione Biden sull’allargamento della NATO all’Ucraina ha reso quest’ultima vittima di aspirazioni militari statunitensi mal concepite e irraggiungibili. È ora che le provocazioni cessino e che i negoziati riportino la pace in Ucraina.
* Jeffrey D. Sachs è professore universitario e direttore del Centro per lo sviluppo sostenibile della Columbia University, dove ha diretto l’Earth Institute dal 2002 al 2016. È anche presidente del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite e commissario della Commissione per lo sviluppo a banda larga delle Nazioni Unite. È stato consulente di tre Segretari generali delle Nazioni Unite e attualmente ricopre il ruolo di SDG Advocate sotto il Segretario generale Antonio Guterres. Sachs è autore, da ultimo, di “A New Foreign Policy: Beyond American Exceptionalism” (2020). Tra gli altri libri ricordiamo: “Costruire la nuova economia americana: Smart, Fair, and Sustainable” (2017) e “The Age of Sustainable Development” (2015) con Ban Ki-moon.
di Hauke Ritz*
Politici di spicco suggeriscono che si potrebbe rischiare una continua escalation della guerra in Ucraina perché una vittoria russa sarebbe peggiore di una terza guerra mondiale. A cosa è dovuta questa enorme volontà di escalation? Perché sembra non esistere un piano B? Per quale motivo l’élite politica degli Stati Uniti e quella della Germania hanno legato il proprio destino all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale?
Non si può ignorare che il mondo occidentale sia in preda a una sorta di frenesia bellica nei confronti della Russia. Ogni escalation sembra portare quasi automaticamente alla successiva. Non appena è stata decisa la consegna di carri armati all’Ucraina, si è parlato della consegna di jet da combattimento. Un drone spia americano era appena stato abbattuto vicino al confine russo dal passaggio ravvicinato di un caccia russo, quando la Corte penale internazionale dell’Aia ha pubblicato un mandato di arresto per Vladimir Putin. Criminalizzando il presidente russo, l’Occidente ha deliberatamente distrutto il percorso verso una soluzione negoziale e ha portato l’escalation a un nuovo livello. Ma come se il livello così raggiunto non fosse abbastanza alto, la Gran Bretagna ha annunciato la consegna di munizioni all’uranio, considerate armi “convenzionali” che lasciano una contaminazione radioattiva sul luogo dell’esplosione. La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è consistita nella decisione di posizionare armi nucleari tattiche in Bielorussia a stretto giro.
Da dove deriva questa disposizione quasi automatica all’escalation da parte dei politici al potere oggi? È un fenomeno di decadenza? Qualcosa di analogo si verifica quando l’adattamento allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) è diventato più importante dell’adattamento alla realtà. Oppure la disponibilità all’escalation può essere spiegata razionalmente? È forse l’espressione di un certo obiettivo politico che è stato minacciato ma che non può essere abbandonato dalla classe politica al potere e che quindi sembra raggiungibile solo attraverso un azzardo?
Una dichiarazione molto significativa, rilasciata dal Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg il 18 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, fa pensare a quest’ultima ipotesi: Stoltenberg ha ammesso nel suo discorso che, continuando a sostenere l’Ucraina, c’era il rischio di un’escalation militare tra la NATO e la Russia che non poteva più essere controllata. Tuttavia, ha fatto seguito a questa ammissione chiarendo immediatamente che non esistono soluzioni prive di rischi e “che il rischio più grande di tutti sarebbe una vittoria russa”. In un certo senso, Stoltenberg ha legittimato il rischio di un’escalation militare tra le due superpotenze nucleari. In altre parole, si potrebbe tranquillamente rischiare l’escalation perché una vittoria russa in Ucraina sarebbe potenzialmente peggiore di una terza guerra mondiale.
Ora, si potrebbe liquidare la dichiarazione di Stoltenberg come irrazionale se non fosse in linea con altre dichiarazioni allarmanti di politici, militari e persone che gravitano in questi mondi. Si consideri, ad esempio, l’osservazione fiduciosa di Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, che si è detto sicuro che Putin non userà le armi nucleari anche in caso di escalation (1), il che implicherebbe dunque che si può osare un’escalation. Che altri leader della NATO la pensino allo stesso modo è stato recentemente reso noto da una prostituta (Hanna Lakomy su “Berliner Zeitung”) che bazzica in questi ambienti. Anche il capo del governo ungherese, Victor Orban, ha recentemente avvertito che i Paesi occidentali sono sul punto di discutere seriamente l’invio di proprie truppe in Ucraina. Solo due giorni dopo, il famoso giornalista investigativo Seymour Hersh, noto per le sue fonti nella burocrazia di Washington, ha lanciato avvertimenti molto simili. Secondo Hersh, il governo statunitense sta valutando la possibilità di inviare proprie truppe in Ucraina sotto la copertura della NATO. Il presidente serbo, a sua volta, ha commentato la notizia del mandato di arresto della Corte penale internazionale contro il presidente russo con le parole “E sono pronto a dirvi che temo che non siamo lontani dallo scoppio della terza guerra mondiale”. Perché si era creata una situazione “in cui entrambe le parti scommettono su tutto o niente e rischiano fino in fondo”. Lo scorso dicembre, il leggendario Segretario di Stato americano Henry Kissinger aveva espresso sentimenti simili. Nel suo articolo “Come evitare un’altra guerra mondiale”, ha descritto come in questa guerra si scontrino posizioni assolutiste che potrebbero effettivamente portare allo scoppio di una guerra mondiale.
Affermazioni di questo tipo sollevano la questione di cosa si stia effettivamente combattendo in Ucraina: qual è il vero scopo di questa enorme volontà di escalation? I bacini carboniferi del Donbass? Probabilmente no. Ma allora di cosa si tratta?
La tesi di lavoro di questo saggio è che nel conflitto ucraino si stanno confrontando due concetti di ordine mondiale, ovvero la contrapposizione tra un ordine mondiale unipolare e uno multipolare. Di seguito, le caratteristiche di entrambi i principi dell’ordine mondiale saranno sviluppate e messe a confronto.
Se si esaminano i documenti di politica estera pubblicati negli ultimi due decenni dalle principali riviste di politica estera occidentale (ad esempio negli Stati Uniti “Foreign Affairs”, rivista del Council on Foreign Relations, o in Germania “Internationale Politik”, rivista del DGAP – Consiglio tedesco per le relazioni estere), una circostanza colpisce particolarmente: in queste pubblicazioni l’obiettivo di un mondo normativamente governato dagli Stati Uniti o dalla NATO non viene messo in discussione, ma sempre presupposto. Il potenziale fallimento del dominio occidentale non viene nemmeno preso in considerazione, nemmeno come possibilità. La situazione è simile a quella di quasi tutti gli altri think tank statunitensi o tedeschi e delle loro pubblicazioni sulla geopolitica e la politica estera. Per queste istituzioni la validità dell’ordine mondiale incentrato sull’Occidente è inconfutabile, mentre il declino della Russia è considerato un dato di fatto.
In altre parole, al momento non sembra esistere un “piano B” nella pianificazione politica occidentale. È proprio l’assenza di un tale piano che potrebbe spiegare l’enorme disponibilità dell’Occidente all’escalation. Per qualche motivo, l’élite politica degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, della Germania e di numerosi altri Paesi, ha legato il proprio destino politico all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale. Gli Occidentali sembrano essere dominati dall’idea che la guerra in Ucraina possa portare a un cambio di regime a Mosca e quindi a una restaurazione del potere occidentale. Ma ora che, contrariamente alle aspettative, il predominio dell’Occidente ha iniziato a scivolare, si stanno verificando le reazioni isteriche di cui sopra.
Per arrivare al nocciolo del conflitto, dobbiamo quindi rispondere alla domanda su che cosa sia in realtà un ordine mondiale a guida occidentale, sul perché sia chiamato anche ordine mondiale unipolare, tra le altre cose, e su quale sia il suo contro-concetto.
Un ordine mondiale unipolare è un ordine globale strutturato in modo tale che solo una regione del globo sia davvero abbastanza sviluppata da essere il polo di potere che dà forma a tutte le sfere del mondo moderno. In un ordine mondiale unipolare, ad esempio, gran parte del potere militare sarebbe concentrato nelle mani di un’unica superpotenza o alleanza di Stati. A causa di questa concentrazione di potere, in questo caso ci sarebbe anche una sola norma di politica estera che strutturerebbe la politica estera di tutti i Paesi. Una politica estera sovrana sarebbe, per così dire, modellata solo dal centro, il polo unico; il resto del mondo, cioè la periferia, dovrebbe seguirla.
Il polo di potere in un mondo unipolare plasmerebbe le condizioni quadro delle relazioni economiche globali, ad esempio propagando una teoria economica generalmente riconosciuta come valida e controllando importanti istituzioni come la Banca Mondiale, il FMI o persino i grandi gestori di fondi. Il polo di potere eserciterebbe anche il controllo su una quota significativa delle materie prime globali, sulle rotte commerciali via terra e via mare e sulla fatturazione globale. A causa di questo monopolio economico, la crescita economica in altre regioni del mondo potrebbe essere colpita, il che ridurrebbe notevolmente la possibilità di emergere di un secondo centro di potere.
In un ordine mondiale unipolare, anche le tendenze a lungo termine dello sviluppo tecnologico sarebbero progettate e modellate da un solo polo di potere, che dominerebbe allo stesso tempo lo sviluppo e la progettazione del sistema finanziario globale e la regolamentazione giuridica delle relazioni economiche.
Tutto ciò porterebbe il diritto internazionale ad assumere la forma di una politica interna mondiale. Infine, in un ordine mondiale unipolare, anche lo sviluppo della cultura sarebbe orientato verso il centro globale: tutte le tendenze decisive nascerebbero al centro e da lì si diffonderebbero alla periferia. Questo influenzerebbe aspetti diversi come la forma del sistema educativo, l’emergere di mode, tendenze estetiche e stili, e persino la questione dei criteri con cui artisti e scrittori, così come scienziati e le loro teorie, ottengono o meno un riconoscimento internazionale. In breve, tutte le questioni riguardanti lo sviluppo della civiltà sarebbero determinate da un solo potere centrale in un ordine mondiale unipolare.
In un certo senso, un ordine mondiale unipolare creerebbe un mondo in cui l’esterno o l’altro scomparirebbero. In un mondo unipolare, ci sarebbe un solo polo di potere e quindi un solo modello di civiltà. Un ordine mondiale unipolare sarebbe in definitiva un impero la cui sfera di potere comprenderebbe l’intero globo per la prima volta nella storia: il mondo assumerebbe una struttura completamente immanente.
Questo elenco delle caratteristiche di un mondo unipolare è stato volutamente scritto a immagine e somiglianza di questo ordine mondiale per sottolinearne chiaramente il carattere presuntuoso, addirittura antiumanista. Tuttavia, bisogna tenere presente che un ordine mondiale unipolare è già esistito in forma latente a partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, e molti dei criteri appena elencati in realtà descrivono già il nostro mondo di oggi. La situazione degli ultimi tre decenni non è stata il risultato di un processo di sviluppo naturale, ma piuttosto l’esito non pianificato del crollo caotico dell’Unione Sovietica, che ha colto di sorpresa quasi tutti i contemporanei. È stata quindi una svolta storica difficile da prevedere che ha portato gli Stati Uniti a trovarsi nel ruolo di polo di potere unipolare del mondo negli anni Novanta.
Il risultato è stato che nel primo decennio e mezzo dopo il crollo dell’URSS, gli USA hanno potuto determinare la forma della politica globale quasi da soli. Hanno dominato tutte le istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nonché molte delle fondazioni attive a livello internazionale e, a partire dagli anni ’90, sempre più spesso anche molte organizzazioni non governative, che in molti casi possono certamente essere considerate organizzazioni semi-governative. Infine, gli Stati Uniti hanno avuto una grande influenza anche nella sfera della cultura (soft power), nella misura in cui le tendenze e le mode emerse negli Stati Uniti hanno influenzato lo sviluppo della cultura mondiale nel suo complesso. Inoltre, sono stati in grado di determinare autonomamente la standardizzazione di nuove tecnologie come Internet e i telefoni cellulari e di utilizzarle per la loro influenza culturale e per lo spionaggio.
Si può quindi affermare che l’ordine mondiale unipolare è rimasto in sospeso dal 1991 fino alla crisi finanziaria del 2008. Sebbene in quel periodo il mondo avesse già una struttura unipolare, mancavano ancora i criteri decisivi per la piena attuazione dell’unipolarismo. Gli Stati Uniti, tuttavia, erano così forti della loro nuova posizione di potere che hanno valutato male il rischio che comportava l’instaurazione definitiva di un tale ordine. Dal mandato di George W. Bush Jr. in poi, l’ordine mondiale unipolare è stato apertamente proclamato dagli USA, dividendo il mondo in Stati amici e nemici (i cosiddetti “Stati canaglia”).
L’euforia è durata poco. Sono stati tre i fattori principali che hanno provocato la graduale erosione del ruolo degli Stati Uniti come polo di potere unipolare nella politica mondiale: in primo luogo, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti si sono giocati la loro reputazione politica globale con un comportamento apertamente imperialista in Iraq. Attraverso l’esibizione di un imperialismo dichiarato, è emersa una nuova consapevolezza in gran parte del mondo arabo, in America Latina e nel Sud e Sud-Est asiatico. La subordinazione a lungo termine di questi Paesi all’egemonia statunitense è man mano divenuta sempre più difficile.
Un secondo fattore è stato che, a partire dalla metà degli anni Novanta, l’ascesa di Cina, India e di una serie di piccole economie emergenti ha iniziato a spostare l’equilibrio economico globale. Il deficit commerciale degli Stati Uniti ha rivelato la dipendenza dell’economia americana dall’economia finanziaria, perché il settore produttivo, necessario per la stabilità del settore finanziario, è andato perso nel corso degli anni. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, gli squilibri strutturali dell’economia statunitense sono diventati generalmente visibili. Da allora, il ruolo del dollaro come valuta mondiale e di riserva è stato messo sempre più apertamente in discussione.
Il terzo fattore che ha messo in discussione l’ordine mondiale unipolare nella seconda metà degli anni Novanta è stato il fatto che la Russia è riuscita gradualmente a ripristinare la propria sovranità e il proprio potenziale militare dopo il crollo dell’URSS negli anni Novanta. Il discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 può essere visto come un punto di svolta simbolico, in cui la Federazione Russa ha assunto una contro-posizione differenziata davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino.
In quanto erede diretto dell’Unione Sovietica, la Russia ha un potenziale di armi nucleari, pari a quello degli Stati Uniti, che ostacola un ordine mondiale unipolare. Questo perché un ordine mondiale unipolare richiede il monopolio dell’uso della forza per essere realizzato e in questo senso assomiglia a uno Stato che non può esistere senza il monopolio dell’uso della forza. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno ampliato la NATO verso est durante il mandato di Bill Clinton, in violazione di precedenti accordi con Mosca, e hanno iniziato a sviluppare uno scudo missilistico durante il mandato di George W. Bush jr. L’intenzione di neutralizzare la capacità di attacco della Russia è stata tuttavia vanificata dallo sviluppo di nuovi missili russi. Anche se non esiste ancora un’alleanza ufficiale tra Russia e Cina o Russia e India, il potenziale nucleare russo è comunque un fattore che protegge indirettamente l’ascesa economica di questi Paesi.
A partire dagli anni Novanta, al ruolo di seconda potenza nucleare di Mosca si è aggiunto anche quello di fornitore di sistemi di difesa moderni. Vendendo sistemi di difesa aerea, ad esempio, Mosca è stata in grado di limitare in modo massiccio il raggio d’azione militare degli Stati Uniti. Paesi ricchi di petrolio e sovrani come l’Iran o il Venezuela sono stati in grado di proteggersi dall’azione militare degli Stati Uniti, anche grazie all’acquisto di armi russe.
A causa di questi tre fattori, gli intellettuali hanno parlato della fine dell’ordine mondiale unipolare al più tardi a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008: non appena è stata proclamata, sembrava già parte del passato. L’insieme di libri, articoli e saggi scritti in tutti i continenti su questo slittamento di potere dalla metà degli anni ’90 potrebbe riempire intere biblioteche. (2) Ciò solleva naturalmente la questione del perché Stoltenberg e i suoi compagni d’armi oggi sembrino addirittura disposti ad accettare un’escalation sconsiderata, compreso il rischio di una guerra mondiale, solo per far passare qualcosa che è sostanzialmente inapplicabile. Non sono a conoscenza delle numerose analisi negli uffici del Dipartimento di Stato americano e nei corridoi della NATO che trattano dell’impossibilità di un ordine mondiale unipolare?
È vero che la sovranità e la forza militare russa sono uno dei tre fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare. Se la Russia riuscirà a difendere la sua zona d’influenza in Ucraina, avrà indirettamente difeso anche la sovranità di numerosi altri Paesi al di fuori dell’Occidente. Agli occhi del mondo, una vittoria russa in Ucraina equivarrebbe quindi all’attuazione dell’ordine mondiale multipolare. Tuttavia, si tratterebbe solo di un passo evolutivo che avverrà comunque nei prossimi anni. Infatti, l’enorme sviluppo economico della Cina, dell’India, ma anche del Brasile, dell’Iran, dell’Indonesia e di numerosi altri Paesi emergenti non può più essere fermato e porterà in ogni caso a un mondo multipolare. Anche il risveglio intellettuale e politico che si sta verificando in vaste aree dell’emisfero meridionale e orientale, nel corso del quale vengono ricordati anche i crimini dell’imperialismo occidentale, va in questa direzione e rende impossibile una centralità permanente dell’ordine mondiale in Occidente. (3)
Storicamente, un ordine mondiale multipolare è “la norma”: Quasi per tutta la storia dell’umanità, il mondo è sempre stato costituito da diversi poli di potere. Anche negli ultimi secoli di dominazione europea, nella stessa Europa sono sempre esistiti diversi centri di potere che si controllavano e limitavano a vicenda. Il tentativo della Francia sotto Napoleone di unificare l’intera Europa con la forza militare fallì a causa della Russia. Anche il tentativo del “Terzo Reich” di sottomettere nuovamente l’Europa con la forza militare è fallito a causa di Mosca. E anche il tentativo degli Stati Uniti, avviato dopo il crollo dell’URSS, di estendere il proprio potere dall’Europa al mondo intero si è nuovamente infranto a causa della resistenza russa.
È per via di questo schema costante della storia mondiale che la NATO sta ora letteralmente azzannando la Russia e trascurando gli altri fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare? Comunque sia, l’alba di un ordine mondiale multipolare vedrà il mondo tornare a un vecchio schema. Non c’è motivo di descrivere questo ritorno di un vecchio ordine come il “rischio più grande di tutti”, come ha fatto Stoltenberg durante l’ultima Conferenza sulla sicurezza di Monaco.
Al contrario: un ordine mondiale unipolare monopolizzerebbe il potere su scala globale. Si tratterebbe di uno sviluppo che non solo sarebbe in contraddizione con gli interessi di Russia, Cina, India e numerosi altri Paesi dell’emisfero meridionale e orientale, ma una tale concentrazione di potere sarebbe anche fondamentalmente in contrasto con i valori dell’Occidente stesso.
I valori occidentali sono emersi da una serie di rivoluzioni iniziate con le aspirazioni di autonomia delle città-stato italiane del Rinascimento, proseguite nella Confederazione svizzera, attraverso la guerra dei contadini tedeschi, la rivolta olandese, le rivoluzioni inglese e americana e infine culminate nella grande rivoluzione francese. (4) I valori occidentali sono quindi valori rivoluzionari, del tutto incompatibili con l’idea di una concentrazione globale del potere. Si basano sulla possibilità di un’inversione dei rapporti di forza esistenti che può essere avviata in qualsiasi momento. Desacralizzano il potere e sono quindi in grado di impegnarlo per il bene comune. Questa idea è stata istituzionalizzata nella Repubblica. L’idea della separazione dei poteri svolge un ruolo decisivo nel garantire equilibri stabili, nel rendere visibili gli abusi di potere e nel correggere le politiche sbagliate.
Il fatto che l’Occidente, tra tutti i Paesi, abbia fatto dell’idea di un ordine mondiale unipolare e quindi del concetto di concentrazione globale del potere la base della sua politica estera nell’era iniziata dopo la caduta del Muro di Berlino dimostra quanto il mondo occidentale si sia allontanato dalle sue basi intellettuali. Naturalmente, l’Occidente è sempre stato diviso tra la sua tradizione imperiale e quella repubblicana. Spesso le due sono esistite in parallelo, anche se i loro principi filosofici si escludevano a vicenda. Un esempio famoso è la rivolta degli schiavi ad Haiti, che il governo francese cercò invano di sedare con la forza delle armi, anche se gli schiavi in rivolta invocavano i valori della Rivoluzione francese. Con le sue azioni, Parigi ha chiarito che i valori della Rivoluzione francese – cioè libertà, uguaglianza, fraternità – dovevano valere solo per i cittadini francesi, ma non per quelli delle colonie. (5)
Tuttavia, deve essere successo qualcosa nell’Occidente stesso che ha fatto sì che l’ambivalenza che esisteva ancora all’epoca tra repubblica e impero, che poteva esistere in parallelo per molto tempo, si è chiaramente dissolta nel nostro tempo a favore dell’imperialismo nella forma di un ordine mondiale unipolare. Un Occidente che voglia professare i propri valori politici potrebbe, al contrario, lottare per un mondo multipolare, in accordo con la Russia e le grandi civiltà dell’Asia. Un ordine mondiale multipolare trasferirebbe nel mondo l’idea della separazione dei poteri e quindi l’effetto benefico degli equilibri di potere; rimarrebbe la competizione tra civiltà.
La competizione tra civiltà è un fattore importante per il futuro sviluppo dell’umanità. Proprio perché le nuove tecnologie del XXI secolo permettono di interferire con i diritti naturali degli individui su una scala molto più ampia rispetto al XX secolo, la competizione tra civiltà deve essere mantenuta ad ogni costo. I diritti naturali sono diritti che precedono il diritto positivo stabilito da uno Stato. Questi diritti esistono “per natura” e sono dati per scontati, come il diritto di disporre del proprio corpo, i diritti fondamentali della libertà umana o il diritto dei genitori di crescere i propri figli.
Tecnologicamente, oggi è possibile monitorare una persona per tutta la vita, memorizzare e valutare in modo permanente le sue tracce digitali e, su questa base, regolare e limitare individualmente il suo accesso alla società. Questo permette di intervenire nell’ordine della legge naturale che prima era impensabile. Lo sviluppo futuro dell’ingegneria genetica si aggiunge a tutto questo e potrebbe, ad esempio, mettere in discussione il diritto all’integrità corporea e all’autonomia della persona in modo molto più drastico di quanto abbiano potuto fare i dittatori del passato. Finché le civiltà possono essere messe a confronto tra loro, questi sviluppi indesiderati delle singole civiltà possono essere riconosciuti e nominati. In un mondo determinato da civiltà diverse, nessuna di esse potrebbe interferire con i diritti naturali dei propri cittadini per un lungo tempo senza subire uno svantaggio strutturale nei confronti delle altre civiltà.
In un mondo unipolare, invece, la comparabilità e la competizione latente delle civiltà scomparirebbero. In un mondo del genere, sarebbe molto più facile definire in modo esaustivo le implicazioni di potere della tecnologia moderna e limitare o addirittura abolire i diritti naturali. Ne consegue che: chi sogna un mondo tecnocratico in cui l’uomo sia sottomesso alla tecnologia non può evitare di lottare per un mondo unipolare per realizzare questo obiettivo. Al contrario, se si vuole vedere tutelata la libertà e la dignità umana nel XXI secolo, si deve lottare per un mondo multipolare. Vediamo quindi che i due concetti di ordine mondiale, unipolarismo e multipolarismo, rappresentano ordini di valori diversi.
Un altro svantaggio dell’ordine mondiale unipolare è che non dà spazio alla diversità culturale del mondo e alla diversità delle civiltà emerse nella storia. Poiché l’ordine unipolare cerca di governare il mondo secondo un unico principio, deve inevitabilmente vedere una minaccia nella diversità culturale e tendere a unificare culturalmente il mondo. Ma questo provocherebbe inevitabilmente una resistenza, alla quale il governo mondiale unipolare può rispondere solo con la propaganda, la manipolazione o la violenza. Per questo motivo, un ordine mondiale unipolare sarebbe possibile solo come dittatura globale.
I fautori di un ordine mondiale unipolare sostengono spesso che solo un governo mondiale potrebbe abolire la guerra e garantire la pace nel mondo. Tuttavia, qualsiasi conquistatore del passato avrebbe potuto affermare lo stesso, secondo il motto: “Quando vi avrò conquistati tutti, allora…”. Ci devono essere altri modi per garantire la pace nel mondo che non la realizzazione di un monopolio globale del potere. Perché la strada per raggiungere questo obiettivo è lastricata di sangue e violenza, come ha recentemente sottolineato il musicista Roger Waters nel suo discorso alle Nazioni Unite. (6)
È vero che anche in un ordine mondiale multipolare esiste un pericolo di guerra a causa della moltitudine di attori. Tuttavia, va detto in primo luogo che le guerre all’interno di un ordine mondiale multipolare non assumerebbero probabilmente il carattere assoluto che caratterizza la ricerca dell’unipolarismo, a cui ha fatto riferimento anche Roger Waters nel suo discorso all’ONU. In secondo luogo, non sono solo gli equilibri di potere a proteggere dalla guerra, ma anche la cultura. In una certa misura, il livello di cultura determina la capacità di pace di una società. Poiché il livello di cultura in un mondo multipolare potrebbe essere inegualmente più sviluppato che in un ordine mondiale unipolare orientato all’unificazione, la pace in un ordine mondiale multipolare potrebbe essere garantita in due modi, da un lato attraverso gli equilibri di potere e dall’altro attraverso il più alto livello di cultura possibile.
Anche l’argomentazione secondo cui alcuni problemi, come la regolamentazione delle armi di distruzione di massa, il cambiamento climatico o la prevenzione delle pandemie, potrebbero essere risolti solo a livello internazionale non è efficace, perché il polo di potere unipolare o il “governo mondiale” cercherebbero di convertire questi problemi internazionali in una fonte di legittimità per il proprio potere. Invece di risolvere i problemi, se ne temerebbe l’appropriazione indebita. Un polo di potere unipolare non avrebbe alcun interesse a risolvere i problemi internazionali o globali, poiché ne avrebbe bisogno come pretesto per esercitare il proprio potere. Chiunque abbia seguito con un po’ di distanza i dibattiti pubblici in Occidente negli ultimi anni potrebbe facilmente vedere le indicazioni di una simile appropriazione indebita del potere. Chi vuole davvero risolvere i problemi citati dovrebbe quindi impegnarsi maggiormente per la stipula di trattati tra Stati sovrani, invece di un “governo mondiale” che sarebbe al di sopra di tutti e quindi non potrebbe più essere controllato da nessuno.
Fa parte della natura del nostro mondo il fatto che esso sia costituito da diverse civiltà molto grandi e antiche. Molte di queste civiltà hanno prodotto in passato importanti conquiste culturali che hanno anche costituito dei punti di riferimento per il futuro dell’umanità. Tuttavia, queste civiltà sono nate da religioni e filosofie molto diverse e da storie diverse. Sebbene si possano trovare valori e intuizioni comuni, gli approcci scelti si basano spesso su principi opposti tra i quali non sempre sembra possibile un compromesso. Ad esempio, i confini della vergogna, l’ordine dei sentimenti e degli affetti, il rapporto dell’individuo con la famiglia, la società e lo Stato, il senso del tempo e della storia o il rapporto con la propria soggettività sono codificati in modo molto diverso nelle diverse culture.
Il polo di potere unipolare, a sua volta, non può essere culturalmente neutrale e inevitabilmente globalizzerebbe l’ordine di valori della sua cultura di origine – nel mondo di oggi, quella degli Stati Uniti. Le altre culture al di fuori del polo di potere difficilmente potrebbero quindi essere rappresentate culturalmente. La loro diversità culturale rappresenterebbe una fonte costante di instabilità all’interno dello “Stato mondiale”, che l’ordine mondiale unipolare dovrebbe contrastare con una sempre maggiore omogeneizzazione. La propaganda e la violenza dovrebbero essere costantemente utilizzate a questo scopo, il che a sua volta porterebbe a nuove resistenze. Ma questo meccanismo sopprimerebbe, indebolirebbe e forse addirittura dissolverebbe proprio quelle conquiste culturali di cui l’umanità ha tanto bisogno per riappropriarsi del proprio futuro.
È chiaro che molte delle civiltà più antiche non possono acconsentire alla loro dissoluzione in un ordine mondiale unipolare dominato dalla cultura consumistica americana senza opporre resistenza. Il tentativo di stabilire un mondo unipolare deve quindi necessariamente portare a una situazione in cui le rivendicazioni di un ordine unipolare e le rivendicazioni di uno Stato sovrano più grande, che eventualmente rappresenti anche la propria sfera culturale, entrano in conflitto esistenziale tra loro. In questo conflitto, o il concetto di governo mondiale crollerà o lo Stato in questione perderà la sua sovranità. In un certo senso, tra Stati Uniti e Russia è sorto esattamente un conflitto di questo tipo: poiché non è possibile alcun compromesso tra gli Stati Uniti, in quanto rappresentanti dell’ordine mondiale unipolare, e la Russia, in quanto rappresentante dei Paesi emergenti che lottano per la sovranità, ora c’è persino la minaccia di una guerra tra le due potenze nucleari.
Chiunque rifletta su questi problemi con un po’ di conoscenza storica e senso di responsabilità deve, per tutte queste ragioni, rifiutare l’idea di un mondo unipolare o di un governo mondiale. Poiché il concetto di istituire un governo mondiale porta necessariamente a un conflitto esistenziale tra potenze nucleari, questo concetto non avrebbe mai dovuto essere ricercato dagli europei. Quando, a partire dagli anni Novanta, è apparso chiaro che gli Stati Uniti non potevano più staccarsi da questo piano, gli europei avrebbero dovuto separarsi dagli USA.
Il fatto che gli Stati Uniti siano stati ricettivi a queste fantasie di potere è dovuto anche al fatto che si tratta di un Paese molto giovane che si è espanso quasi continuamente dalla sua fondazione. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti non hanno il tipo di esperienze storiche drastiche che l’Europa ha subito più volte sul suo territorio, dalla Guerra dei Trent’anni alle due guerre mondiali. Chi è stato così viziato dalla Storia come gli Stati Uniti ha avuto difficoltà a imparare la maturità e l’autocontrollo. Sarebbe stato quindi compito degli europei esercitare saggezza e lungimiranza e contrastare l’euforia di potenza statunitense con una riflessione sul bene comune di tutta l’umanità. Una riflessione, si badi bene, che avrebbe dovuto essere concepita in dialogo con le altre grandi civiltà.
Come si vede, gli argomenti a favore di un ordine mondiale multipolare sono ovvi. Avrebbero potuto essere sviluppati senza sforzo nei ministeri degli Esteri di Germania, Francia o Italia. Perché ciò non sia avvenuto, perché l’Europa non abbia intrapreso un percorso indipendente e abbia invece assecondato una “Grande Strategia” americana che avrebbe potuto fare dell’Europa, ancora una volta, il campo di battaglia di una grande guerra, è sconcertante. Il fatto che quasi nessuno delle migliaia di esperti che lavorano nei ministeri degli Esteri dei vari Paesi europei sia apparso pubblicamente come voce critica e ammonitrice indica o un’enorme mancanza di senso di responsabilità o dimostra che i rappresentanti dell’intellighenzia sono stati attivamente esclusi da queste istituzioni.
Il fatto che oggi, 33 anni dopo la riunificazione, l’Europa si trovi di fronte al pericolo reale di una guerra nucleare è l’espressione di un fallimento fondamentale della politica estera tedesca, francese e italiana che difficilmente può essere descritto a parole. Nel 1989, l’Europa è stata benedetta dalle circostanze della storia. Era dotata della possibilità di un ordine di pace duraturo, potenzialmente in grado di durare per generazioni, sotto forma di unificazione tedesca ed europea. L’Europa di oggi, invece, che sta di nuovo sguinzagliando i cani da guerra sul suo continente con un occhio al futuro e persino con una certa astuzia, (7) si è dimostrata indegna di questo dono. Il potere in politica estera di almeno due decenni è stato sprecato per un obiettivo discutibile.
La separazione dell’Ucraina dalla Russia era un vecchio obiettivo bellico dell’Impero tedesco nella Prima Guerra Mondiale, imposto con la forza nel trattato di pace di Brest-Litovsk. Il “Terzo Reich” riattivò questo obiettivo bellico e lo ampliò ulteriormente, cercando non solo di appropriarsi dell’Ucraina, ma anche di sterminare una parte considerevole di tutti i russi. La campagna di Hitler contro l’Unione Sovietica era infatti apertamente concepita come una guerra di sterminio razziale e ideologica. Nella vecchia Repubblica Federale e nella DDR, ma anche nella Germania riunificata sotto Kohl e Schröder, c’era ancora un consenso sul fatto che i vecchi obiettivi bellici tedeschi erano falliti e che quindi un futuro conflitto con la Russia per l’Ucraina doveva essere evitato a tutti i costi. Il fatto che questa convinzione abbia perso la sua validità incondizionata durante i mandati di Merkel e Scholz non è altro che una catastrofe intellettuale e morale per il nostro Paese e per l’Europa nel suo complesso.
Torniamo alla dichiarazione del Segretario Generale della NATO: Jens Stoltenberg ritiene che una vittoria russa sarebbe peggiore di una continua escalation che potrebbe portare a una vera e propria guerra mondiale con miliardi di morti. Che un simile azzardo possa essere davvero pianificato è indicato anche dalle dichiarazioni di numerosi politici e testimoni contemporanei citati all’inizio. Quale paura di fondo può aver portato Stoltenberg a chiedere un’escalation?
Forse teme che l’irrazionalità di 30 anni di politica estera occidentale possa venire alla luce, che i cittadini vengano illuminati su ciò che è stato realmente tentato negli ultimi tre decenni? Vale a dire, che i politici occidentali hanno cercato un ordine mondiale che, da un lato, porta necessariamente alla guerra? E dall’altro contraddice fondamentalmente l’ordine di valori occidentale.
Tuttavia, se questa rivelazione diventasse nota, potrebbe essere l’inizio di una rivalutazione che, man mano che procede, potrebbe trasformarsi in un secondo Illuminismo. Il primo Illuminismo ha messo in discussione il potere illegittimo della Chiesa e del clero, nonché della nobiltà e della società classista. Oggi viviamo di nuovo in un mondo in cui il potere è cresciuto enormemente – come nella Francia assolutista – ma sta perdendo sempre più la sua base di legittimità nel corso di questa espansione.
Un secondo Illuminismo oggi, sull’esempio della critica al clero, dovrebbe mettere in discussione il potere dei media e smascherare le loro sofisticate tecniche di manipolazione psicologica. E, sul modello della critica all’aristocrazia e alla grazia divina della monarchia, dovrebbe illuminare oggi sul potere dell’oligarchia e sull’economia mondiale sempre più dominata dai monopoli. Naturalmente, se questo secondo illuminismo dovesse iniziare, emergerebbe una dinamica che andrebbe ben oltre una semplice riforma del nostro sistema politico. È forse questo lo sviluppo che Stoltenberg definisce “il rischio più grande di tutti”, ossia il ritorno dell’Occidente ai suoi valori originari?
FONTE: https://multipolar-magazin.de/artikel/der-krieg-gegen-die-multipolare-welt
“Le forze russe hanno effettuato attacchi di alta precisione contro depositi di attrezzature e munizioni occidentali in Ucraina. Uno di questi depositi è stato distrutto nella città di Khmelnitsky. Dopo questo attacco, le radiazioni di fondo nella città sono aumentate. In seguito si è ipotizzato che i depositi potessero essere stati utilizzati per immagazzinare munizioni all’uranio “non pericolose” per i carri armati. Per evitare di mettere in pericolo le vite umane, sono stati impiegati dei robot per spegnere l’incendio. Le armi fornite dall’Occidente contro la Russia sono davvero sicure per gli ucraini?”
Questa la domanda che si poneva la tv russa RT lo scorso 13 maggio. Il 17 maggio, in un articolo del giornalista Rainer Rupp su RT si leggeva:
“Ormai anche il credulone tedesco Michel, che ama farsi ritrarre con il berretto da notte, dovrebbe essersi accorto che i megafoni della propaganda occidentale, compresi quelli del governo tedesco, da anni riproducono come fatti concreti le bugie e le velleità di chi governa a Kiev. Secondo questi rapporti, la tanto attesa offensiva dell’esercito ucraino contro i russi è imminente da settimane.
Ma cercare segni concreti dell’offensiva ucraina è come cercare il gatto nero come la pece in una stanza assolutamente buia, dove molto probabilmente il gatto non c’è affatto. Infatti, sembra sempre più che il pacchetto di chiacchiere pompose sulla presunta imminente riconquista della Crimea non contenga affatto un’offensiva, ma solo aria fritta.
Con grande difficoltà, per almeno sei mesi l’Occidente collettivo dei russofobi ha racimolato per l’Ucraina tutto ciò che i propri eserciti potevano risparmiare in armi, equipaggiamento pesante, munizioni e carburante. Gli Stati Uniti avevano persino acquistato munizioni d’artiglieria da 155 millimetri in Paesi del Terzo Mondo da inviare in Ucraina per l’annunciata offensiva.
In Ucraina, i costosi doni dell’Occidente sono stati immagazzinati in depositi preparati a questo scopo, che risalivano ai tempi dell’Unione Sovietica. A causa di un attacco previsto da parte dell’Occidente, questi depositi hanno dimensioni enormi. E naturalmente questi vecchi depositi sono facilmente accessibili presso gli snodi di trasporto.
Lo svantaggio, tuttavia, è che l’esatta ubicazione di questi cimeli della Guerra Fredda in Ucraina è ben nota anche ai russi. È interessante notare che in passato i russi non hanno attaccato questi depositi, che si trovano molto a ovest dell’Ucraina.
Solo nelle ultime settimane i russi hanno iniziato a distruggere sistematicamente questi depositi, con attacchi massicci! Questo fa pensare che abbiano aspettato che questi depositi fossero pieni fino all’orlo di armi e munizioni della NATO poco prima dell’inizio dell’annunciata offensiva ucraina?
Nel farlo, i russi potrebbero essersi avvalsi di una narrativa diffusa nei più alti circoli USA/NATO. Secondo questa narrazione, i russi avrebbero da tempo esaurito le scorte di missili di precisione a medio raggio, necessari per colpire con successo le infrastrutture nelle profondità dell’Ucraina occidentale. Questa visione potrebbe anche spiegare la mancanza di un’efficace difesa aerea ucraina per proteggere questi depositi.
Questo è forse il motivo per cui i padroni occidentali non hanno impedito ai loro ausiliari ucraini di conservare le preziose uova della NATO in pochi grandi cesti. L’alternativa migliore sarebbe stata quella di molti piccoli depositi temporanei sconosciuti ai russi. Il loro svantaggio, mancanza di strutture per la manutenzione e la riparazione delle armi e di strutture di sicurezza per le munizioni e di maggiori spese per la protezione degli oggetti, sarebbe stato più che compensato da una protezione di gran lunga migliore contro gli attacchi su larga scala dei russi.
Senza dubbio, la distruzione dell’enorme deposito di armi e munizioni vicino alla città ucraina di Khmelnitsky, avvenuta pochi giorni fa, è stata l’azione più spettacolare e probabilmente anche la più importante della guerra che dura ormai da 13 mesi. Le due mostruose esplosioni nei pressi di Khmelnitsky superano tutto ciò che si è visto finora nei video e nelle immagini della guerra ucraina. Non c’è da stupirsi che in un primo momento molti abbiano pensato all’esplosione di un’arma nucleare tattica, anche se ora questa ipotesi è stata smentita senza ombra di dubbio.
Tuttavia, dopo le due esplosioni, che si sono susseguite a intervalli di uno-due secondi, è stato misurato un aumento delle radiazioni nelle immediate vicinanze del luogo dell’esplosione, del tipo che indica che grandi quantità di munizioni all’uranio perforanti fuorilegge sono esplose qui in polvere fine che è stata portata via dal vento.
Secondo una dichiarazione ufficiale di Londra, queste munizioni all’uranio erano già state fornite all’Ucraina dal governo britannico settimane fa, nonostante le massicce proteste della Russia e dell’Ucraina orientale. Non si sa (ancora) se altri Paesi si siano segretamente uniti ai britannici.
Sono stati gli Stati Uniti a utilizzare per primi queste munizioni all’uranio in grandi quantità vicino alla città meridionale irachena di Bassora nella prima guerra in Iraq nel 1990. Qualche anno dopo, nella regione intorno a Bassora si osservò un allarmante accumulo di terribili deformità nei neonati. L’autore di queste righe non riesce ancora a togliersi dalla testa le immagini dei neonati che ha visto nel 2002 durante una visita a una clinica pediatrica di Bassora.
La popolazione delle regioni serbe, dove gli Stati Uniti/NATO hanno utilizzato massicciamente le munizioni perforanti “Depleted-Uranium” durante la guerra di aggressione non provocata del 1999, in violazione del diritto internazionale, ha vissuto esperienze terribili simili. La ricerca medica a questo proposito indica una modifica genetica del materiale ereditario di uomini e animali. Tuttavia, questa ricerca non è sostenuta dall’Occidente collettivo.
Sul canale Telegram Slavyangrad ci sono già commenti preoccupati riguardo a possibili munizioni all’uranio esplose in Ucraina, ad esempio se:
“Khmelnitsky e i suoi dintorni – per molti anni – sono diventati una zona particolarmente problematica in termini di cancro e dovrebbero essere evitati”.
Un’altra voce su Telegram mostra la foto di una farmacia con un cartello dipinto a mano sulla porta d’ingresso: “Compresse di iodio esaurite”.
Ulteriori rapporti dei residenti locali affermano che “gli esperti stanno cercando di spegnere l’incendio nel sito dell’attacco missilistico al deposito militare vicino a Khmelnitsky solo da lontano con i robot“. Allo stesso tempo, ci sono state “pattuglie per monitorare le radiazioni in città”. Questa volta, però, le misurazioni di fondo sarebbero state effettuate “in luoghi non caratteristici”. Mentre prima venivano effettuate nella zona della centrale nucleare, anch’essa situata vicino a Khmelnitsky, “ora vengono effettuate nel centro regionale, nella parte occidentale della regione e anche nella vicina città di Ternopol“. Dopo l’attacco al deposito di munizioni, il vento aveva infatti “soffiato in direzione ovest”. Tuttavia, le autorità locali avrebbero taciuto sul lavoro delle pattuglie di misurazione delle radiazioni.
Nel frattempo, il noto politologo russo Yuri Kot ha riferito su Telegram:
“I miei conoscenti ucraini dicono che la gente nell’Ucraina occidentale è nel panico. Stanno impacchettando tutto e si stanno allontanando da Khmelnitsky e persino da Lvov (ndr) e Ternopol. Ci sono unità militari ucraine, magazzini e officine di riparazione ovunque. La gente del posto sussurra che il magazzino di Khmelnitsky era pieno di proiettili all’uranio impoverito. E questo è confermato dalle mie fonti”.
Prosegue dicendo che:
“Dopo l’esplosione, in città è stato segnalato un aumento delle radiazioni gamma. I livelli di radiazione continuano ad aumentare. Data la quantità relativamente piccola di radiazioni gamma che possono essere emesse dall’uranio impoverito, l’attuale aumento indica la distruzione di una scorta molto grande di munizioni, che ha fatto salire la polvere di uranio nell’aria”.
Ciò è confermato anche dalle misurazioni su Slavyangrad (canale telegram, ndr) pubblicate nel frattempo dall’esperto Gleb Georgievich Gerassimov, si vedano i seguenti grafici:
Gerasimov scrive a questo proposito:
“Intorno al 12 maggio, a Khmelnitsky è stato rilevato un aumento significativo delle radiazioni gamma, con un’emissione che ha continuato ad aumentare il giorno successivo e che è rimasta in seguito a livelli elevati”.
“Considerando che l’uranio impoverito emette poche radiazioni gamma, questo aumento significativo delle radiazioni gamma a Khmelnitsky suggerisce che c’era una scorta molto grande di munizioni al DU che è stata distrutta, causando la dispersione di polvere di uranio nell’aria”.
“Rispetto a Khmelnitsky, le città di Ternopol, Khmelnik e Novaya Ushitsa (situate nelle vicinanze) (Figure 3, 4 e 5) sono rimaste ai loro livelli di base apparentemente regolari. Ciò suggerisce che l’anomalia di Khmelnitsky è effettivamente un picco e supporta l’affermazione che il campo di Khmelnitsky conteneva munizioni al DU”.
Tutto è iniziato nella notte tra il 12 e il 13 maggio, intorno alle cinque del mattino, con attacchi missilistici russi sulla città ucraina occidentale di Ternopol. Poi sono seguiti gli attacchi al grande deposito di munizioni vicino al villaggio di Grusewitsa (una stazione ferroviaria chiamata Grusewzy si trova tra Khmelnitsky e Grusewitsa; ndr), che si trova a quattro chilometri a nord-ovest di Khmelnitsky. Il primo a essere colpito è stato un deposito di petrolio vicino al deposito di munizioni, come dimostra la nube di fumo nera che si alza nei video immediatamente prima delle due mostruose detonazioni di munizioni.
Il deposito di munizioni vicino a Khmelnitsky si trova già piuttosto lontano nell’ovest dell’Ucraina, a circa metà strada tra Leopoli e Kiev, a circa 150 chilometri dal confine con la Romania e a 270 chilometri dal confine con la Polonia. Si trova su una linea ferroviaria importante e ha una propria stazione ferroviaria. La struttura copre un’area di circa 1 × 1,5 chilometri, che la rende simile per dimensioni al gigantesco deposito di munizioni di Kobasna, in Moldavia, dove secondo i media russi sono stoccati 20 milioni di proiettili d’artiglieria, provenienti dall’esercito sovietico ritiratosi dai Paesi del blocco orientale. Alcuni mesi fa, il deposito di Kobasna è stato sempre più citato nelle notizie russe a causa della brama ucraina per questo tesoro di munizioni. Proprio come a Kobasna, il deposito vicino a Khmelnitsky dispone anche di grandi caserme per il personale e di una società di trasporti con numerosi veicoli, oltre alle enormi strutture di stoccaggio.
Non c’è dubbio che questo sito vicino a Khmelnitsky avesse un notevole valore strategico per le forze armate ucraine e per la NATO, tanto più nel contesto della presunta imminente offensiva. Alla luce delle due enormi detonazioni, le stime iniziali secondo cui sarebbero saltate in aria munizioni fornite dalla NATO per un valore di 500 milioni di dollari non sembrano esagerate.
Traduzione: “Queste immagini satellitari che mostrano il risultato degli attacchi missilistici nelle prime ore del 13 maggio sul deposito di munizioni ucraino a ovest di Khmelnitsky mostrano la distruzione quasi totale della struttura e dei suoi depositi fortificati”.
Questo attacco russo molto efficace su un obiettivo strategicamente importante nelle profondità dell’Ucraina può quindi essere visto come un grande successo per le forze russe e un duro colpo alle capacità e alle risorse delle forze armate ucraine.
Come al solito, il governo Selensky e i suoi aiutanti in Occidente negano tutto. A Khmelnitsky è stata colpita solo una fabbrica di componenti elettronici, senza causare danni rilevanti. E i media occidentali, come al solito, ripetono tutto. Altrimenti, i dubbi sull’imminente vittoria dell’Ucraina potrebbero sorgere tra la gente comune e la loro volontà di continuare a sostenere i fascisti ucraini con denaro e armi potrebbe diminuire.
Tuttavia, le immagini del video non sembrano l’esplosione di una fabbrica di elettronica. La determinazione del luogo dell’esplosione in base alle caratteristiche geografiche conosciute dal punto di vista della telecamera su un alto edificio nella città di Khmelnitsky porta anche al deposito di munizioni nel villaggio di Grusevitsa (vicino alla stazione ferroviaria di Grusevtsy; ndr). Si vedano le seguenti immagini su Slavyangrad:
A causa di questo sviluppo, l’eterno attore e clown maligno Selensky, che ha respinto come inopportuna l’offerta diplomatica di mediazione del Papa durante l’udienza di qualche giorno fa a Roma, dovrà aspettare ancora molti mesi con la sua offensiva per liberare la Crimea, se l’Ucraina esisterà ancora come Stato.
(FONTE: RT / Vari Canali Telegram)
Fin qui l’articolo di Rainer Rupp, del quale non sfuggono anche gli spunti di propaganda; ma la domanda è: in Europa e in Italia sono state prese delle misure per un adeguato monitoraggio della qualità dei venti che spirano dall’Ucraina già da una settimana ? E i media ci stanno informando in modo adeguato su questo e altri effetti “collaterali” di questa guerra ? E’ normale che un evento accaduto il 13 maggio riceva una copertura (in direzione di certa smentita e fake) solo 6 giorni dopo come sta accadendo in Italia ?
FONTE: Emi-News
Guerre in Europa: Video del seminario del CRS (Centro per la Riforma dello Stato), tenutosi il 15 maggio 2023, a partire dai recenti libri, editi da Delta 3, del Generale Biagio Di Grazia “La NATO nei conflitti europei” (2022) e di Domenico Gallo “Guerra Ucraina” (2023).
Ne discutono con gli autori: Maria Luisa Boccia, Raniero La Valle e Claudio De Fiores.
Nei diversi interventi vengono evidenziati le modificazioni dello statuto NATO (superamento dell’Art. 5 già infranto con la guerra in Jugoslavia), le conseguenti implicazioni costituzionali in riferimento all’Art. 11 della nostra Costituzione; la subalternità della UE rispetto alla Nato; le manifeste contraddizioni sul principio di autodeterminazione che hanno contraddistinto l’intervento della Nato in Jugoslavia e in Serbia e quello in Ucraina; la guerra in Ucraina come passaggio decisivo ad una nuova fase della politica USA e Nato verso un un ordine mondiale unipolare con al centro l’Impero americano, come certificato dai recenti documenti strategici della Casa Bianca e del Pentagono; la necessità di opporsi alla guerra ideologica e mediatica sul conflitto facendo emergerne i reali obiettivi e attivandoci per la mobilitazione a favore della diplomazia e della Pace.
di Biagio Di Grazia
di Domenico Gallo
http://www.delta3edizioni.com/bookshop/catalogo/395-guerra-ucraina-9791255140948.html
Presentazione: Lunedì 15 maggio, ore 17:30 a Roma, Via della Dogana Vecchia, n.5
di Raniero La Valle
È questo un libro la cui lettura è preziosa, perché racconta con verità una guerra che altri – della politica e dell’informazione – raccontano come uno spettacolo, celebrano come un’epopea, esaltano come un mito, officiano come un sacrificio, e gestiscono come un giudizio; e il giudizio è questo: c’è un protagonista cattivo e uno buono, un carnefice e una vittima, uno zar e un fantaccino, uno squilibrato e un eroe, un despota e un leader, un’invasione e una Resistenza. In verità tutte le guerre sono descritte così: ci sono due parti in commedia, che sono i Nemici, e il Nemico è per definizione l’epitome dell’abominio; ma, come dice Carl Schmitt, non è affatto detto che sia così, il Nemico non è “necessariamente cattivo, esteticamente brutto, economicamente dannoso”. Egli è «semplicemente l’altro, lo straniero e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possono venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”», ma solo con la guerra, con l’annientamento, con la vittoria.
Tale è la guerra che lacera l’Europa, tra la Russia e l’Ucraina, tra Putin e Zelensky; ma questa è solo la scena, perché la storia che davvero si svolge tra le quinte è la guerra tra gli Stati Uniti e la Russia, e con gli Stati Uniti c’è la NATO, e tutto l’ “Occidente allargato” (perché c’è dentro anche l’Estremo Oriente) e anche l’Italia con il suo Draghi e la sua Meloni.
Il merito di Domenico Gallo è di raccontare questa guerra senza infingimenti, senza propagande, senza “elmetto”; chiama “aggressione” l’aggressione, giudica il giusto e l’ingiusto, il diritto e il crimine, e lui lo può fare, perché è un giudice, e non solo in quanto, come tutti dovrebbero, si mette fuori del conflitto, ma perché giudice lo è per professione, e anzi giudice dei giudici, come è la Cassazione a cui apparteneva: e questo è un fatto singolare, perché è abbastanza frequente il caso di giudici che quando finiscono il servizio entrano in politica, ma non è affatto frequente che dei giudici, lasciato il servizio, si aggirino tra i giornali, si dedichino all’informazione, assumano come loro dovere quello di aiutare gli altri a capire la realtà, a interpretare la storia, a giudicare i fatti con verità, e anche a conoscerli mentre altri “informatori” li occultano e li travisano.
Ma se si trattasse solo di questo, saremmo solo di fronte a un esempio di buon giornalismo. Invece c’è di più, e questo non solo è prezioso, ma di questi tempi anche assai raro. È un “ministero” di pace, e prima ancora che sollecito di una politica di pace, è dispensatore di una cultura di pace. È difficile trovare un testo più pacifista di questo; ma non si tratta di un pacifismo ideologico, di quelli che dicono “pace, pace” ma o si fanno strumentali alla guerra o sono così fondamentalisti da mistificare la realtà; questo è un pacifismo della ragione (ma anche del cuore, che non se ne deve né può separare) ed è ligio alla storia e governato dal diritto.
Questa poi è una guerra fuori misura, non la si può neanche nominare. Ci ha provato Putin, a non chiamarla guerra, ma “operazione militare speciale”. E magari credeva davvero che sarebbe rimasta tale, non aveva nessuna intenzione di occupare Kiev, di annettersi l’Ucraina, di dilagare in Polonia e magari perfino in Germania, di rifare l’impero di Pietro Il Grande o almeno l’Unione delle Repubbliche sovietiche, come ne è stato accusato; aveva visto le guerre americane contro l’Iraq (due volte), la Jugoslavia, l’Afghanistan, tutte circoscritte, tutte impunite, tutte distruttive per le vittime ma innocue per gli aggressori, e aveva detto in tutti i modi, anche con le truppe schierate al confine, che ciò che voleva era che la NATO non arrivasse fin lì, e i russofili e russofoni del Donbass fossero lasciati in pace, o almeno autonomi, secondo gli accordi di Minsk.. Ma non aveva calcolato che gli Stati Uniti si stavano costruendo l’Impero, che un Impero senza la guerra non si può fare, e la Russia doveva pagarne il prezzo, come, dopo di lei, la Cina. Così la guerra dissimulata e non detta è diventata una guerra vera, ed è vera guerra, perché questo fanno le armi, e questo è ciò che stanno facendo tutti i fornitori di armamenti all’Ucraina, e anche noi, ma non lo si può dire, perché è da vergognarsene, e bisogna illudersi e convincere l’opinione pubblica che alla fine, come vera guerra, non arrivi anche da noi.
Sicché questa guerra è l’Innominata; e non è la prima: anche la guerra del Golfo, quella del ’91, la chiamammo “l’Innominata”, mentre l’America la chiamava “Tempesta nel deserto”, e i nostri ministri, De Michelis, Rognoni, Andreotti, non osavano confessarla tanto che fino alla fine sostennero che non fosse una guerra e che i Tornado italiani erano stati mandati lì solo per “mostrare la bandiera” ma non avrebbero partecipato al conflitto né avrebbero bombardato Bagdad, rischiando l’accusa di codardia: e invece come gli altri facemmo la guerra che pur avevamo, in Costituzione, ripudiato.
La tragedia è che da questa guerra non è prevista l’uscita. Se i capi delle Nazioni che, a parte Zelensky, non sono privi di senno, mandano ai piromani lanciafiamme invece che idranti, è chiaro che lavorano perché la guerra continui, come del resto hanno detto, fino alla riconquista della Crimea e alla sconfitta della Russia. E ora c’è anche il pretesto dei Leopard, bisogna aspettare dei mesi perché siano pronti, e utili all’illusione di vincere; e per di più evocano lo spettro dei Panzer tedeschi scatenati contro la Russia. La guerra si conferma così come strutturante del sistema e fattore costituente dell’ “ordine” mondiale.
È il prossimo decennio che, secondo le proiezioni ufficiali americane, sarà “decisivo” per riprogrammare questo ordine del mondo, come dicono i due documenti sulla strategia nazionale degli Stati Uniti pubblicati dalla Casa Bianca e dal Pentagono nell’ottobre 2022. E l’annuncio è che la “sfida culminante” non è quella con la Russia, ma con la Cina, che secondo questi strateghi vuole “rimodellare l’intero ordine internazionale per soddisfare le sue ambizioni di potenza economica e politica”. Come scrive Lloyd Austin, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, “la Repubblica Popolare Cinese (RPC) rimane il nostro competitore strategico più importante per i prossimi decenni. Ho raggiunto questa conclusione sulla base delle crescenti azioni di forza della Repubblica Popolare Cinese per rimodellare la regione dell’Indo Pacifico e il sistema internazionale per adattarlo alle sue preferenze autoritarie”: motivazioni così evanescenti da lasciare senza causa il confronto finale per questa sfida suprema. Ma è in funzione di essa che viene messa in opera l’immensa struttura dell’apparato militare americano.
La posta in gioco è dunque il futuro del mondo, come è previsto e come si progetta che sia. Un mondo nel quale una parte (peraltro minore) sarebbe fatta di “democrazie”, e l’altra, a cui si oppone, sarebbe quella delle “autocrazie”, considerate costitutivamente minacciose e aggressive, in quanto non farebbero che operare per minare le democrazie ed esportare un modello di governo contrassegnato dalla repressione all’interno e dalla coercizione fuori. È un mondo diviso tra quattro grandi soggetti considerati come contrapposti e in lotta fra loro: 1) Gli Stati Uniti e i loro alleati e partner; 2); la Cina; 3) la Russia, la Corea del Nord e le organizzazioni violente e estremiste, cioè il terrorismo; 4) la “zona grigia” che non è integrata in nessuno dei tre campi suddetti. L’Europa non è considerata come un soggetto autonomo, e purtroppo con ragione se, come documenta questo libro, essa stessa si è “annullata” in questa guerra , l’ONU è fuori gioco, le sfide ecologiche vengono prese in carico solo in quanto interferiscono con l’operato delle Forze Armate americane.
Se davvero lo stato del mondo dovesse essere questo, e diventare il teatro di questo “finale di partita” tra l’Occidente atlantico e la Cina, sarebbe un mondo da brividi.
Che fare per tornare a una convivenza pacifica, per fermare le pulsioni alla guerra? Non certo con le armi, armi contro armi, cosa del resto impossibile data la straripante superiorità dell’apparato militare americano. C’è però la via della ragione, del dialogo, del confronto tra le diverse visioni del mondo. Il punto è che gli Stati Uniti dovrebbero non più essere motivati a pensare che il mondo è troppo pericoloso per loro, e che l’unico modo per garantire “la sicurezza nazionale degli Stati Uniti” è di dominarlo, e di attrezzare una potenza tale che nessun altro “non solo possa superare, ma neanche eguagliare”: che è la formula dell’Impero.
Questo compito di aiutare gli Stati Uniti a cambiare la loro visione del mondo, a cercare la loro sicurezza non nella superiorità militare, pronta alla guerra e a vincerla, ma nel condurre la comunità degli Stati a relazioni amichevoli, oneste e pacifiche, o almeno, in ogni caso, a sposare la causa, che sembrava a portata di mano nel 1989 (la famosa “caduta” del muro!) di una coesistenza pacifica, tocca all’Italia e all’Europa, con il loro retaggio di civiltà e di memorie. Per 167 volte nel documento firmato da Biden sulla “Strategia della sicurezza nazionale americana”, si dice che tutto quello che gli Stati Uniti devono fare nel mondo, le cose meravigliose e quelle cruente, lo vogliono fare con i loro “alleati e partners”, e solo se questi non lo fanno, lo faranno da soli. Nel documento sulla difesa, questa partnership è citata 77 volte. Lasciando da parte il richiamo alle alleanze militari, che non sono fatte certo per cambiare il mondo (e lo dimostrano la “svolta” della NATO a Ramstein, qui richiamata, come il verdetto della sua assemblea parlamentare), si può far appello alla natura della partnership: partners non sono certo quelli che obbediscono, che non hanno alcuna voce in capitolo sulle scelte dell’associato maggiore, che non sono portatori di una loro visione del mondo. Ed è appunto la visione del mondo che bisogna cambiare, per non riempire di armi l’universo (anche lo spazio!), per non pensare di gettare fuori della storia, e dei mercati, questo o quel “concorrente strategico”, per non programmare la riduzione della Russia a condizioni di “paria” e la candidatura della Cina a vittima designata della resa di conti finale.
L’America viene da un’origine, da una storia, da un mito, da una presunzione messianica che rende possibile che questo veramente accada. Intere generazioni, e anche quelle di oggi, hanno sognato un mondo diverso, perché, come dicono i vituperati “pacifisti”, non abbiamo altro mondo che questo. Non si vede perché proprio gli americani lo debbano volere così, pericoloso fino a morirne, o addirittura a finire nei bagliori dell’Apocalisse, dell’Armageddon, come dicono loro perfino nei film.
Questo libro dovrebbe entrare nella cassetta degli attrezzi, per aiutarci a inventare e produrre questo mondo diverso.
Raniero La Valle
Nato ad Avellino l’1/1/1952, nel giugno del 1974 ha conseguito la laurea in Giurisprudenza all’Università di Napoli. Entrato in magistratura nel 1977, ha prestato servizio presso la Pretura di Milano, il Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, la Pretura di Pescia e quella di Pistoia. Eletto Senatore nel 1994, ha svolto le funzioni di Segretario della Commissione Difesa nell’arco della XII legislatura, interessandosi anche di affari esteri, in particolare, del conflitto nella ex Jugoslavia. Al termine della legislatura, nel 1996 è rientrato in magistratura, assumendo le funzioni di magistrato civile presso il Tribunale di Roma. Dal 2007 al dicembre 2021 è stato in servizio presso la Corte di Cassazione con funzioni di Consigliere e poi di Presidente di Sezione. E’ stato attivo nel Comitato per il No alla riforma costituzionale Boschi/Renzi. Collabora con quotidiani e riviste ed è autore o coautore di alcuni libri, fra i quali Millenovecentonovantacinque – Cronache da Palazzo Madama ed oltre (Edizioni Associate, 1999), Salviamo la Costituzione (Chimienti, 2006), La dittatura della maggioranza (Chimienti, 2008), Da Sudditi a cittadini – il percorso della democrazia (Edizioni Gruppo Abele, 2013), 26 Madonne nere (Edizioni Delta Tre, 2019), il Mondo che verrà (edizioni Delta Tre, 2022)
Dal ripudio della guerra, lascito della Resistenza, siamo passati al ripudio della pace. Sullo sfondo l’apocalisse nucleare
di Domenico Gallo
L’annunzio di pace della Resistenza è stato fatto proprio dai Costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello jus ad bellum dalle prerogative della sovranità espellendo la guerra, non dalla storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico. Qui la Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e princìpi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e la giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali. Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine “Italia”, per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre. L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno («L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11). È stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea. Tuttavia le limitazioni di sovranità, anche se possono raggiungere livelli molto intensi, espropriando il Parlamento del potere di adottare le norme di legge riservate alla legislazione comunitaria, non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione, quello che non può essere neppure sottoposto al potere di revisione costituzionale, vale a dire i princìpi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana (Corte costituzionale, 19 novembre 1987, n. 399). Il ripudio della guerra è riconosciuto dalla dottrina giuridica come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.
L’art. 11 della Costituzione è una disposizione complessa: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È formata da tre proposizioni collegate all’interno dello stesso periodo. Essa contiene una norma di scopo (che vincola la Repubblica italiana a perseguire la pace e la giustizia fra le Nazioni) e tre norme strumentali (il ripudio della guerra, l’accettazione di limitazioni di sovranità finalizzate alla pace e alla giustizia e il favore per le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo). Il ripudio della guerra, come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, non è separabile dall’impegno per la pace e la giustizia fra le Nazioni, o meglio la costruzione di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni presuppone il ripudio della guerra, in conformità allo Statuto delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati membri ad astenersi dall’uso e dalla minaccia dell’uso della forza.
Sebbene sia intimamente legato all’identità dell’Italia, il principio pacifista di cui all’art. 11 è andato incontro a un progressivo deperimento, di pari passo con il progressivo imbarbarimento delle relazioni internazionali. Seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori, politici e giuristi hanno banalizzato sempre di più il principio pacifista, fino ad ipotizzare la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo). Con la prima guerra del Golfo (1991) si è cominciato a separare il ripudio della guerra dal resto della disposizione, leggendo il fine di favorire le organizzazioni internazionali come prevalente sul ripudio della guerra, e la guerra stessa è stata mascherata come operazione di “polizia internazionale”. Dopo lo scoppio della guerra, iniziata il 24 febbraio dello scorso anno con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è stato tirato in ballo il principio pacifista, letto alla luce dell’art. 51 dello Statuto ONU, che riconosce il diritto naturale di autotutela, individuale e collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro uno Stato, e dell’art. 52 della Costituzione, che pone la difesa della Patria come unica eccezione al ripudio della guerra. Quando l’Italia ha deciso di rompere la neutralità e inviare le armi all’Ucraina, molti giuristi, come l’ex Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, si sono levati per darci l’interpretazione giusta del principio pacifista e spiegarci che la partecipazione indiretta dell’Italia alla guerra è consentita, se non costituisce addirittura un obbligo costituzionale. Peccato che quando la NATO ha aggredito l’ex Jugoslavia nel 1999, bombardandola per 78 giorni, coloro che adesso impugnano l’art. 11 per legittimare le armi italiane, sono rimasti assolutamente silenti, hanno steso un velo pietoso sul principio pacifista, dimenticandosi persino della sua esistenza nel dibattito pubblico. Del resto, il Governo dell’epoca ha nascosto accuratamente la partecipazione dell’Italia alle missioni di bombardamento sulla Serbia. Soltanto qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato del contributo del nostro paese alla guerra. L’Italia ha partecipato ai bombardamenti con l’utilizzo di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato «115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16» (così Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002). Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati.
Da quando è iniziata la tragedia della guerra il 24 febbraio, non è esploso soltanto un conflitto fondato sulla violenza delle armi, è dilagato in tutt’Europa lo spirito nefasto della guerra, si è materializzata l’immagine del nemico ed è iniziata una mobilitazione bellica della comunicazione, della cultura, delle coscienze. Dalla condanna unanime, secca e senza appello dell’aggressione russa all’Ucraina, si è passati velocemente all’acritica accettazione della logica della guerra. Di fronte a questo disastro, segno tangibile del fallimento della politica di sicurezza e cooperazione in Europa, le principali forze politiche, non solo in Italia, con il conforto del fuoco di sbarramento unanime dei mass media, hanno assunto il linguaggio della guerra e si sono esercitate in una guerra delle parole contro il nemico. Lo spirito di guerra comporta una divisione manichea dell’umanità, per cui tutto il male sta dalla parte del nemico e tutto il bene dall’altra. Il dissenso non è tollerato perché giova al nemico. La narrazione ufficiale della guerra, imposta come pensiero unico è quella dello scontro di civiltà, dei regimi autocratici che odiano la democrazia e vogliono distruggerla.
La guerra non si combatte solo con le armi, da noi si combatte soprattutto con le parole della politica e dei media. Così l’ANPI, Associazione italiana dei partigiani, colpevole di non essersi accodata al coro bellico, viene tradotta dal Corriere della Sera in Associazione Nazionale Putiniani d’Italia. L’ANPI è fastidiosa perché tramanda il patrimonio morale della resistenza, ci ricorda il principio costituzionale del ripudio della guerra, una petizione di principio che Galli della Loggia non sapeva se qualificare «più bizzarra o più patetica», osservando sul primo numero di Limes (1993) che la norma sul ripudio della guerra: «cerca di cancellare il dato storico di ovvia evidenza che vede da sempre la guerra come il fuoco concettuale e pratico della politica internazionale […]. È come dire l’Italia ripudia l’esistenza dell’ossigeno». La favola della guerra come scontro fra la Democrazia e l’Autocrazia, ha come posta l’obiettivo di sdoganare la guerra come strumento ordinario e necessario della politica e quindi di ripudiare il ripudio della guerra: la guerra come ossigeno dei popoli, secondo Galli della Loggia.
Ovviamente non possiamo ignorare, il «diritto naturale di autotutela nel caso abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite», riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’ONU. Lo Statuto dell’ONU riconosce il diritto di resistenza con le armi a fronte di un’aggressione in atto, ma ciò non legittima una guerra senza fine e senza limiti. Infatti il diritto di resistenza è valido «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In questo caso, in mancanza di un intervento autoritativo del Consiglio di Sicurezza, tutti gli attori internazionali, a cominciare dai contendenti, devono attivarsi per restaurare la pace, poiché la guerra – secondo il Preambolo della Carta – resta, pur sempre un flagello che procura indicibili afflizioni all’umanità. Invece noi sappiamo (l’ha rivelato l’ex premier israeliano Bennet) che, dopo nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto, il 5 marzo le parti stavano per concludere un accordo di pace. Tant’è vero che il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava il piano di pace in 15 punti che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Ebbene quella possibilità di restaurare la pace nella regione è stata sventata dal veto di Biden e Johnson, che hanno istigato l’Ucraina a respingere ogni mediazione, incoraggiandola a puntare sulla sconfitta militare della Russia, realizzabile con il massiccio sostegno finanziario, militare e di intelligence di USA, GB, UE e di altri paesi occidentali.
Dal 17 marzo 2022, il conflitto ha perso la natura di una resistenza legittima dell’Ucraina a un’aggressione altrui, ed è diventata una guerra in cui un’alleanza di oltre 30 Stati cerca di infliggere una batosta militare alla Russia, utilizzando il sangue degli ucraini. Una resistenza militare a un’aggressione si è trasformata in una guerra di posizione, come la Prima guerra mondiale, in cui i belligeranti cercano di distruggersi a vicenda. Eppure la Prima guerra mondiale dovrebbe averci insegnato che, a fronte di un conflitto così violento, spietato e prolungato nel tempo, non esiste la “vittoria”, perché una tale guerra è un male in sé, è un evento diabolico che produce sofferenze indicibili a tutte le parti in conflitto, che nessun obiettivo politico può giustificare. La pretesa della NATO, dell’UE e degli altri paesi della Santa alleanza occidentale di fornire un crescendo di aiuti militari all’Ucraina per consentirle di vincere rapidamente la guerra ha come unico sbocco la continuazione di una strage insensata e senza fine. Ciononostante ci stiamo muovendo verso un’intensificazione dello scontro militare. Gli ucraini prevedono il lancio di una controffensiva di primavera con l’obiettivo di travolgere le forze d’occupazione russe e di recuperare tutti i territori persi nel 2014, ivi compresa la Crimea, che da 9 anni è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. Stiamo fornendo l’Ucraina di sistemi d’arma sempre più performanti, ma se le forze armate ucraine dovessero dilagare in Crimea, insidiando la base della marina russa a Sebastopoli, chi ci può assicurare che la Russia si arrenderà, e accetterà di essere smembrata, senza porre mano all’arsenale nucleare? Pretendere di sconfiggere ed umiliare una superpotenza dotata di 6.000 testate nucleari è come giocare a scacchi con la morte. Senza volerlo e senza rendercene conto ci stiamo avviando sulla via per Harmageddon. Secondo l’Apocalisse gli spiriti maligni partoriti dalla Bestia andarono dai Re di tutta la terra per radunarli «per la battaglia del gran giorno del Dio onnipotente». Essi radunarono i Re nel luogo che in ebraico si chiama Harmageddon (Apocalisse, 16,1). L’apocalisse segnerà la fine della storia, ma noi vogliamo fermamente che la storia continui. Per arrestare questa marcia verso Harmageddon, la cosa più urgente è fermare il conflitto in Ucraina, spegnere l’incendio prima che si estenda al resto del mondo.
FONTE: https://www.domenicogallo.it/2023/05/ripudiare-la-pace-e-giocare-a-scacchi-con-la-morte/
L’industria bellica, uno Stato nello Stato, sventra la nazione, inciampa da un fiasco militare all’altro, ci priva delle libertà civili e ci spinge verso guerre suicide con Russia e Cina
L’America è una stratocrazia, una forma di governo dominata dai militari. È assiomatico che i due partiti al potere si preparino costantemente alla guerra. Gli enormi bilanci della macchina bellica sono sacrosanti. I suoi miliardi di dollari di sprechi e frodi sono ignorati. I suoi fallimenti militari nel Sud-Est asiatico, in Asia centrale e in Medio Oriente sono scomparsi nella vasta caverna dell’amnesia storica. Questa amnesia, che significa che non c’è mai responsabilità, permette alla macchina da guerra di sventrare economicamente il Paese e di spingere l’Impero in un conflitto autolesionista dopo l’altro. I militaristi vincono ogni elezione. Non possono perdere. È impossibile votare contro di loro. Lo Stato di guerra è una Götterdämmerung, come scrive Dwight Macdonald, “il crepuscolo degli Dei senza gli dei”.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, il governo federale ha speso più della metà dei soldi delle tasse per le operazioni militari passate, presenti e future. È la più grande attività di sostegno del governo. I sistemi militari vengono venduti prima di essere prodotti, con la garanzia che gli enormi sforamenti dei costi saranno coperti. Gli aiuti esteri sono condizionati all’acquisto di armi statunitensi. L’Egitto, che riceve circa 1,3 miliardi di dollari di finanziamenti militari stranieri, deve destinarli all’acquisto e alla manutenzione di sistemi d’arma statunitensi. Israele ha ricevuto 158 miliardi di dollari in assistenza bilaterale dagli Stati Uniti dal 1949, quasi tutti dal 1971 sotto forma di aiuti militari, la maggior parte dei quali destinati all’acquisto di armi dai produttori statunitensi. Il pubblico americano finanzia la ricerca, lo sviluppo e la costruzione di sistemi d’arma e poi acquista questi stessi sistemi d’arma per conto di governi stranieri. È un sistema circolare di welfare aziendale.
Tra l’ottobre 2021 e il settembre 2022, gli Stati Uniti hanno speso 877 miliardi di dollari per le forze armate, più dei 10 Paesi successivi, tra cui Cina, Russia, Germania, Francia e Regno Unito messi insieme. Queste enormi spese militari, insieme ai costi crescenti di un sistema sanitario a scopo di lucro, hanno portato il debito nazionale degli Stati Uniti a oltre 31.000 miliardi di dollari, quasi 5.000 miliardi in più dell’intero Prodotto interno lordo (PIL) degli Stati Uniti. Questo squilibrio non è sostenibile, soprattutto quando il dollaro non sarà più la valuta di riserva mondiale. A gennaio 2023, gli Stati Uniti hanno speso la cifra record di 213 miliardi di dollari per il servizio degli interessi sul debito nazionale.
Il pubblico, bombardato dalla propaganda di guerra, esulta per il proprio autosacrificio. Si rallegra della spregevole bellezza delle nostre prodezze militari. Parla con i luoghi comuni che distruggono il pensiero, vomitati dalla cultura di massa e dai mass media. Si imbeve dell’illusione di onnipotenza e si crogiola nell’autoadulazione.
L’intossicazione della guerra è una piaga. Dà un’emozione che non conosce la logica, la ragione o i fatti. Nessuna nazione ne è immune. L’errore più grave commesso dai socialisti europei alla vigilia della Prima guerra mondiale fu la convinzione che le classi lavoratrici di Francia, Germania, Italia, Impero austro-ungarico, Russia e Gran Bretagna non si sarebbero divise in tribù antagoniste a causa delle dispute tra i governi imperialisti. I socialisti si assicurarono che non avrebbero firmato per il massacro suicida di milioni di lavoratori nelle trincee. Invece, quasi tutti i leader socialisti abbandonarono la loro piattaforma contro la guerra per sostenere l’entrata in guerra della loro nazione. I pochi che non lo fecero, come Rosa Luxemburg, furono mandati in prigione.
Una società dominata dai militaristi distorce le sue istituzioni sociali, culturali, economiche e politiche per servire gli interessi dell’industria bellica. L’essenza dell’esercito è mascherata da sotterfugi: usare le forze armate per svolgere missioni di soccorso umanitario, evacuare i civili in pericolo, come vediamo in Sudan, definire l’aggressione militare come “intervento umanitario” o come un modo per proteggere la democrazia e la libertà, o lodare l’esercito come se svolgesse una funzione civica vitale insegnando leadership, responsabilità, etica e competenze alle giovani reclute. Il vero volto dell’esercito – il massacro industriale – è nascosto.
Il mantra dello Stato militarizzato è la sicurezza nazionale. Se ogni discussione inizia con una domanda sulla sicurezza nazionale, ogni risposta include la forza o la minaccia della forza. La preoccupazione per le minacce interne ed esterne divide il mondo in amici e nemici, in buoni e cattivi. Le società militarizzate sono terreno fertile per i demagoghi. I militaristi, come i demagoghi, vedono le altre nazioni e culture a loro immagine e somiglianza – minacciose e aggressive. Cercano solo il dominio.
Non era nel nostro interesse nazionale fare la guerra per due decenni in Medio Oriente. Non è nel nostro interesse nazionale entrare in guerra con la Russia o la Cina. Ma i militaristi hanno bisogno della guerra come un vampiro ha bisogno di sangue.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov e poi Vladimir Putin hanno fatto pressioni per essere integrati nelle alleanze economiche e militari occidentali. Un’alleanza che includesse la Russia avrebbe annullato le richieste di espansione della NATO – che gli Stati Uniti avevano promesso di non fare oltre i confini di una Germania unificata – e avrebbe reso impossibile convincere i Paesi dell’Europa orientale e centrale a spendere miliardi in hardware militare statunitense. Le richieste di Mosca sono state respinte. La Russia è diventata il nemico, che lo volesse o meno. Niente di tutto questo ci ha reso più sicuri. La decisione di Washington di interferire negli affari interni dell’Ucraina, appoggiando un colpo di Stato nel 2014, ha scatenato una guerra civile e la successiva invasione della Russia.
Ma per coloro che traggono profitto dalla guerra, inimicarsi la Russia, come inimicarsi la Cina, è un buon modello di business. Northrop Grumman e Lockheed Martin hanno visto le loro quotazioni azionarie aumentare rispettivamente del 40% e del 37% a seguito del conflitto in Ucraina.
Una guerra con la Cina, ora un gigante industriale, interromperebbe la catena di approvvigionamento globale con effetti devastanti sull’economia statunitense e mondiale. Apple produce il 90% dei suoi prodotti in Cina. L’anno scorso il commercio degli Stati Uniti con la Cina è stato di 690,6 miliardi di dollari. Nel 2004, la produzione manifatturiera statunitense era più del doppio di quella cinese. Oggi la produzione cinese è quasi il doppio di quella degli Stati Uniti. La Cina produce il maggior numero di navi, acciaio e smartphone al mondo. Domina la produzione globale di prodotti chimici, metalli, attrezzature industriali pesanti ed elettronica. È il maggior esportatore mondiale di minerali di terre rare, ne detiene le maggiori riserve ed è responsabile dell’80% della loro raffinazione a livello mondiale. I minerali di terre rare sono essenziali per la produzione di chip per computer, smartphone, schermi televisivi, apparecchiature mediche, lampadine fluorescenti, automobili, turbine eoliche, bombe intelligenti, jet da combattimento e comunicazioni satellitari.
Una guerra con la Cina provocherebbe una carenza massiccia di una serie di beni e risorse, alcuni vitali per l’industria bellica, paralizzando le imprese statunitensi. L’inflazione e la disoccupazione salirebbero alle stelle. Verrebbe attuato il razionamento. Le borse mondiali, almeno nel breve periodo, verrebbero chiuse. Si scatenerebbe una depressione globale. Se la Marina statunitense fosse in grado di bloccare le spedizioni di petrolio alla Cina e di interrompere le sue rotte marittime, il conflitto potrebbe potenzialmente diventare nucleare.
In “NATO 2030: Unified for a New Era”, l’alleanza militare vede il futuro come una battaglia per l’egemonia con gli Stati rivali, in particolare la Cina. Il documento invita a prepararsi a un conflitto globale prolungato. Nell’ottobre 2022, il generale dell’aeronautica Mike Minihan, capo del Comando della mobilità aerea, ha presentato il suo “Manifesto della mobilità” a una conferenza militare gremita. Durante questa folle diatriba sulla paura, Minihan ha sostenuto che se gli Stati Uniti non intensificano drasticamente i preparativi per una guerra con la Cina, i figli dell’America si troveranno “asserviti a un ordine basato su regole che avvantaggia solo un Paese [la Cina]”.
Secondo il New York Times, il Corpo dei Marines sta addestrando le unità per gli assalti alle spiagge, dove il Pentagono ritiene che possano verificarsi i primi scontri con la Cina, attraverso “la prima catena di isole” che comprende “Okinawa e Taiwan fino alla Malesia, nonché il Mar Cinese Meridionale e le isole contese delle Spratlys e delle Paracels”.
I militaristi sottraggono fondi ai programmi sociali e infrastrutturali. Versano denaro nella ricerca e nello sviluppo di sistemi d’arma e trascurano le tecnologie per le energie rinnovabili. Ponti, strade, reti elettriche e argini crollano. Le scuole decadono. La produzione nazionale diminuisce. La popolazione si impoverisce. Le dure forme di controllo sperimentate e perfezionate dai militaristi all’estero migrano in patria. Polizia militarizzata. Droni militarizzati. Sorveglianza. Vasti complessi carcerari. Sospensione delle libertà civili di base. Censura.
Coloro che, come Julian Assange, sfidano la stratocrazia, ne denunciano i crimini e la follia suicida, sono perseguitati senza pietà. Ma lo Stato di guerra nasconde in sé i semi della propria distruzione. Cannibalizzerà la nazione fino a farla crollare. Prima di allora, si scatenerà come un ciclope accecato, cercando di ripristinare il suo potere decrescente attraverso la violenza indiscriminata. La tragedia non è che lo stato di guerra degli Stati Uniti si autodistruggerà. La tragedia è che porteremo con noi tanti innocenti.
(Articolo tratto da: sinistrainrete.info)
Fin dall’inizio, i leader dei Paesi dell’ALBA hanno denunciato il brutale sfruttamento e dominio dell’imperialismo nordamericano ed europeo e la sua diplomazia da gangster: “Fate quello che vogliamo, altrimenti…”.
di Stephen Sefton
Nel 2004, il Comandante Fidel Castro e il Comandante Hugo Chávez hanno fondato quella che oggi è l’Alleanza Bolivariana dei Popoli della Nostra America, ALBA, che oggi comprende Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela e le nazioni insulari caraibiche di Saint Vincent e Grenadine, Dominica, Saint Kitts e Nevis, Grenada, Antigua e Barbuda e Santa Lucía. Un anno prima, nel 2003, è stata formalmente costituita l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che ora comprende Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Iran. Entrambe le organizzazioni condividono praticamente gli stessi principi di solidarietà, uguaglianza tra i membri e rispetto reciproco per le diverse ideologie. Ciò suggerisce che, in quello stesso periodo, in diversi poli del mondo maggioritario, è sorta una decisione comune di costruire un mondo libero dallo strangolamento economico e dall’aggressione neocoloniale degli Stati Uniti e dei suoi alleati.
Fin dalla sua nascita, i leader dei paesi dell’ALBA hanno denunciato il brutale sfruttamento e dominio dell’imperialismo nordamericano ed europeo e la sua diplomazia da gangster del “fate quello che vogliamo o altrimenti…”. Nel maggio di quest’anno, il Presidente Comandante Daniel Ortega ha dichiarato al 21° Vertice ALBA-TCP: “Non hanno smesso di praticare la Dottrina Monroe, non hanno rinunciato alla Dottrina Monroe. In nome della democrazia, impongono una politica internazionale tirannica, imperialista, terrorista… l’imperialismo non è cambiato, l’essenza dell’imperialismo è lì, un’essenza totalmente criminale”.
In quella stessa riunione, il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha dichiarato: “Basta con i secoli di saccheggio, di invasioni, di minacce, di egemonismo imperiale, questo è il nostro secolo! Il XXI secolo… e il nostro cammino è quello dell’America Latina e dei Caraibi, dell’ALBA, della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, questo è il nostro cammino, il cammino degli uguali, il cammino del rispetto, il cammino dell’inclusione, il cammino della convocazione unitaria, questo è il nostro cammino”.
Nello stesso vertice, anche il presidente di Cuba Miguel Díaz Canel ha espresso l’impegno dei Paesi dell’ALBA per l’unità tra le diversità “Di fronte ai tentativi di esclusione e selettività, è urgente rafforzare gli autentici meccanismi dell’America Latina e dei Caraibi per integrarsi e agire di concerto. Insieme saremo in grado di difendere efficacemente la nostra sovranità e la nostra autodeterminazione senza interferenze o pressioni esterne….Chiamiamo a unire, non a dividere; a contribuire, non a sottrarre; a dialogare, non a confrontarci; a rispettare, non a imporre”.
Dopo decenni di provocazioni sempre più aggressive da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, nel febbraio di quest’anno la Federazione Russa ha finalmente agito per difendersi. Nel suo storico discorso del 30 settembre, il Presidente Vladimir Putin ha elaborato la visione di un mondo multipolare, basato sugli stessi principi dell’ALBA e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai: cooperazione genuina, rispetto tra pari, unità nella diversità, impegno per il dialogo e il diritto internazionale. La somiglianza tra la visione dei leader dei Paesi dell’ALBA e quella espressa dal Presidente Putin nel suo discorso è molto evidente.
Egli ha parlato della fiducia dei popoli del mondo maggioritario in un mondo multipolare per “rafforzare la loro sovranità e, quindi, acquisire la vera libertà, la prospettiva storica, il diritto a uno sviluppo indipendente, creativo, autentico, a un processo armonioso”. Il Presidente Putin ha chiarito che si tratta anche di fiducia nella capacità umana di superare le differenze, collaborare per il bene comune e creare un mondo solidale. Ha dichiarato esplicitamente: “I nostri valori sono l’amore per il prossimo, la misericordia e la compassione”.
Il contrasto di queste visioni comuni dei Paesi dell’ALBA, della Russia, della Cina e dei loro alleati con la prassi dell’Occidente non potrebbe essere più forte. Come afferma il Presidente Putin, “i Paesi occidentali dicono da secoli di portare libertà e democrazia alle altre nazioni. Tutto è esattamente il contrario: la democrazia diventa repressione e sfruttamento; la libertà, schiavitù e violenza. L’intero ordine mondiale unipolare è intrinsecamente antidemocratico e privo di libertà. È mendace e ipocrita fino al midollo”.
La verità di questa condanna categorica degli Stati Uniti e dei suoi alleati è evidente nella storia coloniale dell’imperialismo, dalle sue origini alla sua evoluzione nell’ultimo secolo fino al neocolonialismo. Negli Stati Uniti e in Europa, da quando l’introduzione del suffragio universale nel secolo scorso ha permesso alle élite occidentali di spacciare le loro nazioni come democrazie, in pratica, in cambio della garanzia dello sviluppo socio-economico delle loro popolazioni, queste élite hanno potuto contare sui popoli dei loro Paesi per collaborare al saccheggio del mondo maggioritario. In questo modo, i popoli di Africa, Asia e America Latina hanno pagato i costi della prosperità e dello sviluppo delle nazioni occidentali e, in un modo o nell’altro, continuano a farlo.
Tuttavia, la portata del potere geopolitico e del controllo della maggioranza delle risorse mondiali da parte delle élite occidentali è ora più limitata. In parte, questa battuta d’arresto per l’Occidente deriva dalla crescente cooperazione e dal potere commerciale e finanziario delle nazioni dello spazio eurasiatico. A sua volta, la crescente attività economica e diplomatica di Cina, Russia e dei loro alleati ha favorito lo sviluppo delle loro relazioni con le nazioni dell’Africa, dell’America Latina e dei Caraibi, in particolare con i Paesi e i popoli impegnati nella difesa della propria sovranità.
La risposta disperata al relativo declino del loro potere globale da parte delle oligarchie americane ed europee assume tre forme principali. In primo luogo, nei loro Paesi aumentano lo sfruttamento della forza lavoro e la repressione del dissenso. In secondo luogo, agiscono con maggiore aggressività di ogni tipo contro la Russia e la Cina e i loro alleati regionali come Cuba, Venezuela e Nicaragua o Siria, Iran e Repubblica Democratica di Corea. E la terza forma di reazione occidentale al loro declino consiste nell’applicare maggiori intimidazioni e vessazioni contro i Paesi vulnerabili alle pressioni economiche per assicurarsi che rimangano obbedienti.
In Nord America e in Europa, le politiche neoliberiste attuate a partire dagli anni ’80 hanno normalizzato la repressione e lo sfruttamento economico. Negli Stati Uniti è in atto un’offensiva politica permanente contro il sistema di sicurezza sociale e gli investimenti nei servizi pubblici in generale. In Europa, i servizi pubblici vengono tagliati o privatizzati. Negli Stati Uniti e nell’Unione Europea ci sono stati enormi trasferimenti di ricchezza alle élite aziendali, sia durante la crisi finanziaria del 2008-2009, sia come parte delle misure finanziarie in risposta al collasso economico causato dalle misure di contrasto alla Covid-19. Allo stesso tempo, anche il FMI riconosce che la retribuzione del lavoro in Occidente è diminuita in termini reali. Allo stesso modo, le condizioni di lavoro delle persone in tutto l’Occidente stanno diventando sempre più precarie. Negli Stati Uniti solo il 10% della forza lavoro è organizzata in sindacati. Nei Paesi europei la media è del 23% e in genere molto più bassa.
È impossibile riassumere sinteticamente tutte le sfumature di questa realtà. Ma tra i principali effetti associati all’aumento della repressione economica interna nei Paesi occidentali e all’incremento dell’aggressione all’estero, ci sono la censura sui social network e la soppressione delle informazioni nei media, soprattutto sugli eventi internazionali. Queste pratiche rafforzano la vasta e intensa guerra psicologica dell’Occidente contro la maggioranza del mondo e facilitano l’aggressione economica e militare e il terrorismo degli Stati Uniti e dei loro alleati contro qualsiasi nazione che cerchi di difendere la propria sovranità e indipendenza.
Questo segna un profondo e irreparabile crollo dell’integrità morale e intellettuale da parte delle élite occidentali e dei loro popoli, segnalando una sconfitta spirituale completa e insidiosa. D’altro canto, un numero crescente di governi e popoli del mondo maggioritario insiste sul proprio diritto sovrano di gestire le relazioni internazionali a livello internazionale, in modo da aprire e promuovere nuove possibilità di sviluppo nazionale, regionale e internazionale. Forse l’espressione più importante di questa fiducia nel futuro è l’ampio sostegno al cosiddetto gruppo di Paesi BRICS+, originariamente organizzato da Cina, Russia, India, Brasile e Sudafrica, da parte di Paesi di tutto il mondo, tra cui Iran, Algeria, Turchia, Argentina, Egitto, Indonesia, Kazakistan, Nigeria, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Senegal, Thailandia e persino Nicaragua.
Molte nazioni della maggioranza del mondo sono chiaramente d’accordo con le opinioni del Primo Ministro Ralph Gonsalves di Saint Vincent e Grenadine, che quest’anno ha osservato il 19 luglio nella Plaza de la Revolución di Managua, in occasione del 43° anniversario della Rivoluzione Sandinista: “Vengo da un piccolo paese del nostro emisfero, ma questo piccolo paese crede e sottoscrive grandi principi: La difesa della sovranità e dell’indipendenza, la non interferenza e il non intervento nei nostri affari; in modo da poter guidare noi stessi e le nostre civiltà verso il futuro, e poter camminare insieme a tutti i popoli del mondo, in amicizia ma non in subordinazione. In questo senso, siamo amici di tutti e aspiriamo a un mondo migliore”.
Pubblicato su Telesur il 24 Novembre 2022
Traduzione: Campbiailmondo.org
Premessa
Il saggio che segue comparve sul numero luglio-ottobre 1973 di Problemi del Socialismo, rivista diretta da Lelio Basso.
Il numero della rivista uscì a ridosso del golpe cileno. Si apriva con uno struggente “Epicedio per Salvador Allende”, dello stesso Lelio Basso che aveva seguito da vicino gli eventi cileni, l’ascesa di Unidad Popular e che condivideva con Allende una fraterna amicizia.
Il saggio di Theotonio Dos Santos riprende alcuni concetti espressi nella seconda parte (Praxis) del volume “!Bendita Crisis! – Socialismo y democracia en el Chile de Allende”, dove si susseguono diversi interventi di Dos Santos in concomitanza con gli eventi cileni del 1972, ma che fu pubblicato solo nel 2009 in Venezuela, per le Edizioni “El perro y la rana”, un progetto editoriale bolivariano che si apre con una “Carta abierta a Hugo Chavez” da parte di Dos Santos.
Si tratta del capitolo XIV: “Corporaciones multinacionales, imperialismo y estados nacionales” che contiene una sintesi parziale di quanto espresso più ampiamente nel presente saggio.
Quello scritto descrive essenzialmente il ruolo centrale delle multinazionali (nord-americane) nel destino del sottosviluppo latinoamericano, mentre non contiene né la lunga premessa analitica qui presente, né la interessantissima ricostruzione storica dell’affermarsi delle multinazionali nei paesi di insediamento per trasformarsi poi in soggetti “senza confini”; non contiene neanche la parte finale – quella che ci è sembrata particolarmente interessante ai fini di questa pubblicazione – che descrive le dinamiche e l’evoluzione contraddittoria delle relazioni e degli effetti prodotti dalle entità transnazionali, sia sullo stato di emanazione (USA) che sui paesi di insediamento.
Mentre gli effetti su questi ultimi sono abbastanza noti e corroborati da un’ampia letteratura, quelli sul paese di emanazione, come tendenze già individuabili allora, lo sono molto meno.
Dos Santos arriva infatti qui a ipotizzare che l’alternativa tendenziale tra fascismo o socialismo – titolo di un altro suo noto libro – non riguarderà solo i paesi “sottosviluppati”, come confermato dai golpe susseguitesi nei decenni che ci separano da allora, ma anche quelli da cui le multinazionali emanano, cioè quelli del nord, gli Usa in particolare.
Secondo Dos Santos la contraddizione centrale del multinazionalismo è che “la piena libertà di movimento del capitale internazionale entra in conflitto (anche, ndr) con gli interessi del suo centro egemonico, tende a indebolirne l’economia e rende più profonde le sue contraddizioni interne”.
Nella evoluzione storica di queste entità multinazionali ci si emancipa progressivamente da un insediamento iniziale nel paese di arrivo a mo’ di “enclave” autosufficiente e autarchico, fino ad una integrazione progressiva nel contesto locale, sia in termini di relazioni sempre più strette con la forza lavoro, con le istituzioni e la politica, con gli altri settori produttivi, sia anche con una capacità di produzione e commercializzazione che tende alla progressiva emancipazione e sganciamento dalla casa madre, di modo che essa inizia ad esportare anche in paesi terzi e nello stesso paese di nascita, e a necessitare per tutto ciò, di supporto finanziario parallelo (che consente l’arrivo dalle banche estere), in definitiva ad agire come soggetto che può massimizzare i propri profitti in misura del suo grado di autonomia, inclusa quella di programmare investimenti in altri settori e in altri paesi rischiando anche di fare concorrenza alla casa madre.
La natura degli agglomerati transnazionali è dunque spuria: “La società multinazionale, intesa come una organizzazione internazionale, ha interessi, strategia, organizzazione e finanziamento propri. Da questo punto di vista ha i suoi interessi specifici all’interno dell’economia mondiale. Cosicché, teoricamente, potremmo pensare che la società multinazionale operi con un criterio diverso da quello dell’economia del paese dove ha il suo centro di operazioni. Sappiamo, tuttavia, che questa indipendenza della società multinazionale è relativa, dato che la sua forza economica è in gran parte basata sul potere dell’economia nazionale da cui essa prende l’avvio. Nello stesso tempo le sussidiarie sono sottoposte alla dinamica globale della società multinazionale e, insieme, alla capacità economica e alle leggi di sviluppo dell’economia in cui operano. Perciò la tendenza a sviluppare le sussidiarie in direzione del mercato interno, le fonti di rifornimento locale e la nazionalizzazione della produzione vengono a trovarsi in contrasto sia con gli interessi della società nel suo insieme, sia con quelli dell’economia del paese dominante.”
La logica ferrea del profitto, però, non guarda in faccia a nessuno, neanche alla propria madre o levatrice e, in prospettiva, costruisce un nuovo spazio autocentrato che entra in frizione col mondo circostante, sia quello locale, verso il quale tenta di imporre le proprie condizioni, sia quello lontano, ma strutturalmente più vincolante, costituito dal paese di emanazione. Si può affermare che, superata una certa soglia, gli appetiti crescono e il figlio si rimangia il padre.
Il conflitto tra dimensione territoriale (statuale) del potere e quello della connaturata qualità e capacità di spaziare oltre ogni confine, insita nella logica stessa del capitalismo e storicamente applicata nella secolare conquista coloniale che diventa l’imperialismo, può tornare indietro fino ai territori di partenza dell’entità multinazionale e sottoporre anche quei territori alla sua logica perenne. E’ anche una dimensione di conflitto tra pubblico (senza alcun giudizio di ordine morale) e privato; ma si afferma, egli dice, anche tra le parti costituenti la dimensione privata, i punti di articolazione della singola multinazionale.
Theotonio Dos Santos, come detto, scrive probabilmente tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, da Santiago del Cile, dove si è rifugiato fin dal 1966 dopo il golpe in Brasile. Insegna all’università di Santiago e fa parte del gruppo di consiglieri di Allende insieme ad altri sociologi, economisti militanti: Vania Bambirra (che è anche la sua compagna), Ruy Mauro Marini, come lui fuoriusciti e provenienti da Minas Gerais; André Gunder Frank, berlinese emigrato a Chicago, anche lui approdato a Santiago intorno al 1968; lì ci sono già due cileni, Orlando Caputo e Roberto Pizarro, ricercatori del CESO (Centro de Estudios Socio-Económicos – Universidad de Chile), che vengono aggregati al gruppo: sono i creatori della Teoria della Dipendenza, riarticolando le tesi di Paul Baran e Paul Swizy su sottosviluppo e capitale monopolistico e confrontandosi con quelle di Raùl Prebisch, argentino e di Celso Furtado anch’egli brasiliano, anch’essi ispiratori di Allende, verso i quali si sviluppa la polemica intorno alla praticabilità ed efficacia delle politiche economiche nazionaliste, di industrializzazione tramite sostituzione delle importazioni, ecc. che costituiva il cuore della proposta della CEPAL.
La Teoria della dipendenza propone una rottura decisiva nella chiave di lettura proposta fino ad allora: il sottosviluppo non è un ritardo storico rispetto ai centri motori del capitalismo, ma la condizione dell’esistenza stessa di questi centri motori; in altre parole, il centro propulsore esiste solo in quanto drena ed incamera risorse potenziali verso sé stesso e lascia nelle periferie le macerie di questo salasso. In questo processo si serve delle borghesie locali come garante e agente di controllo locale di tale processo; e può farlo poiché la loro esistenza è strettamente legata alla perpetuazione dell’estrazione ed esportazione di valore verso i paesi dominanti.
E’ da tali conclusioni che le proposte di alternative nazionaliste vengono messe in discussione come concretamente impraticabili o scarsamente produttive, come anche non risolutive e infondate saranno, secondo Dos Santos, le proposte “riformistiche” successive al periodo delle dittature sostenute, ad esempio in Brasile, da Fernando Henrique Cardoso, di “sviluppo nel sottosviluppo”, una contraddizione in termini e verificata.
Ma non è questo il luogo di un approfondimento della avvincente riflessione e discussione che si svilupperà proprio dopo il golpe cileno e quelli seguenti in tutta l’America Latina nel corso degli anni ‘70 (e alle incursioni e successive guerre dell’occidente, passando per la caduta dell’Urss e i cui esiti arrivano ai giorni nostri) e che riguarderanno anche altri importanti interpreti di questa teoria critica, da Emmanuel Wallerstein a Giovanni Arrighi, Hosea Jaffe e e proseguita da Michel Husson, David Harvey e molti altri.1
L’unica cosa che in questa sede vale la pena sottolineare è che, come probabilmente i teorici della Dipendenza avevano già capito, nel lungo percorso di mutazione dell’animale multinazionale, accade, come abbiamo visto, che può crescere il livello di industrializzazione del paese dipendente, certamente nella misura in cui esso rimane subalterno, ma tuttavia riducendo man mano i differenziali produttivi con il nord (iniziando dai settori a minor composizione organica di capitale) e trasformandosi, dopo molti anni, da “sottosviluppato” ad “emergente”.
Questa deve essere stata la considerazione, ancora non del tutto chiara, a cui era pervenuto Dos Santos in quegli anni; una cosa che necessitava di essere approfondita, ma non c’erano tempo e condizioni per farlo nei momenti tragici di metà 1973 a Santiago; quindi la chiusura della riflessione ne risente e la scorciatoia proposta è appunto quella dell’alternativa finale tra fascismo o socialismo anche nei paesi guida.
Cosa che presuppone che nel loro tragitto le multinazionali hanno visto crescere il proprio potere fino a determinare effetti economico-sociali contundenti anche nei punti di origine della loro avventura.
Quindi l’oggetto effettivo della riflessione del saggio non è già più la Dipendenza, ma le multinazionali in quanto tali, delle quali si intravvede che saranno il soggetto in grado di destrutturare un ordine e di ricrearne uno nuovo; non solo in un paese o in un gruppo di paesi dipendenti, ma a livello globale.
Più tardi, intorno a questi punti Arrighi postulerà le sue idee di evoluzione ciclica delle relazioni tra centri motore territoriali ed elementi strutturali egemonici che sono destinati a succedersi nel corso storico e a sostituirsi l’uno dopo l’altro in considerazione della capacità di riorganizzare meglio e più efficacemente la disponibilità di capitali e risorse. I momenti di passaggio, secondo Arrighi sono preceduti dall’estremo grado di finanziarizzazione che assume il sistema, con enormi sovrappiù di capitali che preferiscono mantenere una forma liquida piuttosto che misurarsi con il rischio dell’investimento produttivo. E quella che stiamo ora attraversando sarebbe proprio una di queste fasi che sboccherà nell’individuazione di un altro centro territoriale e culturale egemone da cui ripartire: la Cina.
Ma la cosa che colpisce nello scritto di Dos Santos è anche la descrizione delle dinamiche conflittuali all’interno stesso dell’agente centrale dei processi di globalizzazione, la società multinazionale; oltre alla dialettica che si produce non solo con i paesi di insediamento ma anche che con quello di emanazione. E la descrizione, che assume toni profetici, dell’esito finale di questa dialettica che riassume infine nell’opzione “fascismo o socialismo”; non solo nelle periferie, ma anche nei centri guida della globalizzazione.
Il saggio appare dunque come un frammento di un pensiero in fieri interrotto bruscamente, probabilmente proprio dal golpe cileno e del suo impatto sul gruppo che a Santiago andava realizzando il suo lavoro di ricerca.
A fronte dei terribili eventi del 1973 e seguenti, quella soglia temporale in cui la dialettica delle multinazionali avrebbe investito, con lo stesso dilemma (fascismo o socialismo), anche i paesi guida della globalizzazione appariva molto lontano e incerto, forse non così degno di essere approfondito nell’immediato, mentre il compañero Presidente moriva sotto il bombardamento del Palazzo de la Moneda.
Anche se successivamente, per altre vie, essa riemerge già in relazione al conflitto tra le spinte centripete e centrifughe dei grandi movimenti di capitali seguenti alla crisi energetica del 1974 tra USA ed Europa e alla fine della convertibilità del dollaro.
Parafrasando per incerte analogie alcuni concetti proposti da Caro Rovelli nel suo recente libro “Buchi bianchi” potremmo riassumere così: la moderna globalizzazione è lo stretto prodotto dell’azione delle multinazionali; essa si distingue da quella meramente mercantile di fino ’800/inizio ‘900; è prima estrattiva, poi produttiva e industriale; poi finanziaria. Via via che cresce e si consolida, la società multinazionale funziona come un buco nero; cioè interagisce ed è in grado di modificare le coordinate spaziali circostanti fino a modificarne gli spazi giuridici e politici “euclidei” fondati sul principio dello stato-nazione (in cui arriva), le modalità di funzionamento classiche dei suoi apparati amministrativi e di stimolare e introdurre altri processi normativi e ideologici; la sua crescente egemonia muta le culture e le narrazioni consolidate, fino alla stessa configurazione di centri e periferie territoriali, sostituendosi infine ad essi e inaugurando un tempo nuovo che si assottiglia fino a ridurre la storia alle sue esigenze fisiologiche di una soggettività isterica in permanente movimento e in sempre più rapida dislocazione, fino ad agire, necessariamente, solo come flusso di capitale sempre più svincolato dalla mediazione produttiva.
Il nuovo tempo che si afferma è dunque il tempo delle sue variazioni in termini di allargamento pluriverso in ogni direzione e di spostamenti sempre più repentini di investimenti collocati laddove la redditività attesa è maggiore, prescindendo da alcun elemento valoriale o culturale legato alla sua genesi, al suo dislocamento storico, o dispiegamento provvisorio. Fino a riprogettare e a riprodurre il vivente e l’umano tramite, magari, bio-reattori di proteine che sostituiscano la “mediazione” agricola per gli alimenti e con ciò annientando il vincolo fisico-chimico naturale, anche perché, nel frattempo lo ha distrutto.
Il tempo che ne scaturisce è quello di un perenne cambiamento del suo ipotetico centro che tende a corrispondere col suo scopo, il suo obiettivo, quello del profitto a brevissimo termine. Di fronte ad esso tutto può essere ed è sacrificato. Può dunque tornare anche al suo territorio di partenza con l’obiettivo di estrarne il massimo possibile allo stesso modo di come si è abituata a fare con tutte le periferie in cui ha transitato. Poiché il nuovo tempo è quello in cui il centro è mobile come il capitale in movimento e dunque le periferie spaziali si susseguono secondo le sue volontà. L’unica chances di queste successive periferie di stare in campo è quella di competere sull’offerta delle condizioni ottimali per un suo atterraggio dal cielo, visto che ormai è essenzialmente denaro astratto tenuto insieme dai tassi di interesse promessi agli investitori.
Questo suo transitare svincolato da ogni laccio determina cambiamenti nella sfera politica, sociale, culturale in ogni paese, spostamenti paralleli di masse umane da un paese all’altro, arricchimento o distruzione dei territori antropizzati, incide sul clima e sulla biosfera, cambia le coordinate dell’immaginario individuale e collettivo. E per consolidarsi come sistema ha un estremo bisogno di emanare una propria teologia sistemica che prescinda da altre intrusioni territoriali o statuali e che diventi egemone a prescindere da ogni confine. Anzi, il nuovo confine, che tutto ingloba, è proprio la sua narrazione.
Per questo sviluppa sempre di più i propri centri R&S non più quelli legati – solo – ai processi produttivi, ma quelli ideologici, della comunicazione, dell’educazione, della dottrina.
Siccome non esiste più una corrispondenza necessitata tra puntuazioni spaziali e capitale, non vi sono tendenzialmente limiti alla sua ulteriore concentrazione che è destinata a procedere fino ad inglobare successivamente in agglomerati sempre più grandi le stesse entità multinazionali che si sono emancipate singolarmente da territori e stati “a livelli che superano di molto la nostra immaginazione” dice Dos Santos, poiché lo spazio metafisico che hanno creato e in cui si trovano ad agire, conosce solo una legge gravitazionale definita da uno spazio giuridico unificato che deve essere tuttavia legittimato, prima della completa autonomia, dalle puntuazioni di potere statuale che è in condizione di determinare: gli accordi internazionali sul libero commercio di merci e capitali, sono questa cosa.
E’ immaginabile che lungo questa traiettoria i buchi neri più poderosi, ciascuno con i propri concorrenziali orizzonti degli eventi statuiscano orbite di equilibrio provvisorio tra di essi, con proprie galassie al seguito composte anche da stati e territori secondo le proprie specificità settoriali e di risorse disponibili (l’occidente), inaugurando magari altre e nuove entità spaziali sotto il loro completo dominio; sarebbero, in un futuro senza intoppi, le loro sedi legali extraterritoriali, le nuove metropoli caratterizzate da filosofie e sistemi di valori ad hoc, entità di diritto privato sostitutive degli antichi spazi di diritto statuale ai quali potrebbero succedere, alla ricerca di un sottostante ideologico concreto come le variazioni interpretative della Santissima Trinità e parallelamente ad una cittadinanza che viene attribuita per comune congenialità, adesione o credo individuale; perché il limite ontologico della loro astratta natura contabile, va reso comunque potabile (comprensibile) per i soggetti che in ultima istanza debbono continuare a legittimarlo.
C’è una soglia quantistica (e storica) che registrerà questo passaggio? Sarà un oggetto di indagine di studiosi e ricercatori. Ma se le premesse sono verosimili, queste potrebbero essere le linee di tendenza e se ne intravvedono alcune luccicanze già da diversi anni: le grandi compagnie delle reti, l’attivismo delle megaconcentrazioni specializzate nella terra, nel cibo, nei farmaci, nella chimica, nella mobilità, nella comunicazione; sempre meno gli agglomerati che controllano tutto ciò che occorre ad emettere derivati e altre invenzioni finanziarie. Altro non sono che le opportunità offerte dalla residua concretezza fisica in direzione di un’astrazione strutturale di capitale.
Dove dovremmo essere allora, oggi, lungo questo ipotetico tragitto? Potremmo trovarci ad una stazione molto avanzata. Quasi ad un passo dalla chiusura del circuito. Che, per attivare la sua modalità perpetua, non ammette tuttavia defezioni o intoppi. Negli ultimi tre decenni sono stati contenuti o abbattuti quasi tutti i recalcitranti: attraverso guerre e altre operazioni strategiche che non erano affatto finalizzate alla conquista, ma alla destrutturazione di chi ancora si attardava sulle presunte prerogative dei confini, gli stati canaglia, resi ormai così permeabili a scorrerie che se ne evidenziava la manifesta nullità.
I confini formali, la statualità, sono riservati solo a coloro che aderiscono fino in fondo al modello; servono a legittimarlo da un punto di vista diverso, un alter ego di ultima istanza; come nella funzione assolta dal Papato medioevale, dopo la fine della sua aspirazione di governo temporale. Perché comunque, nella narrazione utile al passaggio storico di fase è fondamentale disporre ancora di un ancoraggio normativo che consenta il rispetto “di regole”. Anche il ripetuto aggancio ai superiori processi formali della democrazia sono indispensabili per tranquillizzare l’opinione pubblica e ritardare la consapevolezza di trovarsi ormai in un diverso ordine di cose, una sorpresa che non dovrà essere troppo preoccupante, la mattina che accadrà, quando essa sarà rivelata e, al vertice della piramide, si scoprirà il nuovo brand che tutto governa, come nella profezia di “Gaia”, l’inquietante documentario del primo Casaleggio.
Così, a ripensarci, l’11/9 può essere servito più a sfasciare il neonato movimento contro la globalizzazione neoliberista piuttosto che ad annientare coloro che erano stati fino a poco prima i soci islamici dell’imperialismo. Più pericoloso il primo, perché scaturiva in casa dell’occidente e si andava diffondendo con inattesa velocità; inoltre stava introducendo un paradigma rischiosissimo: quello del tentativo di saldatura tra classi sociali subalterne e marginalizzate del nord con quelle del sud del mondo; si trattava dell’attualizzazione rivista e corretta della Teoria della dipendenza e di una maturità, almeno analitica, in grado di mettere a nudo il re.
Spostare (in termini psico-sociali e politici) l’agenda globale era un imperativo. Più stringente di qualsiasi confronto con mondi secondari, dopo che anche il muro era crollato e l’avversario presunto si era arreso.
Forse non siamo già più nello spazio di opportunità colto nel 1973 da Theotonio Dos Santos: fascismo o socialismo. La prospettiva socialista era emersa alla fine degli anni’90 ed è durata lo spazio di un biennio rosso, tra Seattle e Porto Alegre.
Dopo i primi venti anni di guerra infinita restano tutte le macerie diffuse sul pianeta e un pianeta che viene progressivamente intaccato nella sua tenue pellicola dell’ecosistema.
Green washing, passaggio da combustione a celle, produzioni di virus e vaccini, di proteine in bio-reattori, ecc. sono una ulteriore frontiera per le transazioni e per il consolidamento dell’opera: riportare a ragion finanziaria tutto quello che ne è ancora parzialmente al di fuori.
Invece le ultime pagine del saggio non possono non richiamare alla memoria le immagini della riemersione del fascismo; quello di Trump nel 2016 negli Usa, l’assalto al Campidoglio dei suoi adepti; una congerie confusa di aggregazioni ideali e di gruppi sociali compositi e contraddittori, all’assalto della nuova divisione internazionale del lavoro, secondo la narrativa di Steve Bannon, che si deve allargare – e si sta allargando – agli altri paesi centrali:
“L’instaurazione di questa nuova divisione internazionale del lavoro presuppone la soluzione di molti problemi preliminari, tra i quali, in primo luogo, la divisione interna che questa politica provoca in seno alla stessa borghesia dei paesi dominanti. Questa soluzione comporta il sacrificio della media e piccola borghesia all’interno dei paesi dominanti a favore del progresso delle società multinazionali e della borghesia internazionale (…). Questa contraddizione è grave e di difficile soluzione, perché le borghesie locali dei paesi dominanti sono ancora molto forti ed hanno un’influenza politica, hanno capacità di resistere al grande capitale internazionale, soprattutto nella misura in cui riescono ad influenzare altri settori della popolazione e a muoverli politicamente. Se pensiamo che al mercato locale nordamericano sono legate in maniera fondamentale società di grande potenza, possiamo dedurne che si tratta di un confronto tra giganti e non semplicemente tra alta borghesia e borghesia media. A lunga scadenza, le borghesie locali non potrebbero resistere, soprattutto perché non hanno da offrire un’alternativa di sviluppo economico a livello nazionale e internazionale, ma un’alternativa di regresso, d’immobilismo, di ristagno che ai nostri giorni non può rappresentare, evidentemente, una base valida per una politica economica con proiezioni internazionali.”
O forse non siamo ancora del tutto entrati nell’orizzonte degli eventi in agglutinamento attorno ai buchi neri; possiamo ancora verificare l’attivismo delle ultime grandi puntuazioni statuali in conflitto per porre uno stop all’inesorabile: Russia, Cina e altre medie potenze riottose per le quali diventa difficile un’assimilazione hic et nunc agli stati canaglia; che resistono proponendo una alternativa pluricentrica, un multipolarismo che non ha ambizioni di egemonia immediata, ma piuttosto di stallo, di tregua, guadagno di tempo, time gain; queste potenze hanno proceduto pragmaticamente negli ultimi decenni all’emanazione forzata e accelerata di propri nuclei multinazionali, cosiddetti oligarchici, in grado di creare e intercettare parzialmente il flusso di capitali, sperimentando una incerta direzione e un complesso controllo al movimento illimitato delle multinazionali di primo rango, cercando di mantenere un guinzaglio produttivo agli investimenti esteri, rivendicando la correttezza dogmatica della classica valorizzazione capitalistica e richiamando Adam Smih a Pechino, come ci racconta Arrighi.
L’esito di questo estremo confronto si vedrà alla fine del grande conflitto.
Per ora basti dire che il modello del buco nero attorno a cui tutto gravita non funziona se non è totale; e se viene messo in discussione vuol dire che non è ancora in grado di cancellare la stessa possibilità di alternative. Ciò stesso lo rende in sé parziale, dunque limitato, dunque aggredibile nella sua pretesa onnicomprensiva.
Ci sono allora tre opzioni: la vittoria piena oppure la riapertura dei giochi; o infine la compartimentazione stagna di due modelli gravitazionali destinati a competere entro spazi che, in questo caso, ridiventano, loro malgrado, territoriali. Nel secondo e terzo caso, il progetto di unico centro mobile è sconfitto. Nel terzo caso si tenta un pari e patta, ciascuno a casa sua. Ma, appunto, sempre si tratta di una sconfitta dell’unipolarità.
Mi pare che al momento stazioniamo qui. L’ipotesi di arrocco e il ritorno alla logica della cortina di ferro infioccata di superiorità civilizzatrice indica che c’è un altro, sufficientemente forte, in gioco. Si alzano i muri perché una parte del coacervo multinazionale globalizzato (quello ancora legato alla produzione concreta di manufatti e servizi e alla disponibilità di risorse naturali) riconosce in lui potenzialità e redditività di lunga durata.
E iniziano dunque a cogliersi vistose crepe nella direzione esclusiva e indiscutibile della ragion finanziaria. Il buco nero, fino a poco fa dotato di una certa compattezza, va scindendosi. Nel momento in cui la redditività di produzioni e commerci recupera slancio, allora vuol dire che il centro motore sta cambiando. Per ostacolarlo bisogna abiurare a tutto ciò che è stato diffuso come vero in mezzo secolo di apertura neoliberistica; si può, anzi, si deve, tornare al protezionismo. Rinverdito da sciocche narrazioni tra società aperte (ma con i muri) e autocrazie (che vogliono apertura).
Se ha ragione Giovanni Arrighi, ad una egemonia dovrebbe succederne un’altra più forte, che renda più gestibili le contraddizioni e preservi la civiltà umana attraverso un nuovo e più efficace equilibrio, allontanando la catastrofe.
Le due varianti di Dos Santos, fascismo o socialismo, si ridefiniscono forse dentro questo scenario, come sovrastrutture dei processi in corso su scala globale; segno ne sia che le varianti “Trump” e “Biden” sono, sul piano globale, mero elemento di cronaca; valgono solo all’interno di ogni singolo paese nel confronto innescatosi tra borghesie globalizzate e grandi borghesie nazionali, un “confronto tra giganti”, ma interno all’occidente che va perdendo egemonia. E nello spazio senza confini sia accentuano le contraddizioni interne allo stesso capitale finanziario, abituato a scorrazzare indisturbato tramite le sue catene globali del valore che rischiano di essere messe in dubbio.
Mentre nell’oriente si dovrebbe accentuare l’attenzione agli enormi mercati interni, forse in grado, da soli, di contenere le spinte delle multinazionali oligarchiche abituate ad operare globalmente. Ma non tutti dispongono di tali dimensioni potenziali.
I territori intermedi, Africa, America Latina, Asia sottosviluppata, saranno probabilmente quelli in cui la frizione tra i blocchi sarà massima, indispensabili, come sono, ad ammortizzare gli effetti dell’arrocco e a garantire i nuovi prodotti primari. C’è da vedere se il loro corteggiamento produrrà o meno processi simili a quelli previsti dalla Teoria della dipendenza, o se saranno un atroce campo di battaglia; oppure se auspicabilmente, la loro centralità per gli esiti del conflitto non ne consenta un’accelerazione dello sviluppo e una soggettività terza, non allineata.
Tuttavia, l’occasione che si presenta per una rivalsa del mezzo millennio di colonizzazione subita dall’occidente, non è cosa secondaria. E quindi l’ammiccamento sud-sud ha grandi chances potenziali.
Molte cose e diverse dovranno accadere; per il momento si può osservare che siamo ancora fuori dall’orizzonte degli eventi. Per quanto inquietante sia il nostro tempo, il tempo non si è fermato.
R. R. – Aprile 2023
NOTE:
1 Una ampia illustrazione critica della Teoria della dipendenza e dei suoi sviluppi è nel recente volume: Alessandro Visalli – Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare – Meltemi – Milano 2020
Nel mondo contemporaneo, una parte sempre maggiore della produzione e della distribuzione dei prodotti viene realizzata da un tipo di società che opera a livello internazionale con una direzione centralizzata. Sono le società conosciute col nome di multinazionali, transnazionali o internazionali. Si è anche tentato di stabilire una specie di graduatoria fra le società internazionali, transnazionali e multinazionali secondo un ordine che dovrebbe riflettere un grado crescente di multinazionalismo. In questo articolo parliamo specialmente del fenomeno del multinazionalismo, inteso come forma finale di un processo in corso e, in alcune parti, già terminato.
Utilizziamo questo concetto nello stesso senso in cui si usa il termine di monopolio per designare un tipo di concorrenza e di organizzazione imprenditoriale.
Come il monopolio non elimina la concorrenza, ma la sviluppa in forme nuove, e come nelle situazioni reali si ritrovano piuttosto forme oligopolistiche che monopolistiche, così il multinazionalismo delle società non significa superamento della loro base nazionale di operazione e di espansione, come vedremo in seguito.
Le multinazionali si distinguono da altri tipi di società per il fatto che le attività da esse realizzate all’estero non svolgono un ruolo secondario o complementare nel quadro delle loro operazioni.
Queste attività rappresentano una percentuale essenziale delle loro vendite, dei loro investimenti e dei loro profitti, e condizionano la loro struttura organizzativa e amministrativa.
Fin dal rinascimento si formarono in Europa società che si dedicarono al commercio estero. In Italia, in Spagna, in Portogallo, in Inghilterra e in Olanda esistevano importanti complessi imprenditoriali destinati a sfruttare il commercio coloniale, aperto all’Europa dalle scoperte marittime dei secoli XV e XVI. Però, anche quando queste imprese stabilivano unità produttive all’estero e dovevano preoccuparsi di problemi di popolazione, di difesa e di amministrazione delle regioni conquistate, rimanevano sempre fondamentalmente legate allo sviluppo del capitale commerciale e a interesse, essendo le attività produttive un aspetto puramente marginale e secondario dei loro affari.
In generale le funzioni produttive venivano affidate in concessione o direttamente a produttori locali o emigranti che rimanevano sotto il controllo dei capitalisti commerciali o finanziari. Queste imprese assunsero un ruolo molto importante nella accumulazione primitiva di capitale che permise il sorgere del capitalismo contemporaneo, ma si collocano piuttosto nella preistoria che nella storia del capitalismo e non possono essere considerate come precursori diretti delle società multinazionali contemporanee 1.
Soltanto nella seconda metà del secolo XIX sorsero le imprese capitaliste che esercitavano importanti attività all’estero, particolarmente nelle colonie. In questo periodo si creano nuove forme di divisione del mercato internazionale attraverso gli accordi commerciali e i cartelli fra le grandi aziende monopolistiche.
Si estendono anche gli investimenti all’estero, orientati soprattutto verso i paesi con un certo sviluppo capitalista. Si trattava di investimenti di portafoglio, e cioè attraverso l’acquisto di azioni e la speculazione in borsa, che cercavano di facilitare sia l’esportazione di prodotti che esigevano investimenti assai considerevoli (come nel caso delle ferrovie) sia l’installazione di aziende di produzione e di commercializzazione di materie prime e di prodotti agricoli da vendere nei paesi più ricchi.
Nel totale degli investimenti all’estero, solo una piccola parte assunse la forma dell’investimento diretto, attualmente predominante nell’economia mondiale.
Le aziende all’estero costituivano piuttosto unità imprenditoriali autonome che non una parte della struttura organica della casa madre; le vendite da esse realizzate avvenivano soprattutto sul mercato del paese della casa madre o nei paesi sviluppati, e rappresentavano di rado un’attività sostanziale dell’impresa, avendo di preferenza un carattere di complementarietà. Soltanto l’importanza strategica della materia prima utilizzata dall’impresa poteva far si che il ruolo da esse svolto diventasse significativo. Si può dire che, nel loro complesso, gli affari all’estero avevano un’importanza secondaria nella vita di queste imprese, e non rappresentavano quindi che una percentuale limitata dei loro profitti, vendite o investimenti.
La situazione non era la stessa per tutti i paesi capitalisti. Gli investimenti di portafoglio, il commercio di esportazione e di importazione, gli investimenti diretti, gli interessi dei prestiti bancari formavano, già all’inizio del nostro secolo, una parte importante delle entrate di alcuni paesi capitalisti, specialmente l’Inghilterra.2
E’ dal contrasto di questi interessi che prende le mosse la prima guerra mondiale, come conseguenza di una lotta accanita per il dominio coloniale. In queste circostanze, l’impresa capitalista non era il nucleo più importante dell’espansione coloniale. La borsa valori era il cuore di questa espansione finanziaria e commerciale che si alleava con gli interessi dei produttori minerari e agricoli nelle colonie.
Le moderne società multinazionali hanno caratteristiche che le distinguono sostanzialmente dalle precedenti. Non vanno all’estero soltanto per speculare con le azioni, per commercializzare i loro prodotti o per creare aziende esportatrici di materie prime e prodotti agricoli. Una parte sempre più importante dei loro affari all’estero è costituita da imprese industriali orientate verso i mercati interni dei paesi in cui investono. Questa situazione crea necessità nuove dal punto di vista amministrativo, dal momento che si stabilisce un rapporto molto più diretto fra la casa madre e le filiali.
Essa produce anche effetti molto importanti sulla struttura di commercializ-zazione, produzione e finanziamento delle imprese. Di conseguenza sono molto importanti anche gli effetti sulla struttura economica dei paesi toccati da questi investimenti, sul commercio mondiale e sugli obiettivi e il modo di operare delle società.
Il processo di formazione e di sviluppo della società multinazionale è legato alla tendenza intrinseca dell’accumulazione capitalista verso l’internazionaliz-zazione del capitale. Non ne tratteremo in questo articolo, perché questo ci porterebbe ad ampliare troppo il suo obiettivo, che intende invece mantenersi al livello di una analisi della evoluzione delle società.
Come definire in modo operativo queste società?
Si è cercato di mettere in luce molti fattori che consentirebbero di caratterizzarle. Uno di questi sarebbe la percentuale rappresentata dalle vendite delle filiali all’estero sul totale delle vendite delle società. Si calcola che il limite del 25 per cento permette di tracciare una linea divisoria che separa un gruppo abbastanza significativo di imprese da quelle le cui operazioni all’estero sono meno importanti. Altri autori credono tuttavia che sia più importante tener conto della nazionalità dei proprietari della società. Secondo questi autori, si può considerare come multinazionale una società i cui proprietari abbiano varie nazionalità. In altri casi si considera la nazionalità degli amministratori o dei dirigenti come il fattore determinante della multinazionalità. Questi due ultimi criteri non sono fondamentali per caratterizzare una società come multinazionale, in quanto si basano su una concezione del multinazionalismo più ideologica che reale. Quelle che, al giorno d’oggi, vengono chiamate multinazionali non sono necessariamente società appartenenti a capitalisti di varie nazioni e nemmeno amministrate o dirette da capitalisti di varie nazioni.
Anche se svolgono una politica internazionale, esse operano di preferenza da una base nazionale. Per questo motivo, la nazionalità degli amministratori, dei padroni e dei dirigenti continua ad essere essenzialmente quella del paese in cui ha sede la società e, come vedremo in seguito, questo è uno dei problemi cui si trova di fronte il multinazionalismo nella misura in cui esso cerca di essere coerente con le tendenze alla formazione di una economia mondiale che abbia caratteri realmente internazionali.
Il concetto di società multinazionale sorse in particolare con questo intento apologetico, nel tentativo di caratterizzare l’impresa stessa come un fenomeno che permetteva di superare i limiti ristretti del nazionalismo. Nel definire questo concetto noi cerchiamo di superare questo intento apologetico che ha enormemente influenzato tutta la letteratura su questo argomento.
Si tratta di trovare quello che queste società rappresentano in quanto avanzata del capitalismo, per rispondere alle necessità poste dall’immenso sviluppo delle forze produttive e dal suo carattere retrogrado e reazionario che cerca di frenare l’avanzata internazionale del socialismo e la vera internazionalizzazione che questo comporta. In questo senso il nostro concetto di società multinazionale, anche se ad un lettore sprovveduto può sembrare una sintesi della letteratura esistente, è piuttosto un tentativo di mostrare i suoi limiti e i pericoli derivanti dall’accettare acriticamente le descrizioni apologetiche che se ne danno.
Avendo scartato questo primo significato del concetto apologetico del multinazionalismo, occorre proseguire nell’analisi di altre definizioni che toccano maggiormente il fondo del problema senza tuttavia mettere sufficientemente in risalto l’insieme dei fattori che costituiscono la dinamica del fenomeno. Raimond Vernon insiste nel caratterizzare il multinazionalismo soprattutto secondo la prospettiva in cui l’impresa colloca i suoi affari, ritenendo questo il fattore chiave. Nel suo ultimo libro definisce così la società multinazionale: « Una società che cerca di portare le sue attività su scala internazionale, come chi creda che non esistano frontiere nazionali, in base ad una strategia comune diretta dal centro corporativo » 3 . D’accordo con Vernon, così si esprime il Dipartimento del commercio: « Le affiliate sono articolate in un processo integrato e le loro politiche sono determinate dal centro corporativo per quanto concerne le decisioni relative alla produzione, alla localizzazione degli impianti, al tipo di prodotti, alla commercializzazione e al finanziamento » 4.
Questo accento posto sulla prospettiva dell’impresa, sulla sua strategia e la sua organizzazione à più importante e più significativo dei fattori cui si accennava più sopra. Tuttavia, non è ancora sufficiente a caratterizzare perfettamente il fenomeno di cui ci occupiamo. Esso infatti ci costringe a considerare un aspetto relativamente sovrastrutturale, anche se essenziale. Jacques Maisonrouge, presidente della IBM World Trade Corporation, indica quattro elementi che considera fondamentali per definire una società multinazionale: in primo luogo si tratta di imprese che operano in molti paesi; in secondo luogo sono imprese che effettuano ricerca e sviluppo e fabbricano anche prodotti in questi paesi; in terzo luogo hanno una direzione multinazionale; in quarto luogo, hanno una proprietà multinazionale delle azioni. Questa definizione introduce un maggior numero di elementi, ma è necessario analizzarla meglio.
Come abbiamo visto, i due ultimi motivi sono quasi complementari dei due primi, ma non si ritrovano nella realtà se non in casi molto eccezionali e si basano su un concetto di multinazionalismo superiore alla realtà attualmente esistente. Ma i due primi motivi ci sembrano essere i più significativi. La cosa fondamentale è che si tratta di imprese che operano in vari paesi e che in questi paesi sviluppano la produzione e che eventualmente vi realizzano anche la ricerca e lo sviluppo. Per completare il nostro quadro concettuale, può servire infine la caratteristica messa in rilievo da Vernon, e cioè che queste imprese hanno una strategia multinazionale e una organizzazione di affiliate, articolate in un processo integrato, e determinate da un centro corporativo. Queste caratteristiche non sono casuali e indeterminate, come potrebbe far credere una definizione puramente descrittiva. Esse corrispondono a fenomeni storici, determinati dalla struttura stessa del modo di produzione capitalista e riflettono il processo di accumulazione di capitale nella sua evoluzione storica. Questa capacita di operare in molti paesi con una prospettiva internazionale e con una organizzazione centralizzata è un prodotto del processo di internazionaliz-zazione del capitale; questo processo si realizzò alla fine del secolo scorso e al principio di questo, e poté approfondirsi grazie alla prima guerra mondiale e alla ripresa che le fece seguito; esso divenne in seguito molto più determinante a causa della internazionalizzazione dell’economia, come conseguenza della seconda guerra mondiale, che permise l’assimilazione dello sviluppo tecnologi-co e delle comunicazioni a livello internazionale, le quali, a loro volta, facilitano questa internazionalizzazione.
L’internazionalizzazione dell’economia istituisce un mercato mondiale di manodopera, di beni, di servizi e di capitali e in questo modo tocca e influenza il ciclo del capitale. Come la produzione capitalista è sempre un momento dello sviluppo del capitale, è anche, al tempo stesso, determinante del capitale e da esso determinata. I processi di internazionalizzazione dell’Economia e del capitale si sviluppano così parallelamente, in un movimento dialettico. La formazione delle società multinazionali va anche vista in connessione molto diretta con la concentrazione economica e con lo sviluppo del monopolio e delle grosse imprese. Esiste una correlazione diretta fra il multinazionalismo, il monopolio, e le grosse imprese. Le società multinazionali sono proprio quelle che hanno raggiunto il maggior grado di controllo monopolistico del mercato interno del loro paese e sono quelle più concentrate, tranne rare eccezioni costituite dalle società formatesi già all’inizio in funzione del mercato internazionale.
Multinazionalismo, concentrazione e monopolio sono legati e caratterizzano le tendenze principali dell’economia mondiale contemporanea. I dati che illustrano questo rapporto necessario fra concentrazione, monopolio e multi-nazionalismo sono molto evidenti.
Nel suo studio sulle multinazionali, “Sovereignity at Bay, The Multinational Spread of US Enterprises”, Raimond Vernon, confrontando le 187 società nordamericane a carattere multinazionale con il totale delle imprese manifatturiere degli Stati Uniti rileva i seguenti dati:
Nel 1966, le 187 società effettuarono vendite per un totale di 208.000 milioni di dollari, e il loro patrimonio ammontava a 176.000 milioni di dollari. Nello stesso anno, tutte le industrie manifatturiere effettuarono vendite per 532.000 milioni di dollari, con un patrimonio di 386.000 milioni di dollari; il che, in percentuali, significa che le 187 società multinazionali controllavano nel 1966 il 39,2 per cento delle vendite e il 45,7 per cento del patrimonio delle industrie manifatturiere nordamericane. E i dati dimostrano, in generale, che esiste una tendenza all’aumento di questa concentrazione e di questo controllo delle società multinazionali.
Nel presente articolo non ci proponiamo di approfondire questo rapporto che è alla base del multinazionalismo. Ai fini di quello che vogliamo esporre, basta segnalare questi aspetti essenziali allo scopo di arrivare ad un concetto generale di società multinazionale che riesca ad inquadrare il fenomeno nel suo insieme. Nella misura in cui restiamo fedeli al postulato dialettico, secondo cui il reale è il tutto e l’obiettivo della concettualizzazione è quello di prendere il fenomeno nel suo complesso stabilendo un rapporto dialettico fra le sue parti essenziali, cerchiamo di superare le definizioni di moda del fenomeno.
Andando oltre la descrizione dei vari elementi che integrano il fenomeno, stabiliamo una gerarchia fra di essi e determiniamo i rapporti concreti che storicamente presuppongono. Questa concettualizzazione, invece di portarci alle visioni apologetiche del fenomeno che abbondano nella letteratura attuale e che esercitano la loro influenza anche su autori marxisti, ci porta alle contraddizioni che la società multinazionale contiene in sé stessa. Per ultimare la caratterizzazione concettuale delle società multinazionali bisogna quindi separa-re i vari aspetti che le compongono.
In primo luogo è necessario considerare il fatto che esse, come abbiamo detto, svolgono una parte importante delle loro operazioni all’estero, il che si riflette sulle loro vendite e sui loro investimenti. Raimond Vernon trae alcune conclusioni a proposito delle 140 maggiori società multinazionali nordame-ricane da lui analizzate a questo scopo. Esaminando la percentuale di « contenu-to estero » delle operazioni di queste 140 società multinazionali, si può constatare quanto segue:
Nel 1964, le imprese che avevano una percentuale di partecipazione estera dallo 0 al 9 per cento nelle loro vendite erano 11, nei loro profitti 14, nel loro patrimonio 16, nell’occupazione 14. Le società che avevano una partecipazione estera fra il 10 e il 19 per cento nelle vendite erano 25, nei profitti 25, nel patrimonio 30, nell’occupazione 10.
Le società che avevano una percentuale di partecipazione estera tra il 20 e il 29 per cento nelle vendite erano 22, nei profitti 17, nel patrimonio 27 e nell’occupazione 14. Quelle che avevano una partecipazione estera fra il 30 e il 39 per cento nelle vendite erano 19, nei profitti 9, nel patrimonio 17 e nell’occupazione 7. Fra le società che avevano una partecipazione delle loro operazioni all’estero fra il 40 e il 49 per cento, 10 l’avevano nelle vendite, 6 nei profitti, 5 nel patrimonio e 4 nell’occupazione; continuando l’elenco, fra le società con partecipazione estera fra il 50 e il 59 per cento, 4 l’avevano nelle vendite, 5 nei profitti, 4 nel patrimonio e 7 nell’occupazione.
I dati sono abbastanza significativi soprattutto se consideriamo che la mancanza di dati di alcune società si deve al fatto che non si disponeva di elementi sufficienti per classificarle. Una percentuale molto significativa delle società dei cui dati si disponeva — percentuale vicina al 60 per cento — ha vendite all’estero che oscillano fra il 20 e il 59 per cento. Per quanto riguarda i profitti, circa il 50 per cento delle società multinazionali analizzate ricavano all’estero dal 20 al 59 per cento dei loro profitti. Per quanto riguarda il patrimonio e l’occupazione, si ha una percentuale analoga. Molti altri dati possono confermare questa tendenza alla trasformazione delle attività all’estero in una parte fondamentale delle operazioni delle grandi società.
Qual è, d’altra parte, il grado di controllo e di concentrazione economica raggiunto dalle sussidiarie nordamericane all’estero? (una tendenza che esiste anche nelle società multinazionali di altre origini nazionali). Vedremo che queste imprese tendono ad agire nei settori di maggiore concentrazione economica e tecnologicamente più avanzati, che esse tendono a monopolizzare e a controllare. Basandosi sul « Survey of Current Business » e sugli studi del Dipartimento del tesoro statunitense sugli investimenti all’estero, Raimond Vernon: riusci a stabilire, per il 1964, i seguenti dati: le vendite delle sussidiarie statunitensi rappresentano la seguente percentuale delle vendite locali nei paesi e nei settori industriali sotto indicati:
Canada: in certi settori come trasporti, attrezzature e macchinari, tranne il settore elettrico, le sussidiarie statunitensi controllano il 100 per cento delle vendite. Per quanto riguarda i prodotti della gomma, rappresentano il 72,2 per cento delle vendite locali; nel settore chimico, le sussidiarie nordamericane rappresentano il 50,2 per cento delle vendite in tutto il Canada; nel settore carta e affini, rappresentano il 42,6 per cento; per i metalli primari e lavorati il 25,1 per cento, per i prodotti alimentari il 21,8 per cento.
America Latina: vediamo che il settore dei prodotti della gomma, per esempio, è controllato per il 58,1 per cento dal capitale nordamericano. Teniamo presente che si tratta di dati globali per l’America Latina e che, quindi, in alcuni paesi si può avere una percentuale assai superiore. Per quanto concerne l’industria chimica, le sussidiarie statunitensi vendono il 28,3 per cento dell’insieme delle loro vendite in America Latina. Per i prodotti di metallo di base la percentuale è del 20,2 per cento; per carta e cellulosa 18,4 per cento; per i prodotti agricoli 7,9 per cento.
Europa e Inghilterra: “la partecipazione delle aziende statunitensi alle vendite di prodotti della gomma é del 12,7 per cento; trasporti e attrezzature 12,8 per cento; macchinario, ad eccezione di quello elettrico, 9,7 per cento; macchinario elettrico 9,1 per cento; chimica 6,2 per cento; prodotti alimentari 3,1 per cento; carta e cellulosa 1,2 per cento; metalli primari e lavorati 2,4 per cento.
Questi dati non mettono tuttavia in risalto il grado di controllo che questi investimenti esercitano sui paesi verso i quali si orientano, essendo essi molto globali e non distinti per paesi.
E’ certo che in alcuni paesi troveremo un grado di controllo molto superiore a quello indicato dalle cifre globali. D’altro canto è necessario vedere i dati nella prospettiva delle tendenze storiche che manifestano.
Dall’analisi fatta si può concludere:
Le società multinazionali sorgono come conseguenza del processo di internazionalizzazione del capitale, che si approfondisce nel dopoguerra, e finiscono per costituire l’unità produttiva fondamentale nel sistema capitalistico mondiale. Sono caratterizzate da un cambiamento qualitativo dell’importanza relativa delle attività esterne nell’insieme delle operazioni imprenditoriali. Arrivano a costituire un elemento necessario e determinante della produzione, della distribuzione, dell’ammontare dei profitti e dell’accumulazione di capitale di queste imprese. Nello stesso tempo le loro attività all’estero si fondono con l’economia presso la quale si trasferiscono, essendo destinate non soltanto al mercato internazionale, ma anche ai mercati interni dei paesi in cui operano e articolandosi profondamente nella loro struttura produttiva. I meccanismi di concentrazione, di monopolizzazione e di internazionalizzazione del capitale che diedero impulso a queste società, facendone delle multinazionali, cominciano ad operare anche al livello delle loro filiali, determinando un complicato processo di interrelazioni fra di esse e dando origine a una nuova tappa dell’economia mondiale. L’essenza della società multinazionale sta tuttavia nella sua capacita di dirigere in modo centralizzato questo complesso sistema di produzione, di distribuzione e di capitalizzazione a livello mondiale. Di modo che anche le nuove contraddizioni cui questa situazione dà origine sono il prodotto di questa capacita centralizzatrice e integratrice che riflette la caratteristica globale del sistema internazionale, di cui l’impresa multinazionale è la cellula.
Concentrazione dell’unità produttiva commerciale e finanziaria e concentra-zione economica nazionale, e concomitante processo di monopolizzazione a li-vello nazionale e internazionale; riproduzione della concentrazione a livello internazionale, concentrazione delle società a livello internazionale, concen-trazione del processo distributivo e finanziario, integrazione economica interregionale e internazionale: ecco l’ordinamento teorico-storico di uno stesso processo, pieno di contraddizioni interne che si manifestano non solo in oscillazioni cicliche, ma anche in violenti cataclismi. Mentre il capitalismo sviluppa le forze produttive su scala sempre più ampia e crea le condizioni e la necessità di una direzione collettiva e pianificata della nuova economia e delle società che da questo processo derivano, la proprietà privata dei mezzi di produzione, base del capitalismo come modo di produzione, diventa un ostacolo insuperabile per il pieno sviluppo di queste tendenze che il capitalismo stesso mette in moto.
Nella concettualizzazione della società multinazionale devono emergere questi elementi contraddittori che ci permettono di svilupparne correttamente l’analisi. Il concetto di queste società deve quindi comprendere, necessariamente, questo processo storico che le trasforma in cellule di un movimento globale e determinato di internazionalizzazione del capitale e dell’economia; questo movimento è, a sua volta, l’espressione delle tendenze alla concentrazione tecnologica ed economica, alla monopolizzazione e alla diversificazione di attività che costituiscono, da parte loro, l’espressione concreta e storica della evoluzione dell’accumulazione del capitale nel modo di produzione capitalista.
Nel paragrafo precedente siamo giunti a definire l’oggetto della nostra analisi. Siamo riusciti, nello stesso tempo, a dimostrare la sua importanza fra le grandi società nordamericane e il profondo controllo che esercita sulle varie economie nazionali.
Si rende ora necessario abbozzare un quadro descrittivo che ci permetta di fare un bilancio quantitativo delle società multinazionali, il che ci consentirà di portare avanti l’analisi della loro evoluzione storica e delle loro tendenze di sviluppo futuro.
Quante sono queste società multinazionali e come sono distribuite?
Negli Stati Uniti, presso l’Ufficio investimenti esteri, sono registrate 3.000 società che effettuano operazioni con l’estero; di queste circa 180 vennero selezionate da Raimond Vernon e da lui considerate come società multinazionali. Egli ne aggiunse altre 150 non nordamericane. Judd Polk, presidente della Camera di commercio internazionale, selezionò 150 società in tutto il mondo, di cui la metà nordamericane, che egli considera come multinazionali.
Sidney Rolfe selezionò, nel 1965, 80 società nordamericane (fra le 500 maggiori del paese, secondo la rivista « Fortune »), che avevano operazioni con l’estero superiori al 25 per cento sia nei profitti, sia nella produzione, sia nella occupazione, sia nel patrimonio. 199 imprese di queste 500 selezionate da « Fortune » avevano il 10 per cento o più delle loro attività all’estero.
In questo modo possiamo operare con un gruppo di 300 o 400 società al massimo che controllano oggi gran parte della produzione mondiale 5.
Queste imprese svolgono in generale operazioni in quasi tutti i paesi o le zone del mondo. Delle 187 società selezionate da Vernon, per esempio, 185 svolgono attività manifatturiere in tutti i continenti; 162 vi effettuano vendite; 45 vi svolgono attività estrattive; 186 hanno una qualche forma di affari in tutti i continenti. Se prendiamo alcune regioni o aree, vediamo che 174 svolgono operazioni in Canada; 182 in America Latina; 185 in Europa e nel Regno Unito; 158 svolgono operazioni di ogni tipo in Asia e in parte dell’Africa.
Il numero di sussidiarie che queste società hanno all’estero è molto significativo. Le 187 multinazionali classificate da Vernon avevano, nel 1967, 7.927 sussidiarie nel mondo, delle quali 1.048 in Canada, 1924 in America Latina, 3.401 in Europa e nel Regno Unito, 648 nei dominions inglesi, 906 in Asia e in altre parti dell’Africa 6.
Come sono distribuiti, per importanza, questi investimenti?
Nel 1970, gli investimenti nordamericani erano di 25.000 milioni di dollari nel Canada, pari al 33 per cento del totale; 4.000 milioni nel Regno Unito, pari al 10 per cento; 5.000 milioni in Germania, pari al 4 per cento; 2.600 milioni in Venezuela, pari al 3,3 per cento; 2.600 milioni in Francia, pari al 3,3 per cento; 1.600 milioni nel Medio Oriente, pari al 2 per cento; 1.800 milioni in Brasile, pari al 2 per cento; 1.800 milioni in Messico, 2 per cento; Svizzera 1.800 milioni, 2 per cento; Italia 1.500 milioni, 1,9 per cento; Argentina 1.300 milioni, 1,2 per cento; Belgio e Lussemburgo 1.500 milioni, 1,9 per cento; Giappone 1.500 milioni, 1,9 per cento; Olanda 1.500 milioni, 1,9 per cento. 7
Analizzando l’aumento degli investimenti nordamericani per area, secondo la fonte già citata, si nota che gli investimenti diretti nordamericani all’estero sono cresciuti in maniera impressionante fra il 1929 e il 1970. Nel 1929 il totale di questi investimenti era di 7.500 milioni di dollari, nel 1950 di 11.800 milioni e nel 1970 di 78.100 milioni. Analizzandoli per zone, si trova che il Canada ne è il principale destinatario, con un totale di investimenti che dal 1929 al 1970, è aumentato di più di 10 volte, rimanendo peraltro invariata la sua quota di partecipazione. La partecipazione dell’America Latina al totale degli investimenti nordamericani è diminuita dal 46,7 per cento nel 1929 al 18,8 per cento nel 1970. L’Europa ha registrato il maggiore aumento relativo, passando dal 18,7 per cento nel 1929 al 31,4 per cento nel 1970; da 1.400 milioni di dollari nel 1929 a 24.500 milioni di dollari nel 1970, ossia la maggiore concentrazione di investimenti nordamericani all’estero. Il Medio Oriente vede anch’esso aumentare la sua partecipazione dall’1,3 per cento al 6,5 per cento; nelle altre aree la partecipazione aumenta dal 6,6 per cento al 14,1 per cento. Si constata quindi che l’aspetto più significativo della redistribuzione degli investimenti nordamericani negli ultimi anni è rappresentato dal « boom » in Europa e dalla diminuzione della partecipazione relativa dell’America Latina.
Nel loro complesso gli investimenti nei paesi sviluppati rappresentavano, nel 1970, il 68 per cento degli investimenti nordamericani, mentre quelli nei paesi sottosviluppati rappresentavano, nello stesso anno, il 27,4 per cento del totale. Un altro 4,6 per cento riguardava paesi non identificati. C’è però da dire che questo fenomeno non è soltanto nordamericano.
Questa grande espansione degli investimenti e la tendenza a rivolgersi verso paesi sviluppati non si registrano soltanto negli Stati Uniti, ma anche negli altri paesi sviluppati. Il Comitato degli investimenti internazionali dei paesi appartenenti alla OCSE ha stabilito, per il 1966, i seguenti dati:
Gli investimenti stranieri diretti, in termini di valore accumulato dai maggiori paesi dell’Ocse alla fine del 1966 erano, in dollari, i seguenti:
in tutto il mondo si registrava un insieme di investimenti pari a 89.583 milioni di dollari, di cui 29.970, e cioè circa il 33 per cento, nei paesi sottosviluppati.
Del totale degli investimenti gli Stati Uniti detenevano il 60 per cento, con un ammontare di 54.462 milioni di dollari 8, di cui 16.841 nei paesi sottosviluppati, ossia il 56 per cento degli investimenti stranieri in questi paesi.
Il Regno Unito veniva al secondo posto con un ammontare di investimenti di 16.000 milioni di dollari (19 per cento degli investimenti mondiali); i suoi investimenti nei paesi sottosviluppati ammontavano a 6.184 milioni di dollari, pari al 23 per cento degli investimenti esteri in questi paesi.
La Francia aveva un totale di investimenti, nel mondo, pari a 4.000 milioni di dollari, di cui 2.100 nei paesi sottosviluppati. Notiamo qui abbastanza accentuata la tendenza della Francia ad effettuare investimenti nei paesi sottosviluppati, dal momento che i suoi investimenti rappresentano il 4,4 per cento degli investimenti dei paesi dell’Ocse all’estero, mentre i suoi investimenti nei paesi sottosviluppati rappresentano il 7 per cento di questi investimenti nei paesi sottosviluppati.
Nello stesso anno la Germania aveva raggiunto 2.500 milioni di dollari di investimenti all’estero, di cui 845 nei paesi sottosviluppati. Questi investimenti rappresentavano il 2,8 per cento del totale degli investimenti analizzati e il 2,8 per cento del totale degli investimenti analizzati nei paesi sottosviluppati.
La Svezia aveva 793 milioni di dollari all’estero, di cui 161 nei paesi sottosviluppati.
Il Canada aveva investimenti all’estero per 3.238 milioni di dollari, ossia il 4 per cento degli investimenti, e di questi 534 erano destinati ai paesi sottosviluppati.
Il Giappone aveva investimenti all’estero per 1.000 milioni di dollari, di cui 605, e cioè una percentuale assai elevata, destinati ai paesi sottosviluppati.
Che cosa ci indicano i dati sulle tendenze alla espansione e allo sviluppo di queste società multinazionali?
Secondo il professor Rolfe si può calcolare che il valore patrimoniale degli investimenti esteri non nordamericani (il valore patrimoniale degli investimenti non va confuso con il loro valore totale) raggiungeva nel 1966 un ammontare di circa 50.000 milioni di dollari in valori correnti. Sommando a questi i 40.000 milioni che rappresenterebbero il patrimonio degli investimenti nordamericani avremmo 90.000 milioni di dollari. Questa cifra costituirebbe il totale del patrimonio posseduto all’estero dalle società di tutti i paesi capitalisti. Per sapere ciò che questo rappresenta per quanto riguarda il valore delle vendite realizzate nello stesso anno, dobbiamo moltiplicare per due l’ammontare del valore patrimoniale, il che darebbe un risultato di 180.000 milioni di dollari, valore probabile dell’insieme della produzione di queste imprese, perché, secondo Judd Polk, esisterebbe una relazione di 1 a 2 fra patrimonio e produzione delle imprese.
Se sommiamo a questa cifra gli investimenti di portafoglio e riuniamo la loro produzione secondo questo tipo di calcolo, avremmo un totale di 240.000 milioni di dollari come ammontare possibile delle vendite realizzate dalle imprese che hanno capitale all’estero.
Se mettiamo a confronto questo dato con il valore di tutte le esportazioni di questi paesi, che ammontano a 130.000 milioni di dollari, possiamo calcolare che le vendite delle sussidiarie e affiliate all’estero delle multinazionali sono molto superiori all’insieme delle esportazioni dei paesi che investono in queste società.
Fra il 1966 e il 1970 gli investimenti diretti nordamericani all’estero sono aumentati da 55.000 milioni a 78.000 milioni di dollari. Se aggiungiamo gli investimenti di portafoglio questa cifra si eleva a 105.000 milioni di dollari. Utilizzando la proporzione di 2/1 fra patrimonio e vendite, avremo un calcolo delle vendite totali di queste imprese di 210.000 milioni di dollari, il che rappresenta un valore 5 volte maggiore delle esportazioni nordamericane. Questo distacco è destinato ad aumentare nel futuro, dal momento che le esportazioni aumentano al ritmo del 7 per cento all’anno, mentre la produzione delle sussidiarie all’estero aumenta di circa il 10 per cento all’anno. Il probabile aumento di questi investimenti fino a livelli molto elevati tende a creare una situazione di parassitismo che analizzeremo in seguito e che è stata molto ben riassunta nella seguente affermazione contenuta nello studio, gia ricordato, del Dipartimento del commercio:
« Altro indice dell’importanza degli investimenti esteri degli Stati Uniti è il fatto che, fino al 1968, le entrate nette degli investimenti esteri, i profitti rimpatriati, le royalties e i brevetti, meno gli investimenti diretti usciti, sono stati maggiori dei risultati del conto commerciale. Da questi indici messi a confronto con gli inizi degli anni sessanta, risulta il declino del nostro attivo di esportazioni e il continuo aumento delle entrate nette degli investimenti diretti. Queste ultime contribuirono con 3.500 milioni alla nostra bilancia dei pagamenti nel 1970, in confronto con 2.100 milioni della bilancia commerciale. Se facciamo un confronto con i dati del 1960, che mostrano 4.900 milioni nella bilancia commerciale liquida e 500 milioni di dollari nella bilancia degli investimenti diretti, notiamo che, in questi ultimi anni, la tendenza si è accentuata » 9.
Un altro tipo di calcolo si può fare prendendo in considerazione l’insieme della posizione degli investimenti internazionali degli Stati Uniti alla fine dell’anno, fra il 1950 e il 1970.
In questi calcoli si distinguono gli investimenti diretti a lungo termine, di cui ci siamo occupati, da altri tipi di transazione di capitale, come gli investimenti a lungo termine non diretti (di portafoglio), i diritti e i debiti a breve termine, i crediti del governo e le riserve monetarie. Secondo questi calcoli, gli investimenti internazionali degli Stati Uniti sono cresciuti da 36.727 milioni di dollari a 69.067 milioni nel 1970. Nello stesso periodo il patrimonio delle imprese straniere negli Stati Uniti crebbe da 17.632 milioni di dollari a 97.507 milioni. Si vede perciò che il gran saldo attivo ottenuto dagli investimenti diretti degli Stati Uniti viene fortemente diminuito dal calo delle riserve.
E’ importante segnalare che mentre il patrimonio e gli investimenti internazionali degli Stati Uniti tra il 1950 e il 1970 crescono di quasi due volte (e includiamo tutte le voci del paragrafo precedente), anche il patrimonio e gli investimenti stranieri negli Stati Uniti presentano un forte aumento da 17.632 milioni di dollari nel 1950 a 97.507 milioni nel 1970, un aumento quindi, molto superiore a quello degli investimenti nord-americani all’estero.
Occorre tuttavia ricordare che, mentre gli investimenti nordamericani all’estero tendono ad essere essenzialmente investimenti diretti, i quali sono aumentati di oltre 10 volte negli ultimi anni, per quel che riguarda gli investimenti di imprese straniere negli Stati Uniti sono gli investimenti di portafoglio che sono cresciuti nello stesso periodo di circa 9 volte, mentre gli investimenti diretti sono aumen-tati di circa 4 volte.
Questi dati rivelano che le società multinazionali tendono ad espandersi, a differenziarsi, a farsi più complesse e a mescolare investimenti di diverso tipo che prendono differenti direzioni e si intrecciano. Questi dati confermano anche pienamente la tendenza alla universalizzazione del capitale, che viene ad essere l’aspetto principale delle attività internazionali degli Stati Uniti e porta con sé il fenomeno del parassitismo. Per comprendere il significato di questi movimenti storici e le loro prospettive di sviluppo, è necessario analizzare l’evoluzione storica della cellula base del processo di internazionalizzazione del capitale, e cioè la società multinazionale.
Le prime operazioni internazionali delle società capitaliste moderne avvennero nel settore delle esportazioni. Il loro obiettivo — la conquista del mercato — le obbligava a creare filiali all’estero con lo scopo di commercializzare i loro prodotti. Per gran parte del XIX secolo le imprese capitaliste si dedicarono a questo tipo di espansione. Già nella seconda metà del secolo XIX cominciarono a presentarsi nuove possibilità di investimenti all’estero. Il capitalismo era riuscito a creare un mercato di capitali a livello internazionale. Molti paesi meno sviluppati mettevano in vendita, alla borsa di Londra o in altre borse importanti, le azioni delle loro imprese. Diventava perciò possibile comprare azioni di imprese in altri paesi e, attraverso gli investimenti di portafoglio, ottenere il controllo soprattutto delle imprese minerarie ed agricole in altri paesi. Nello stesso tempo il controllo di mercati esteri per l’esportazione comincia ad aver bisogno di una politica più centralizzata e unificata che si effettua attraverso le « holdings » e i cartelli.
Il centro dell’espansione economica di questo periodo è costituito soprattutto dall’Inghilterra e da alcuni paesi europei che, creando una industria di base nella seconda metà del secolo XIX e riuscendo a industrializzare la produzione di macchine, aprirono prospettive di grande espansione per i loro investimenti; nello stesso tempo aumentarono in modo rilevante la domanda di materie prime e di prodotti agricoli. Per soddisfare questo mercato in espansione nei paesi centrali, si sviluppa una importante produzione mineraria e agricola nei paesi periferici, che avevano già una tradizione come esportatori, terre vergini che potevano essere conquistate dai coloni, oppure un’economia agraria tradizionale abbastanza rilevante e una certa esperienza mercantile, in paesi cioè che disponevano di una base per intensificare la loro produzione per l’esportazione.
Si forma così, nella seconda metà del secolo XIX, una economia di esportazione su vasta scala, controllata generalmente da capitalisti del posto o dalle società degli stessi paesi sviluppati. Queste società si trasformarono in un nuovo tipo di impresa, e cioè o in sussidiarie delle società dei paesi dominanti oppure in società costituite al solo scopo di controllare il mercato o la produzione in questi paesi.
Generalmente queste società assumevano le caratteristiche di una « enclave », cioè di un’azienda all’interno di un paese con economia precapitalista che produce essenzialmente per il mercato estero, sviluppando al loro interno una economia particolare con motivazioni capitalistiche molto chiare, ma utilizzando rapporti di produzione generalmente più arretrati di quelli del capitalismo sviluppato.
In generale queste aziende hanno scarsi contatti con l’economia del paese che le ospita. Questi contatti, quando esistono, assumono la forma di pagamento di imposte e di acquisti di prodotti necessari all’impresa, sia per i suoi lavoratori, sia per la sua produzione. Queste imprese hanno perciò un carattere complementare nei confronti dell’economia dominante, e non nei confronti dell’economia dove operano direttamente; da questa ragione deriva loro il carattere di « enclave ». La loro libertà di azione, la loro autonomia amministrativa, il loro isolamento sociale sono così rilevanti che intere regioni vengono plasmate dalla loro direzione quasi autocratica 10.
Nell’America centrale vi sono segni molto evidenti del dominio di questo tipo di società, delle quali la United Fruit fu la più significativa. Sono classici gli esempi di questa identificazione tra l’impresa e certe regioni. Quando ha esaurito le terre di una zona, la società si trasferisce in un’altra, portando via perfino i binari ferroviari. Se ne va la popolazione, se ne vanno le istallazioni, le case, i traffici, e intere regioni, da un giorno all’altro, si trasformano in deserti umani e naturali.
Perfino la moneta circolante all’interno di questa azienda era quasi tutta straniera, dato che riuscivano a risolvere il problema del capitale di giro pagando i lavoratori con gettoni, con i quali dovevano per forza comperare negli spacci della società.
Molte volte i prodotti che vi si vendevano erano importati dagli stessi paesi d’origine della casa madre e si riusciva così ad evitare la necessità di disporre di capitale di giro per pagare i lavoratori. Per quel che si riferisce ai tecnici in generale, molto spesso venivano pagati in dollari o nella moneta del paese dominante; essi vivevano in questi paesi, o più precisamente in queste aziende, in queste « enclaves » dei paesi dipendenti, come in una propaggine della loro casa e del loro paese, in contatto molto più stretto con la cultura, l’economia e la società proprie che con quelle del paese dove era collocata l’« enclave ».
Questo tipo di società non era molto complesso, dato che era quasi un’estensione all’estero della casa madre. Minimo era lo sforzo di adattamento al paese che l’ospitava, come pure minima era la dipendenza dall’economia di tale paese. Logicamente, sorgevano problemi politici con le classi medie dei paesi dipendenti che, per un lungo periodo, svolsero una politica di opposizione antimperialista, criticando il carattere di semplice sfruttamento delle « enclaves », che non lasciavano quasi niente di questo sfruttamento per i lavoratori locali e per le classi medie e la borghesia del paese.
Per questo motivo, le classi medie arrivarono fino ad appoggiare l’organiz-zazione dei lavoratori contro i loro padroni, perché potessero ottenere migliori condizioni nelle trattative con essi.
Parallelamente a questi investimenti, che avevano lo scopo di sviluppare la produzione per servire il mercato dei paesi dominanti, si sviluppa anche un altro tipo di investimenti con fini più commerciali, e cioè, fondamentalmente, quello di facilitare la vendita dei propri prodotti all’estero. Questi investimenti vengono effettuati sia nelle economie sviluppate che in quelle sottosviluppate e servono principalmente a portare a termine il prodotto per mezzo di fabbriche collegate all’apparato commerciale, esportatore, che generalmente li precede.
Già negli anni ’20 e ’30 si impiantarono le prime fabbriche di montaggio per le auto e altri prodotti che avevano bisogno di una linea di montaggio più complessa. Si venne a formare così un nuovo tipo di investimenti all’estero, con lo scopo di servire i mercati interni dei paesi sviluppati e sottosviluppati.
Nel periodo postbellico gli investimenti sia degli Stati Uniti sia dell’Europa si orientano di nuovo, in maniera definitiva, verso i settori industriali dei paesi sviluppati e dipendenti. Le ragioni sono le seguenti:
1) la ripresa economica dell’Europa, che apre enormi prospettive di investimenti, e lo sfruttamento da parte delle grandi società nordamericane, dei vantaggi relativi di cui disponevano per utilizzare questa ripresa come strumento di espansione dei loro investimenti;
2) nei paesi dipendenti il progresso industriale, raggiunto negli anni ‘30, per gli effetti della crisi del 1929, aveva impedito il controllo diretto dei mercati di questi paesi attraverso le esportazioni dai paesi dominanti. Si era sviluppata un’industria locale per servire il mercato interno e tutto un apparato di leggi e di politiche governative per favorire questo sviluppo, con il forte appoggio della classe operaia e/o contadina e delle classi medie.
In questo modo, il ritorno degli investimenti in questi paesi, nelle condizioni favorevoli createsi nel dopoguerra per l’investimento estero nordamericano, esigeva una riconversione verso i settori industriali sollecitati dai loro mercati interni.
Oltre alle restrizioni all’importazione di prodotti lavorati, che obbligavano a produrli all’interno, si presentavano una serie di vantaggi relativi che rendevano questi investimenti quanto mai favorevoli e interessanti. Da una parte i prezzi imposti dal protezionismo erano molto alti, dall’altra la mano d’opera e i costi industriali erano molto bassi. Nell’ansia di attirare il capitale straniero, i governi dipendenti si affannavano a dare « aiuti » e concessioni di ogni tipo. Infine il mercato interno, pur essendo relativamente piccolo, era costituito da una classe media e una borghesia ricche e in espansione.
I dati relativi a questo aspetto sono abbastanza indicativi:
nel 1929 gli investimenti nordamericani nell’industria mineraria ed estrattiva erano di 1.200 milioni di dollari; nel 1950 di 1.100 milioni di dollari; nel 1970 di 6.100 milioni di dollari. Vi fu forse un certo rallentamento in questi investimenti tra il 1929 e il 1950 e una certa ripresa dopo gli anni ’50, ma, in molti casi, i nuovi investimenti nell’industria mineraria ed estrattiva hanno un carattere abbastanza diverso da quello degli anni precedenti; molte volte sono destinati a servire anche mercati interni e non solamente per l’esportazione. Tuttavia, per quel che riguarda la partecipazione relativa degli investimenti nell’industria mineraria ed estrattiva essi passarono dal 16 per cento al 9,3 per cento nel 1950 e al 7,8 per cento nel 1970.
Il petrolio è un altro importante settore di investimenti che mantiene ancora la sua importanza, soprattutto per il rinnovamento subito in conseguenza dell’espansione dell’industria petrolchimica, che ne ha fatto la base di una delle più importanti industrie moderne. Per questo pensiamo che non tutti gli investimenti odierni nel settore petrolifero da parte delle grandi società sono diretti all’esportazione; una parte è diretta al mercato interno dei paesi dove risiedono, pur trattandosi di una percentuale molto inferiore. Nel 1929 questi investimenti erano di 1.100 milioni di dollari; nel 1950 di 3.400, milioni di dollari; nel 1970 di 21.800 milioni di dollari. Abbiamo quindi una percentuale del 14,7 per cento per il 1929; del 18,8 per cento per il 1950; del 27,9 per cento nel 1970, degli investimenti nordamericani all’estero.
Gli investimenti nelle industrie manifatturiere che erano di 1.800 milioni di dollari nel 1928, arrivano a 3.800 milioni di dollari nel 1950 e a 32.000 milioni nel 1970. La partecipazione passa dal 24 per cento nel 1929 al 32,2 per cento nel 1950 e al 41,2 per cento nel 1970, venendo ad essere la voce principale degli investimenti nordamericani all’estero nel 1970.
La voce «altri», che comprende agricoltura, commercio, ecc., è abbastanza importante, ma in passato lo era molto di più.
Nel 1929 era di 3.400 milioni di dollari, nel 1950 di 3.500 e nel 1970 di 17.900 milioni di dollari; la sua partecipazione scende quindi dal 45,3 per cento al 29,7 per cento e al 23 per cento.
Questi dati generali sugli investimenti nordamericani dal 1929 al 1970 11 ci dimostrano con estrema chiarezza l’importanza relativa raggiunta dagli investimenti industriali negli ultimi anni. Analizzando la situazione degli investimenti mondiali di tutti i paesi dell’Ocse (cioè Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Olanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti) notiamo che nel 1966, mentre l’industria mineraria e estrattiva rappresentava il 7 per cento, quella manifatturiera occupava già il primo posto con il 40 per cento e la voce « altri » raggiungeva il 24 per cento. Però, per quel che riguarda le regioni sottosviluppate, il petrolio occupava una posizione di privilegio, dato che vanno compresi gli investimenti del Medio Oriente che sono quasi esclusivamente nel settore petrolifero.
Perciò il petrolio rappresenta il 40 per cento dell’insieme degli investimenti dei paesi della Ocse all’estero nel 1966, mentre l’industria mineraria ed estrattiva raggiungeva il 10 per cento, la manifatturiera il 27 per cento e la voce « altri » il 23 per cento.
E’ interessante mettere in rilievo che gli investimenti nel settore petrolifero sono così significativi a causa dell’incidenza relativa del Regno Unito, i cui investimenti nei paesi sottosviluppati sono così ripartiti: 35 per cento nel settore petrolifero, 23 per cento nell’industria manifatturiera e il 37 per cento nella voce «altri», che comprende importanti investimenti agricoli nei paesi dipendenti dall’Inghilterra. E’ chiaro quindi che accanto a un settore nuovo e importante permangono le forme tradizionali di investimento. Invece un paese come la Germania mostra un orientamento molto marcato verso il settore industriale, dato che, su un totale di investimenti di 2.500 milioni di dollari di cui 845 nei paesi dipendenti, 645 vengono destinati all’industria. Su un totale di 2.100 milioni di dollari investiti nei paesi dipendenti, gli investimenti francesi nel settore industriale sono di 1.280 milioni di dollari.
Questi dati rivelano che, ancor oggi, settori come il petrolio sono abbastanza caratteristici, ma indicano pure che si è creata una struttura economica nuova degli investimenti all’estero e dimostrano che la maggior parte di essi, soprattutto negli ultimi anni, è stata destinata soprattutto al settore industriale, al settore commerciale e ai servizi e, qualche volta, anche al settore agricolo che serve il mercato interno dei paesi dove sono diretti gli investimenti.
Questa tendenza dominante negli anni ‘50 e al principio degli anni ‘60 rappresenta un cambiamento molto significativo anche nella struttura delle imprese. Quella che oggi chiamiamo società multinazionale è soprattutto il risultato di questo fenomeno che porta al superamento delle economie di « en-clave », da noi precedentemente analizzate.
La nuova situazione che si è venuta a creare comporta un cambiamento qualitativo rispetto allo studio precedente, per quel che concerne il funzionamento delle leggi economiche. Il mercato interno dei paesi ai quali sono destinati questi investimenti presenta una dinamica economica che ha proprie leggi di sviluppo. La sussidiaria, che viene ad integrarsi in questa economia per servire le necessita di mercato, non può più comportarsi secondo il modello astensionista che era caratteristico
dell’« enclave ». Essa deve prendere in considerazione le leggi economiche che regolano questa economia, la distribuzione delle entrate, le possibilità di espansione economica, di nuovi investimenti; deve legarsi, in un certo modo, al mercato finanziario per ottenere il suo capitale di giro; deve vincolarsi alla realtà politica di questi paesi, che è influenzata dalla politica economica nel suo insieme. La politica economica, infatti, agisce sull’inflazione, sulla politica dei crediti e su tutti gli aspetti del normale funzionamento dell’economia dei paesi in cui la società opera.
Il contatto con l’economia « ospitante » (come viene chiamata da alcuni studiosi nordamericani l’economia che è vittima del processo di sfruttamento di queste società) si fa perciò molto più profondo e organico. Sia per ragioni di ordine economico, sia a causa della politica economica vigente, le imprese straniere sono costrette a rifornirsi di certi prodotti (a volte, anche della totalità dei prodotti che consumano) sul mercato locale. Restringiamo l’analisi di questo problema al caso delle economie dipendenti, nelle quali si avvertono più direttamente gli effetti dei vincoli tra le società multinazionali e i mercati locali.
Si comprendono agevolmente i motivi di carattere economico che portano a questi cambiamenti considerando che molte imprese si trasferiscono nei paesi dipendenti a causa della vicinanza di alcune materie prime, che consente di diminuire non solo il costo dei trasporti ma anche altri costi, il che giustifica l’utilizzazione dei rifornimenti locali. Ma non sempre l’approvvigionamento sul posto viene utilizzato in modo esteso, dato che molte volte le imprese preferiscono rifornirsi a prezzi più alti presso le loro case madri o presso altre ditte dello stesso gruppo economico nei paesi sviluppati, allo scopo di approfittare di alcuni espedienti fiscali, come i sovrapprezzi, oppure per l’interesse a trasferire i profitti nei paesi sviluppati, dove hanno maggiori occasioni di investimento.
D’altra parte, le industrie nei paesi sviluppati vivono in un costante stato di sottoutilizzo, dato che è più vantaggioso aumentare le vendite attraverso gli acquisti delle proprie sussidiarie piuttosto che creare delle nuove imprese. Per tutti questi motivi, e ancor più per pressioni esercitate dallo Stato e per altri interessi nazionali del paese di origine, le società multinazionali tendono a rinviare il processo di sfruttamento e collegamento con i rifornimenti locali, soprattutto di prodotti più industrializzati.
Le ragioni di politica economica sono molto più forti: in generale i governi di tipo « sviluppista » esigono che le filiali e le sussidiarie che si installano nei loro paesi si riforniscano sul mercato locale. Vi sono settori nei quali si pone maggiormente l’accento, com’è il caso dell’industria senza casa madre, per la quale molti paesi dipendenti hanno chiari programmi di nazionalizzazione della produzione per formare un nucleo industriale, in vista di raggiungere uno sviluppo economico.
II finanziamento è un’altra forma di contatto delle società con l’economia « ospitante ». Generalmente le sussidiarie sono create attraverso un sistema di credito internazionale, per cui i paesi dominanti (specialmente gli Stati Uniti) finanziano i governi locali perché essi trasferiscano questo finanziamento a imprese nordamericane, le quali lo utilizzano per l’acquisto di macchinari e di altri prodotti di base nel paese che ha concesso il credito. L’operazione si articola così in 4 fasi circolari: gli Stati Uniti aprono un credito, attraverso qualcuna delle istituzioni bancarie internazionali di cui dispongono (o il credito viene aperto da una istituzione multinazionale sotto controllo nordamericano) per il finanziamento di una determinata società, come ulteriore investimento di capitale, oppure per creare una nuova società.
Il governo del paese che riceve l’aiuto (grato per l’aiuto che favorisce il suo sviluppo, ecc.) si assume la responsabilità del debito, ma poiché l’aiuto é destinato a un determinato investimento, viene trasferito all’impresa sussidiaria o a una impresa mista con capitali nazionali o statali. Nei due casi di società mista si deve ricordare che l’aiuto si trasferisce verso il capitale degli azionisti stranieri che si associano a quelli nazionali o allo Stato. Lo Stato partecipa infatti con la sua parte, la società nazionale con un’altra e la parte dell’aiuto viene destinata chiaramente a formare il capitale della società straniera che si installa nel paese 12. Così si completa la seconda fase, il che significa, come abbiamo visto, che lo Stato del paese ospitante assume la responsabilità finanziaria del debito della società beneficiaria, che è straniera.
La terza fase è il trasferimento del contenuto reale di questo «aiuto». In realtà, esso è solo un credito che permette di importare determinati prodotti, in generale macchinari e installazioni. Possiamo quindi concludere dicendo che il circolo si chiude con questa terza fase e ci si accorge che il contenuto reale dell’«aiuto» è una semplice esportazione di merci con credito dello Stato, con interessi abbastanza alti, destinato alle sussidiarie americane all’estero, garantito dagli Stati dipendenti.
Queste spese per investimenti sono vincolate e le merci devono essere comprate nel paese che da l’aiuto.
Con questo meccanismo il governo finanzia le società del suo paese che hanno bisogno di vendere i loro prodotti all’estero.
I prezzi che si pagano per queste merci sono determinati da condizioni altamente monopolistiche e al di fuori di ogni concorrenza sul mercato internazionale. Non occorre analizzare qui il risultato di queste forme di «aiuto» ai paesi dipendenti.
E’ importante segnalare tuttavia che questo tipo di finanziamento presuppone un vincolo tra la sussidiaria all’estero e il governo del paese « ospitante » nonché con i suoi programmi di sviluppo economico; ciò é tanto più importante quanto maggiore è la sua autonomia relativa e la sua capacità di decisione autonoma. Questo vincolo rappresenta qualche cosa di nuovo nei paesi dipendenti e comporta in un certo senso la sottomissione del gran capitale a leggi economiche nuove, nelle quali il capitalismo di stato dei paesi dipendenti ha un peso molto significativo. Perché un’impresa funzioni occorre il capitale di giro per pagare gli operai, i lavoratori in genere e certe materie prime che si trovano sul mercato locale. Questo capitale funziona con moneta del posto e perciò deve essere raccolto sul mercato dei capitali; si crea così un legame con il sistema bancario del paese « ospitante ». A questo scopo si utilizza molte volte un sistema bancario straniero, creato attraverso filiali bancarie, che sono molte volte legate agli stessi gruppi economici ai quali appartiene l’impresa. Ciò significa che il sistema bancario multinazionale non funziona solamente per finanziare operazioni di carattere internazionale, ma anche per finanziare operazioni chiaramente legate al mercato locale.
Questo sistema bancario comincia anche a raccogliere gran parte del risparmio locale, trasformandosi così in un concorrente della banca locale e creando una società multinazionale di tipo finanziario. Le conseguenze dello sviluppo di tali vincoli finanziari sono molto evidenti nel caso dell’Europa, dove non solo le banche multinazionali intervengono profondamente nella vita locale dei vari paesi, ma sono anche legate. in maniera diretta alla formazione di un mercato finanziario parallelo, cioè gli eurodollari. Nei paesi dipendenti questo processo è ancora agli inizi, ma tende a svilupparsi.
Un altro tipo di legame con l’economia ospitante che si produce nelle nuove condizioni di internazionalizzazione del capitale è costituito dallo sviluppo del processo di commercializzazione. Questo processo ha vari aspetti e comprende non solo la vendita del prodotto a un intermediario o direttamente a un consumatore, ma anche la creazione di un apparato commerciale, costituito sia da imprese che effettuano la commercializzazione sia da personale destinato a questo ramo di attività, che crea vincoli concreti col processo economico locale.
Ma oggi la commercializzazione é intimamente legata alla pubblicità dei prodotti, il che comporta la creazione di un sistema di preparazione di annunci economici o di una agenzia pubblicitaria. La commercializzazione è anche legata a operazioni di « marketing » più ampie, per le quali è necessario un sistema di analisi di mercato assolutamente indispensabile per le odierne operazioni capitaliste. A tutto il sistema di analisi di mercato e di pubblicità, sono legati i problemi di presentazione dei prodotti che, come sappiamo, non riguardano solamente l’aspetto esterno dell’involucro, ma anche la presen-tazione del prodotto stesso, specialmente per quanto riguarda i prodotti di consumo di massa.
Questo porta, di conseguenza, alla necessità di installare un sistema minimo di ricerca e sviluppo (molto più di sviluppo, che di ricerca) per assicurare il funzionamento di un buon sistema di marketing che permetta di essere competitivi sul mercato locale. Questa competitività ha possibilità immediate o potenziali tranne nel caso dei produttori dei paesi sottosviluppati senza grandi prospettive; ma soprattutto le ha per le società di paesi sviluppati le quali sono in grado di competere sia sui mercati dei paesi sviluppati sia su quelli dei paesi sottosviluppati.
Nella misura in cui è necessario assicurare il grado di controllo economico raggiunto precedentemente, si fanno sempre più forti le tendenze ad aumentare il grado di articolazione dei gruppi internazionali con i mercati locali dei paesi «ospitanti».
Le possibilità di mantenere questo controllo sono aumentate, perché gli alti tassi di profitto generano grandi eccedenze finanziarie che possono essere reinvestite nel paese « ospitante » senza impedire una grande mobilità finanziaria a livello internazionale. Nello stesso tempo bisogna soddisfare le esigenze di espansione della sussidiaria sul mercato locale per mantenere la sua capacità competitiva e anche, evidentemente, per sfruttare le possibilità di investimento che offrono questi paesi.
Ci troviamo quindi davanti a due ordini di problemi. Il primo, si riferisce al trasferimento dei profitti, i quali comportano un rapporto tra monete e, quindi, legano molto strettamente le società agli interessi finanziari dei paesi in cui operano. Il capitale straniero arriva a interessarsi in maniera molto diretta alla politica finanziaria da due punti di vista. Da un lato, si rende necessario il dominio dei fattori della congiuntura, il che esige la conoscenza e la previsione dei mutamenti del valore delle monete. D’altro lato è indispensabile influire sulla politica finanziaria a più lungo termine.
Per il primo punto, le società multinazionali hanno bisogno di un apparato di esperti finanziari, che permetta di controllare le oscillazioni del valore delle monete a livello internazionale, in modo da poter spostare il denaro da un paese all’altro a seconda delle variazioni che intervengono nei cambi. Per quel che riguarda la politica a lunga scadenza, le società hanno interesse ad influire sulla politica locale per poterla dirigere in modo da rendere più facile la libera entrata ed uscita dei profitti.
A tale scopo le società multinazionali parlano oggi in nome di un nuovo liberalismo (posizione difesa dalla commissione speciale della Ocse che si dedica allo studio dei movimenti di capitali), che renda più facile le operazioni internazionali della società, l’entrata e l’uscita di denaro non solo in grandi quantità costituite dai profitti annuali, ma anche in denaro liquido (hot money).
Questo permetterebbe una forte mobilità del capitale a livello internazionale. Malgrado l’aspetto più speculativo che propriamente imprenditoriale di questo tipo di operazioni, esse rappresentano gran parte dell’attività degli amministratori delle società.
Allo stesso modo, la necessità di orientare correttamente i reinvestimenti esige una conoscenza molto approfondita del mercato locale. Alle società multinazionali interessa ottenere i migliori risultati finanziari dai mercati locali e sfruttare al massimo le possibilità di nuovi investimenti, soprattutto quando offrono tassi elevati di profitto.
Per sviluppare un efficiente programma di investimenti locali, bisogna disporre di un apparato per le ricerche di mercato, con un buon livello di previsione, di una conoscenza dell’economia nazionale e di una certa influenza sulla politica economica, che consentano di sfruttare correttamente le possibilità di investimento.
Tutti questi meccanismi portano alla formazione di uno stretto legame con l’economia locale, per potere utilizzare positivamente i vantaggi relativi che offre la condizione di multinazionale ai fini del dominio dei mercati locali.
Vediamo perciò che le società multinazionali, quando ampliarono l’area di operazione delle società internazionali e indirizzarono la produzione verso i mercati locali, crearono un nuovo ordinamento nell’economia dei paesi dove si trasferirono le loro sussidiarie.
Esse stabilirono nuovi legami di carattere economico, sociale e politico con tali economie. Questi legami incidono sul loro funzionamento interno e su quello del paese « ospitante » e aprono un nuovo capitolo nella storia delle relazioni economiche internazionali.
Si deve sottolineare che l’importanza dei cambiamenti di funzionamento studiati è molto maggiore nei paesi dipendenti che in quelli che avevano già raggiunto un maggior grado di sviluppo.
La dinamica creata da questi legami organici con le economie locali è tanto più determinante per la vita del paese quanto minore è il suo sviluppo economico precedente.
I paesi dipendenti hanno una struttura produttiva molto debole, una classe dominante nazionale dominata dal capitale internazionale, una autonomia di decisione economica minima.
Per tutti questi motivi l’invasione della società multinazionale attraverso gli investimenti nei mercati locali distrugge le basi di resistenza del capitale nazionale e crea una nuova classe dominante, così come comincia a determinare la dinamica dell’insieme del suo sviluppo economico, aprendo una nuova tappa nella sua evoluzione storica. I fenomeni accennati meritano perciò un’analisi più approfondita, per l’importanza degli effetti che essi producono sul piano nazionale e internazionale.
La società multinazionale è il nucleo di una nuova economia mondiale e bisogna analizzare più da vicino le contraddizioni che racchiude nel suo complesso sviluppo.
Dalle analisi fatte risulta evidente che la sussidiaria che si orienta verso un mercato locale segue una dinamica diversa da quella delle società del tipo « enclave » che dominarono l’economia mondiale fino al 1945, e si differenzia anche dalle filiali destinate alla vendita o a certi processi finali di produzione, ossia le fabbriche di « assemblaggio ». Questa dinamica è condizionata in buona parte dalle leggi di sviluppo della economia di montaggio dove è avvenuto il trasferimento del capitale. Questo condizionamento è tanto maggiore quanto maggiori sono lo sviluppo dell’economia del paese che riceve il capitale e l’autonomia relativa del suo mercato interno. Anche nel caso dei paesi dipendenti abbiamo un condizionamento da parte della struttura del mercato locale che subordina alle sue leggi la società multinazionale.
Il fattore determinante del funzionamento della società multinazionale continua ad essere l’interesse del grande capitale, che nasce dalla struttura economica dei paesi dominanti e soprattutto della potenza egemone nel sistema internazionale.
Questa struttura è strettamente intrecciata con l’economia internazionale che essa egemonizza. D’altra parte la società multinazionale rappresenta una unità economica in una certa misura autonoma dalla economia dominante. Gli interessi dell’insieme delle sue operazioni internazionali determinano la sua condotta più immediata e creano una struttura di rapporti cellulari che, pur essendo determinati dalla struttura capitalista internazionale, formano la rete di rapporti fondamentali sopra i quali poggia questa struttura. All’interno della società multinazionale si mescolano e tentano di conciliarsi gli interessi contraddittori creati da questi tre livelli strutturali: l’economia locale, l’economia dominante e la società multinazionale.
La lotta per coordinare le dinamiche che orientano queste istanze, nel quadro dell’economia capitalista internazionale, comporta un nuovo ordine di problemi che si esprime attraverso l’insieme di contraddizioni che la società multinazionale deve affrontare.
La società multinazionale, intesa come una organizzazione internazionale, ha interessi, strategia, organizzazione e finanziamento propri. Da questo punto di vista ha i suoi interessi specifici all’interno dell’economia mondiale. Cosicché, teoricamente, potremmo pensare che la società multinazionale operi con un criterio diverso da quello dell’economia del paese dove ha il suo centro di operazioni. Sappiamo, tuttavia, che questa indipendenza della società multinazionale è relativa, dato che la sua forza economica è in gran parte basata sul potere dell’economia nazionale da cui essa prende l’avvio. Nello stesso tempo le sussidiarie sono sottoposte alla dinamica globale della società multinazionale e, insieme, alla capacita economica e alle leggi di sviluppo dell’economia in cui operano. Perciò la tendenza a sviluppare le sussidiarie in direzione del mercato interno, le fonti di rifornimento locale e la nazionalizzazione della produzione vengono a trovarsi in contrasto sia con gli interessi della società nel suo insieme, sia con quelli dell’economia del paese dominante.
La società multinazionale, presa nel suo insieme, non vuole essere costretta a fare investimenti complementari per garantire il controllo dei mercati nei quali si trasferisce; il suo interesse è di far circolare il capitale non in funzione della integrazione economica delle strutture locali, ma per accrescere l’ammontare e il tasso dei suoi profitti a livello internazionale.
La società vuole conservare una grande facilità di trasferimento dei suoi profitti verso altre regioni. Questo fatto entra in contraddizione con gli interessi della economia locale presa nel suo insieme, perché il suo sviluppo può continuare solamente per mezzo di stimoli artificiali e del protezionismo, dato che il suo mercato interno é ristretto e non permette un alto tasso di investimenti.
Se la società multinazionale segue le leggi della libera concorrenza internazionale, avrà la tendenza a reinvestire i profitti non nei paesi dipendenti, ma in quelli che offrono grandi mercati interni in espansione. I vantaggi della manodopera a buon mercato e delle protezioni tariffarie che permettono di ottenere alti tassi di profitto nei paesi dipendenti vengono ad essere annullati dalla limitatezza dei mercati che essi presuppongono.
D’altro canto, le economie dei paesi dominanti hanno interesse a mantenere le loro esportazioni a un livello elevato.
Queste esportazioni possono anche essere stimolate a breve scadenza dagli investimenti all’estero — soprattutto nei paesi dipendenti — quando aumenti il consumo di macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate. Questa situazione cambia, tuttavia, nella misura in cui tali paesi riescono a produrre questi macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate, dando un nuovo drastico orientamento al commercio mondiale.
Le economie dei paesi dominanti, prese nel loro insieme, risentono perciò dello sviluppo economico dei paesi dipendenti quando esso assume una forma capace di portare all’autonomia. Per queste contraddizioni, la classe dominante dei paesi dominanti cerca di conciliare questi opposti interessi orientando lo sviluppo economico dei paesi dipendenti in modo da renderlo più compatibile con l’interesse a conservare la potenza dell’economia dominante dove il capitale internazionale ha le sue basi più solide e ad aumentare la capacita di movimento di questo stesso capitale internazionale.
Ma ciò non risolve del tutto le contraddizioni del multinazionalismo, poiché questa libertà d’azione del capitale lo porta ad aumentare i suoi investimenti nelle economie capitaliste più dinamiche, che non sono né quelle dei paesi dipendenti, né gli Stati Uniti, ma altri paesi capitalisti avanzati.
Questa situazione fa aumentare gli investimenti riguardanti questi paesi a scapito degli Stati Uniti. In ogni modo la piena libertà di movimento del capitale internazionale entra in conflitto con gli interessi del suo centro egemonico, tende a indebolirne l’economia e rende più profonde le sue contraddizioni interne.
Per far fronte a interessi così complessi che si manifestano al suo interno, la società multinazionale deve garantire il controllo assoluto sulle sue sussidiarie, che potrebbero seguire gli interessi locali e pregiudicare, in futuro, la base di potere della casa madre.
Nasce, così, un importante problema di controllo e la società madre comincia ad operare, in gran parte, in funzione del dominio che può esercitare sulla sussidiaria.
La sua politica finisce per essere guidata più dalle esigenze di controllo che da quelle che presenta il mercato e dalle possibilità di sviluppo. Questa contraddizione può portare l’impresa sussidiaria a una situazione di impotenza nei confronti delle esigenze dell’economia dei paesi dove si trova, nei confronti della concorrenza degli investitori nazionali e di altri paesi dotati di maggiore elasticità e possibilità di sviluppare il campo specifico in cui si produce una situazione di immobilità. La contraddizione diventa più acuta quando la società nel paese « ospitante », sia esso sviluppato o anche dipendente con un certo grado di sviluppo, comincia ad avere la possibilità di competere con la società madre attraverso le esportazioni verso altri mercati. In queste condizioni l’impresa sussidiaria comincia a competere con la società dominante non solo sul mercato specifico in cui opera, ma anche su altri mercati. Nei paesi piccoli questo fenomeno ha poca importanza; ne ha invece nei paesi dominanti o nei paesi sottosviluppati con un certo livello di potenzialità economica.
Questa situazione si produce di frequente come risultato della logica di sviluppo della impresa capitalista, che cerca di superare il suo mercato iniziale e di ampliarlo costantemente.
D’altra parte, gli stessi interessi delle economie nazionali, nel senso di aumentare le loro esportazioni, creano una dinamica oggettiva che le società sussidiarie sono costrette a seguire per non essere emarginate. Per questo motivo diventa necessario un forte controllo monopolistico dei mercati locali e delle politiche economiche dei loro governi, per permettere alla società di controllare queste tendenze. Come vedremo, il grande capitale non ha motivo di opporsi sistematicamente a questa tendenza. L’iniziale atteggiamento di resistenza è progressivamente sostituito da un riconoscimento delle leggi di sviluppo e dall’intento di incanalare questo processo a favore dei propri interessi, sebbene questo implichi il sacrificio di certe posizioni e della propria base nazionale di potere, cioè gli Stati Uniti come economia dominante.
Vedremo come la strategia ideata cerchi di assicurarsi con altri mezzi questa egemonia.
Una sussidiaria ha scarse possibilità di liberarsi e vi sono leggi internazionali abbastanza forti per garantire il controllo da parte della società madre; ma, evidentemente, in circostanze politiche eccezionali, questo controllo può cambiare, questa capacità di controllo può essere messa in discussione. Di conseguenza, la società dominante deve preoccuparsi di impedire uno sviluppo eccessivo della sussidiaria, che potrebbe permetterle di trasformarsi in una sua concorrente. Studiando i problemi di organizzazione vedremo quali forme abbiano cercato le società per assicurarsi questo controllo. Ci sono, tuttavia, altre alternative, seguite da alcune società o gruppi economici, che favoriscono una più vivace concorrenza interna tra le loro sussidiarie, poiché il controllo finanziario resta in mano al gruppo centrale. Queste tendenze sono in corso e ancora non si sa che risultato daranno.
Nella misura in cui si sviluppano senza un sicuro orientamento, le contraddizioni cui si è accennato tendono a creare un’anarchia sempre meno controllabile nel mercato mondiale, portando i paesi capitalisti a un confronto fra di loro e con le società multinazionali.
Per questo la teoria economica borghese, i suoi politici, ideologi ed esperti hanno cercato di ridare rapidamente un orientamento a questa nuova economia internazionale che nasce con il multinazionalismo. Dobbiamo perciò studiare più a fondo i nuovi rapporti di scambio che lo sviluppo della società multinazionale crea a livello internazionale.
Nella lotta tra la società madre e la sussidiaria si rispecchiano le contraddizioni più profonde tra l’economia del paese egemone, le altre economie dominanti e le economie dipendenti.
Queste contraddizioni si manifestano, a livello della economia internazionale, attraverso i rapporti che stabiliscono tra di esse.
Questi rapporti hanno la loro infrastruttura nella divisione internazionale del lavoro, che cerca di rendere compatibili le diverse economie nazionali in un sistema di riproduzione internazionale della economia.
Le contraddizioni che nascono dallo sviluppo del multinazionalismo avevano trovato una prima soluzione negli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. Questa soluzione si basava sullo scambio di macchinari, attrezzature e materie prime lavorate da parte dei paesi dominanti, contro materie prime e prodotti agricoli da parte dei paesi dipendenti. Vediamo in maniera particolareggiata questa forma di scambio.
Per quanto concerne i paesi sviluppati si presentavano due nuove grandi voci di esportazione; il che non significava porre fine completamente alle antiche esportazioni di prodotti di consumo finali, ma sostituirli progressivamente, nella misura in cui la loro produzione si sviluppava alla periferia del sistema.
La prima voce è l’esportazione di macchinari e attrezzature industriali, commerciali e di servizi. Investire in un paese che non ha un settore sviluppato per la produzione di macchine, comporta una domanda di questi beni di produzione nei paesi sviluppati. La vendita di queste macchine viene generalmente controllata dai grandi gruppi economici; inoltre, i crediti per il finanziamento si ottengono presso le banche o presso i governi controllati da questi gruppi. In molti casi i macchinari e le attrezzature che si trasferiscono nei paesi dipendenti sono già stati usati dalla società che effettua gli investimenti e che realizza, in questo caso, un buon affare, rinnovando contemporaneamente le sue istallazioni.
Le materie prime industrializzate che si esportano nei paesi dipendenti costituiscono la seconda voce di esportazioni, che riscatta il carattere di complementarità di queste economie. Montare una industria comporta l’utilizzazione di certe formule o la necessita di un tipo specifico di materie prime semi-industrializzate. Gran parte degli investimenti di petrolio raffinato furono fatti nel settore dell’industria chimica che utilizza direttamente materie prime industrializzate; ma questo accade anche in altri settori, come quello tessile, della gomma, ecc. Quando unità di produzione si istallano in altri paesi, aumenta il consumo di queste materie prime lavorate e aumenta così il commercio di questi prodotti tra il paese che fa l’investimento e quello che lo riceve, nella misura in cui le società preferiscono rifornirsi dalla casa madre. Qualche volta succede che si riforniscano da qualche sussidiaria, un fenomeno del resto frequente negli ultimi anni, come risultato naturale dell’avanzata del multinazionalismo.
D’altra parte bisogna notare anche che gran parte di questi acquisti di materie prime vengono effettuati all’interno di una stessa società o di uno stesso gruppo economico, trasformandosi così in una operazione interimprenditoriale a prezzi artificiali, che permette di assicurarsi forme indirette di trasferimento di profitti attraverso il sovrapprezzo e offre nel contempo degli espedienti per evadere l’imposta sul reddito nel paese dove opera l’impresa.
In questo modo la politica di sviluppo, che cercava di stimolare l’ingresso del capitale straniero nel settore industriale, il miglioramento dei prezzi dei prodotti esportati, i prestiti internazionali e gli « aiuti » economici, veniva a costituire un insieme di misure complementari intese a formare una unità di interessi, sul piano internazionale, tra paesi dipendenti e paesi dominanti, che si esprimeva nella divisione del lavoro tra esportatori di materie prime e prodotti agricoli da una parte, ed esportatori di macchinari, di attrezzature e materie prime industrializzate dall’altra. La condizione per mantenere questa divisione del lavoro era che non si sviluppassero nei paesi dipendenti i settori di produzione di macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate. Abbiamo visto tuttavia che la logica stessa dello sviluppo economico capitalista entrava in contraddizione con queste limitazioni e si scontrava con gli interessi immediati del grande capitale.
Questa complementarietà dimostra così il suo carattere provvisorio. Primo: perché le economie dipendenti esercitano una pressione crescente nel senso che i rifornimenti e i settori economici complementari si sviluppano in questi paesi. Secondo: perché l’industria di macchinari tende anch’essa a svilupparsi con questo fine. Terzo: perché la stessa sussidiaria della società multinazionale, avendo la necessita e la possibilità di fare nuovi investimenti e trasformandosi in un importante acquirente di certi prodotti, finisce con l’essere interessata a creare questi settori complementari, allo scopo di ottenere i prodotti a prezzi più bassi. Infine un effetto molto più importante ed essenziale: si viene progressivamente a creare la possibilità di dominare la forza lavoro a livello internazionale, a prezzi molto più bassi, con facilitazioni di commercializzazione, con potenziale istallato non utilizzato, con appoggi governativi sempre più sostanziosi per una politica di sviluppo economico basato sul capitale straniero, con l’annullamento dell’opposizione nazionale borghese, che si raggiunge soprattutto negli anni ’60, e con la formazione di una burocrazia tecnocratica e militare « sviluppista », che si identifica strettamente con gli obiettivi del capitale internazionale.
Tutti questi fattori concorrono a creare la possibilità reale che queste industrie dei paesi dipendenti, oltre ad orientarsi verso il loro mercato interno, si trasformino anche in importanti società di esportazione, sia per aree più arretrate o vicine, sia per aree controllate economicamente e politicamente da paesi intermediari degli Stati Uniti, sia per sfruttare vantaggi relativi all’interno di una comunità economica (come l’Inghilterra rispetto al Commonwealth o le sue ex colonie africane integrate nel Mercato Comune), sia, infine, per sfruttare il vasto mercato nordamericano, gran consumatore di prodotti che hanno bisogno di molta manodopera e che sono cari e di cattiva qualità negli Stati Uniti. Per tutti questi motivi si apre uno spazio a una politica di esportazione dai paesi progrediti e dai paesi dipendenti verso gli Stati Uniti o verso altre zone dei paesi sviluppati.
Inizia così una terza fase nella storia degli investimenti stranieri all’estero, caratterizzata dagli investimenti nel settore manifatturiero, allo scopo di effettuare esportazioni. Nonostante il suo carattere recente, se ne può valutare il rapido sviluppo in base ai dati forniti da Raimond Vernon, sulle vendite, nel 1957 e nel 1958, delle sussidiarie industriali straniere delle società americane classificate secondo il mercato di destinazione (fonti del Dipartimento del Commercio).
Nel 1957, le sussidiarie nel Canada destinavano circa l’85 per cento delle loro vendite al mercato interno, circa il 10 per cento a esportazioni negli Stati Uniti e circa il 5 per cento a esportazioni in altre aree. Nel 1968 la proporzione delle vendite locali è del 70 per cento, quella delle vendite negli Stati Uniti del 20 per cento, e quella delle vendite ad altre regioni del 10 per cento.
In Europa, nel 1957, il 75 per cento delle vendite è destinato al mercato locale, il 4 per cento al mercato nordamericano e circa il 20 per cento a mercati di altre regioni. Nel 1968, si registra già un forte aumento del totale delle vendite, delle quali più del 20 per cento è destinato al mercato di varie aree, il 3 per cento al mercato nordamericano e il resto al mercato locale.
Nell’America Latina l’esportazione, nel 1957, era minima. Quasi tutte le vendite erano destinate al mercato locale. Nel 1968 le sussidiarie industriali latinoamericane destinano già circa il 10 per cento delle loro vendite in parte agli Stati Uniti e la maggior parte ad altre regioni.
Anche nelle altre regioni, escludendo il Canada, l’Europa e l’America Latina, si registra una tendenza all’aumento delle esportazioni. E’ importante notare che le vendite delle sussidiarie industriali nordamericane nell’America Latina oltrepassano nel 1968 i 750 milioni di dollari, il che rappresenta più del 40 per cento di tutte le esportazioni di manufatti latinoamericani nello stesso anno; queste vendite comprendevano forti quantitativi di prodotti chimici, di macchinari e di parti di automobili. Questi nuovi investimenti vanno distinti in due tipi. Uno è diretto verso i « paesi emporio », e cioè quei paesi che esplicano solamente una funzione di intermediario, e che si limita a completare una fase finale della produzione dei prodotti. E’ il caso della Corea del Sud, di Hong Kong, del Messico del Nord e della Cina nazionalista, dove si istallano aziende per completare la lavorazione di prodotti, le cui parti sono fabbricate in altri paesi, specialmente negli Stati Uniti.
Si tratta semplicemente di sfruttare la manodopera a buon mercato per certi lavori finali che hanno caratteristiche semi-artigianali e richiedono molta mano d’opera con un certo grado di specializzazione artigianale. In questi casi vengono compensate le spese di trasporto, oltre a trarre vantaggio dalle esenzioni fiscali e dalle altre facilitazioni offerte da questi paesi.
Un altro tipo di investimenti nel settore manifatturiero destinati all’esportazione è quello che cerca di sfruttare le materie prime nazionali industrializzandole prima di esportarle.
Questi investimenti trovano però un limite nella vecchia politica imperialista intesa a far sì che l’industrializzazione avvenga nel paese dominante. Nel caso degli Stati Uniti le difficoltà sono particolarmente grandi, dato che da molti anni il governo nordamericano, sotto la pressione dei settori industriali, pone una serie di ostacoli all’importazione di prodotti già industrializzati, assoggettandoli a tasse molto alte. Esistono tuttavia grandi possibilità di espansione per questo tipo di investimenti sotto il patrocinio di istituzioni internazionali, come l’UNCTAD, che li presentano come la grande alternativa per ristabilire condizioni di scambio favorevoli ai paesi sottosviluppati.
Se la industrializzazione delle materie prime può offrire qualche vantaggio immediato, non rappresenta affatto una soluzione per i problemi del sottosviluppo, e tanto meno nella misura in cui viene effettuata dalle imprese straniere, che trattengono le eccedenze ricavate da questa attività e le trasferiscono all’estero sotto forma di enormi profitti.
Un aspetto più nuovo, tuttavia, è costituito dagli investimenti in prodotti più sofisticati da esportare nei paesi sviluppati. Si tratta in genere di un’industria per la produzione di parti per prodotti finali da realizzarsi nei paesi sviluppati. Vi sono parti di certi prodotti, come quelli elettronici, le quali hanno bisogno di una mano d’opera abbastanza numerosa e specializzata, che si trova con più facilità nei paesi con uno sviluppo relativo inferiore. Vi sono casi di industrializzazione di prodotti di base che passano per un certo processo di sofisticazione per il quale sono necessarie imprese di alto livello.
E’ il caso della produzione di acciaio, materia prima lavorata che richiede grandi investimenti e offre una bassa redditività negli Stati Uniti, dove attraversa una crisi molto grave, che trasforma questo paese in un potenziale acquirente di tale prodotto. Altre voci come tessili, scarpe, caffè solubile, ecc. formano una estesa gamma di prodotti che presentano un grado di industrializzazione relativamente basso delle materie prime e richiedono una mano d’opera semi-artigianale, i cui salari negli Stati Uniti sono molto alti.
Un altro fattore rilevante è la differenziazione di questi prodotti, a causa della sofisticazione del mercato, il che richiede una produzione su scala ridotta, una buona rifinitura e altri fattori che rendono più elevati i costi in una economia sviluppata.
Esiste dunque un altro campo di investimenti industriali per l’esportazione che si dirige in gran parte verso il mercato nordamericano; si tratta senza dubbio di un vastissimo campo aperto agli investimenti delle multinazionali, che trovano così una nuova complementarietà internazionale a un livello superiore e una nuova divisione internazionale del lavoro. Questa avrebbe, qualora si riuscisse a realizzarla su vasta scala, una stabilità storica relativa che consentirebbe al capitalismo, a livello mondiale, di avere a disposizione un periodo di sopravvivenza più lungo di quello che gli concede la sua attuale struttura economica, che dal 1968 attraversa una profonda crisi internazionale.
La società multinazionale, negli ultimi tempi, tenta di adeguarsi a queste nuove tendenze trasformandosi internamente, creando nelle alte sfere e nel pubblico un’opinione favorevole a questi cambiamenti, studiando le alternative di sviluppo e le strategie che esse implicano, cercando di prevenire i gravi problemi e le contraddizioni che esse recano in sé.
L’instaurazione di questa nuova divisione internazionale del lavoro presuppone la soluzione di molti problemi preliminari, tra i quali, in primo luogo, la divisione interna che questa politica provoca in seno alla stessa borghesia dei paesi dominanti. Questa soluzione comporta il sacrificio della media e piccola borghesia all’interno dei paesi dominanti a favore del progresso delle società multinazionali e della borghesia internazionale che, paradossalmente, passa a controllare buona parte dell’economia nazionale attraverso il dominio dell’apparato produttivo delle altre nazioni. Questa contraddizione è grave e di difficile soluzione, perché le borghesie locali dei paesi dominanti sono ancora molto forti ed hanno un’influenza politica, hanno capacita di resistere al grande capitale internazionale, soprattutto nella misura in cui riescono ad influenzare altri settori della popolazione e a muoverli politicamente.
Se pensiamo che al mercato locale nordamericano sono legate in maniera fondamentale società di grande potenza, possiamo dedurne che si tratta di un confronto tra giganti e non semplicemente tra alta borghesia e borghesia media. A lunga scadenza, le borghesie locali non potrebbero resistere, soprattutto perché non hanno da offrire un’alternativa di sviluppo economico a livello nazionale e internazionale, ma un’alternativa di regresso, d’immobilismo, di ristagno che ai nostri giorni non può rappresentare, evidentemente, una base valida per una politica economica con proiezioni internazionali.
Per far fronte a questo problema, la borghesia internazionale cerca sempre più di caratterizzare la società multinazionale come un tipo diverso d’impresa, che rappresenta una nuova concezione internazionale e una nuova tappa nella storia dell’umanità.
I suoi ideologi cercano di distinguerla nettamente dalle società tradizionali, lottando per liberarla dalla immagine negativa che il monopolio ha acquistato nel movimento liberale con radici nelle classi medie e nel movimento operaio nord-americano, e sviando la lotta politica verso problemi marginali.
La situazione attuale è molto complicata, perché i dirigenti sindacali reagiscono contro l’aumento delle importazioni negli Stati Uniti, che avvengono a danno della produzione locale e che portano innegabilmente alla disoccupazione di gran parte della popolazione operaia nordamericana. Trascinati dal loro spirito corporativo, gli operai nordamericani tendono a formare un fronte comune con i settori più conservatori, invece di innalzare una bandiera indipendente di carattere socialista, che permetta di superare veramente queste contraddizioni.
Dalla prospettiva dell’insieme dell’economia nordamericana, lo sviluppo di questa nuova divisione internazionale del lavoro significa l’accentuazione di una economia parassitaria, con un accrescimento del settore dei servizi, delle persone che vivono di rendita, con i suoi effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti. Infatti il conto capitali, per quanto alto, non riuscirebbe a coprire del tutto il « deficit » che risulterebbe da un conto commerciale sempre più negativo in funzione di questo tipo di sviluppo dell’economia mondiale.
Tenuto conto dell’opposizione del settore nazionale dell’alta borghesia, di importanti settori della piccola e media borghesia e del movimento operaio e delle difficoltà immediate create dalla bilancia dei pagamenti, l’alta borghesia internazionale ha davanti a sé un periodo più o meno lungo per risolvere le contraddizioni insite nel passaggio a una nuova divisione internazionale del lavoro, che consentirebbe di salvare il sistema capitalista per un certo periodo di tempo.
Il trionfo di questo modello di sviluppo comporta l’accentuazione e l’approfondimento del processo di concentrazione e di monopolizzazione dell’economia, fino a livelli che superano di molto la nostra immaginazione.
Con esso si approfondisce la crisi della piccola borghesia, delle sue ultime forme di potere locale o regionale, e si accentuano i conflitti interregionali all’interno dei paesi capitalisti così come le loro espressioni nazionali e religiose. Insieme alla crisi di questi settori, si assiste alla pauperizzazione e all’emarginazione di milioni di lavoratori agricoli e urbani, che sopravvivevano grazie alla conservazione di queste imprese minori.
Nei paesi dipendenti queste contraddizioni si presentano in forme molto acute. I pochi settori nazionali della borghesia che hanno resistito al processo di snazionalizzazione degli ultimi anni, la piccola e media borghesia, vedono chiaramente che questo schema di sviluppo toglie loro ogni speranza di sopravvivenza come classe e lo contrastano in maniera accanita ed idealista, sia da destra che da sinistra.
Gli operai e i lavoratori in genere e le grandi masse dei sottoccupati e dei disoccupati non hanno alcun posto di rilievo in questo nuovo ordine di cose. Al contrario, esso rende più profonda la loro pauperizzazione e la loro emarginazione dal sistema produttivo e inoltre devia il grande potenziale di lavoro di questi paesi per servire i mercati già costituiti nel mondo, e cioè quelli che ora godono di entrate più elevate.
La tendenza di questo schema di sviluppo è di rafforzare, in maniera brutale, l’attuale struttura di distribuzione delle entrate nel mondo, assicurando, in maniera disperata, la sopravvivenza del sistema socio-economico su cui essa si poggia.
Dato il carattere nettamente irrazionale e reazionario del modello di crescita del capitale monopolistico internazionale, si determina contro di esso la formazione di un confuso schieramento di quelle forze sociali che ne vengono danneggiate o anche distrutte. Abbiamo visto che tra queste forze si forma un blocco prevalentemente conservatore che comprende i capitalisti orientati verso i loro mercati nazionali, i settori di destra delle classi medie e della piccola borghesia, settori oligarchici anch’essi danneggiati da questa espansione del capitale internazionale che arriva perfino alle campagne, senza contare quei settori più poveri della popolazione, specialmente tra i sottoccupati e disoccupati, che possono essere trascinati, con un programma radicale, contro l’ordine di cose instaurato dal grande capitale.
D’altro lato si forma un blocco di forze proletarie, con l’appoggio delle masse semi-proletarie e della piccola borghesia rurale e urbana, uniti da un programma anti-imperialista e antimonopolistico in grado di aprire un’alternativa rivoluzionaria, di carattere socialista. Questi due grandi blocchi di forze, che prendono forma storicamente come risultato della crisi generale del 1929, da molto tempo tendono a trasformarsi in una nuova realtà storica all’interno della nuova crisi del capitalismo mondiale che stiamo vivendo dal 1969 13.
All’interno della nuova economia mondiale capitalista, di cui la società multinazionale è la cellula, si sviluppano le seguenti tendenze: crescente concentrazione e monopolizzazione su scala internazionale, sfruttamento del mercato degli Stati Uniti e di altri paesi sviluppati da basi produttive situate nei centri di mano d’opera a buon mercato, rinascita del commercio mondiale sulla base di una nuova divisione internazionale del lavoro, crisi politica quale conseguenza dei forti interessi che saranno schiacciati da questo processo, formazione di un blocco fascista e di un blocco antimonopolista e antimperialista di carattere socialista, e la conseguente radicalizzazione della situazione politica, accentuazione della lotta interregionale e internazionale per facilitare o impedire questo processo di concentrazione, di monopolizzazione e di internazionalizzazione.
In questo modo la nuova divisione internazionale del lavoro, invece di salvare il capitalismo dalla sua crisi finale, rende questa crisi più profonda e porta la società multinazionale, che ne è la manifestazione cellulare, a rispecchiare nel suo interno, nella sua programmazione, nella sua strategia e nelle sue forme di organizzazione, le contraddizioni che il capitalismo non riesce a risolvere.
Bisognerebbe segnalare, infine, che in questo nuovo contesto la nuova società che si profila ha caratteristiche che cominciano a notarsi ora. In primo luogo, essa incomincia ad agire strategicamente sempre meno in funzione di interessi nazionali e sempre più in funzione degli interessi generali dell’impresa.
In secondo luogo, nell’insieme della sua strategia di crescita, gli aspetti speculativi e finanziari acquistano un ruolo sempre più predominante.
In terzo luogo, la società si trasforma a poco a poco in un organo di direzione finanziaria e di investimento, anziché in un organo di direzione del processo produttivo e l’attività produttiva si separa progressivamente dall’attività di direzione generale dell’impresa.
In quarto luogo, queste nuove condizioni si rispecchiano in un aumento anarchico della produzione e delle attività svolte, sfociando in un processo di conglomerazione a livello internazionale che non è altro che una estensione del processo di conglomerazione che si verifica a ritmo accelerato negli Stati Uniti.
Questa rapida analisi della evoluzione delle società internazionali ci mostra la complessità delle forme e dei tipi che queste società devono assumere nel loro sviluppo, in funzione dei loro interessi generali, in funzione dell’interesse del paese dove si installano, in funzione della opposizione o della conciliazione d’interessi, con i paesi in cui operano. Perciò è necessario uno studio dei diversi tipi di imprese che si creano in questo processo.
Il saggio di Theotonio Dos Santos “Considerazioni sulle società multinazionali” fu pubblicato su PROBLEMI DEL SOCIALISMO – Rivista bimestrale diretta da Lelio Basso – N. 16/17 – terza serie – anno XV – 1973 (pag. 555-597) – MARSILIO EDITORI
1 Questo raffronto si trova nel lavoro di Stephen Hymer The Multinational Corporation and The Law of Uneven Development; manoscritto da pubblicare in J. N. BHAGWAITI (a cura di) Economics and World Order, New York, World Law Fund, 1970.
2 La diversità di situazione fra le operazioni delle imprese e gli affari dei capitalisti si deve alla grande espansione del capitale finanziario nel periodo in cui il mercato azionario ebbe il suo primo grande sviluppo. D’altra parte, l’Inghilterra aveva un forte commercio estero, a differenza degli Stati Uniti, paese per il quale il commercio estero ha importanza relativa scarsa. Lo studio di Hobson sull’Imperialismo e quello di Hilferding sul Capitale finanziario sono i due classici su questo tema, che servì di base a Lenin e Bucharin nelle loro opere fondamentali sull’imperialismo.
3 RAIMOND VERNON, Sovereignity at Bay, The Multinational Spread of US Enterprises, Basic Books, New York, 1971. La fondazione Ford finanzia un’ampia ricerca dell’autore su questo tema presso l’Università di Harvard. Il professor Vernon, malgrado le nostre divergenze ideologiche, mi ha permesso di consultare buona parte del suo materiale ad Harvard. Nel suo libro mi considera uno dei migliori espositori dell’ideologia marxista contraria alla società multinazionale. Anche se non accetto la qualifica di ideologo, che mette in discussione il carattere scientifico del nostro lavoro, devo ricambiargli la lode di buon espositore: il professor Vernon è, senza dubbio, uno dei migliori espositori dell’ideologia del grande capitale internazionale, che cerca di rendere più accetta alle sue vittime la società multinazionale.
4 United States Department of Commerce, Bureau of International Commerce, Office of International Investment, Staff Study, The Multinational Corporations: Studies on us Foreign Investment, vol. I, marzo ‘72.
Questo volume comprende i primi tre di cinque studi sulle società multinazionali commissionati dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. I lavori riuniti in questo volume rappresentano la più completa raccolta di informazioni disponibili oggi sul tema.
5 I calcoli a questo riguardo sono molto vari. « Business Week » del 19 dicembre 1970, calcola che la produzione annuale totale delle società nordamericane all’estero ammonta a 200 miliardi di dollari, il che equivale al prodotto nazionale lordo del Giappone; Judd Polk, console della Camera Internazionale di commercio, calcola che l’insieme delle imprese straniere appartenenti alle società multinazionali di tutto il mondo ha una produzione di circa 450 miliardi di dollari, cioè circa 1/6 del prodotto mondiale lordo, che ascende a 3 bilioni di dollari. Facendo previsioni su tendenze in corso Polk calcola che, in una generazione, la maggior parte della produzione sarà internazionale. Un riassunto del suo intervento al Congresso Nord-americano si trova in « International Financés », A Chase Manhattan Newsletter, 17 agosto 1970.
6 Dati tratti da JAMES W. VAUPEL e JOAN P. CURHAN, The Making of Multinational Enterprises, Harvard University, Boston 1969.
7 Dati del Dipartimento del Commercio, The Multinational Corporation, vol. I. Tutte le volte che nel presente capitolo non citiamo la fonte ci riferiamo a questo studio.
8 Richiamiamo l’attenzione sull’enorme aumento degli investimenti esteri nordamericani negli anni ’50 e ’60. Nel 1950 questi investimenti ammontavano a 11.800 milioni di dollari, nel 1960 a circa 30.000 milioni, alla fine del decennio a 78.100 milioni.
9 Dipartimento del Commercio, The Multinational Corporation, vol. I, p. 10, dello studio su Policy aspects of Foreign Investment by us Multinational Corporation.
10 Una buona bibliografia sul tema e una delle migliori analisi sugli effetti sociali dell’enclave si trovano in Edelberto Torres.
11 I dati di questa parte sono stati ricavati dallo studio già menzionato sulle imprese multinazionali del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.
12 Su queste materie, vedere il capitolo sulla struttura della dipendenza nel nostro Dependencia y Cambio Social, quaderni del CESO, 1972 (seconda edizione) e di CAPUTO e PIZARRO Imperialismo, Dependencia y Relaciones Econémicas Internacionales, quaderni del CESO, 1972 (seconda edizione).
13 Su questa crisi, vedere il nostro libro La Crisis Norteamericana y America Latina, PLA, 1971.
di Enrico Vigna, 12 marzo 2023
I Balcani occidentali sono un insieme di sei paesi, che comprende Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia che i rappresentanti dell’Unione europea hanno ripetutamente affermato devono appartenere alla famiglia europea. La regione dell’Europa meridionale e orientale, abitata da circa 18 milioni di persone, è ormai nota come l’arena della rivalità geostrategica tra, Bruxelles, Washington e Mosca degli ultimi decenni.
La promessa di ammissione di questi paesi nell’Unione europea, oltreché nella NATO, è stato finora lo strumento più sottile dell’Occidente per assoggettare e integrare la regione, usando i leader filoeuropeisti da essi sponsorizzati e sostenuti.
Peter Stano, portavoce del capo della diplomazia europea ha dichiarato alla CNBC: “… Sicuramente, i Balcani occidentali sono il secondo campo di battaglia per la Russia in termini di strategia e… dopo l’Ucraina si sono intensificate le loro attività…”..
Anche la NATO ribadisce l’importanza strategica dei Balcani occidentali per l’Alleanza: “È chiaro che l’invasione russa dell’Ucraina influisce sulla stabilità dei nostri partner vulnerabili e li espone a un rischio maggiore di “influenza maligna”. Continueremo a lavorare insieme per mantenere la stabilità e sostenere le riforme e la resilienza nella regione perché la sicurezza e la stabilità nei Balcani occidentali sono importanti per la NATO e per la pace e la stabilità in Europa…”, ha poi affermato un funzionario della NATO citato dalla CNBC. Sappiamo cosa significano per la NATO le parole stabilità e sicurezza…
In risposta a una richiesta di commento, un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha detto alla CNBC che: “… Washington rimane profondamente coinvolta nella regione, descrivendo il futuro dei Balcani occidentali come “esclusivamente all’interno dell’UE”…Non dobbiamo permettere al governo russo di frenare il progresso dei paesi dei Balcani occidentali“, ha detto il diplomatico americano.
Considerando il fatto che recentemente nei Balcani occidentali tutti gli esempi della cosiddetta “influenza maligna della Russia” si sono rivelati falsi e il livello di conflitto in Bosnia ed Erzegovina (BiH) e nella provincia autonoma serba del Kosovo è rimasto finora un problema locale e interno alle problematiche degli attori regionali, tali dichiarazioni dei media statunitensi suscitano sospetti e insidie. Queste dichiarazioni possono essere interpretate come una copertura per accrescere la campagna occidentale volta a costringere le autorità della Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina e della Serbia, a imporre sanzioni contro la Russia.
Casualmente, subito dopo queste ennesime dichiarazioni, l’11 febbraio il presidente serbo A. Vučić ha affermato che le autorità serbe stavano aspettando “il momento giusto” per imporre sanzioni contro la Russia, e “la questione non riguarda mesi” , e queste affermazioni hanno scatenato nella società serba proteste di piazza, fibrillazioni e accuse di tradimento al presidente serbo, il quale si è giustificato dicendo che ormai le pressioni sul paese sono al punto di insostenibilità.
Nell’ultima votazione di novembre scorso, il Parlamento Europeo, per la seconda volta ha chiesto ufficialmente che l’UE interrompa l’avanzamento dei negoziati con la Serbia fino a quando non soddisferà diversi requisiti di base, il più importante dei quali è il completo allineamento della politica estera e di sicurezza della Serbia con la politica estera e di sicurezza della UE. Il Parlamento europeo sottolinea l’importanza del pieno rispetto, in particolare della politica delle sanzioni contro i paesi terzi. Il PE esprime rammarico per il basso livello di conformità della Serbia alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE, in particolare in relazione all’aggressione militare della Russia contro l’Ucraina. La risoluzione afferma che ulteriori capitoli negoziali dovrebbero essere aperti solo quando la Serbia rafforzerà il suo impegno per le riforme nel campo della democrazia e dello Stato di diritto e dimostrerà di essere pienamente allineata con la politica estera e di sicurezza comune dell’UE. Nel documento, il PE ricorda che la Serbia, in quanto paese che lotta per l’integrazione europea, deve aderire a valori comuni.
Il governo serbo già da alcuni mesi sta dando segnali di cedimento della sua storica politica (dai tempi della Jugoslavia socialista), di Non allineamento. UE, NATO, USA dall’armistizio, dopo l’aggressione del 24 marzo 1999, stanno cercando di piegare la politica serba ai diktat dell’egemonia occidentale, cercando di rompere la millenaria fratellanza del popolo serbo con quello russo e slavo. Ora sembra che siamo vicini a questo passaggio che sarebbe traumatico sia politicamente, che culturalmente e spiritualmente per i serbi, ma che avrebbe anche ripercussioni e destabilizzazioni in tutti i Balcani e i paesi vicini.
Secondo uno studio condotto dall’organizzazione britannica Henry Jackson Society (HJS) presso l’Università di Cambridge, la stragrande maggioranza dei cittadini serbi, il 78,7%, non sostiene l’imposizione di sanzioni anti-russe e l’armonizzazione della politica estera del Paese con l’Unione Europea, si oppone all’adesione alla NATO e non vuole perdere i suoi, storicamente buoni rapporti con la Russia. Mentre solo il 12,1% dei serbi è favorevole.
Secondo gli autori dello studio, nonostante le pressioni e i ricatti dell’UE sulla Serbia, il 53,3% dei suoi cittadini vuole rimanere neutrale rispetto al conflitto in Ucraina. Il 35,8% degli intervistati ritiene che la Serbia dovrebbe sostenere la Russia e solo il 4,4% ha dichiarato di sostenere l’Ucraina. Per i ricercatori inglesi, la reazione dei cittadini serbi al caso dell’uso del sistema “bastone e carota” da parte di Bruxelles e Washington si è rivelata scioccante.
Alla domanda se imporre sanzioni alla Russia per accelerare l’adesione della Serbia all’UE, solo il 6,4% ha risposto “sì”. Se l’UE fornisse un’assistenza finanziaria significativa alla Serbia, solo il 9,5% accetterebbe di imporre sanzioni. E se Bruxelles smetterà di fare pressioni su Belgrado affinché riconosca l’indipendenza dell’autoproclamata “Repubblica del Kosovo“, allora questa quota salirebbe solo al 13,6%.
Quando si tratta di possibili “fruste“, i risultati sono simili. Anche con la minaccia di sanzioni dell’UE contro la stessa Serbia, il 69,9% degli intervistati si è dichiarato contrario alle sanzioni anti-russe. Se l’Ue minaccia di chiudere i suoi fondi, solo il 12,4% è favorevole alle sanzioni. Il ritiro degli investimenti ha spaventato solo il 15,1% dei serbi.
Alla domanda su chi sia la colpa del conflitto in Ucraina, il 66,3% degli intervistati in Serbia ha risposto che è Kiev. Ma su questo argomento i maggiori “successi” sono stati ottenuti dagli Stati Uniti e dalla NATO: l’82,4% e l’84,8% degli intervistati li incolpa per la situazione attuale. Non a caso, in un ipotetico referendum sull’adesione della Serbia alla Nato, il 63,4% degli abitanti del Paese voterebbe “contro“. Solo l’1,2% sostiene fortemente questa idea. E se si tenesse un referendum sull’adesione della Serbia all’Unione europea, il 31,6% voterebbe “decisamente contro”, il 12,7% preferibilmente contro. Mentre il 23% dei serbi è favorevole all’adesione all’UE e solo il 15,1% è “decisamente favorevole”.
Per quanto riguarda una associazione alle potenze mondiali, il 54,1% degli intervistati in Serbia afferma che dovrebbe essere con laRussia, mentre il 22,6% vede un alleato nella UE, il 9,7% nellaCina. Gli Stati Uniti hanno ottenuto solo l’1,2% delle simpatie.
Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che ulteriori misure restrittive contro la Serbia potrebbero portare ad un allontanamento e contrarietà alla UE. Inoltre è stato rilevato che, foss’anche che le autorità serbe imponessero sanzioni anti-russe, i cittadini del Paese si allontanerebbero ancora di più dall’Occidente.
incontrati a Bruxelles per discutere il piano dell’Unione Europea per la normalizzazione tra Kosovo Lunedì 27 febbraio il presidente serbo A. Vucic e il premier kosovaro albanese A. Kurti si sono e Serbia. I due esponenti non hanno poi firmato nulla, l’accettazione del piano è solo verbale e mancano ancora da definire alcune riserve. Su queste nelle prossime settimane si andranno a concentrare nuovi negoziati,
Dopo l’aggressione NATO del 1998-99, il Kosovo ha proclamato nel 2008 la propria indipendenza, mai riconosciuta da Belgrado, che ha sempre goduto del sostegno della Russia per bloccare l’accesso di Pristina alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali. La realizzazione di questo accordo sbloccherebbe questo status quo. Il 18 marzo i leader si incontreranno di nuovo, un incontro che potrebbe segnare l’inizio di nuovi scenari geopolitici e destabilizzazioni non solo in Serbia.
Il piano dell’UE è frutto di una proposta franco-tedesca, preparata mentre a livello locale crescevano le tensioni per via della cosiddetta “battaglia delle targhe” e della richiesta della realizzazione delle Comunità Autonome Serbe nella provincia, come previsto nella risoluzione ONU 1244.
Fino allo scorso 27 febbraio, questa proposta non era mai stata resa pubblica, se non da alcune indiscrezioni a mezzo stampa, il piano non prevede che Kosovo e Serbia si riconoscano ufficialmente, un truffaldino escamotage, che nasconde la resa dello stato serbo su tutti i fronti, mantenuti in questi 24 anni.
Si richiede di conseguenza l’impegno per Belgrado di smettere di ostacolare l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali, promettendo l’avvio di “relazioni di buon vicinato sulla base di uguali diritti”: la Serbia deve riconoscere documenti, emblemi nazionali, passaporti e targhe automobilistiche emessi dal cosiddetto stato indipendente del Kosovo, si scambierebbero “missioni permanenti”; e rifiuterebbero l’uso della forza per la risoluzione delle controversie in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. Disposizioni, quindi, che prevedono un riconoscimento de facto, anche se la terminologia impiegata evita questa espressione. Resta solo un aspetto non risolto in questo piano, ovvero l’istituzione di una Associazione/Comunità dei comuni a maggioranza serba, che nel 2015 fu giudicata incostituzionale dalla UE. Un ultimatum per la capitolazione della Serbia, il cui passo successivo sarebbe l’accettazione delle sanzioni alla Russia, con tutto ciò che comporterà nelle relazioni tra i due paesi.
Intanto nel paese la tensione sale di giorno in giorno, con proteste, arresti, scontri sia in Serba che in Kosovo; nelle manifestazioni il clima è infuocato e lo scontro sale pericolosamente, alcuni leader patriottici di queste proteste, dove ci sono già stati arresti e scontri violenti, hanno addirittura espresso negli slogan il monito/minaccia “chi firmerà questo tradimento sarà ucciso” o dichiarazioni durissime, come quelle dell’accademico serbo Dusan Kovacevic: “Chi firmerà per l’indipendenza del Kosovo morirà prima che l’inchiostro si asciughi“.
Alcuni deputati, anche dello stesso partito del presidente Vucic, il Partito Progressista Serbo al governo, ribadiscono che sarebbe economicamente non conveniente per la Serbia imporre sanzioni, poiché metterebbe a repentaglio la sua sicurezza energetica e le relazioni fraterne secolari. Anche la “…Chiesa Ortodossa serba sembra pronta a scendere in campo contro la resa del governo, molti analisti prevedono la possibilità di manifestazioni di massa nel paese contro l’introduzione di restrizioni alla Russia” ha dichiarato ai media il deputato Kostic; che ha poi aggiunto”…La gente in Serbia è per la Russia e contro la NATO, quindi un tentativo di imporre sanzioni potrebbe essere la fine per Aleksandar Vučić e il suo governo“.
Anche i serbi del Kosovo resistono e rispondono alle quotidiane provocazioni e violenze, con manifestazioni di piazza e resistenza civile
Nella provincia continuano le proteste e le manifestazioni nelle aree abitate dai serbi, nel nord del Kosovo contro le violenze e il terrorismo delle “forze speciali” delle autorità separatiste di Pristina e contro le prospettive di svendita della provincia. Le parole d’ordine con cui i serbi scendono in piazza sono: “Kurti, non ti perdoneremo i nostri figli colpiti”,“Europa, di cosa sono colpevoli i nostri figli?”,“Vučić, prenditi cura dei serbi e della pace!”,“Vogliamo solo pace”, “Kosovo è Serbia”.
Nel contempo USA e NATO soffiano sul fuoco, probabilmente ritenendo che la destabilizzazione della Serbia, potrebbe aprireun secondo fronte di scontro tra occidente e Russia, con l’obiettivo di creare nuove contraddizioni e un indebolimento strategico della stessa.
A cura di Enrico Vigna, presidente di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija e portavoce del Forum Belgrado Italia – 12 marzo 2023
Gli Stati Uniti, l’impero più potente della storia, sono come il dio azteco Tezcatlipoca: si nutrono di vittime umane. Uno dei principali motori della sua economia in espansione è l’industria bellica. Le guerre sono necessarie a Wall Street per raccogliere enormi dividendi.
Per tutto il XX secolo, il nemico permanente è stato il comunismo. Combatterlo giustificava spese multimilionarie e persino colpi di stato in America Latina per instaurare dittature sanguinarie.
Con la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, la Casa Bianca aveva bisogno di un nuovo obiettivo per evitare che la macchina bellica si fermasse. E non ci volle molto per trovarlo: il terrorismo. Con il vantaggio che non si trattava di un nemico che poteva essere localizzato geograficamente o sconfitto, come in una guerra tra Paesi. È un nemico da combattere permanentemente e che assicura la soddisfazione perenne dell’insaziabile appetito di Tezcatlipoca.
Nella seconda settimana del suo mandato, Trump ha dichiarato: “Ho firmato un ordine esecutivo per iniziare una grande ricostruzione delle agenzie militari degli Stati Uniti”. Il suo segretario alla Difesa, James “Mad Dog” Mattis, ha dichiarato al Washington Post che era necessario “esaminare come condurre operazioni contro non meglio identificati concorrenti vicini” (Chomsky 2022, p. 162). È ovvio che non si riferiva ai dischi volanti, ma alla Russia e alla Cina. Il 19 gennaio 2018 è stato più esplicito: “Mentre continueremo a promuovere la campagna contro i terroristi, nella quale siamo attualmente impegnati, la competizione tra grandi potenze, non il terrorismo, occupa ora il centro dell’attenzione della sicurezza nazionale statunitense”.
Secondo un rapporto del 2018 del Dipartimento della Difesa, gli Stati Uniti mantengono 625 basi militari ufficiali in Paesi stranieri. L’analista politico David Vine ha rivelato nel 2021 che, se si contano le basi clandestine, ci sono circa 750 basi militari statunitensi.
Quando era presidente dell’Ecuador, Rafael Correa chiese alla Casa Bianca il permesso di collocare una base militare ecuadoriana a Miami, nel caso in cui gli Stati Uniti avessero voluto continuare a mantenere la base aerea di Manta sulla costa del Pacifico (del suo Paese ndt). Manta è stata chiusa. Il bilancio militare statunitense (2023) è di 858 miliardi di dollari, il 35% del totale mondiale. Qual è lo scopo di tanto denaro sperperato in un mondo in cui vivono 3 miliardi di persone in povertà, di cui 821 milioni soffrono di fame cronica? Proteggere il modello di democrazia made in USA, cioè l’appropriazione privata del capitale.
Secondo Chomsky, “Ogni volta che c’è stato un conflitto tra la democrazia e l’ordine, definito come la protezione dell’accumulazione di capitale da parte delle élite, gli Stati Uniti si sono schierati dalla parte di quest’ultimo” (2022, p. 153).
Questa ideologia perversa affonda le sue radici nel XIX secolo, quando James Madison, uno dei “padri fondatori della nazione”, dichiarò: “Nelle democrazie i ricchi devono essere preservati; non solo la loro proprietà non deve essere divisa, ma i loro redditi devono essere protetti”.
La difesa della proprietà privata (di pochi, ovviamente) e dell’accumulazione privata di capitale richiede anche una protezione interna. Da qui la principale arma ideologica del sistema: la paura! Paura del nero, paura dell’immigrato, paura di chi non è cristiano o ebreo, paura del povero.
Oggi, ciò che la Casa Bianca teme di più è che la Cina superi gli Stati Uniti nell’innovazione tecnologica e diventi egemone nel pianeta. Questo perché il gigante asiatico ha denaro sufficiente per investire nella ricerca, dal momento che non mantiene basi militari fuori dai suoi confini e spende solo 230 miliardi di dollari nel settore bellico. Ecco perché l’imperialismo sta provocando la Cina in tutti i modi possibili, cercando di costringerla a partecipare alla corsa agli armamenti, alla quale partecipano Russia e Stati Uniti.
Gli Stati Uniti non vogliono disperatamente perdere l’egemonia mondiale acquisita dopo la Seconda guerra mondiale, ma oggi, nel mondo multipolare, la Cina si impone come l’economia in grado di superare in un prossimo futuro gli Usa e l’arsenale nucleare della Russia supera quello degli Stati Uniti.
La Casa Bianca è indignata per l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sostiene che mancava il consenso delle Nazioni Unite. Che cinismo! Gli Stati Uniti hanno invaso la Russia nel 1918, senza successo. E senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno invaso Santo Domingo nel 1965; hanno invaso e bombardato i territori del Vietnam e della Cambogia per tutti gli anni ’60; hanno invaso il territorio della Somalia nel 1993 (300.000 morti); dell’Afghanistan nel 2001 (180.000 morti), dell’Iraq nel 2003 (300.000 morti); della Libia nel 2011 (40.000 morti); della Siria nel 2015 (600.000 morti); e infine dello Yemen, dove sono già morte circa 240.000 persone (Fiori, 2023).
Chi protesta contro l’occupazione statunitense di Porto Rico dal 1898, di Guantánamo a Cuba dal 1903 e contro il blocco di Cuba che dura da oltre 60 anni?
Per la Casa Bianca, la probabile sconfitta dell’Ucraina per mano della Russia sarà amara. Biden dovrà ingoiare duro, sapendo che ciò influirà sulla sua rielezione l’anno prossimo. Sa che l’unica reazione “all’altezza” sarebbe catastrofica per l’umanità: il confronto nucleare.
Anche i Paesi dell’Unione Europea, monitorati dagli Stati Uniti attraverso la NATO, sanno che la guerra della Russia contro l’Ucraina è un pantano in cui si sono cacciati. Non sanno come uscirne. E la cosa più grave: le sanzioni imposte alla Russia non hanno avuto alcun effetto sul Paese. Al contrario, il rublo si è rafforzato. E diversi Paesi europei, a partire dalla Germania, erano già irritati per le esplosioni che nel settembre 2022 hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico, che li rifornivano di gas naturale. Ora l’irritazione ha lasciato il posto alla furia: non sono stati i russi a interrompere la fornitura, ma la CIA è stata responsabile del sabotaggio.
Qui in Occidente conosciamo la narrazione del cacciatore, non della lepre. Le fantasie di Hollywood e di Walt Disney ci convincono che per la Casa Bianca la libertà non è solo il nome di una statua tra New York e il New Jersey. E moltissime persone credono ai discorsi falsi dello Zio Sam. Tra l’altro, perché in questo lato occidentale del mondo conosciamo poco la versione del lato orientale.
Frei Betto
Teologo, scrittore e politico brasiliano. E’ stato responsabile del Programma “Fame Zero” nel primo governo Lula. Come scrittore è stato insignito del Premio Jabuti e ha pubblicato più di 50 volumi, tra cui Paradiso perduto. Viene considerato uno degli esponenti della Teologia della Liberazione
https://it.wikipedia.org/wiki/Frei_Betto
FONTE: https://codice-rosso.net/la-guerra-fredda-si-riscalda-di-frei-betto/
a cura di Enrico Vigna
Dall’ascesa al potere della atlantista, antirussa e sorosiana Maia Sandu, un intreccio di provocazioni, minacce e politiche incendiarie, riguardanti, prima la contraddizione inerente la Pridnestrovie e ora l’arruolamento al fianco della NATO e del governo golpista di Kiev, stanno rendendo il paese una situazione esplosiva.
A giudicare dalla continua attivazione delle forze armate ucraine in direzione della Pridnestrovie, gli sponsor occidentali del regime golpista di Kiev hanno deciso di accelerare risolutivamente la questione con questa piccola Repubblica, cercando così di liquidare questa “anomalia” per Moldavia e Ucraina. Effettivamente, la decisione di liquidare la Repubblica Moldava Pridnestroviana (PMR) era stata presa negli Stati Uniti qualche tempo fa, come rilevato dall’inizio della preparazione militare delle Forze Armate dell’Ucraina. Ma con il discorso bellicista di Biden a Varsavia la scorsa settimana, le dinamiche militari stanno marciando.
La posizione di questa enclave sembra militarmente disperata, ma in determinate circostanze tutto può cambiare radicalmente. Sicuramente una simile dinamica allargherebbe la crisi ucraina portandola sempre più verso occidente, con tutto ciò che ne comporterebbe di conseguenza, in tutti i campi.
Stante la situazione incandescente nella regione, il 14 febbraio scorso l’attuale presidente dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), il ministro degli Affari esteri della Macedonia del Nord, B. Osmani, si è recato a Chisinau e Tiraspol, per cercare di stemperare i toni di guerra, che ormai permeano, negli ultimi mesi le dichiarazioni del governo moldavo, tenendo riunioni ufficiali su entrambe le sponde del Dniester, ha invitato Moldavia e Pridnestrovie a riprendere i negoziati in formato bilaterale e nel formato internazionale 5 + 2 (Moldavia, Pridnestrovie, OSCE, Russia, Ucraina e osservatori degli Stati Uniti e dell’UE), che non si tiene dall’anno 2019, e ha anche espresso la disponibilità ad aiutare a organizzare un simile incontro a Skopje, pur dichiarandosi molto preoccupato per la provocante “legge sul separatismo” moldava, che complica ulteriormente i rapporti tra Chisinau e Tiraspol. Infatti è stata presentata al parlamento moldavo, una proposta di legge per inserire nel codice penale della Moldavia, un articolo “sul separatismo“, insieme ad altre appendici arroganti, direttoa non solo contro i pridnestroviani, ma anche contro la regione autonoma della Gagauzia, contro qualsiasi forza di opposizione e cittadini dissidenti, che attualmente vengono dati a quasi il 70% della popolazione in Moldavia (naturalmente esclusa la diaspora), la Sandu temporeggia per la firma la legge e nel dispiega un apparato repressivo, perché è cosciente che potrebbe essere un azzardo e trovarsi il paese contro.
Dopo le continue provocazioni e atti ostili delle autorità di Chisinau in questi mesi contro la Pridnestrovie, che sono indirizzati verso una guerra, la Russia ha approvato un decreto che annullava la decisione del 2012, che implicava, tra l’altro, “la partecipazione attiva alla ricerca di modi per risolvere il problema della Transnistria basati sul rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dello status neutrale di la Repubblica di Moldavia nel determinare lo status speciale della Transnistria “, che fino ad oggi era stata mantenuta come posizione diplomatica e di compromesso per favorire forme negoziali e pacifiche.
E’ ormai evidente a tutti gli esperti e osservatori, anche occidentali, che le autorità moldave, sotto mandato della NATO, stanno deliberatamente fomentando un conflitto con la Transnistria per coinvolgervi la Russia. Il giorno prima di questo decreto, il presidente dell’Ucraina Zelensky aveva fatto l’ennesimo tentativo di coinvolgere la Moldavia in uno scontro militare con la Russia, rilasciando una serie di dichiarazioni sul un imminente colpo di stato armato in Moldavia “con la partecipazione di cittadini di Russia, Bielorussia, Serbia e Montenegro”, e sul desiderio di Mosca di sequestrare l’aeroporto di Chisinau e utilizzarlo come base di trasbordo, subito rilanciato dal governo europeista moldavo, creando anche il panico nella popolazione, tranne che poi nei giorni seguenti, la Sandu ha dovuto fare scuse ufficiali alle autorità di Serbia e Montenegro. L’opposizione del paese denuncia che la presidente Sandu e il nuovo primo ministro Dorin Recean, non sono politici sovrani, ma sono governati dagli Stati Uniti, e Washington cerca di indebolire la posizione della Russia aprendo un “secondo fronte” in Moldavia”, scrivono molti giornali e media russi.
Che tutto sia pronto per il braccio di ferro lo testimonia anche la dichiarazione del nuovo ministro dell’Energia della Moldavia, Viktor Parlikov, che ha annunciato l’intenzione del governo moldavo di rivedere tutti gli accordi con la russa Gazprom e la Moldavskaya GRES, situata in Pridnestrovie. La visita di 19 deputati del partito di governo Azione e Solidarietà all’ufficio dell’Alleanza NATO a Bruxelles è la dimostrazione che la dirigenza della Moldavia ha intrapreso con forza la rotta verso l’abbandono della neutralità e l’adesione alla NATO. Il deputato della fazione al potere, Mihai Popsoi, ha affermato che la maggioranza del popolo moldavo non vuole entrare nella NATO perché “avvelenato dalla propaganda russa “.
In questa fase si sta dipanando una situazione aggrovigliata, da un lato ci sono le strategie di Stati Uniti, NATO, UE e Russia, attori visibili della crisi locale, che a parole sostengono il formato 5 + 2, ma dietro le quinte sta lavorando l’intelligence britannica, che sta giocando una partita a sé, pur non facendo parte in alcun modo del format 5+2.
La domanda di ogni attento osservatore e conoscitore dell’area è: quanto è forte l’influenza di Londra nella regione. Si sa del potenziale della diplomazia americana, l’influenza della Germania che è sempre stata piuttosto forte e nel 2022 anche la Francia si è ricavato un ruolo significativo nella realtà moldava. Un dato è certo e da tenere in considerazione, gli inglesi lavorano in Moldavia da decenni. Inoltre, svolgono questo lavoro principalmente “sotto traccia” e non cercano pubblicità. Molti esperti hanno sottolineato che oggi l’interesse di Londra è l’espansione della zona di conflitto nella regione, perché questo indebolirebbe l’Europa e farebbe aumentare il peso della Gran Bretagna. In questo disegno ha due alleati chiave: Polonia e Ucraina, ed ora anche l’attuale governo di Chisinau, si è orientato verso questa prospettiva, che coincide pienamente con gli interessi degli inglesi. Anche se molti settori delle elite e potentati finanziari anche del partito PAS, non sembrano voler combattere con la Transnistria e la Russia. Ultimamente gli inglesi hanno visitato Chisinau, probabilmente per spingere fortemente la Sandu verso la guerra.
Casualmente il nuovo Primo Ministro della Moldavia, Dorin Recean, ha più volte affermato la necessità della “smilitarizzazione” della Transnistria: “..questa regione ha bisogno di smilitarizzazione e la popolazione ha bisogno di integrazione sociale ed economica con la Moldavia. Non possiamo chiudere un occhio davanti al pericolo. Abbiamo bisogno della smilitarizzazione della Transnistria, della smilitarizzazione della popolazione locale…”.
Ma la domanda non retorica ma sostanziale, è possibile smilitarizzare la Transnistria con mezzi pacifici senza iniziare una guerra, come sostiene il nuovo capo del governo moldavo?
Il problema principale di Chisinau, è che da sola non è in grado di svolgere tale compito. La sicurezza della RMP è fornita dalle proprie forze armate, oltreché da un contingente limitato di militari e caschi blu russi.
Ma teoricamente, è possibile, se si costringesse, magari corrompendola, la leadership della Pridnestrovie a una qualche forma di vergognosa capitolazione. Ma il popolo pridnestroviano non accetterà mai una simile capitolazione, forse a Washington e Kiev credono che la leadership della RMP possa imporre con la forza qualsiasi sua volontà al popolo, ma questa è un’illusione, data la coesione della popolazione locale. Inoltre, Tiraspol, come ormai nel resto del mondo, sanno bene che non ci si può fidare di nessuna promessa fatta in Occidente, avendo osservato le vicende del Donbass negli otto anni fino al 2022, sanno benissimo che con l’arrivo dei battaglioni neonazisti ucraini, non ci sarebbe pietà per nessuno, se fossero lasciati senza protezione di fronte ad essi, che ritengono, come in Ucraina, la popolazione filo-russa come “collaboratori”.
Ecco allora che si paventano alcuni scenari possibili, uno è quello indicato dal capo del dipartimento dell’Istituto dei Paesi della CSI, Kirill Frolov, secondo cui Mosca non avrebbe altra scelta che riconoscere immediatamente la Repubblica Moldava Pridnestroviana: “La minaccia di genocidio di oltre 200.000 cittadini russi che vivono in Transnistria è una realtà. Inoltre, la Russia non ha altra scelta dopo la pubblica dichiarazione di guerra alla Russia da parte di Biden, che ha annunciato il 21 febbraio di un processo a Putin e alla leadership della Russia. Ma ci sono forti motivi legali per riconoscere la RMP, come una serie di referendum già effettuati per la riunificazione con la Russia“, ha detto in un commento per i media.
La dimensione dell’esercito pridnestroviano è stimata in circa 10.000 militari, la riserva di mobilitazione civile è di circa 80mila persone. La base delle forze armate della Repubblica sono quattro brigate di mezzi motorizzati, tra cui una unità di elite, tre battaglioni di mezzi con mitragliatrici di quattro compagnie ciascuno, oltre a una batteria di mortai, un plotone del genio militare e altre unità speciali, con quattro battaglioni e varie unità di supporto.
Va sottolineato che l’armamento non è di livello modernizzato. Solo circa 20 carri armati sono di livello alto, poi ci sono da 100 a 200 autoblindo corazzati, alcune decine di cannoni trainati e semoventi, un gran numero di mortai e da circa 40 lanciarazzi multipli BM-21. La fanteria è dotata di lanciagranate con propulsione a razzo e sistemi anticarro. Il sistema di difesa aerea è rappresentato da vecchie installazioni ZSU-23-4 e MANPADS, quindi si può dire abbastanza sorpassati.
Il numero del gruppo operativo delle Forze speciali russe di pace presenti in Transnistria è stimato in circa 2/3 mila militari. Il contingente russo non dispone di capaci moderni sistemi di difesa aerea e armi da attacco pesante, la possibilità della loro consegna all’enclave, fu bloccata già molto tempo fa da Chisinau e Kiev. In caso di attacco con aerei d’attacco, con o senza equipaggio, nonché lanciarazzi MLRS a lungo raggio,
Con tale armamenti le forze di terra pridnestroviane, verrebbero spazzate via quasi senza rischi e grandi perdite dagli invasori ucraini. Mentre va sottolineato che la Moldavia non ha tali possibilità.
Infatti il problema vero è al confine della RMP con l’Ucraina, dove si sono concentrati in queste ultime settimane forze speciali d’urto delle forze armate ucraine con un numero stimato di oltre 20.000 militari, in gran parte formate dai neonazisti integrati nell’esercito ucraino e questo è osservato con forti preoccupazioni a Tiraspol e non solo. Ma per la Pridnetrovie esiste la possibilità di salvezza per i depositi della base militare di Kolbasna, di cui tratterò specificatamente.
Quali sono gli scenari possibili, secondo analisti ed esperti militari sul campo?
Sulla base della situazione indicata sopra, uno scenario è quello che le truppe locali e le forze di pace russe possono riescano ad organizzarsi con l’obiettivo di evitare perdite di civili, utilizzando la potenzialità distruttrice presente nei depositi di Kolbasna con ogni sorta di armamento lì accumulato dai tempi dell’URSS. Oppure resistere alle forze armate ucraine numericamente superiori, unificando il comando tra le forze russe e l’esercito pridnestroviano, che avrebbe costi umani elevatissimi.
Nei fatti la domanda è, come in pratica sia possibile garantire la sicurezza della RMP, se l’Ucraina attacca realmente con l’obiettivo predominante di distruggerla. Secondo gli osservatori e militari, prima di tutto la Transnistria deve pensare alla propria salvezza contando sul coinvolgimento della Russia in caso di attacco ucraino. Per questo nelle analisi sui media di studi militari russi si ritiene che Tiraspol deve, in primo luogo iniziare subito a mobilitarsi, chiamando sotto le armi chiunque sia in grado di combattere.
In secondo luogo, sempre secondo scenari ipotizzati dagli esperti militari, il Ministero della Difesa della Federazione Russa dovrebbe concentrarsi con attacchi preventivi contro il raggruppamento delle forze armate ucraine al confine con la Pridnestrovie, attaccandone i depositi e altre infrastrutture , per mettere fuori combattimento e disorganizzare il più possibile il colpo d’urto ucraino prima che attacchi la RMP.
In terzo luogo se il regime di Kiev decidesse comunque di intraprendere azioni aggressive contro Tiraspol , questa avrà il diritto di considerarsi in stato di guerra con l’Ucraina, con tutte le conseguenze che ne conseguono sul piano di alleanze ed accordi internazionali.
Un dato è certo dovesse concretizzarsi questa aggressione i costi in vite umane sul terreno, saranno altissimi, con il risultato che la Russia dovrà sicuramente forzare le sue strategie e dare priorità all’avanzata verso Odessa e la costa, per il semplice fatto che dal confine meridionale della RMP all’estuario del Dniestr nel Mar Nero, la distanza in linea retta è di soli 30 chilometri.
Naturalmente resta la possibilità (…e la speranza) che NATO, USA e i paesi occidentali, veri attori della crisi ucraina, fermino questo scenario devastante di allargamento del conflitto, anche perché sia Chisinau che Kiev, stanno giocando con il fuoco e con la loro distruzione dispiegata.
Enrico Vigna – IniziativaMondo Multipolare/CIVG
1 marzo 2023
di Andrij Movčan
21 febbraio 2023
Anno 1991, Leningrado. Ufficio personale del vicesindaco della città. Il corrispondente di un canale televisivo cittadino intervista un giovane funzionario della squadra di Anatolj Sobčak. Sullo schermo compare un uomo dal viso infantile in camicia bianca. Alle sue spalle si vedono le tapparelle, una TV, una lampada da tavolo, un telefono, cartelle aperte con documenti. Il tipico ambiente di un ufficio sovietico. Però manca qualcosa. La voce fuori campo del giornalista riferisce che ieri ha visto un busto di Lenin in questo ufficio, ma oggi non c’è più. Cos’è successo?
«Difficile dire cos’è successo. Perché dev’essere stato portato via da uno dei miei assistenti, — risponde il funzionario. — Se le interessa la mia opinione su quest’uomo, sulla dottrina che rappresentava, allora direi […] che tutto era solo una bella favola nociva. Nociva, perché la sua attuazione, o il tentativo di attuarla, nel nostro Paese ha causato danni enormi. A questo proposito, vorrei parlare della tragedia che stiamo vivendo oggi. Vale a dire, la tragedia del collasso del nostro stato. Non si può chiamarla in altro modo, se non tragedia. Penso che siano stati gli autori dell’ottobre 1917 a piazzare una bomba a orologeria sotto l’edificio di uno stato unitario, che si chiamava Russia. Cosa hanno fatto? Hanno diviso la nostra patria in feudi separati, che prima non apparivano affatto sulla carta geografica, hanno dotato questi feudi di governi e parlamenti, e ora abbiamo quello che abbiamo […] È in gran parte colpa di quelle persone, che lo volessero oppure no».
Il funzionario dell’ufficio del sindaco di San Pietroburgo che attaccava l’eredità della rivoluzione e la persona di Lenin con critiche così devastanti era il 39enne Vladimir Putin. In seguito, avendo già assunto la carica di Presidente della Federazione Russa, avrebbe ripetuto più volte nelle sue interviste e nei suoi discorsi l’idea che il crollo dell’Unione Sovietica sia stata “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, e che i colpevoli di questa catastrofe siano stati degli avventurieri rivoluzionari che sognavano di realizzare i loro progetti utopici a qualsiasi prezzo, o meglio, al prezzo dello smantellamento della preesistente statualità russa.
Putin ha ripetuto lo stesso concetto nel suo discorso programmatico del 21 febbraio 2022, in cui sono stati proclamati i fondamenti ideologici dell’invasione dell’Ucraina iniziata tre giorni dopo.
«Dunque, inizierò con il fatto che l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia, e più precisamente dalla Russia bolscevica e comunista. Questo processo iniziò quasi immediatamente dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e la sua banda lo realizzarono in modo molto rude nei confronti della Russia stessa, strappando e separando dal paese parte dei suoi territori storici».
«I bolscevichi sacrificano la Russia all’Internazionale» — caricatura bianca (monarchica), 1918-1919
Perché è stato scelto il 1917 come punto di partenza di questa escursione storica? Perché non il lontano passato o, al contrario, alcuni eventi più vicini al presente? La rivoluzione è stata un punto di svolta che, secondo Putin, ha determinato le sfide che la Russia deve affrontare in questo momento. E Putin stesso si sente in qualche modo predestinato ad affrontarle.
Ma cosa ha significato la rivoluzione? Putin in seguito approfondisce questo argomento. La rivoluzione ha infranto un dato millenario ordine incrollabile delle cose: l’Impero russo «unito e indivisibile». Ha abolito improvvisamente le secolari conquiste territoriali dell’impero, dando ai popoli conquistati il diritto all’autodeterminazione. Ecco il suo principale «peccato».
«…Le idee di Lenin di un sistema statale confederale e la parola d’ordine sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione fino alla secessione, sono state, infatti, la base della statualità sovietica, — dice Vladimir Putin. — … Molte domande sorgono immediatamente qui. E la prima, anzi la principale, è questa: era proprio necessario soddisfare le ambizioni nazionaliste illimitate che si andavano diffondendo alla periferia dell’ex impero? […] e ancora, dare persino alle repubbliche il diritto di separarsi dallo stato unitario senza alcuna condizione?»
Sembra che Putin non capisca, o finga di non capire, che il problema più acuto delle oppresse “periferie nazionali” dell’Impero russo è stato uno dei fattori trainanti di tutte e tre le rivoluzioni del primo Novecento. L’ordine della Russia imperiale era diventato obsoleto e le modifiche necessarie non potevano aggirare la questione nazionale, che richiedeva anch’essa una soluzione. Le contraddizioni che si erano accumulate nel 1917 non sollevavano affatto la questione di come e perché preservare lo stato «unito e indivisibile», ma sul fatto che l’impero si dovesse dividere in un certo numero di stati-nazione o dovesse pensare condizioni di convivenza tra le nazioni fondamentalmente nuove e molto più paritarie.
«Abbasso l’aquila!», dipinto di Ivan Vladimirov, 1917
I rivoluzionari di quei tempi credevano sinceramente nella possibilità di un nuovo mondo senza oppressione, ed anche senza oppressione imperiale da parte di alcuni popoli sugli altri, e con la loro lotta cercavano di avvicinare questo mondo. Per Putin invece il riconoscimento della soggettività dei popoli dell’ex impero rappresentava lo sperpero di territori conquistati in seguito a secoli di guerre di aggressione. Per i rivoluzionari si trattava di qualcosa di completamente opposto: la risoluzione delle urgenti contraddizioni nate in seguito a quelle stesse conquiste. La liberazione dei popoli dall’oppressione imperiale era per i rivoluzionari l’incarnazione delle loro idee e convinzioni su una nuova società libera dai resti del passato.
«…I principi di costruzione dello stato di Lenin si sono rivelati non solo un errore, ma, si può dire, molto peggio di un errore. Dopo il crollo dell’URSS nel 1991, questo è diventato assolutamente evidente, — dice Putin, — … come risultato della politica bolscevica, è nata l’Ucraina sovietica, che ancora oggi può essere giustamente chiamata “Ucraina firmata Vladimir Il’ič Lenin”. Ne è stato l’autore e l’architetto».
Ovviamente Lenin non ha creato l’Ucraina. L’Ucraina, i suoi movimenti politici e di massa a quel tempo erano già diventati un fattore reale non solo nella politica russa ma anche internazionale. Riconoscendo all’Ucraina la sua soggettività e il diritto all’autodeterminazione, Lenin ha riconosciuto solo lo stato di cose effettivo, che era già impossibile ignorare. E Putin non può perdonare questo al leader dei bolscevichi.
Senza il riconoscimento della soggettività ucraina e il diritto all’autodeterminazione, difficilmente sarebbe stato possibile ricomporre i territori dell’ex impero in un’unica entità statale. Lenin lo capiva molto chiaramente. È significativo che nella sua bozza di un nuovo stato la stessa parola “Russia” non fosse nemmeno presente: la nuova associazione era chiamata unione delle repubbliche, dove alla repubblica russa era stato effettivamente assegnato lo stesso posto degli altri membri dell’unione. Niente doveva ricordare il passato imperiale. Senza concedere all’Ucraina ampi diritti nazionali, sarebbe stato possibile mantenerla in una sorta di «Grande Russia», che Putin sogna retrospettivamente, solo con la forza bruta. E sarebbe poi stato veramente possibile?
«La Russia zarista come prigione dei popoli. Le aspirazioni predatorie dell’imperialismo zarista», carta proveniente dai materiali dell’Istituto Izostat: « Album di diagrammi, carte, cartogrammi e schemi per l’insegnamento di Lenin sull’imperialismo». Izogiz, 1936
È interessante notare che nel suo discorso del 21 febbraio Putin attacca in modo più aggressivo proprio i primi anni del potere sovietico, quando le idee rivoluzionarie erano fresche, le persone erano piene di entusiasmo e la politica, come mai prima o dopo, era guidata da principi e ideali, e non da cinico calcolo. Allo stesso tempo, Putin accoglie in ogni modo possibile l’allontanamento dai principi proclamati dalla rivoluzione ai tempi di Stalin come un ritorno a un certo «ordine naturale delle cose»:
«…la vita stessa ha subito dimostrato che preservare un territorio così vasto e complesso, o gestirlo secondo i principi proposti, amorfi, appunto confederali, era semplicemente impossibile. […] [Gli eventi successivi hanno trasformato] in una semplice dichiarazione, in una formalità, i principi dichiarati, ma non funzionanti, della struttura statale. In realtà le repubbliche dell’Unione non possedevano alcun diritto sovrano, semplicemente questi non esistevano. Nella pratica è stato creato uno stato rigorosamente centralizzato, assolutamente unitario».
Successivamente alle idee rivoluzionarie dell’uguaglianza tra le nazioni, Putin vede un ritorno alla buona vecchia Russia «una e indivisibile», e ovviamente questo gli piace. Ma un ritorno completo non era ormai più possibile. La «peste rivoluzionaria» era stata posta da Lenin alle fondamenta stesse della nuova statualità.
«Ed è un peccato, è un peccato che dalle basi fondamentali, formalmente legali su cui è stata costruita la nostra intera statualità, non siano state eliminate in tempo le fantasie odiose e utopiche ispirate dalla rivoluzione, assolutamente distruttive per qualsiasi paese normale».
Raccolta di articoli di Vladimir Lenin sulla questione nazionale. Politizdat, 1969
È difficile capire cosa sia per Putin un «qualsiasi paese normale». Se si parla di imperi coloniali basati su sanguinose conquiste e sottomissione di altri popoli, allora tali stati difficilmente possono essere definiti normali o addirittura in grado di continuare a funzionare nelle attuali condizioni storiche.
La prima guerra mondiale pose fine a quattro grandi imperi: quello ottomano, quello austro-ungarico, quello tedesco e quello russo. Dopo la seconda guerra mondiale, tutti quelli che erano sopravvissuti cessarono di esistere (gli imperi britannico, francese, portoghese, belga, olandese e giapponese). No, l’imperialismo in senso leninista non è scomparso: la sua forma coloniale-imperiale è stata sostituita da forme più sofisticate di influenza e controllo non territoriali.
L’unico stato gigantesco che ha ereditato quasi tutte le conquiste territoriali del precedente impero è stata l’Unione Sovietica con il suo famoso ⅙ della superficie terrestre. Ma la possibilità di ricomporre e mantenere questa unità statale per altri 70 anni non è avvenuta grazie alla concezione imperiale, bensì, al contrario, grazie al suo rifiuto.
L’idea di un’unione di repubbliche socialiste consisteva proprio nel fatto che i lavoratori di popoli diversi si unissero volontariamente in tale alleanza per raggiungere insieme obiettivi comuni: costruire una nuova società senza sfruttamento e oppressione. Inoltre, il modello pensato da Lenin presupponeva la possibilità di espandere questa unione. Secondo la sua idea, le nuove repubbliche dove la rivoluzione avesse vinto, avrebbero potuto aderire all’unione, e la Russia storica non avrebbe dovuto necessariamente rimanere il perno dell’unione. La stessa Germania avrebbe potuto diventarne il centro, se vi avesse trionfato la rivoluzione proletaria. Come risultato, Lenin aspirava ad un’unione di repubbliche su scala mondiale.
Russia – URSS – URSS Mondiale: raccolta. Autori: soldati dell’Armata Rossa e lavoratori stranieri; Profizdat, 1932
Inoltre, la creazione dell’URSS nel formato del 1922 non era inclusa nei piani originali dei bolscevichi. La sua fondazione è stata il risultato del fallimento delle aspettative iniziali, ovvero la rivoluzione mondiale. Il fatto che la rivoluzione proletaria sia stata sconfitta in Europa e abbia avuto successo solo sul territorio dell’ex impero russo è la principale tragedia del progetto socialista del XX secolo. Infatti, insieme al territorio dell’ex impero, l’URSS ha ereditato molte contraddizioni e problemi di difficile soluzione insiti nel progetto politico statuale attivo precedentemente su queste terre.
La realizzazione del progetto socialista entro i confini dell’ex impero russo naturalmente, sebbene non inevitabilmente, portò al fatto che sia all’interno che all’esterno l’URSS cominciasse a essere percepita come una sorta di erede e continuazione dello stato russo. La conseguenza di ciò fu il ripetersi delle contraddizioni nazionali: ad un certo punto il governo centrale iniziò a percepire il rafforzamento delle culture nazionali e l’indipendenza delle repubbliche come una minaccia all’unità del progetto, e invece la cultura russa e la continuità statale come una sorta di solide fondamenta.
Queste tendenze si sarebbero verificate se i confini dello Stato socialista avessero preso forma in altre configurazioni e non fossero stati simili a quelli della preesistente Russia imperiale? Probabilmente sarebbe stata una storia completamente diversa. Ma nel caso dell’URSS, è accaduto che diverse generazioni di persone sia in patria che all’estero sono cresciute con la convinzione che «Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche» e «Russia» fossero praticamente sinonimi. Putin è uno di questi.
«Dopotutto, cos’è stato il crollo dell’Unione Sovietica? È stato il crollo della Russia storica, definita come Unione Sovietica» — ha dichiarato Vladimir Putin nel documentario «Russia. Storia recente» nel dicembre 2021.
Forse l’unico aspetto positivo che Putin vede nel progetto sovietico è che si è realizzato nei confini dell’ex impero russo e col tempo, allontanandosi dai principi «utopistici» originali, ha acquisito nuovamente alcune delle caratteristiche preesistenti, diventando l’erede della statualità russa. In altre parole, egli esalta proprio i tratti più reazionari acquisiti dall’URSS nel corso della sua complessa formazione. E critica proprio le idee su cui si basava l’unione: uguaglianza e fratellanza tra tutti i popoli, genuino internazionalismo, odio per l’autocrazia e il potere aristocratico, odio per le guerre di conquista e di predazione, un autentico spirito democratico che avrebbe dato accesso alla politica a masse di milioni di persone.
È interessante notare che la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista, nelle interpretazioni su cui è costruito il moderno mito nazionale russo, non sia per Putin una vittoria delle idee di umanesimo ed egualitarismo sulle idee di radicale anti egualitarismo ed anti umanesimo, non sia una vittoria della vittima dell’aggressione sull’aggressore. Nell’attuale mitologia dello stato, questa è la vittoria della «Russia storica» sulla Germania, sull’Europa, sull’Occidente. Un trionfo della statualità russa e l’espansione dei suoi confini. Proprio come la rivoluzione e l’uscita dalla prima guerra mondiale non rappresentano il rifiuto di partecipare al massacro imperialista, ma una vergognosa capitolazione della «Russia storica», un infido coltello nella schiena dello Stato da parte di fanatici utopisti. Un attentato contro lo stato russo, e la sua quasi distruzione.
«I bolscevichi durante la prima guerra mondiale volevano la sconfitta per la loro patria, e quando gli eroici soldati e ufficiali russi versavano sangue sui fronti della prima guerra mondiale, qualcuno scuoteva la Russia dall’interno e si arrivò al punto che la Russia come stato crollò e si dichiarò sconfitta da uno stato sconfitto [la Germania]. Sciocchezze, assurdità, ma intanto è successo, questo è stato un completo tradimento degli interessi nazionali! Ancora oggi tra noi ci sono persone del genere.», — ha detto Putin nell’agosto 2016 al campo giovanile di Seliger.
«La patria è in pericolo. Il sangue che abbiamo versato richiede la guerra per la vittoria. Compagni soldati, subito in trincea. Restituiamo Lenin a Guglielmo» — slogan di una manifestazione antibolscevica a Pietrogrado, aprile 1917
Da queste citazioni, non è difficile indovinare quanto sinceramente Putin incolpi per i guai della Russia la «maledizione della rivoluzione». Se nell’Ucraina contemporanea il progetto sovietico è accusato di portare «troppa Russia», al contrario Putin del progetto sovietico apprezza proprio questo [se non solo questo]. Se in Ucraina si dice che Lenin non ha dato agli ucraini una vera autodeterminazione, Putin lo accusa del contrario: di aver dato troppa libertà all’Ucraina.
Torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio. Perché il discorso programmatico del presidente russo prima dell’invasione è diventato una vera e propria diffamazione della rivoluzione? Perché è proprio nella rivoluzione che egli vede la vera radice delle disavventure della Russia. Ma ormai non si limita più ad accusare Lenin di aver tradito la Russia e di crimini contro l’integrità imperiale del paese. Putin ha deciso che è arrivato il momento di correggere il «peggio degli errori» di Lenin e di revocare il diritto all’autodeterminazione degli ucraini: questa è l’eredità «tre volte maledetta» della rivoluzione.
«Volete la decomunizzazione? Beh, per noi va benissimo. Ma non è necessario, come si suol dire, fermarsi a metà. Siamo pronti a mostrarvi cosa significa la vera decomunizzazione per l’Ucraina»
Il 24 febbraio, i carri armati russi sono entrati nel territorio dell’Ucraina per privare il suo popolo della statualità, uno dei risultati più importanti delle rivoluzioni dell’inizio del secolo scorso.
Traduzione dal russo di Marco Ferrentino
FONTE: https://september.media/ru/articles/antirevolution-ru
di Seymour Hersh (Traduzione dall’originale in inglese)
Il Diving and Salvage Center della Marina degli Stati Uniti si trova in un luogo oscuro come il suo nome, in quello che una volta era un viottolo di campagna nella zona rurale di Panama City, una città di villeggiatura ora in piena espansione nella parte sud-occidentale della penisola di Florida, 70 miglia a sud del confine con l’Alabama. Il complesso che ospita il centro è anonimo come la sua ubicazione: una struttura in cemento scialbo del secondo dopoguerra, che ha l’aspetto di una scuola superiore professionale nella zona ovest di Chicago. Una lavanderia a gettoni e una scuola di danza si trovano dall’altra parte di quella che ora è una strada a quattro corsie.
Il centro ha addestrato per decenni sommozzatori in acque profonde altamente qualificati che, una volta assegnati alle unità militari americane in tutto il mondo, sono in grado di effettuare immersioni tecniche per fare il bene – utilizzando esplosivi C4 per liberare porti e spiagge da detriti e ordigni inesplosi – e il male, come far saltare in aria piattaforme petrolifere straniere, sporcare le valvole di aspirazione delle centrali elettriche sottomarine, distruggere le chiuse di canali di navigazione cruciali. Il centro di Panama City, che vanta la seconda piscina coperta più grande d’America, era il luogo perfetto per reclutare i migliori, e più taciturni, diplomati della scuola di immersione che l’estate scorsa hanno fatto con successo ciò che erano stati autorizzati a fare a 80 metri sotto la superficie del Mar Baltico.
Lo scorso giugno, i sommozzatori della Marina, operando sotto la copertura di un’esercitazione NATO di metà estate ampiamente pubblicizzata, nota come BALTOPS 22, hanno piazzato gli esplosivi innescati a distanza che, tre mesi dopo, hanno distrutto tre dei quattro gasdotti di Nord Stream, secondo una fonte con conoscenza diretta della pianificazione operativa.
Due dei gasdotti, noti collettivamente come Nord Stream 1, hanno fornito alla Germania e a gran parte dell’Europa occidentale gas naturale russo a basso costo per più di un decennio. Una seconda coppia di gasdotti, chiamata Nord Stream 2, era stata costruita ma non era ancora operativa. Ora, con le truppe russe che si stanno ammassando al confine con l’Ucraina e con l’incombere della più sanguinosa guerra in Europa dal 1945, il presidente Joseph Biden vede i gasdotti come un veicolo per Vladimir Putin per armare il gas naturale per le sue ambizioni politiche e territoriali.
Alla richiesta di un commento, Adrienne Watson, portavoce della Casa Bianca, ha risposto in un’e-mail: “Questo è falso e completamente inventato“. Tammy Thorp, portavoce della Central Intelligence Agency, ha scritto allo stesso modo: “Questa affermazione è completamente e totalmente falsa“.
La decisione di Biden di sabotare gli oleodotti è arrivata dopo più di nove mesi di discussioni segretissime all’interno della comunità di sicurezza nazionale di Washington su come raggiungere al meglio l’obiettivo. Per gran parte di quel periodo, il problema non era se compiere o meno la missione, ma come portarla a termine senza alcun indizio evidente su chi fosse il responsabile.
C’era una ragione burocratica vitale per affidarsi ai diplomati della scuola di immersione del centro a Panama City. I sommozzatori erano solo della Marina e non facevano parte del Comando per le operazioni speciali americano, le cui operazioni segrete devono essere riferite al Congresso e comunicate in anticipo alla leadership del Senato e della Camera, la cosiddetta Gang of Eight. L’Amministrazione Biden stava facendo tutto il possibile per evitare fughe di notizie mentre la pianificazione si svolgeva tra la fine del 2021 e i primi mesi del 2022.
Il Presidente Biden e la sua squadra di politica estera – il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, il Segretario di Stato Tony Blinken e Victoria Nuland, il Sottosegretario di Stato per la Politica – avevano manifestato in modo esplicito e coerente la loro ostilità ai due oleodotti, che si snodavano uno accanto all’altro per 750 miglia sotto il Mar Baltico, partendo da due porti diversi nel nord-est della Russia vicino al confine con l’Estonia, passando vicino all’isola danese di Bornholm prima di terminare nella Germania settentrionale.
Il percorso diretto, che evitava qualsiasi transito in Ucraina, era stato una manna per l’economia tedesca, che godeva di un’abbondanza di gas naturale russo a basso costo – sufficiente per far funzionare le fabbriche e riscaldare le case, consentendo ai distributori tedeschi di vendere il gas in eccesso, con profitto, in tutta l’Europa occidentale. Un’azione che potesse essere ricondotta all’amministrazione avrebbe violato le promesse degli Stati Uniti di ridurre al minimo il conflitto diretto con la Russia. La segretezza era essenziale.
Fin dai primi giorni, Nord Stream 1 è stato visto da Washington e dai suoi partner anti-russi della NATO come una minaccia al dominio occidentale. La holding che ne è alla base, la Nord Stream AG, è stata costituita in Svizzera nel 2005 in partnership con Gazprom, una società russa quotata in borsa che produce enormi profitti per gli azionisti ed è dominata da oligarchi noti per essere al soldo di Putin. Gazprom controllava il 51% della società, mentre quattro aziende energetiche europee, una francese, una olandese e due tedesche, condividevano il restante 49% delle azioni e avevano il diritto di controllare le vendite a valle del gas naturale a basso costo ai distributori locali in Germania e in Europa occidentale. I profitti di Gazprom sono stati condivisi con il governo russo e, secondo le stime, in alcuni anni le entrate statali di gas e petrolio sono state pari al 45% del bilancio annuale della Russia.
I timori politici dell’America erano reali: Putin avrebbe avuto un’ulteriore e necessaria fonte di reddito, e la Germania e il resto dell’Europa occidentale sarebbero diventati dipendenti dal gas naturale a basso costo fornito dalla Russia, diminuendo la dipendenza europea dall’America. In realtà, questo è esattamente ciò che è accaduto. Molti tedeschi vedevano il Nord Stream 1 come parte della realizzazione della famosa teoria della Ostpolitik dell’ex cancelliere Willy Brandt, che avrebbe permesso alla Germania del dopoguerra di riabilitare se stessa e le altre nazioni europee distrutte dalla Seconda Guerra Mondiale utilizzando, tra le altre iniziative, il gas russo a basso costo per alimentare un mercato e un’economia commerciale prospera in Europa occidentale.
Il Nord Stream 1 era già abbastanza pericoloso, secondo la NATO e Washington, ma il Nord Stream 2, la cui costruzione è stata completata nel settembre del 2021, se approvato dalle autorità di regolamentazione tedesche, raddoppierebbe la quantità di gas a basso costo disponibile per la Germania e l’Europa occidentale. Il secondo gasdotto fornirebbe inoltre una quantità di gas sufficiente per oltre il 50% del consumo annuale della Germania. Le tensioni tra la Russia e la NATO, sostenute dalla politica estera aggressiva dell’amministrazione Biden, erano in costante aumento.
L’opposizione al Nord Stream 2 è esplosa alla vigilia dell’insediamento di Biden, nel gennaio 2021, quando i repubblicani del Senato, guidati da Ted Cruz del Texas, hanno ripetutamente sollevato la minaccia politica del gas naturale russo a basso costo durante l’udienza di conferma di Blinken come Segretario di Stato. A quel punto un Senato unificato aveva approvato con successo una legge che, come disse Cruz a Blinken, “ha fermato [il gasdotto] sul nascere“. Il governo tedesco, allora guidato da Angela Merkel, avrebbe esercitato enormi pressioni politiche ed economiche per mettere in funzione il secondo gasdotto.
Biden si sarebbe opposto ai tedeschi? Blinken ha risposto di sì, ma ha aggiunto di non aver discusso i dettagli delle opinioni del Presidente entrante. “So che è fermamente convinto che questa sia una cattiva idea, il Nord Stream 2“, ha detto. “So che vorrebbe che usassimo tutti gli strumenti di persuasione che abbiamo per convincere i nostri amici e partner, compresa la Germania, a non andare avanti“.
Pochi mesi dopo, mentre la costruzione del secondo gasdotto si avvicinava al completamento, Biden ha battuto ciglio. Nel maggio dello stesso anno, con un sorprendente dietrofront, l’amministrazione ha rinunciato alle sanzioni contro Nord Stream AG, mentre un funzionario del Dipartimento di Stato ha ammesso che il tentativo di fermare il gasdotto attraverso le sanzioni e la diplomazia era “sempre stato un azzardo“. Dietro le quinte, funzionari dell’amministrazione avrebbero esortato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ormai alle prese con la minaccia di invasione russa, a non criticare la mossa.
Le conseguenze sono state immediate. I repubblicani del Senato, guidati da Cruz, annunciarono un blocco immediato di tutte le nomine di Biden in politica estera e ritardarono l’approvazione della legge annuale sulla difesa per mesi, fino all’autunno. In seguito Politico ha descritto il voltafaccia di Biden sul secondo gasdotto russo come “l’unica decisione, probabilmente più del caotico ritiro militare dall’Afghanistan, che ha messo a rischio l’agenda di Biden“.
L’amministrazione era in difficoltà, nonostante avesse ottenuto una tregua sulla crisi a metà novembre, quando i regolatori energetici tedeschi avevano sospeso l’approvazione del secondo gasdotto Nord Stream. I prezzi del gas naturale hanno subito un’impennata dell’8% nel giro di pochi giorni, tra i crescenti timori in Germania e in Europa che la sospensione del gasdotto e la crescente possibilità di una guerra tra Russia e Ucraina avrebbero portato a un inverno freddo molto indesiderato. A Washington non era chiaro quale fosse la posizione di Olaf Scholz, il cancelliere tedesco appena nominato. Mesi prima, dopo la caduta dell’Afghanistan, Scholtz aveva pubblicamente appoggiato l’appello del presidente francese Emmanuel Macron per una politica estera europea più autonoma in un discorso a Praga, suggerendo chiaramente una minore dipendenza da Washington e dalle sue azioni mercuriali.
In tutto questo, le truppe russe si sono costantemente e minacciosamente accumulate ai confini dell’Ucraina e alla fine di dicembre più di 100.000 soldati erano in grado di colpire dalla Bielorussia e dalla Crimea. A Washington cresceva l’allarme, compresa una valutazione di Blinken secondo cui il numero di truppe avrebbe potuto essere “raddoppiato in breve tempo”.
L’attenzione dell’amministrazione si concentrava ancora una volta sul Nord Stream. Finché l’Europa continuerà a dipendere dal gasdotto per ottenere gas naturale a basso costo, Washington temeva che Paesi come la Germania sarebbero stati riluttanti a fornire all’Ucraina il denaro e le armi necessarie per sconfiggere la Russia.
È stato in questo momento di incertezza che Biden ha autorizzato Jake Sullivan a riunire un gruppo di agenzie per elaborare un piano.
Tutte le opzioni dovevano essere messe sul tavolo. Ma solo una sarebbe emersa.
Nel dicembre del 2021, due mesi prima che i primi carri armati russi entrassero in Ucraina, Jake Sullivan convocò una riunione di una task force appena costituita – uomini e donne dello Stato Maggiore, della CIA, dei Dipartimenti di Stato e del Tesoro – e chiese raccomandazioni su come rispondere all’imminente invasione di Putin.
Sarebbe stata la prima di una serie di riunioni top-secret, in una stanza sicura all’ultimo piano dell’Old Executive Office Building, adiacente alla Casa Bianca, che era anche la sede del President’s Foreign Intelligence Advisory Board (PFIAB). Ci furono i soliti botta e risposta che alla fine portarono a una domanda preliminare cruciale: la raccomandazione trasmessa dal gruppo al Presidente sarebbe stata reversibile – come un altro strato di sanzioni e restrizioni valutarie – o irreversibile – cioè azioni cinetiche, che non avrebbero potuto essere annullate?
Secondo la fonte a conoscenza diretta del processo, ciò che è apparso chiaro ai partecipanti è che Sullivan intendeva che il gruppo elaborasse un piano per la distruzione dei due gasdotti Nord Stream e che stava realizzando i desideri del Presidente.
Nel corso delle successive riunioni, i partecipanti discussero le opzioni per un attacco. La Marina propose di utilizzare un sottomarino di recente costruzione per attaccare direttamente l’oleodotto. L’aeronautica discuteva di sganciare bombe con spolette ritardate che potessero essere innescate a distanza. La CIA sosteneva che qualsiasi cosa si facesse, avrebbe dovuto essere segreta. Tutti i partecipanti capirono la posta in gioco. “Non è roba da bambini“, ha detto la fonte. Se l’attacco fosse riconducibile agli Stati Uniti, “sarebbe un atto di guerra“.
All’epoca, la CIA era diretta da William Burns, un mite ex ambasciatore in Russia che era stato vice segretario di Stato nell’amministrazione Obama. Burns autorizzò rapidamente un gruppo di lavoro dell’Agenzia i cui membri ad hoc includevano, guarda caso, qualcuno che conosceva le capacità dei sommozzatori della Marina a Panama City. Nelle settimane successive, i membri del gruppo di lavoro della CIA iniziarono a elaborare un piano per un’operazione segreta che avrebbe utilizzato i sommozzatori per innescare un’esplosione lungo l’oleodotto.
Qualcosa di simile era già stato fatto in passato. Nel 1971, la comunità dei servizi segreti americani apprese da fonti ancora non rivelate che due importanti unità della Marina russa comunicavano attraverso un cavo sottomarino interrato nel Mare di Okhotsk, sulla costa dell’Estremo Oriente russo. Il cavo collegava un comando regionale della Marina al quartier generale continentale di Vladivostok.
Un gruppo scelto di agenti della Central Intelligence Agency e della National Security Agency fu riunito da qualche parte nell’area di Washington, sotto copertura, ed elaborò un piano, utilizzando sommozzatori della Marina, sottomarini modificati e un veicolo di salvataggio sottomarino, che riuscì, dopo molti tentativi ed errori, a localizzare il cavo russo. I sommozzatori hanno piazzato sul cavo un sofisticato dispositivo di ascolto che ha intercettato con successo il traffico russo e lo ha registrato su un sistema di registrazione.
L’NSA ha appreso che gli alti ufficiali della marina russa, convinti della sicurezza del loro collegamento, chiacchieravano con i loro colleghi senza crittografia. Il dispositivo di registrazione e il nastro dovevano essere sostituiti mensilmente e il progetto andò avanti allegramente per un decennio, finché non fu compromesso da un tecnico civile della NSA di quarantaquattro anni, Ronald Pelton, che parlava correntemente il russo. Pelton fu tradito da un disertore russo nel 1985 e condannato alla prigione. I russi gli pagarono solo 5.000 dollari per le sue rivelazioni sull’operazione, oltre a 35.000 dollari per altri dati operativi russi da lui forniti che non furono mai resi pubblici.
Quel successo subacqueo, chiamato in codice Ivy Bells, fu innovativo e rischioso e produsse informazioni preziose sulle intenzioni e sulla pianificazione della Marina russa.
Tuttavia, il gruppo interagenzie era inizialmente scettico sull’entusiasmo della CIA per un attacco segreto in acque profonde. C’erano troppe domande senza risposta. Le acque del Mar Baltico erano pesantemente pattugliate dalla marina russa e non c’erano piattaforme petrolifere che potessero essere usate come copertura per un’operazione subacquea. I sommozzatori sarebbero dovuti andare in Estonia, proprio al di là del confine con le banchine di carico del gas naturale della Russia, per addestrarsi alla missione? “Sarebbe un’errore catastrofico“, è stato detto all’Agenzia.
Nel corso di “tutti questi piani“, ha raccontato la fonte, alcuni funzionari della CIA e del Dipartimento di Stato dicevano: “Non fatelo. È stupido e sarà un incubo politico se verrà fuori“.
Tuttavia, all’inizio del 2022, il gruppo di lavoro della CIA riferì al gruppo interagenzie di Sullivan: “Abbiamo un modo per far saltare gli oleodotti“.
Ciò che seguì fu sbalorditivo. Il 7 febbraio, meno di tre settimane prima dell’apparentemente inevitabile invasione russa dell’Ucraina, Biden incontrò nel suo ufficio alla Casa Bianca il cancelliere tedesco Olaf Scholz che, dopo qualche tentennamento, era ora saldamente nella squadra americana. Durante il briefing con la stampa che ne è seguito, Biden ha dichiarato con tono di sfida: “Se la Russia invade… non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a tutto questo“.
Venti giorni prima, il Sottosegretario Nuland aveva trasmesso essenzialmente lo stesso messaggio in un briefing del Dipartimento di Stato, con poca copertura da parte della stampa. “Voglio essere molto chiara con voi oggi“, ha detto in risposta a una domanda. “Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o nell’altro il Nord Stream 2 non andrà avanti“.
Molti di coloro che hanno partecipato alla pianificazione della missione del gasdotto sono rimasti sconcertati da quelli che hanno considerato come riferimenti indiretti all’attacco.
“È stato come mettere una bomba atomica a Tokyo e dire ai giapponesi che la faremo esplodere“, ha detto la fonte. “Il piano prevedeva che le opzioni fossero eseguite dopo l’invasione e non pubblicizzate pubblicamente. Biden semplicemente non l’ha capito o l’ha ignorato“.
L’indiscrezione di Biden e della Nuland, se di questo si tratta, potrebbe aver frustrato alcuni dei pianificatori. Ma ha anche creato un’opportunità. Secondo la fonte, alcuni alti funzionari della CIA hanno stabilito che far saltare il gasdotto “non poteva più essere considerata un’opzione segreta perché il Presidente aveva appena annunciato che sapevamo come farlo“.
Il piano per far esplodere Nord Stream 1 e 2 è stato improvvisamente declassato da un’operazione segreta che richiedeva l’informazione del Congresso a un’operazione di intelligence altamente classificata con il supporto militare degli Stati Uniti. Secondo la legge, ha spiegato la fonte, “non c’era più l’obbligo legale di riferire l’operazione al Congresso. Tutto ciò che dovevano fare ora era farlo e basta, ma doveva essere ancora segreto. I russi hanno una sorveglianza superlativa del Mar Baltico“.
I membri del gruppo di lavoro dell’Agenzia non avevano contatti diretti con la Casa Bianca e non vedevano l’ora di scoprire se il Presidente intendesse davvero quello che aveva detto, cioè se la missione fosse ormai avviata. La fonte ha ricordato: “Bill Burns torna e dice: ‘Fatelo’“.
La Norvegia era il luogo perfetto per la missione.
Negli ultimi anni di crisi Est-Ovest, le forze armate statunitensi hanno ampliato notevolmente la loro presenza in Norvegia, il cui confine occidentale corre per 1.400 miglia lungo l’Oceano Atlantico settentrionale e si fonde sopra il Circolo Polare Artico con la Russia. Il Pentagono ha creato posti di lavoro e contratti molto remunerativi, tra qualche polemica locale, investendo centinaia di milioni di dollari per aggiornare ed espandere le strutture della Marina e dell’Aeronautica americane in Norvegia. Le nuove opere comprendevano, soprattutto, un radar ad apertura sintetica avanzato, in grado di penetrare in profondità in Russia, entrato in funzione proprio quando la comunità di intelligence americana ha perso l’accesso a una serie di siti di ascolto a lungo raggio all’interno della Cina.
Una base sottomarina americana recentemente ristrutturata, in costruzione da anni, è diventata operativa e più sottomarini americani sono ora in grado di lavorare a stretto contatto con i loro colleghi norvegesi per monitorare e spiare un’importante ridotta nucleare russa a 400 chilometri a est, nella penisola di Kola. L’America ha anche ampliato notevolmente una base aerea norvegese nel nord e ha consegnato alle forze aeree norvegesi una flotta di aerei da pattugliamento P8 Poseidon, costruiti dalla Boeing, per rafforzare lo spionaggio a lungo raggio di tutto ciò che riguarda la Russia.
In cambio, il governo norvegese ha fatto arrabbiare i liberali e alcuni moderati del suo parlamento lo scorso novembre, approvando l’Accordo supplementare di cooperazione per la difesa (SDCA). In base al nuovo accordo, in alcune “aree concordate” del Nord, il sistema giuridico statunitense avrà giurisdizione sui soldati americani accusati di crimini fuori dalla base, nonché sui cittadini norvegesi accusati o sospettati di interferire con il lavoro della base.
La Norvegia è stata uno dei firmatari originari del Trattato NATO nel 1949, agli inizi della Guerra Fredda. Oggi, il comandante supremo della NATO è Jens Stoltenberg, un convinto anticomunista, che è stato primo ministro norvegese per otto anni prima di passare alla sua alta carica alla NATO, con il sostegno americano, nel 2014. Si trattava di un duro su tutto ciò che riguardava Putin e la Russia, che aveva collaborato con la comunità di intelligence americana fin dai tempi della guerra del Vietnam. Da allora si è fidato completamente di lui. “È il guanto che si adatta alla mano americana“, ha detto la fonte.
A Washington i pianificatori sapevano che dovevano andare in Norvegia. “Odiavano i russi e la marina norvegese era piena di marinai e sommozzatori eccellenti, con generazioni di esperienza nell’esplorazione di petrolio e gas in acque profonde altamente redditizie“, ha detto la fonte. Inoltre ci si poteva fidare di loro per mantenere la missione segreta. (I norvegesi potrebbero aver avuto anche altri interessi. La distruzione di Nord Stream, se gli americani riuscissero a portarla a termine, permetterebbe alla Norvegia di vendere una quantità molto maggiore di gas naturale all’Europa).
A marzo, alcuni membri del team sono andati in Norvegia per incontrare i servizi segreti e la marina norvegese. Una delle domande chiave era dove esattamente nel Mar Baltico fosse il posto migliore per piazzare gli esplosivi. Nord Stream 1 e 2, ciascuno con due serie di condotte, erano separati per gran parte del percorso da poco più di un miglio, mentre si dirigevano verso il porto di Greifswald, nell’estremo nord-est della Germania.
La marina norvegese è stata rapida nel trovare il punto giusto, nelle acque poco profonde del Mar Baltico, a poche miglia dall’isola danese di Bornholm. Le condutture correvano a più di un miglio di distanza l’una dall’altra su un fondale profondo solo 80 metri. Si trattava di un’area ben raggiungibile dai sommozzatori che, operando da un cacciamine norvegese della classe Alta, si sarebbero immersi con una miscela di ossigeno, azoto ed elio che usciva dalle loro bombole e avrebbero piazzato cariche di C4 sagomate sulle quattro condutture con coperture protettive in cemento. Sarebbe stato un lavoro noioso, lungo e pericoloso, ma le acque al largo di Bornholm avevano un altro vantaggio: non c’erano grandi correnti di marea, che avrebbero reso il compito di immergersi molto più difficile.
Dopo un po’ di ricerche, gli americani erano tutti d’accordo.
A questo punto entrò di nuovo in gioco l’oscuro gruppo di immersione profonda della Marina a Panama City. Le scuole d’altura di Panama City, i cui allievi hanno partecipato a Ivy Bells, sono viste come un’indesiderata zona d’ombra dall’élite dei diplomati dell’Accademia Navale di Annapolis, che di solito cercano la gloria di essere assegnati come Seal, piloti di caccia o sommergibilisti. Se uno deve diventare una “scarpa nera“, cioè un membro del meno desiderabile comando di navi di superficie, c’è sempre almeno un incarico su un cacciatorpediniere, un incrociatore o una nave anfibia. La meno affascinante di tutte è la guerra di mine. I suoi sommozzatori non appaiono mai nei film di Hollywood o sulle copertine delle riviste popolari.
“I migliori sommozzatori con qualifiche di immersione profonda sono una comunità ristretta e solo i migliori vengono reclutati per l’operazione e viene detto loro di prepararsi a essere convocati dalla CIA a Washington“, ha detto la fonte.
I norvegesi e gli americani avevano il luogo e gli operatori, ma c’era un’altra preoccupazione: qualsiasi attività subacquea insolita nelle acque al largo di Bornholm avrebbe potuto attirare l’attenzione della marina svedese o danese, che avrebbe potuto segnalarla.
La Danimarca era stata anche uno dei primi firmatari della NATO ed era nota nella comunità dei servizi segreti per i suoi legami speciali con il Regno Unito. La Svezia aveva presentato domanda di adesione alla NATO e aveva dimostrato una grande abilità nel gestire i suoi sistemi di sensori sonori e magnetici sottomarini che riuscivano a rintracciare con successo i sottomarini russi che di tanto in tanto comparivano nelle acque remote dell’arcipelago svedese e venivano costretti a salire in superficie.
I norvegesi si sono uniti agli americani insistendo sul fatto che alcuni alti funzionari in Danimarca e Svezia dovevano essere informati in termini generali sulle possibili attività subacquee nell’area. In questo modo, qualcuno più in alto poteva intervenire e tenere un rapporto fuori dalla catena di comando, isolando così l’operazione del gasdotto. “Quello che veniva detto loro e quello che sapevano erano volutamente diversi“, mi ha detto la fonte (l’ambasciata norvegese, interpellata per commentare questa storia, non ha risposto).
I norvegesi sono stati fondamentali per risolvere altri ostacoli. Si sapeva che la marina russa possedeva una tecnologia di sorveglianza in grado di individuare e innescare le mine sottomarine. I dispositivi esplosivi americani dovevano essere camuffati in modo da apparire al sistema russo come parte dello sfondo naturale, cosa che richiedeva un adattamento alla salinità specifica dell’acqua. I norvegesi avevano una soluzione.
I norvegesi avevano anche una soluzione alla questione cruciale di quando l’operazione avrebbe dovuto avere luogo. Ogni giugno, negli ultimi 21 anni, la Sesta Flotta americana, la cui nave ammiraglia è basata a Gaeta, in Italia, a sud di Roma, ha sponsorizzato una grande esercitazione della NATO nel Mar Baltico che coinvolge decine di navi alleate in tutta la regione. L’esercitazione, che si sarebbe tenuta a giugno, era nota come Baltic Operations 22, o BALTOPS 22. I norvegesi hanno proposto che questa fosse la copertura ideale per piazzare le mine.
Gli americani hanno fornito un elemento fondamentale: hanno convinto i pianificatori della Sesta Flotta ad aggiungere al programma un’esercitazione di ricerca e sviluppo. L’esercitazione, come reso noto dalla Marina, coinvolgeva la Sesta Flotta in collaborazione con i “centri di ricerca e di guerra” della Marina. L’evento in mare si sarebbe svolto al largo delle coste dell’isola di Bornholm e avrebbe coinvolto squadre di sommozzatori della NATO che avrebbero piazzato mine, mentre le squadre concorrenti avrebbero utilizzato le più recenti tecnologie subacquee per trovarle e distruggerle.
Si trattava di un esercizio utile e di una copertura ingegnosa. I ragazzi di Panama City avrebbero fatto il loro dovere e gli esplosivi C4 sarebbero stati posizionati entro la fine di BALTOPS22, con un timer di 48 ore. Tutti gli americani e i norvegesi sarebbero spariti prima della prima esplosione.
I giorni erano contati. “Il tempo scorreva e ci stavamo avvicinando alla missione compiuta“, ha detto la fonte.
E poi: Washington ebbe un ripensamento. Le bombe sarebbero state comunque piazzate durante BALTOPS, ma la Casa Bianca temeva che una finestra di due giorni per la loro detonazione sarebbe stata troppo vicina alla fine dell’esercitazione e che sarebbe stato evidente il coinvolgimento dell’America.
La Casa Bianca ha invece avanzato una nuova richiesta: “I ragazzi sul campo possono trovare un modo per far esplodere gli oleodotti più tardi, a comando?”.
Alcuni membri del team di pianificazione erano irritati e frustrati dall’apparente indecisione del Presidente. I sommozzatori di Panama City si erano ripetutamente esercitati a piazzare il C4 sulle condutture, come avrebbero fatto durante BALTOPS, ma ora la squadra in Norvegia doveva trovare un modo per dare a Biden ciò che voleva: la possibilità di emettere un ordine di esecuzione di successo in un momento a sua scelta.
Essere incaricati di un cambiamento arbitrario dell’ultimo minuto era qualcosa che la CIA era abituata a gestire. Ma ha anche rinnovato le preoccupazioni di alcuni sulla necessità e la legalità dell’intera operazione.
Gli ordini segreti del Presidente evocavano anche il dilemma della CIA ai tempi della guerra del Vietnam, quando il Presidente Johnson, di fronte al crescente sentimento contrario alla guerra del Vietnam, ordinò all’Agenzia di violare il suo statuto – che le impediva specificamente di operare all’interno dell’America – spiando i leader contrari alla guerra per determinare se fossero controllati dalla Russia comunista.
L’Agenzia alla fine acconsentì, e nel corso degli anni Settanta divenne chiaro fino a che punto fosse disposta a spingersi. All’indomani degli scandali Watergate, i giornali rivelarono che l’Agenzia spiava i cittadini americani, era coinvolta nell’assassinio di leader stranieri e aveva minato il governo socialista di Salvador Allende.
Queste rivelazioni portarono a una drammatica serie di audizioni a metà degli anni ’70 al Senato, guidate da Frank Church dell’Idaho, che chiarirono che Richard Helms, l’allora direttore dell’Agenzia, accettava l’obbligo di fare ciò che il Presidente voleva, anche se ciò significava violare la legge.
In una testimonianza inedita e a porte chiuse, Helms ha spiegato con amarezza che “si ha quasi un’Immacolata Concezione quando si fa qualcosa” su ordine segreto di un Presidente. “Che sia giusto che sia così o che sia sbagliato che sia così, [la CIA] lavora secondo regole e norme di base diverse da qualsiasi altra parte del governo”. In sostanza, stava dicendo ai senatori che lui, come capo della CIA, aveva capito di lavorare per la Corona e non per la Costituzione.
Gli americani al lavoro in Norvegia operavano secondo la stessa dinamica e iniziarono doverosamente a lavorare sul nuovo problema: come far esplodere a distanza l’esplosivo C4 su ordine di Biden. Si trattava di un compito molto più impegnativo di quanto non avessero capito a Washington. La squadra in Norvegia non aveva modo di sapere quando il Presidente avrebbe premuto il pulsante. Sarebbe stato tra poche settimane, tra molti mesi o tra mezzo anno o più?
Il C4 collegato agli oleodotti sarebbe stato attivato da una boa sonar sganciata da un aereo con breve preavviso, ma la procedura richiedeva la più avanzata tecnologia di elaborazione dei segnali. Una volta posizionati, i dispositivi di temporizzazione ritardata attaccati a uno qualsiasi dei quattro gasdotti potrebbero essere accidentalmente attivati dalla complessa miscela di rumori di fondo dell’oceano in tutto il Mar Baltico, molto trafficato, provenienti da navi vicine e lontane, trivellazioni sottomarine, eventi sismici, onde e persino creature marine. Per evitare ciò, la boa sonar, una volta posizionata, emetterebbe una sequenza di suoni tonali unici a bassa frequenza – simili a quelli emessi da un flauto o da un pianoforte – che verrebbero riconosciuti dal dispositivo di temporizzazione e, dopo un ritardo di ore prestabilito, innescherebbero gli esplosivi. (“Si vuole un segnale abbastanza robusto, in modo che nessun altro segnale possa accidentalmente inviare un impulso che faccia esplodere gli esplosivi”, mi ha detto il dottor Theodore Postol, professore emerito di scienza, tecnologia e politica di sicurezza nazionale al MIT. Postol, che è stato consulente scientifico del capo delle operazioni navali del Pentagono, ha detto che il problema che il gruppo in Norvegia deve affrontare a causa del ritardo di Biden è una questione di probabilità: “Più a lungo gli esplosivi rimangono in acqua, maggiore è il rischio che un segnale casuale possa innescare le ordigni”).
Il 26 settembre 2022, un aereo di sorveglianza P8 della Marina norvegese effettuò un volo apparentemente di routine e sganciò una boa sonar. Il segnale si diffuse sott’acqua, inizialmente fino a Nord Stream 2 e poi fino a Nord Stream 1. Poche ore dopo, gli esplosivi C4 ad alta potenza sono stati innescati e tre dei quattro gasdotti sono stati messi fuori uso. Nel giro di pochi minuti, è stato possibile vedere le pozze di gas metano rimaste nelle condutture chiuse diffondersi sulla superficie dell’acqua e il mondo ha capito che era avvenuto qualcosa di irreversibile.
All’indomani dell’attentato all’oleodotto, i media americani l’hanno trattato come un mistero irrisolto. La Russia è stata ripetutamente citata come probabile colpevole, spinta da calcolate fughe di notizie dalla Casa Bianca, ma senza mai stabilire un chiaro motivo per un tale atto di autosabotaggio, al di là della semplice vendetta. Pochi mesi dopo, quando è emerso che le autorità russe si erano procurate in sordina i preventivi di spesa per la riparazione degli oleodotti, il New York Times ha descritto la notizia come ” una complicazione delle teorie su chi ci fosse dietro” l’attacco. Nessun grande giornale americano ha approfondito le precedenti minacce agli oleodotti avanzate da Biden e dal sottosegretario di Stato Nuland.
Sebbene non sia mai stato chiaro il motivo per cui la Russia avrebbe cercato di distruggere il proprio lucroso oleodotto, una motivazione più eloquente per l’azione del Presidente è venuta dal Segretario di Stato Blinken.
Interrogato in una conferenza stampa dello scorso settembre sulle conseguenze dell’aggravarsi della crisi energetica in Europa occidentale, Blinken ha descritto il momento come potenzialmente positivo:
“È un’opportunità straordinaria per eliminare una volta per tutte la dipendenza dall’energia russa e quindi per togliere a Vladimir Putin la possibilità di usare l’energia come strumento per portare avanti i suoi progetti imperiali. Questo è molto significativo e offre un’enorme opportunità strategica per gli anni a venire, ma nel frattempo siamo determinati a fare tutto il possibile per assicurarci che le conseguenze di tutto questo non siano sopportate dai cittadini dei nostri Paesi o, se è per questo, di tutto il mondo”.
Più di recente, Victoria Nuland ha espresso soddisfazione per la scomparsa del più recente degli oleodotti. Alla fine di gennaio, in occasione di un’audizione della Commissione Esteri del Senato, ha dichiarato al senatore Ted Cruz: “Come lei, sono molto soddisfatta, e credo che lo sia anche l’Amministrazione, di sapere che Nord Stream 2 è ora, come lei ama dire, un pezzo di metallo in fondo al mare”.
La fonte aveva una visione molto più spicciola della decisione di Biden di sabotare più di 1500 miglia di gasdotto di Gazprom all’approssimarsi dell’inverno. “Beh”, ha detto, parlando del Presidente, “devo ammettere che il ragazzo ha un paio di palle. Ha detto che l’avrebbe fatto e l’ha fatto”.
Alla domanda sul perché pensasse che i russi non avessero risposto, ha risposto cinicamente: “Forse vogliono avere la capacità di fare le stesse cose che hanno fatto gli Stati Uniti”.
“Era una bella storia di copertura”, ha proseguito. “Dietro c’era un’operazione segreta che prevedeva la presenza di esperti sul campo e di apparecchiature che operavano su un segnale segreto.
“L’unico difetto era la decisione di farlo”.
FONTE ORIGINALE: https://seymourhersh.substack.com/p/how-america-took-out-the-nord-stream
by Seymour Hersh
The U.S. Navy’s Diving and Salvage Center can be found in a location as obscure as its name—down what was once a country lane in rural Panama City, a now-booming resort city in the southwestern panhandle of Florida, 70 miles south of the Alabama border. The center’s complex is as nondescript as its location—a drab concrete post-World War II structure that has the look of a vocational high school on the west side of Chicago. A coin-operated laundromat and a dance school are across what is now a four-lane road.
The center has been training highly skilled deep-water divers for decades who, once assigned to American military units worldwide, are capable of technical diving to do the good—using C4 explosives to clear harbors and beaches of debris and unexploded ordinance—as well as the bad, like blowing up foreign oil rigs, fouling intake valves for undersea power plants, destroying locks on crucial shipping canals. The Panama City center, which boasts the second largest indoor pool in America, was the perfect place to recruit the best, and most taciturn, graduates of the diving school who successfully did last summer what they had been authorized to do 260 feet under the surface of the Baltic Sea.
Last June, the Navy divers, operating under the cover of a widely publicized mid-summer NATO exercise known as BALTOPS 22, planted the remotely triggered explosives that, three months later, destroyed three of the four Nord Stream pipelines, according to a source with direct knowledge of the operational planning.
Two of the pipelines, which were known collectively as Nord Stream 1, had been providing Germany and much of Western Europe with cheap Russian natural gas for more than a decade. A second pair of pipelines, called Nord Stream 2, had been built but were not yet operational. Now, with Russian troops massing on the Ukrainian border and the bloodiest war in Europe since 1945 looming, President Joseph Biden saw the pipelines as a vehicle for Vladimir Putin to weaponize natural gas for his political and territorial ambitions.
Asked for comment, Adrienne Watson, a White House spokesperson, said in an email, “This is false and complete fiction.” Tammy Thorp, a spokesperson for the Central Intelligence Agency, similarly wrote: “This claim is completely and utterly false.”
Biden’s decision to sabotage the pipelines came after more than nine months of highly secret back and forth debate inside Washington’s national security community about how to best achieve that goal. For much of that time, the issue was not whether to do the mission, but how to get it done with no overt clue as to who was responsible.
There was a vital bureaucratic reason for relying on the graduates of the center’s hardcore diving school in Panama City. The divers were Navy only, and not members of America’s Special Operations Command, whose covert operations must be reported to Congress and briefed in advance to the Senate and House leadership—the so-called Gang of Eight. The Biden Administration was doing everything possible to avoid leaks as the planning took place late in 2021 and into the first months of 2022.
President Biden and his foreign policy team—National Security Adviser Jake Sullivan, Secretary of State Tony Blinken, and Victoria Nuland, the Undersecretary of State for Policy—had been vocal and consistent in their hostility to the two pipelines, which ran side by side for 750 miles under the Baltic Sea from two different ports in northeastern Russia near the Estonian border, passing close to the Danish island of Bornholm before ending in northern Germany.
The direct route, which bypassed any need to transit Ukraine, had been a boon for the German economy, which enjoyed an abundance of cheap Russian natural gas—enough to run its factories and heat its homes while enabling German distributors to sell excess gas, at a profit, throughout Western Europe. Action that could be traced to the administration would violate US promises to minimize direct conflict with Russia. Secrecy was essential.
From its earliest days, Nord Stream 1 was seen by Washington and its anti-Russian NATO partners as a threat to western dominance. The holding company behind it, Nord Stream AG, was incorporated in Switzerland in 2005 in partnership with Gazprom, a publicly traded Russian company producing enormous profits for shareholders which is dominated by oligarchs known to be in the thrall of Putin. Gazprom controlled 51 percent of the company, with four European energy firms—one in France, one in the Netherlands and two in Germany—sharing the remaining 49 percent of stock, and having the right to control downstream sales of the inexpensive natural gas to local distributors in Germany and Western Europe. Gazprom’s profits were shared with the Russian government, and state gas and oil revenues were estimated in some years to amount to as much as 45 percent of Russia’s annual budget.
America’s political fears were real: Putin would now have an additional and much-needed major source of income, and Germany and the rest of Western Europe would become addicted to low-cost natural gas supplied by Russia—while diminishing European reliance on America. In fact, that’s exactly what happened. Many Germans saw Nord Stream 1 as part of the deliverance of former Chancellor Willy Brandt’s famed Ostpolitik theory, which would enable postwar Germany to rehabilitate itself and other European nations destroyed in World War II by, among other initiatives, utilizing cheap Russian gas to fuel a prosperous Western European market and trading economy.
Nord Stream 1 was dangerous enough, in the view of NATO and Washington, but Nord Stream 2, whose construction was completed in September of 2021, would, if approved by German regulators, double the amount of cheap gas that would be available to Germany and Western Europe. The second pipeline also would provide enough gas for more than 50 percent of Germany’s annual consumption. Tensions were constantly escalating between Russia and NATO, backed by the aggressive foreign policy of the Biden Administration.
Opposition to Nord Stream 2 flared on the eve of the Biden inauguration in January 2021, when Senate Republicans, led by Ted Cruz of Texas, repeatedly raised the political threat of cheap Russian natural gas during the confirmation hearing of Blinken as Secretary of State. By then a unified Senate had successfully passed a law that, as Cruz told Blinken, “halted [the pipeline] in its tracks.” There would be enormous political and economic pressure from the German government, then headed by Angela Merkel, to get the second pipeline online.
Would Biden stand up to the Germans? Blinken said yes, but added that he had not discussed the specifics of the incoming President’s views. “I know his strong conviction that this is a bad idea, the Nord Stream 2,” he said. “I know that he would have us use every persuasive tool that we have to convince our friends and partners, including Germany, not to move forward with it.”
A few months later, as the construction of the second pipeline neared completion, Biden blinked. That May, in a stunning turnaround, the administration waived sanctions against Nord Stream AG, with a State Department official conceding that trying to stop the pipeline through sanctions and diplomacy had “always been a long shot.” Behind the scenes, administration officials reportedly urged Ukrainian President Volodymyr Zelensky, by then facing a threat of Russian invasion, not to criticize the move.
There were immediate consequences. Senate Republicans, led by Cruz, announced an immediate blockade of all of Biden’s foreign policy nominees and delayed passage of the annual defense bill for months, deep into the fall. Politico later depicted Biden’s turnabout on the second Russian pipeline as “the one decision, arguably more than the chaotic military withdrawal from Afghanistan, that has imperiled Biden’s agenda.”
The administration was floundering, despite getting a reprieve on the crisis in mid-November, when Germany’s energy regulators suspended approval of the second Nord Stream pipeline. Natural gas prices surged 8% within days, amid growing fears in Germany and Europe that the pipeline suspension and the growing possibility of a war between Russia and Ukraine would lead to a very much unwanted cold winter. It was not clear to Washington just where Olaf Scholz, Germany’s newly appointed chancellor, stood. Months earlier, after the fall of Afghanistan, Scholtz had publicly endorsed French President Emmanuel Macron’s call for a more autonomous European foreign policy in a speech in Prague—clearly suggesting less reliance on Washington and its mercurial actions.
Throughout all of this, Russian troops had been steadily and ominously building up on the borders of Ukraine, and by the end of December more than 100,000 soldiers were in position to strike from Belarus and Crimea. Alarm was growing in Washington, including an assessment from Blinken that those troop numbers could be “doubled in short order.”
The administration’s attention once again was focused on Nord Stream. As long as Europe remained dependent on the pipelines for cheap natural gas, Washington was afraid that countries like Germany would be reluctant to supply Ukraine with the money and weapons it needed to defeat Russia.
It was at this unsettled moment that Biden authorized Jake Sullivan to bring together an interagency group to come up with a plan.
All options were to be on the table. But only one would emerge.
PLANNING
In December of 2021, two months before the first Russian tanks rolled into Ukraine, Jake Sullivan convened a meeting of a newly formed task force—men and women from the Joint Chiefs of Staff, the CIA, and the State and Treasury Departments—and asked for recommendations about how to respond to Putin’s impending invasion.
It would be the first of a series of top-secret meetings, in a secure room on a top floor of the Old Executive Office Building, adjacent to the White House, that was also the home of the President’s Foreign Intelligence Advisory Board (PFIAB). There was the usual back and forth chatter that eventually led to a crucial preliminary question: Would the recommendation forwarded by the group to the President be reversible—such as another layer of sanctions and currency restrictions—or irreversible—that is, kinetic actions, which could not be undone?
What became clear to participants, according to the source with direct knowledge of the process, is that Sullivan intended for the group to come up with a plan for the destruction of the two Nord Stream pipelines—and that he was delivering on the desires of the President.
Over the next several meetings, the participants debated options for an attack. The Navy proposed using a newly commissioned submarine to assault the pipeline directly. The Air Force discussed dropping bombs with delayed fuses that could be set off remotely. The CIA argued that whatever was done, it would have to be covert. Everyone involved understood the stakes. “This is not kiddie stuff,” the source said. If the attack were traceable to the United States, “It’s an act of war.”
At the time, the CIA was directed by William Burns, a mild-mannered former ambassador to Russia who had served as deputy secretary of state in the Obama Administration. Burns quickly authorized an Agency working group whose ad hoc members included—by chance—someone who was familiar with the capabilities of the Navy’s deep-sea divers in Panama City. Over the next few weeks, members of the CIA’s working group began to craft a plan for a covert operation that would use deep-sea divers to trigger an explosion along the pipeline.
Something like this had been done before. In 1971, the American intelligence community learned from still undisclosed sources that two important units of the Russian Navy were communicating via an undersea cable buried in the Sea of Okhotsk, on Russia’s Far East Coast. The cable linked a regional Navy command to the mainland headquarters at Vladivostok.
A hand-picked team of Central Intelligence Agency and National Security Agency operatives was assembled somewhere in the Washington area, under deep cover, and worked out a plan, using Navy divers, modified submarines and a deep-submarine rescue vehicle, that succeeded, after much trial and error, in locating the Russian cable. The divers planted a sophisticated listening device on the cable that successfully intercepted the Russian traffic and recorded it on a taping system.
The NSA learned that senior Russian navy officers, convinced of the security of their communication link, chatted away with their peers without encryption. The recording device and its tape had to be replaced monthly and the project rolled on merrily for a decade until it was compromised by a forty-four-year-old civilian NSA technician named Ronald Pelton who was fluent in Russian. Pelton was betrayed by a Russian defector in 1985 and sentenced to prison. He was paid just $5,000 by the Russians for his revelations about the operation, along with $35,000 for other Russian operational data he provided that was never made public.
That underwater success, codenamed Ivy Bells, was innovative and risky, and produced invaluable intelligence about the Russian Navy’s intentions and planning.
Still, the interagency group was initially skeptical of the CIA’s enthusiasm for a covert deep-sea attack. There were too many unanswered questions. The waters of the Baltic Sea were heavily patrolled by the Russian navy, and there were no oil rigs that could be used as cover for a diving operation. Would the divers have to go to Estonia, right across the border from Russia’s natural gas loading docks, to train for the mission? “It would be a goat fuck,” the Agency was told.
Throughout “all of this scheming,” the source said, “some working guys in the CIA and the State Department were saying, ‘Don’t do this. It’s stupid and will be a political nightmare if it comes out.’”
Nevertheless, in early 2022, the CIA working group reported back to Sullivan’s interagency group: “We have a way to blow up the pipelines.”
What came next was stunning. On February 7, less than three weeks before the seemingly inevitable Russian invasion of Ukraine, Biden met in his White House office with German Chancellor Olaf Scholz, who, after some wobbling, was now firmly on the American team. At the press briefing that followed, Biden defiantly said, “If Russia invades . . . there will be no longer a Nord Stream 2. We will bring an end to it.”
Twenty days earlier, Undersecretary Nuland had delivered essentially the same message at a State Department briefing, with little press coverage. “I want to be very clear to you today,” she said in response to a question. “If Russia invades Ukraine, one way or another Nord Stream 2 will not move forward.”
Several of those involved in planning the pipeline mission were dismayed by what they viewed as indirect references to the attack.
“It was like putting an atomic bomb on the ground in Tokyo and telling the Japanese that we are going to detonate it,” the source said. “The plan was for the options to be executed post invasion and not advertised publicly. Biden simply didn’t get it or ignored it.”
Biden’s and Nuland’s indiscretion, if that is what it was, might have frustrated some of the planners. But it also created an opportunity. According to the source, some of the senior officials of the CIA determined that blowing up the pipeline “no longer could be considered a covert option because the President just announced that we knew how to do it.”
The plan to blow up Nord Stream 1 and 2 was suddenly downgraded from a covert operation requiring that Congress be informed to one that was deemed as a highly classified intelligence operation with U.S. military support. Under the law, the source explained, “There was no longer a legal requirement to report the operation to Congress. All they had to do now is just do it—but it still had to be secret. The Russians have superlative surveillance of the Baltic Sea.”
The Agency working group members had no direct contact with the White House, and were eager to find out if the President meant what he’d said—that is, if the mission was now a go. The source recalled, “Bill Burns comes back and says, ‘Do it.’”
“The Norwegian navy was quick to find the right spot, in the shallow water a few miles off Denmark’s Bornholm Island . . .”
THE OPERATION
Norway was the perfect place to base the mission.
In the past few years of East-West crisis, the U.S. military has vastly expanded its presence inside Norway, whose western border runs 1,400 miles along the north Atlantic Ocean and merges above the Arctic Circle with Russia. The Pentagon has created high paying jobs and contracts, amid some local controversy, by investing hundreds of millions of dollars to upgrade and expand American Navy and Air Force facilities in Norway. The new works included, most importantly, an advanced synthetic aperture radar far up north that was capable of penetrating deep into Russia and came online just as the American intelligence community lost access to a series of long-range listening sites inside China.
A newly refurbished American submarine base, which had been under construction for years, had become operational and more American submarines were now able to work closely with their Norwegian colleagues to monitor and spy on a major Russian nuclear redoubt 250 miles to the east, on the Kola Peninsula. America also has vastly expanded a Norwegian air base in the north and delivered to the Norwegian air force a fleet of Boeing-built P8 Poseidon patrol planes to bolster its long-range spying on all things Russia.
In return, the Norwegian government angered liberals and some moderates in its parliament last November by passing the Supplementary Defense Cooperation Agreement (SDCA). Under the new deal, the U.S. legal system would have jurisdiction in certain “agreed areas” in the North over American soldiers accused of crimes off base, as well as over those Norwegian citizens accused or suspected of interfering with the work at the base.
Norway was one of the original signatories of the NATO Treaty in 1949, in the early days of the Cold War. Today, the supreme commander of NATO is Jens Stoltenberg, a committed anti-communist, who served as Norway’s prime minister for eight years before moving to his high NATO post, with American backing, in 2014. He was a hardliner on all things Putin and Russia who had cooperated with the American intelligence community since the Vietnam War. He has been trusted completely since. “He is the glove that fits the American hand,” the source said.
Back in Washington, planners knew they had to go to Norway. “They hated the Russians, and the Norwegian navy was full of superb sailors and divers who had generations of experience in highly profitable deep-sea oil and gas exploration,” the source said. They also could be trusted to keep the mission secret. (The Norwegians may have had other interests as well. The destruction of Nord Stream—if the Americans could pull it off—would allow Norway to sell vastly more of its own natural gas to Europe.)
Sometime in March, a few members of the team flew to Norway to meet with the Norwegian Secret Service and Navy. One of the key questions was where exactly in the Baltic Sea was the best place to plant the explosives. Nord Stream 1 and 2, each with two sets of pipelines, were separated much of the way by little more than a mile as they made their run to the port of Greifswald in the far northeast of Germany.
The Norwegian navy was quick to find the right spot, in the shallow waters of the Baltic sea a few miles off Denmark’s Bornholm Island. The pipelines ran more than a mile apart along a seafloor that was only 260 feet deep. That would be well within the range of the divers, who, operating from a Norwegian Alta class mine hunter, would dive with a mixture of oxygen, nitrogen and helium streaming from their tanks, and plant shaped C4 charges on the four pipelines with concrete protective covers. It would be tedious, time consuming and dangerous work, but the waters off Bornholm had another advantage: there were no major tidal currents, which would have made the task of diving much more difficult.
After a bit of research, the Americans were all in.
At this point, the Navy’s obscure deep-diving group in Panama City once again came into play. The deep-sea schools at Panama City, whose trainees participated in Ivy Bells, are seen as an unwanted backwater by the elite graduates of the Naval Academy in Annapolis, who typically seek the glory of being assigned as a Seal, fighter pilot, or submariner. If one must become a “Black Shoe”—that is, a member of the less desirable surface ship command—there is always at least duty on a destroyer, cruiser or amphibious ship. The least glamorous of all is mine warfare. Its divers never appear in Hollywood movies, or on the cover of popular magazines.
“The best divers with deep diving qualifications are a tight community, and only the very best are recruited for the operation and told to be prepared to be summoned to the CIA in Washington,” the source said.
The Norwegians and Americans had a location and the operatives, but there was another concern: any unusual underwater activity in the waters off Bornholm might draw the attention of the Swedish or Danish navies, which could report it.
Denmark had also been one of the original NATO signatories and was known in the intelligence community for its special ties to the United Kingdom. Sweden had applied for membership into NATO, and had demonstrated its great skill in managing its underwater sound and magnetic sensor systems that successfully tracked Russian submarines that would occasionally show up in remote waters of the Swedish archipelago and be forced to the surface.
The Norwegians joined the Americans in insisting that some senior officials in Denmark and Sweden had to be briefed in general terms about possible diving activity in the area. In that way, someone higher up could intervene and keep a report out of the chain of command, thus insulating the pipeline operation. “What they were told and what they knew were purposely different,” the source told me. (The Norwegian embassy, asked to comment on this story, did not respond.)
The Norwegians were key to solving other hurdles. The Russian navy was known to possess surveillance technology capable of spotting, and triggering, underwater mines. The American explosive devices needed to be camouflaged in a way that would make them appear to the Russian system as part of the natural background—something that required adapting to the specific salinity of the water. The Norwegians had a fix.
The Norwegians also had a solution to the crucial question of when the operation should take place. Every June, for the past 21 years, the American Sixth Fleet, whose flagship is based in Gaeta, Italy, south of Rome, has sponsored a major NATO exercise in the Baltic Sea involving scores of allied ships throughout the region. The current exercise, held in June, would be known as Baltic Operations 22, or BALTOPS 22. The Norwegians proposed this would be the ideal cover to plant the mines.
The Americans provided one vital element: they convinced the Sixth Fleet planners to add a research and development exercise to the program. The exercise, as made public by the Navy, involved the Sixth Fleet in collaboration with the Navy’s “research and warfare centers.” The at-sea event would be held off the coast of Bornholm Island and involve NATO teams of divers planting mines, with competing teams using the latest underwater technology to find and destroy them.
It was both a useful exercise and ingenious cover. The Panama City boys would do their thing and the C4 explosives would be in place by the end of BALTOPS22, with a 48-hour timer attached. All of the Americans and Norwegians would be long gone by the first explosion.
The days were counting down. “The clock was ticking, and we were nearing mission accomplished,” the source said.
And then: Washington had second thoughts. The bombs would still be planted during BALTOPS, but the White House worried that a two-day window for their detonation would be too close to the end of the exercise, and it would be obvious that America had been involved.
Instead, the White House had a new request: “Can the guys in the field come up with some way to blow the pipelines later on command?”
Some members of the planning team were angered and frustrated by the President’s seeming indecision. The Panama City divers had repeatedly practiced planting the C4 on pipelines, as they would during BALTOPS, but now the team in Norway had to come up with a way to give Biden what he wanted—the ability to issue a successful execution order at a time of his choosing.
Being tasked with an arbitrary, last-minute change was something the CIA was accustomed to managing. But it also renewed the concerns some shared over the necessity, and legality, of the entire operation.
The President’s secret orders also evoked the CIA’s dilemma in the Vietnam War days, when President Johnson, confronted by growing anti-Vietnam War sentiment, ordered the Agency to violate its charter—which specifically barred it from operating inside America—by spying on antiwar leaders to determine whether they were being controlled by Communist Russia.
The agency ultimately acquiesced, and throughout the 1970s it became clear just how far it had been willing to go. There were subsequent newspaper revelations in the aftermath of the Watergate scandals about the Agency’s spying on American citizens, its involvement in the assassination of foreign leaders and its undermining of the socialist government of Salvador Allende.
Those revelations led to a dramatic series of hearings in the mid-1970s in the Senate, led by Frank Church of Idaho, that made it clear that Richard Helms, the Agency director at the time, accepted that he had an obligation to do what the President wanted, even if it meant violating the law.
In unpublished, closed-door testimony, Helms ruefully explained that “you almost have an Immaculate Conception when you do something” under secret orders from a President. “Whether it’s right that you should have it, or wrong that you shall have it, [the CIA] works under different rules and ground rules than any other part of the government.” He was essentially telling the Senators that he, as head of the CIA, understood that he had been working for the Crown, and not the Constitution.
The Americans at work in Norway operated under the same dynamic, and dutifully began working on the new problem—how to remotely detonate the C4 explosives on Biden’s order. It was a much more demanding assignment than those in Washington understood. There was no way for the team in Norway to know when the President might push the button. Would it be in a few weeks, in many months or in half a year or longer?
The C4 attached to the pipelines would be triggered by a sonar buoy dropped by a plane on short notice, but the procedure involved the most advanced signal processing technology. Once in place, the delayed timing devices attached to any of the four pipelines could be accidentally triggered by the complex mix of ocean background noises throughout the heavily trafficked Baltic Sea—from near and distant ships, underwater drilling, seismic events, waves and even sea creatures. To avoid this, the sonar buoy, once in place, would emit a sequence of unique low frequency tonal sounds—much like those emitted by a flute or a piano—that would be recognized by the timing device and, after a pre-set hours of delay, trigger the explosives. (“You want a signal that is robust enough so that no other signal could accidentally send a pulse that detonated the explosives,” I was told by Dr. Theodore Postol, professor emeritus of science, technology and national security policy at MIT. Postol, who has served as the science adviser to the Pentagon’s Chief of Naval Operations, said the issue facing the group in Norway because of Biden’s delay was one of chance: “The longer the explosives are in the water the greater risk there would be of a random signal that would launch the bombs.”)
On September 26, 2022, a Norwegian Navy P8 surveillance plane made a seemingly routine flight and dropped a sonar buoy. The signal spread underwater, initially to Nord Stream 2 and then on to Nord Stream 1. A few hours later, the high-powered C4 explosives were triggered and three of the four pipelines were put out of commission. Within a few minutes, pools of methane gas that remained in the shuttered pipelines could be seen spreading on the water’s surface and the world learned that something irreversible had taken place.
FALLOUT
In the immediate aftermath of the pipeline bombing, the American media treated it like an unsolved mystery. Russia was repeatedly cited as a likely culprit, spurred on by calculated leaks from the White House—but without ever establishing a clear motive for such an act of self-sabotage, beyond simple retribution. A few months later, when it emerged that Russian authorities had been quietly getting estimates for the cost to repair the pipelines, the New York Times described the news as “complicating theories about who was behind” the attack. No major American newspaper dug into the earlier threats to the pipelines made by Biden and Undersecretary of State Nuland.
While it was never clear why Russia would seek to destroy its own lucrative pipeline, a more telling rationale for the President’s action came from Secretary of State Blinken.
Asked at a press conference last September about the consequences of the worsening energy crisis in Western Europe, Blinken described the moment as a potentially good one:
“It’s a tremendous opportunity to once and for all remove the dependence on Russian energy and thus to take away from Vladimir Putin the weaponization of energy as a means of advancing his imperial designs. That’s very significant and that offers tremendous strategic opportunity for the years to come, but meanwhile we’re determined to do everything we possibly can to make sure the consequences of all of this are not borne by citizens in our countries or, for that matter, around the world.”
More recently, Victoria Nuland expressed satisfaction at the demise of the newest of the pipelines. Testifying at a Senate Foreign Relations Committee hearing in late January she told Senator Ted Cruz, “Like you, I am, and I think the Administration is, very gratified to know that Nord Stream 2 is now, as you like to say, a hunk of metal at the bottom of the sea.”
The source had a much more streetwise view of Biden’s decision to sabotage more than 1500 miles of Gazprom pipeline as winter approached. “Well,” he said, speaking of the President, “I gotta admit the guy has a pair of balls. He said he was going to do it, and he did.”
Asked why he thought the Russians failed to respond, he said cynically, “Maybe they want the capability to do the same things the U.S. did.
“It was a beautiful cover story,” he went on. “Behind it was a covert operation that placed experts in the field and equipment that operated on a covert signal.
“The only flaw was the decision to do it.”
FONTE: https://seymourhersh.substack.com/p/how-america-took-out-the-nord-stream
Nel gennaio 2023, tutte le maschere sono state gettate via. Le élite euro-atlantiche, motivate dopo gli incontri di Davos, hanno capito che non c’era più bisogno di coprire le loro vere intenzioni con appelli ipocriti a “salvare la giovane democrazia ucraina per il bene della pace nel mondo”. Sempre più rappresentanti del cosiddetto “miliardo d’oro” dell’Occidente riconoscono i veri obiettivi della politica bellicosa che conducono da decenni contro la Russia, ossia la distruzione dell’integrità della Federazione Russa come Stato e la privazione del popolo russo della statualità per ottenere il controllo su enormi risorse che “per qualche ingiustizia storica appartengono ai barbari russi”. Il destino dello Stato ucraino e la vita della sua popolazione sono di scarso interesse per loro, perché in caso di vittoria, il suo territorio fertile diventerà un piacevole bonus.
Le élite euro-atlantiche hanno scatenato e stanno conducendo una guerra aggressiva contro la Federazione Russa per i loro interessi personali. Inoltre, il continuo sviluppo del conflitto militare, la mancanza di volontà politica dell’Occidente di risolverlo e il rafforzamento della retorica bellicosa con il riconoscimento dei veri obiettivi della guerra indicano che queste élite sono pronte a intensificare il conflitto fino alla terza guerra mondiale, e nemmeno la minaccia nucleare li fermerà.
Il 20 gennaio, in occasione di una cerimonia a Madrid, Josep Borrel ha ricordato le grandi vittorie della Russia su Hitler e Napoleone, da cui ha concluso che è necessario continuare ad aumentare la pressione militare su di essa. Con la sua dichiarazione, il capo della diplomazia dell’UE ha messo l’Occidente collettivo moderno sullo stesso piano dell'”Occidente collettivo creato da Hitler” e dell'”Occidente collettivo di Napoleone”, entrambi sconfitti dalla Russia.
“La Russia è un grande Paese, è abituata a combattere fino alla fine, è abituata quasi a perdere e poi a ripristinare tutto. Lo hanno fatto con Napoleone, lo hanno fatto con Hitler. Sarebbe assurdo pensare che la Russia abbia perso la guerra o che i suoi militari siano incompetenti. Pertanto, è necessario continuare ad armare l’Ucraina”.
Le dichiarazioni di Borrel non hanno fatto scalpore. Non è stato il primo a esprimere tali minacce alla Russia. Tuttavia, la recente dichiarazione è diventata una delle più esplicite. Ha espresso il vero obiettivo della compagnia militare dell’Occidente, che è la distruzione della Russia e il sequestro dei suoi territori, come Hitler e Napoleone avevano già tentato di fare.
Tra le rivelazioni dei leader occidentali, le parole del vice primo ministro e ministro delle Finanze canadese Chrystia Freeland sono sembrate particolarmente interessanti al forum di Davos. Anche lei ha sostenuto la posizione di Borrel, specificando che la sconfitta della Russia “sarebbe un’enorme spinta per l’economia globale”. La Freeland, il cui nonno era membro del gruppo nazionalista OUN-UPA di Andrei Melnik, è salita alla ribalta più volte negli ultimi anni parlando a sostegno dei nazisti ucraini e facendo dichiarazioni russofobe.
La vittoria dell’Ucraina nella guerra contro la Russia di quest’anno “sarebbe un’enorme spinta per l’economia globale”, afferma Chrystia Freeland, vice premier di Trudeau e membro del consiglio di amministrazione del WEF.
“Questa è la guerra per le risorse del XXI secolo, in scala reale e semplice”. Così la portavoce del Ministero degli Esteri russo ha commentato le sue affermazioni.
Tra la retorica bellicosa dell’Occidente e la continua sconfitta dell’esercito ucraino sul campo di battaglia, l’inizio dell’anno 2023 è stato segnato anche dal rafforzamento del sostegno militare al regime fantoccio di Kiev.
Mentre l’Europa cerca nei magazzini i carri armati per i soldati ucraini, Washington ha già annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari da 2,5 miliardi di dollari.
La NATO e Washington non nascondono più che non solo mantengono l’esercito ucraino, ma forniscono anche le informazioni di intelligence necessarie, comandano le truppe ucraine sul campo di battaglia e hanno assunto il controllo del processo decisionale militare. I principali media statunitensi riportano spesso che “gli Stati Uniti hanno raccomandato all’esercito ucraino di ritirarsi da Bakhmut” o che “gli Stati Uniti stanno aiutando a pianificare operazioni di controffensiva in Ucraina”. Secondo quanto riportato, gli Stati Uniti aiuteranno l’Ucraina a pianificare controffensive per riprendere i “territori occupati, compresa la Crimea”.
“La Russia non ha cercato di inasprire il conflitto, ma i Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno oltrepassato le linee rosse e hanno iniziato a rappresentare una minaccia per i nostri interessi nazionali. Ora gli Stati Uniti parlano di sostenere l’aggressione ucraina contro la Crimea e i nuovi territori russi. Ma il regime di Kiev deve rendersi conto che il sostegno dei Paesi occidentali si ritorcerà contro di lui e contro l’Ucraina. Più i Paesi occidentali interferiscono negli affari dell’Ucraina, più il confine della nostra operazione speciale si sposterà per creare una zona cuscinetto e proteggere il nostro Paese dai vicini nemici”. Così il deputato della Duma di Stato della Federazione Russa proveniente dalla regione della Crimea Mikhail Sheremet ha commentato la questione.
Le azioni degli Stati Uniti e dei loro alleati europei stanno portando il mondo verso una catastrofe globale. Se Washington e i Paesi della NATO forniscono armi che saranno utilizzate per attaccare città pacifiche e tentare di impadronirsi dei territori russi, questo porterà a misure di ritorsione da parte dell’esercito russo che utilizzerà armi più potenti. Con le loro decisioni, Washington e Bruxelles stanno portando il mondo verso una guerra che sarà completamente diversa dalle ostilità in corso oggi, quando gli attacchi vengono effettuati esclusivamente su strutture militari e infrastrutture strategiche utilizzate dal regime di Kiev.
Le argomentazioni secondo cui non esiste una minaccia nucleare, poiché le potenze nucleari non hanno mai usato armi di distruzione di massa in conflitti locali, sono insostenibili perché questi Stati non hanno mai affrontato una minaccia alla sicurezza dei propri cittadini e all’integrità territoriale, come invece fa oggi la NATO minacciando la Russia.
L’inasprimento della retorica occidentale, fino a vere e proprie minacce di guerra e distruzione dello Stato russo, è stato chiaramente percepito a Mosca.
La leadership politica russa, che fino a poco tempo fa cercava di mantenere un dialogo con i “partner occidentali” basato sui principi della politica reale o almeno del diritto internazionale di base, sembra aver cambiato posizione.
Dopo un anno di ostilità in Ucraina, è diventato chiaro che l’attuale conflitto è stato orchestrato dall’Occidente collettivo non solo negli ultimi 8 anni, ma decenni fa, quando già nel 2004 era diventato evidente che la Russia stava cercando di uscire dalle catene neocoloniali del periodo post-sovietico. Di conseguenza, Mosca ha finalmente accettato le regole del gioco imposte dall’Occidente e chiarisce che, da parte sua, non vede più il modo di risolvere pacificamente le contraddizioni accumulate con i Paesi della NATO ed è pronta a entrare in una guerra su larga scala.
La recente conferenza stampa del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che ha riassunto i risultati della diplomazia russa nel 2022, ne è stata un chiaro esempio. Il ministro russo ha descritto la situazione attuale con estrema durezza:
Quello che sta accadendo ora in Ucraina è il risultato dei preparativi degli Stati Uniti e dei loro satelliti per l’inizio di una guerra ibrida globale contro la Federazione Russa. Nessuno nasconde questo fatto. Lo dimostrano le dichiarazioni di politologi, scienziati e politici occidentali imparziali. In un suo recente articolo, Ian Bremmer, professore di scienze politiche alla Columbia University, ha scritto: “Non siamo in una guerra fredda con la Russia. Siamo in una guerra calda con la Russia. Ora è una guerra per procura. E la NATO non la sta combattendo direttamente. La stiamo combattendo attraverso l’Ucraina”. Questa ammissione è franca e questa conclusione è in superficie. È strano che alcuni cerchino di confutarla. Recentemente, il Presidente della Croazia Zoran Milanovic ha affermato che questa è una guerra della NATO. Una dichiarazione aperta e onesta. Diverse settimane fa, Henry Kissinger (prima di esortare la NATO ad accettare l’Ucraina nel suo recente articolo) ha scritto a chiare lettere che gli eventi in Ucraina sono uno scontro, una rivalità tra due potenze nucleari per il controllo di quel territorio. È abbastanza chiaro cosa intendesse.
I nostri partner occidentali sono astuti e cercano con veemenza di dimostrare che non stanno combattendo la Russia, ma stanno solo aiutando l’Ucraina a rispondere a un'”aggressione” e a ripristinare la sua integrità territoriale. L’entità del loro sostegno rende chiaro che l’Occidente ha puntato molto sulla sua guerra contro la Russia; questo è ovvio.
Gli eventi che circondano l’Ucraina hanno portato alla luce la spinta implicita degli Stati Uniti ad abbandonare i tentativi di rafforzare la propria posizione globale con mezzi legittimi e ad adottare metodi illegittimi per garantire il proprio dominio. Tutto è lecito. I meccanismi e le istituzioni un tempo venerati, creati dall’Occidente guidato dagli Stati Uniti, sono stati scartati (e non per quello che stiamo vedendo in Ucraina). Il libero mercato, la concorrenza leale, la libera impresa, l’inviolabilità della proprietà e la presunzione di innocenza, in una parola, tutto ciò su cui si basava il modello di globalizzazione occidentale è crollato da un giorno all’altro. Sono state imposte sanzioni alla Russia e ad altri Paesi discutibili che non rispettano questi principi e meccanismi. È chiaro che le sanzioni possono essere imposte in qualsiasi momento a qualsiasi Paese che, in un modo o nell’altro, si rifiuta di seguire pedissequamente gli ordini americani.
L’Unione Europea è stata completamente assorbita da questa dittatura statunitense (non ha senso parlarne a lungo)…
Come Napoleone, che mobilitò quasi tutta l’Europa contro l’Impero russo, e Hitler, che occupò la maggior parte dei Paesi europei e li scagliò contro l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno creato una coalizione di quasi tutti gli Stati europei membri della NATO e dell’UE e stanno usando l’Ucraina per condurre una guerra per procura contro la Russia con il vecchio obiettivo di risolvere definitivamente la “questione russa”, come Hitler, che cercava una soluzione definitiva alla “questione ebraica”. …
Recentemente sono stati segnalati alcuni cambiamenti nella leadership politica e militare russa. In particolare, sono stati cambiati alcuni funzionari che occupano posizioni di vertice in organismi politici chiave come l’amministrazione presidenziale, il Consiglio di sicurezza, i servizi speciali, ecc. Sono state avviate ispezioni per chiarire la conformità di diversi funzionari di alto rango alle loro posizioni, i loro legami con l’estero e la verifica di eventuali azioni di corruzione.
Cambiamenti sono avvenuti anche nel Ministero della Difesa russo. Il generale dell’esercito Valery Gerasimov è stato nominato comandante del gruppo di truppe russe nella zona dell’operazione militare speciale (SVO) in Ucraina. Ha combattuto i militanti ceceni alla testa dell’esercito, ha organizzato un’operazione in Siria e dal novembre 2012 è a capo dello Stato Maggiore delle Forze Armate russe. I cambiamenti nel comando militare russo potrebbero indicare la nuova fase delle ostilità in Ucraina. Inoltre, nuovi generali sono stati nominati in una serie di altre posizioni chiave del Ministero della Difesa.
A gennaio, le forze armate russe hanno iniziato a rafforzare in modo risoluto il sistema di difesa aerea nella capitale. Negli ultimi giorni sono stati ampiamente condivisi online filmati di nuovi sistemi di difesa aerea dispiegati vicino ai centri decisionali, come il Cremlino di Mosca e l’edificio del Ministero della Difesa.
Tutto ciò riflette un cambiamento nella visione del Cremlino dei processi in corso e la sua disponibilità ad affrontare la sfida dell’Occidente. La perseveranza delle élite euro-atlantiche è stata finalmente recepita dalla Russia e ha ricevuto una degna risposta. Purtroppo, la posizione dell’Occidente significa che il mondo non può più sperare in una rapida fine della guerra in Europa. Inoltre, il conflitto rischia di aggravarsi.
FONTE: https://southfront.org/all-masks-thrown-off/
(Traduzione: Cambiailmondo.org)
Di Chris Edges (da The Chris Edges Report)
Everything Must Go – Mr. Fish
Gli imperi in declino terminale passano da un fiasco militare all’altro. La guerra in Ucraina, un altro tentativo malriuscito di riaffermare l’egemonia globale degli Stati Uniti, rientra in questo schema. Il pericolo è che, più la situazione si aggrava, più gli Stati Uniti inaspriscono il conflitto, provocando potenzialmente un confronto aperto con la Russia. Se la Russia effettuerà attacchi di rappresaglia alle basi di rifornimento e addestramento nei Paesi NATO vicini, o utilizzerà armi nucleari tattiche, la NATO risponderà quasi certamente attaccando le forze russe. Avremo scatenato la Terza Guerra Mondiale, che potrebbe sfociare in un olocausto nucleare.
Il sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina è iniziato con le basi: munizioni e armi d’assalto. L’amministrazione Biden, tuttavia, ha presto superato diverse linee rosse autoimposte per fornire un’ondata di macchinari bellici letali: Sistemi antiaerei Stinger; sistemi anti-corazza Javelin; obici trainati M777; razzi GRAD da 122 mm; lanciarazzi multipli M142, o HIMARS; missili Tube-Launched, Optically-Tracked, Wire-Guided (TOW); batterie di difesa aerea Patriot; National Advanced Surface-to-Air Missile Systems (NASAMS); M113 Armored Personnel Carriers; e ora 31 M1 Abrams, come parte di un nuovo pacchetto da 400 milioni di dollari. A questi carri armati si aggiungeranno 14 carri tedeschi Leopard 2A6, 14 carri britannici Challenger 2 e carri armati di altri membri della NATO, tra cui la Polonia. La prossima lista è quella delle munizioni perforanti all’uranio impoverito (DU) e dei jet da combattimento F-15 e F-16.
Dall’invasione russa del 24 febbraio 2022, il Congresso ha approvato oltre 113 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina e alle nazioni alleate che sostengono la guerra in Ucraina. Tre quinti di questi aiuti, 67 miliardi di dollari, sono stati destinati alle spese militari. Sono 28 i Paesi che trasferiscono armi all’Ucraina. Tutti, ad eccezione di Australia, Canada e Stati Uniti, sono in Europa.
Il rapido aggiornamento di hardware militare sofisticato e gli aiuti forniti all’Ucraina non sono un buon segno per l’alleanza NATO. Ci vogliono molti mesi, se non anni, di addestramento per far funzionare e coordinare questi sistemi d’arma. Le battaglie con i carri armati – come reporter ho partecipato all’ultima grande battaglia con i carri armati fuori Kuwait City durante la prima guerra del Golfo – sono operazioni altamente coreografiche e complesse. I carri armati devono lavorare in stretta collaborazione con il potere aereo, le navi da guerra, la fanteria e le batterie di artiglieria. Ci vorranno molti mesi, se non anni, prima che le forze ucraine ricevano un addestramento adeguato per far funzionare queste attrezzature e coordinare le diverse componenti di un campo di battaglia moderno. In effetti, gli Stati Uniti non sono mai riusciti ad addestrare gli eserciti iracheno e afghano alla guerra di manovra ad armi combinate, nonostante due decenni di occupazione.
Nel febbraio 1991 ero con le unità del Corpo dei Marines che hanno spinto le forze irachene fuori dalla città saudita di Khafji. Dotati di un equipaggiamento militare superiore, i soldati sauditi che tenevano Khafji opponevano una resistenza inefficace.
Quando siamo entrati in città, abbiamo visto truppe saudite su autopompe requisite, che scappavano verso sud per sfuggire ai combattimenti. Tutto l’hardware militare di lusso, che i sauditi avevano acquistato dagli Stati Uniti, si è rivelato inutile perché non sapevano come usarlo.
I comandanti militari della NATO sono consapevoli che l’infusione di questi sistemi di armamento nella guerra non modificherà quello che è, nella migliore delle ipotesi, uno stallo, definito in gran parte da duelli di artiglieria su centinaia di chilometri di linea del fronte. L’acquisto di questi sistemi d’arma – un carro armato M1 Abrams costa 10 milioni di dollari se si includono l’addestramento e la manutenzione – aumenta i profitti dei produttori di armi. L’uso di queste armi in Ucraina permette di testarle in condizioni da campo di battaglia, rendendo la guerra un laboratorio per i produttori di armi come Lockheed Martin. Tutto questo è utile alla NATO e all’industria degli armamenti. Ma non è molto utile all’Ucraina.
L’altro problema dei sistemi d’arma avanzati come l’M1 Abrams, che ha motori a turbina da 1.500 cavalli che funzionano con il carburante dei jet, è che sono capricciosi e richiedono una manutenzione altamente qualificata e quasi costante. Non sono indulgenti con chi li utilizza e commette errori; anzi, gli errori possono essere letali. Lo scenario più ottimistico per il dispiegamento dei carri armati M1-Abrams in Ucraina è di sei-otto mesi, più probabilmente di più. Se la Russia lancia una grande offensiva in primavera, come ci si aspetta, gli M1 Abrams non faranno parte dell’arsenale ucraino. Anche quando arriveranno, non modificheranno in modo significativo l’equilibrio di potere, soprattutto se i russi saranno in grado di trasformare i carri armati, gestiti da equipaggi inesperti, in relitti carbonizzati.
Allora perché tutta questa infusione di armi ad alta tecnologia? Possiamo riassumerlo in una parola: panico.
Dopo aver dichiarato una guerra de facto alla Russia e aver chiesto apertamente la rimozione di Vladimir Putin, i protettori della guerra neoconservatori guardano con terrore l’Ucraina che viene martoriata da un’implacabile guerra di logoramento russa. L’Ucraina ha subito quasi 18.000 vittime civili (6.919 morti e 11.075 feriti). Ha inoltre visto distrutto o danneggiato circa l’8% del totale delle sue abitazioni e il 50% delle sue infrastrutture energetiche ha subito un impatto diretto con frequenti interruzioni di corrente. L’Ucraina ha bisogno di almeno 3 miliardi di dollari al mese di aiuti esterni per mantenere a galla la sua economia, ha dichiarato recentemente il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Quasi 14 milioni di ucraini sono stati sfollati – 8 milioni in Europa e 6 milioni internamente – e fino a 18 milioni di persone, ovvero il 40% della popolazione ucraina, avranno presto bisogno di assistenza umanitaria. L’economia ucraina si è contratta del 35% nel 2022 e, secondo le stime della Banca Mondiale, il 60% degli ucraini vive con meno di 5,5 dollari al giorno. Nove milioni di ucraini sono senza elettricità e acqua a temperature sotto lo zero, ha dichiarato il presidente ucraino. Secondo le stime dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, a partire dallo scorso novembre sono stati uccisi in guerra 100.000 soldati ucraini e 100.000 russi.
“La mia sensazione è che ci troviamo in un momento cruciale del conflitto, in cui lo slancio potrebbe spostarsi a favore della Russia se non agiamo con decisione e rapidità”, ha dichiarato l’ex senatore statunitense Rob Portman al World Economic Forum in un post del Consiglio Atlantico. “È necessario un aumento”.
Ribaltando la logica, i sostenitori della guerra affermano che “la più grande minaccia nucleare che abbiamo di fronte è una vittoria russa”. L’atteggiamento cavilloso nei confronti di un potenziale confronto nucleare con la Russia da parte dei sostenitori della guerra in Ucraina è molto, molto spaventoso, soprattutto alla luce dei fallimenti che hanno supervisionato per vent’anni in Medio Oriente.
Gli appelli quasi isterici a sostenere l’Ucraina come baluardo di libertà e democrazia da parte dei mandarini di Washington sono una risposta al palpabile marciume e al declino dell’impero statunitense. L’autorità globale dell’America è stata decimata da crimini di guerra ben pubblicizzati, dalla tortura, dal declino economico, dalla disintegrazione sociale – tra cui l’assalto alla capitale il 6 gennaio scorso, la risposta fallimentare alla pandemia, il calo delle aspettative di vita e la piaga delle sparatorie di massa – e da una serie di debacle militari dal Vietnam all’Afghanistan. I colpi di Stato, gli assassinii politici, i brogli elettorali, la propaganda nera, i ricatti, i rapimenti, le brutali campagne di contro-insurrezione, i massacri sanzionati dagli Stati Uniti, le torture nei siti neri globali, le guerre per procura e gli interventi militari condotti dagli Stati Uniti in tutto il mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale non hanno mai portato all’instaurazione di un governo democratico.
Invece, questi interventi hanno causato oltre 20 milioni di morti e hanno generato una repulsione globale per l’imperialismo statunitense.
Nella disperazione, l’impero pompa somme sempre maggiori nella sua macchina da guerra. L’ultima legge di spesa da 1.700 miliardi di dollari include 847 miliardi di dollari per le forze armate; il totale sale a 858 miliardi di dollari se si considerano i conti che non rientrano nella giurisdizione dei comitati per i servizi armati, come il Dipartimento dell’energia, che sovrintende alla manutenzione delle armi nucleari e alle infrastrutture che le sviluppano. Nel 2021, quando gli Stati Uniti avevano un bilancio militare di 801 miliardi di dollari, costituivano quasi il 40% di tutte le spese militari globali, più di quanto i nove Paesi successivi, tra cui Russia e Cina, spendessero per i loro eserciti messi insieme.
Come osservò Edward Gibbon a proposito della fatale brama di guerra infinita dell’Impero Romano: “Il declino di Roma fu l’effetto naturale e inevitabile di una grandezza smodata. La prosperità maturò il principio della decadenza; le cause della distruzione si moltiplicarono con l’estensione delle conquiste; e, non appena il tempo o il caso rimossero i sostegni artificiali, lo stupendo tessuto cedette alla pressione del suo stesso peso. La storia della rovina è semplice e ovvia; e invece di chiedersi perché l’Impero Romano sia stato distrutto, dovremmo piuttosto stupirci che sia esistito così a lungo”.
Uno stato di guerra permanente crea burocrazie complesse, sostenute da politici, giornalisti, scienziati, tecnocrati e accademici compiacenti, che servono ossequiosamente la macchina bellica. Questo militarismo ha bisogno di nemici mortali – gli ultimi sono la Russia e la Cina – anche quando coloro che vengono demonizzati non hanno alcuna intenzione o capacità, come nel caso dell’Iraq, di danneggiare gli Stati Uniti. Siamo ostaggio di queste strutture istituzionali incestuose.
All’inizio di questo mese, le commissioni per i servizi armati di Camera e Senato, ad esempio, hanno nominato otto commissari per rivedere la Strategia di Difesa Nazionale (NDS) di Biden per “esaminare i presupposti, gli obiettivi, gli investimenti nella difesa, la posizione e la struttura delle forze, i concetti operativi e i rischi militari della NDS”. La commissione, come scrive Eli Clifton del Quincy Institute for Responsible Statecraft, è “in gran parte composta da individui con legami finanziari con l’industria degli armamenti e con gli appaltatori del governo degli Stati Uniti, sollevando dubbi sul fatto che la commissione avrà un occhio critico nei confronti degli appaltatori che ricevono 400 miliardi di dollari degli 858 miliardi di dollari del bilancio della difesa per l’anno fiscale 2023”. Il presidente della commissione, osserva Clifton, è l’ex rappresentante Jane Harman (D-CA), che “siede nel consiglio di amministrazione di Iridium Communications, un’azienda di comunicazioni satellitari che si è aggiudicata un contratto settennale da 738,5 milioni di dollari con il Dipartimento della Difesa nel 2019”.
Le notizie sulle interferenze russe nelle elezioni e sui bot russi che manipolano l’opinione pubblica – che il recente reportage di Matt Taibbi sui “Twitter Files” smaschera come un elaborato pezzo di propaganda nera – sono state amplificate acriticamente dalla stampa. Ha sedotto i Democratici e i loro sostenitori liberali a vedere la Russia come un nemico mortale. Il sostegno quasi universale a una guerra prolungata con l’Ucraina non sarebbe stato possibile senza questa truffa.
I due partiti al potere in America dipendono dai fondi per le campagne elettorali dell’industria bellica e subiscono le pressioni dei produttori di armi dei loro Stati o distretti, che danno lavoro ai loro elettori, per approvare bilanci militari mastodontici. I politici sanno bene che sfidare l’economia di guerra permanente significa essere attaccati come antipatriottici e di solito è un atto di suicidio politico.
“L’anima schiava della guerra grida di essere liberata”, scrive Simone Weil nel suo saggio “L’Iliade o il poema della forza”, “ma la liberazione stessa le appare come un aspetto estremo e tragico, l’aspetto della distruzione”.
Gli storici definiscono “micro-militarismo” il tentativo donchisciottesco degli imperi in declino di riconquistare l’egemonia perduta attraverso l’avventurismo militare. Durante la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) gli Ateniesi invasero la Sicilia, perdendo 200 navi e migliaia di soldati. La sconfitta scatenò una serie di rivolte di successo in tutto l’impero ateniese. L’Impero romano, che al suo apice durò due secoli, divenne prigioniero del suo esercito di un solo uomo che, come l’industria bellica statunitense, era uno Stato nello Stato. Le legioni di Roma, un tempo potenti, nell’ultima fase dell’impero subirono una sconfitta dopo l’altra, estraendo sempre più risorse da uno Stato fatiscente e impoverito. Alla fine, l’élite della Guardia Pretoriana mise all’asta l’impero al miglior offerente. L’Impero britannico, già decimato dalla follia militare suicida della Prima Guerra Mondiale, esalò il suo ultimo respiro nel 1956, quando attaccò l’Egitto in una disputa sulla nazionalizzazione del Canale di Suez. La Gran Bretagna si ritirò umiliata e divenne un’appendice degli Stati Uniti. Una guerra decennale in Afghanistan segnò il destino di un’Unione Sovietica ormai decrepita.
“Mentre gli imperi in ascesa sono spesso accorti, persino razionali, nell’uso della forza armata per la conquista e il controllo dei domini d’oltremare, gli imperi in declino sono inclini ad esibizioni di potere sconsiderate, sognando audaci capolavori militari che possano in qualche modo recuperare il prestigio e il potere perduti”, scrive lo storico Alfred W. McCoy nel suo libro “In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of US Global Power”. “Spesso irrazionali anche da un punto di vista imperiale, queste micro-operazioni militari possono produrre un’emorragia di spese o umilianti sconfitte che non fanno altro che accelerare il processo già in atto”.
Il piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio Oriente. Sta alimentando una crisi alimentare globale e devastando l’Europa con un’inflazione quasi a due cifre. Sta mettendo a nudo l’impotenza, ancora una volta, degli Stati Uniti e la bancarotta degli oligarchi al potere. Come contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale negli Stati Uniti. Washington sta fornendo all’Ucraina sistemi di armamento sempre più sofisticati e aiuti per miliardi e miliardi nel futile tentativo di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di salvare se stessa.
(Traduzione Cambiailmondo.org)
di Annika Ross (dalla rivist Emma.de)
Signor Vad, cosa ne pensa della consegna dei 40 Marder all’Ucraina appena annunciata dal Cancelliere Scholz?
Si tratta di un’escalation militare, anche nella percezione dei russi – anche se il Marder, vecchio di oltre 40 anni, non è un’arma miracolosa. Stiamo scendendo su una china scivolosa. Questo potrebbe sviluppare una dinamica che non possiamo più controllare. Naturalmente era ed è giusto sostenere l’Ucraina e naturalmente l’invasione di Putin non è conforme al diritto internazionale – ma ora bisogna finalmente considerare le conseguenze!
E quali potrebbero essere queste conseguenze?
L’intenzione è quella di ottenere la disponibilità a negoziare fornendo carri armati? Vogliono riconquistare il Donbass o la Crimea? O vogliono sconfiggere del tutto la Russia? Non esiste una definizione realistica di stato finale. E senza un concetto politico e strategico generale, le consegne di armi sono puro militarismo.
Che cosa significa?
Abbiamo una situazione di stallo militare che non possiamo risolvere militarmente. Per inciso, questa è anche l’opinione del Capo di Stato Maggiore americano, Mark Milley. Ha affermato che non ci si può aspettare una vittoria militare per l’Ucraina e che i negoziati sono l’unica strada possibile. Qualsiasi altra cosa significherebbe un dispendio insensato di vite umane.
La dichiarazione del generale Milley ha provocato molta rabbia a Washington ed è stata anche pesantemente criticata pubblicamente.
Ha detto una verità scomoda. Una verità, tra l’altro, che non è stata quasi per nulla pubblicata dai media tedeschi. L’intervista a Milley da parte della CNN non è apparsa da nessuna parte, eppure è il Capo di Stato Maggiore della principale potenza occidentale. Quella che si sta conducendo in Ucraina è una guerra di logoramento. È una guerra di logoramento, con quasi 200.000 soldati uccisi e feriti da entrambe le parti, 50.000 morti tra i civili e milioni di rifugiati. Milley ha così tracciato un parallelo con la Prima guerra mondiale che non potrebbe essere più azzeccato. Nella Prima Guerra Mondiale, il cosiddetto “Mulino di sangue di Verdun”, concepito come una battaglia di logoramento, portò alla morte di quasi un milione di giovani francesi e tedeschi. All’epoca caddero per nulla. Il rifiuto delle parti in guerra di negoziare ha portato a milioni di morti in più. Questa strategia non ha funzionato militarmente allora – e non funzionerà adesso.
Anche lei è stato attaccato per aver chiesto un negoziato.
Sì, come l’ispettore generale della Bundeswehr, il generale Eberhard Zorn, che, come me, ha messo in guardia dal sopravvalutare le offensive regionali limitate degli ucraini nei mesi estivi. Gli esperti militari – che sanno cosa succede tra i servizi di intelligence, cosa sembra sul campo e cosa significa veramente la guerra – sono in gran parte esclusi dal discorso. Non si adattano alla formazione delle opinioni da parte dei media. In larga misura, stiamo assistendo a un conformismo mediatico che non ho mai visto prima nella Repubblica Federale Tedesca. Questa è pura speculazione. E non per conto dello Stato, come è noto nei regimi totalitari, ma per puro spirito di protagonismo.
Sono tutti attaccati dai media su un ampio fronte, dalla BILD alla FAZ e allo Spiegel, e così anche le 500.000 persone che hanno firmato la Lettera aperta al Cancelliere promossa da Alice Schwarzer.
Proprio così. Fortunatamente, Alice Schwarzer ha i suoi media indipendenti per poter aprire questo discorso. Probabilmente non avrebbe funzionato con i principali media. La maggioranza della popolazione è contraria a ulteriori forniture di armi da molto tempo e secondo gli ultimi sondaggi. Ma nulla di tutto ciò viene riportato. Non c’è più un discorso equo e aperto sulla guerra in Ucraina, e lo trovo molto preoccupante. Questo dimostra quanto avesse ragione Helmut Schmidt. In una conversazione con il Cancelliere Merkel ha detto: “La Germania è e rimane una nazione a rischio”.
Qual è la sua valutazione della politica del Ministro degli Esteri?
Le operazioni militari devono sempre essere collegate ai tentativi di trovare soluzioni politiche. La monodimensionalità dell’attuale politica estera è difficile da sopportare. È molto incentrato sulle armi. Ma il compito principale della politica estera è e rimane la diplomazia, la riconciliazione degli interessi, la comprensione e la risoluzione dei conflitti. Questo è ciò che mi manca qui. Sono felice che finalmente in Germania ci sia un ministro degli Esteri donna, ma non basta fare retorica di guerra e andare in giro per Kiev o per il Donbass indossando elmetto e giubbotto antiproiettile. Non è sufficiente.
Eppure Baerbock è un membro dei Verdi, l’ex partito della pace.
Non capisco la mutazione dei Verdi da partito pacifista a partito di guerra. Io stesso non conosco nessun Verde che abbia fatto il servizio militare. Anton Hofreiter è per me il miglior esempio di questo doppio standard. Antje Vollmer, invece, che annovererei tra i Verdi “originali”, chiama le cose con il loro nome. E il fatto che un singolo partito abbia così tanta influenza politica da poterci manovrare in una guerra è molto preoccupante.
Se il Cancelliere Scholz l’avesse sostituita al suo predecessore e lei fosse ancora il consigliere militare del Cancelliere, cosa gli avrebbe consigliato di fare nel febbraio 2022?
Gli avrei consigliato di sostenere militarmente l’Ucraina, ma in modo misurato e prudente, per evitare di scivolare sulla china scivolosa di un partito di guerra. E gli avrei consigliato di influenzare il nostro più importante alleato politico, gli Stati Uniti. La chiave per la soluzione della guerra risiede infatti a Washington e a Mosca. Mi è piaciuto il percorso del Cancelliere negli ultimi mesi. Ma i Verdi, l’FDP e l’opposizione borghese – affiancati da un accompagnamento mediatico ampiamente unanime – stanno esercitando una pressione tale che il cancelliere difficilmente può assorbirla.
E se venisse consegnato anche il Leopard?
Si ripropone quindi la domanda su cosa dovrebbe accadere con le consegne dei carri armati. Per conquistare la Crimea o il Donbass, il Marder e il Leopard non sono sufficienti. Nell’Ucraina orientale, nella zona di Bachmut, i russi sono chiaramente in avanzata. Probabilmente tra non molto avranno conquistato completamente il Donbass. Basta considerare la superiorità numerica dei russi rispetto all’Ucraina. La Russia può mobilitare fino a due milioni di riservisti. L’Occidente può inviare 100 Marder e 100 Leopard, ma non cambierà la situazione militare generale. E la domanda più importante è come superare un simile conflitto con una potenza nucleare belligerante – tra l’altro, la più forte potenza nucleare del mondo! – senza entrare in una terza guerra mondiale. E questo è esattamente ciò che i politici e i giornalisti qui in Germania non pensano!
L’argomentazione è che Putin non vuole negoziare e che bisogna metterlo all’angolo per evitare che continui a infierire sull’Europa.
È vero che bisogna dare un segnale ai russi: Fin qui e non oltre! Non si può permettere che una simile guerra di aggressione continui. Per questo è giusto che la NATO aumenti la sua presenza militare a est e che la Germania si unisca a essa. Ma il rifiuto di Putin di negoziare non è sostenibile. Sia i russi che gli ucraini erano pronti per un accordo di pace all’inizio della guerra, a fine marzo, inizio aprile 2022. Poi non se ne fece nulla. Dopo tutto, anche l’accordo sul grano è stato negoziato durante la guerra da russi e ucraini con il coinvolgimento delle Nazioni Unite.
Ora la morte continua.
Si può continuare a logorare i russi, il che significa centinaia di migliaia di morti, ma da entrambe le parti. E significa l’ulteriore distruzione dell’Ucraina. Cosa resta di questo paese? Sarà raso al suolo. In definitiva, anche questa non è più un’opzione per l’Ucraina. La chiave per risolvere il conflitto non sta a Kiev, né a Berlino, Bruxelles o Parigi, ma a Washington e Mosca. È ridicolo dire che l’Ucraina deve decidere.
Con questa interpretazione, in Germania si viene subito considerati teorici della cospirazione…
Io stesso sono un atlantista convinto. Vi dirò onestamente che, nel dubbio, preferirei vivere sotto un’egemonia americana piuttosto che sotto una russa o cinese. All’inizio, questa guerra era solo una disputa politica interna all’Ucraina. È iniziata nel 2014, tra i gruppi etnici di lingua russa e gli stessi ucraini. È stata quindi una guerra civile. Ora, dopo l’invasione della Russia, è diventata una guerra interstatale tra Ucraina e Russia. È anche una lotta per l’indipendenza dell’Ucraina e la sua integrità territoriale. È tutto vero. Ma non è tutta la verità. Si tratta anche di una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, e nella regione del Mar Nero sono in gioco interessi geopolitici molto concreti.
Che cosa sono?
La regione del Mar Nero è importante per i russi e la loro flotta del Mar Nero quanto i Caraibi o la regione di Panama per gli Stati Uniti. Importante quanto il Mar Cinese Meridionale e Taiwan per la Cina. Importante quanto la zona di protezione della Turchia, che ha istituito contro i curdi in violazione del diritto internazionale. In questo contesto e per ragioni strategiche, anche i russi non possono uscirne. A parte il fatto che in un referendum in Crimea la popolazione si pronuncerebbe sicuramente a favore della Russia.
Come si può continuare?
Se i russi fossero costretti da un massiccio intervento occidentale a ritirarsi dalla regione del Mar Nero, prima di uscire dalla scena mondiale ricorrerebbero sicuramente alle armi nucleari. Trovo ingenua la convinzione che un attacco nucleare da parte della Russia non avverrà mai. Sulla falsariga di “stanno solo bluffando”.
Ma quale potrebbe essere la soluzione?
Bisognerebbe semplicemente chiedere alle persone della regione, cioè del Donbass e della Crimea, a chi vogliono appartenere. L’integrità territoriale dell’Ucraina dovrebbe essere ripristinata, con alcune garanzie occidentali. Anche i russi hanno bisogno di una simile garanzia di sicurezza. Quindi niente adesione alla NATO per l’Ucraina. Sin dal vertice di Bucarest del 2008, è stato chiaro che questa è la linea rossa dei russi.
E cosa pensa che possa fare la Germania?
Dobbiamo dosare il nostro sostegno militare in modo da non scivolare in una terza guerra mondiale. Nessuno di coloro che andarono in guerra nel 1914 con grande entusiasmo era ancora dell’idea che fosse la cosa giusta da fare. Se l’obiettivo è un’Ucraina indipendente, bisogna anche chiedersi in prospettiva come dovrebbe essere un ordine europeo che coinvolga la Russia. La Russia non scomparirà semplicemente dalla carta geografica. Dobbiamo evitare di spingere i russi nelle braccia dei cinesi, spostando così l’ordine multipolare a nostro svantaggio. Abbiamo anche bisogno della Russia come potenza leader di uno Stato multietnico per evitare l’esplosione di scontri e guerre. E francamente non vedo l’Ucraina diventare un membro dell’UE, tanto meno della NATO. In Ucraina, come in Russia, abbiamo un’elevata corruzione e il dominio degli oligarchi. Quello che noi in Turchia – giustamente – denunciamo in termini di Stato di diritto, lo abbiamo anche in Ucraina.
Cosa pensa, signor Vad, di quello che ci aspetta nel 2023?
A Washington deve esserci un fronte più ampio per la pace. E questo insensato attivismo della politica tedesca deve finalmente finire. Altrimenti ci sveglieremo una mattina e ci ritroveremo nel bel mezzo della Terza Guerra Mondiale.
(Traduzione Cambiailmondo.org)
Fonte: https://www.emma.de/artikel/erich-vad-was-sind-die-kriegsziele-340045
Herr Vad, was sagen Sie zu der gerade von Kanzler Scholz verkündeten Lieferung der 40 Marder an die Ukraine?
Das ist eine militärische Eskalation, auch in der Wahrnehmung der Russen – auch wenn der über 40 Jahre alte Marder keine Wunderwaffe ist. Wir begeben uns auf eine Rutschbahn. Das könnte eine Eigendynamik entwickeln, die wir nicht mehr steuern können. Natürlich war und ist es richtig, die Ukraine zu unterstützen und natürlich ist Putins Überfall nicht völkerrechtskonform – aber nun müssen doch endlich die Folgen bedacht werden!
Und was könnten die Folgen sein?
Will man mit den Lieferungen der Panzer Verhandlungsbereitschaft erreichen? Will man damit den Donbass oder die Krim zurückerobern? Oder will man Russland gar ganz besiegen? Es gibt keine realistische End-State-Definition. Und ohne ein politisch strategisches Gesamtkonzept sind Waffenlieferungen Militarismus pur.
Was heißt das?
Wir haben eine militärisch operative Patt-Situation, die wir aber militärisch nicht lösen können. Das ist übrigens auch die Meinung des amerikanischen Generalstabschefs Mark Milley. Er hat gesagt, dass ein militärischer Sieg der Ukraine nicht zu erwarten sei und dass Verhandlungen der einzig mögliche Weg seien. Alles andere bedeutet den sinnlosen Verschleiß von Menschenleben.
General Milley löste mit seiner Aussage in Washington viel Ärger aus und wurde auch öffentlich stark kritisiert.
Er hat eine unbequeme Wahrheit ausgesprochen. Eine Wahrheit, die in den deutschen Medien übrigens so gut wie gar nicht publiziert wurde. Das Interview mit Milley von CNN tauchte nirgendwo größer auf, dabei ist er der Generalstabschef unserer westlichen Führungsmacht. Was in der Ukraine betrieben wird, ist ein Abnutzungskrieg. Und zwar einer mit mittlerweile annähernd 200.000 gefallenen und verwundeten Soldaten auf beiden Seiten, mit 50.000 zivilen Toten und mit Millionen von Flüchtlingen. Milley hat damit eine Parallele zum Ersten Weltkrieg gezogen, die treffender nicht sein könnte. Im Ersten Weltkrieg hat allein die sogenannte ‚Blutmühle von Verdun‘, die als Abnutzungsschlacht konzipiert war, zum Tod von fast einer Million junger Franzosen und Deutscher geführt. Sie sind damals für nichts gefallen. Das Verweigern der Kriegsparteien von Verhandlungen hat also zu Millionen zusätzlicher Toter geführt. Diese Strategie hat damals militärisch nicht funktioniert – und wird das auch heute nicht tun.
Auch Sie sind für die Forderung nach Verhandlungen angegriffen worden.
Ja, ebenso der Generalinspekteur der Bundeswehr, General Eberhard Zorn, der wie ich davor gewarnt hat, die regionalbegrenzten Offensiven der Ukrainer in den Sommermonaten zu überschätzen. Militärische Fachleute – die wissen, was unter den Geheimdiensten läuft, wie es vor Ort aussieht und was Krieg wirklich bedeutet – werden weitestgehend aus dem Diskurs ausgeschlossen. Sie passen nicht zur medialen Meinungsbildung. Wir erleben weitgehend eine Gleichschaltung der Medien, wie ich sie so in der Bundesrepublik noch nie erlebt habe. Das ist pure Meinungsmache. Und zwar nicht im staatlichen Auftrag, wie es aus totalitären Regimen bekannt ist, sondern aus reiner Selbstermächtigung.
Sie werden von den Medien auf breiter Front angegriffen, von BILD bis FAZ und Spiegel, und damit auch die 500.000 Menschen, die den von Alice Schwarzer initiierten Offenen Brief an den Kanzler unterzeichnet haben.
So ist es. Zum Glück hat Alice Schwarzer ihr eigenes unabhängiges Medium, um diesen Diskurs überhaupt eröffnen zu können. In den Leitmedien hätte das wohl nicht funktioniert. Dabei ist die Mehrheit der Bevölkerung schon länger und auch laut aktueller Umfrage gegen weitere Waffenlieferungen. Das alles wird jedoch nicht berichtet. Es gibt weitestgehend keinen fairen offenen Diskurs mehr zum Ukraine-Krieg, und das finde ich sehr verstörend. Das zeigt mir, wie recht Helmut Schmidt hatte. Er sagte in einem Gespräch mit Kanzlerin Merkel: Deutschland ist und bleibt eine gefährdete Nation.
Wie beurteilen Sie die Politik der Außenministerin?
Militärische Operationen müssen immer an den Versuch gekoppelt werden, politische Lösungen herbeizuführen. Die Eindimensionalität der aktuellen Außenpolitik ist nur schwer zu ertragen. Sie ist sehr stark fokussiert auf Waffen. Die Hauptaufgabe der Außenpolitik aber ist und bleibt Diplomatie, Interessenausgleich, Verständigung und Konfliktbewältigung. Das fehlt mir hier. Ich bin ja froh, dass wir endlich mal eine Außenministerin in Deutschland haben, aber es reicht nicht, nur Kriegsrhetorik zu betreiben und mit Helm und Splitterschutzweste in Kiew oder im Donbass herumzulaufen. Das ist zu wenig.
Dabei ist Baerbock doch Mitglied der Grünen, der ehemaligen Friedenspartei.
Die Mutation der Grünen von einer pazifistischen zu einer Kriegspartei verstehe ich nicht. Ich selbst kenne keinen Grünen, der überhaupt auch nur den Militärdienst geleistet hätte. Anton Hofreiter ist für mich das beste Beispiel dieser Doppelmoral. Antje Vollmer hingegen, die ich zu den ‚ursprünglichen‘ Grünen zählen würde, nennt die Dinge beim Namen. Und dass eine einzige Partei so viel politischen Einfluss hat, dass sie uns in einen Krieg manövrieren kann, das ist schon sehr bedenklich.
Wenn Kanzler Scholz Sie von seiner Vorgängerin übernommen hätte und Sie noch der militärische Berater des Kanzlers wären, was hätten Sie ihm im Februar 2022 geraten?
Ich hätte ihm geraten, die Ukraine militärisch zu unterstützen, aber dosiert und besonnen, um Rutschbahneffekte in eine Kriegspartei zu vermeiden. Und ich hätte ihm geraten, auf unseren wichtigsten politischen Verbündeten, die USA, einzuwirken. Denn der Schlüssel für eine Lösung des Krieges liegt in Washington und Moskau. Mir hat der Kurs des Kanzlers in den letzten Monaten gefallen. Aber Grüne, FDP und die bürgerliche Opposition machen – flankiert von weitestgehend einstimmiger medialer Begleitmusik – dermaßen Druck, dass der Kanzler das kaum noch auffangen kann.
Und was, wenn auch der Leopard geliefert wird?
Dann stellt sich erneut die Frage, was mit den Lieferungen der Panzer überhaupt passieren soll. Um die Krim oder den Donbass zu übernehmen, reichen die Marder und Leoparden nicht aus. In der Ostkukraine, im Raum Bachmut, sind die Russen eindeutig auf dem Vormarsch. Sie werden wahrscheinlich den Donbass in Kürze vollständig erobert haben. Man muss sich nur allein die numerische Überlegenheit der Russen gegenüber der Ukraine vor Augen führen. Russland kann bis zu zwei Millionen Reservisten mobil machen. Da kann der Westen 100 Marder und 100 Leoparden hinschicken, sie ändern an der militärischen Gesamtlage nichts. Und die alles entscheidende Frage ist doch, wie man einen derartigen Konflikt mit einer kriegerischen Nuklearmacht – wohlbemerkt der stärksten Nuklearmacht der Welt! – durchstehen will, ohne in einen Dritten Weltkrieg zu gehen. Und genau das geht hier in Deutschland in die Köpfe der Politiker und der Journalisten nicht hinein!
Das Argument ist, Putin wolle nicht verhandeln und dass man ihn in seine Schranken weisen müsse, damit er in Europa nicht weiter wütet.
Es stimmt, dass man den Russen signalisieren muss: Bis hierher und nicht weiter! So ein Angriffskrieg darf nicht Schule machen. Deshalb ist es richtig, dass die Nato ihre militärische Präsenz im Osten erhöht und Deutschland hier mitmacht. Aber dass Putin nicht verhandeln will, ist unglaubwürdig. Beide, die Russen und Ukrainer waren am Anfang des Krieges Ende März, Anfang April 2022 zu einer Friedensvereinbarung bereit. Daraus ist dann nichts geworden. Es wurde schließlich auch während des Krieges das Getreideabkommen von den Russen und Ukrainern unter Einbeziehung der Vereinten Nationen fertig verhandelt.
Nun geht das Sterben weiter.
Man kann die Russen weiter abnutzen, was wiederum Hundertausende Tote bedeutet, aber auf beiden Seiten. Und es bedeutet die weitere Zerstörung der Ukraine. Was bleibt denn von diesem Land noch übrig? Es wird dem Erdboden gleichgemacht. Letztendlich ist das für die Ukraine auch keine Option mehr. Der Schlüssel für die Lösung des Konfliktes liegt nicht in Kiew, er liegt auch nicht in Berlin, Brüssel oder Paris, er liegt in Washington und Moskau. Es ist doch lächerlich zu sagen, die Ukraine müsse das entscheiden.
Mit dieser Deutung gilt man in Deutschland schnell als Verschwörungstheoretiker…
Ich bin selber überzeugter Transatlantiker. Ich sage Ihnen ehrlich, ich möchte im Zweifelsfall lieber unter einer amerikanischen Hegemonie als unter einer russischen oder chinesischen leben. Dieser Krieg war anfangs nur eine innenpolitische Auseinandersetzung der Ukraine. Die ging bereits 2014 los, zwischen den russischsprachigen ethnischen Gruppen und den Ukrainern selber. Es ist also ein Bürgerkrieg gewesen. Jetzt, nach dem Überfall Russlands, ist es ein zwischenstaatlicher Krieg zwischen Ukraine und Russland geworden. Es ist auch ein Kampf um die Unabhängigkeit der Ukraine und ihrer territorialen Integrität. Das ist alles richtig. Aber es ist nicht die ganze Wahrheit. Es ist eben auch ein Stellvertreter-Krieg zwischen den USA und Russland, und da geht es um ganz konkrete geopolitische Interessen in der Schwarzmeerregion.
Die da wären?
Die Schwarzmeerregion ist für die Russen und ihre Schwarzmeerflotte so wichtig wie die Karibik oder die Region um Panama für die USA. So wichtig wie das südchinesische Meer und Taiwan für China. So wichtig wie die Schutzzone der Türkei, die sie völkerrechtswidrig gegenüber den Kurden etabliert haben. Vor diesem Hintergrund und aus strategischen Gründen können die Russen da auch nicht raus. Mal abgesehen davon, dass sich bei einer Volksabstimmung auf der Krim die Bevölkerung mit Sicherheit für Russland entscheiden würde.
Wie soll das also weitergehen?
Wenn die Russen durch massive westliche Intervention dazu gezwungen würden, sich aus der Schwarzmeerregion zurückzuziehen, dann würden sie, bevor sie von der Weltbühne abtreten, mit Sicherheit zu den Nuklearwaffen greifen. Ich finde den Glauben naiv, ein Atomschlag Russlands würde niemals passieren. Nach dem Motto, ‚Die bluffen doch nur‘.
Aber was könnte die Lösung sein?
Man sollte die Menschen in der Region, also im Donbass und auf der Krim, einfach fragen, zu wem sie gehören wollen. Man müsste die territoriale Integrität der Ukraine wiederherstellen, mit bestimmten westlichen Garantien. Und die Russen brauchen so eine Sicherheitsgarantie eben auch. Also keine Nato-Mitgliedschaft für die Ukraine. Seit dem Gipfel von Bukarest von 2008 ist klar, dass das die rote Linie der Russen ist.
Und was kann Deutschland Ihrer Meinung nach tun?
Wir müssen unsere militärische Unterstützung so dosieren, dass wir nicht in einen Dritten Weltkrieg gleiten. Keiner von denen, die 1914 mit großer Begeisterung in den Krieg gezogen sind, war hinterher noch der Meinung, dass das richtig war. Wenn das Ziel eine unabhängige Ukraine ist, muss man sich perspektivisch auch die Frage stellen, wie eine europäische Ordnung unter Einbeziehung Russlands aussehen soll. Russland wird ja nicht einfach von der Landkarte verschwinden. Wir müssen vermeiden, die Russen in die Arme der Chinesen zu treiben, und damit die multipolare Ordnung zu unseren Ungunsten zu verschieben. Wir brauchen Russland auch als Führungsmacht eines Vielvölkerstaates, um aufflammende Kämpfe und Kriege zu vermeiden. Und ehrlich gesagt sehe ich nicht, dass die Ukraine Mitglied der EU und erst recht nicht Mitglied der Nato wird. Wir haben in der Ukraine ebenso wie in Russland eine hohe Korruption und die Herrschaft von Oligarchen. Das, was wir in der Türkei – mit Recht – in puncto Rechtsstaatlichkeit anprangern, das Problem haben wir in der Ukraine auch.
Was meinen Sie, Herr Vad, was erwartet uns im Jahr 2023?
Es muss sich in Washington eine breitere Front für Frieden aufbauen. Und dieser sinnfreie Aktionismus in der deutschen Politik, der muss endlich ein Ende finden. Sonst wachen wir eines Morgens auf und sind mittendrin im Dritten Weltkrieg.
Fonte: https://www.emma.de/artikel/erich-vad-was-sind-die-kriegsziele-340045
di Ben Norton
Il noto intellettuale francese Emmanuel Todd sostiene che la guerra per procura dell’Ucraina è l’inizio della terza guerra mondiale, ed è “esistenziale” sia per la Russia che per il “sistema imperiale” degli Stati Uniti, che ha limitato la sovranità dell’Europa, trasformando Bruxelles nel “protettorato” di Washington.
Al di là del confronto militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sulla contrapposizione tra l’occidente liberale e il resto del mondo conquistato a una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli in cui crediamo.
Emmanuel Todd è un antropologo, storico, saggista, futurista, autore di numerosi libri. Molti di loro, come “The Final Fall”, “The Economic Illusion” o “After the Empire”, sono diventati dei classici delle scienze sociali. Il suo ultimo libro, “ La terza guerra mondiale è iniziata “, è stato pubblicato nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.
Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “distruttore ribelle” secondo le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia nessuno indifferente. L’autore di La Chute finale, che predisse il crollo dell’Unione Sovietica nel 1976, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina . L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi sul tema al pubblico giapponese, pubblicando anche un saggio dal titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è iniziata” (“La Troisième Guerre mondiale a commencé” in francese). Al momento è disponibile solo in Giappone. Nella intervista a Le Figaro dettaglia la sua tesi iconoclasta.
Un eminente intellettuale francese ha scritto un libro sostenendo che gli Stati Uniti stanno già conducendo la Terza Guerra Mondiale contro Russia e Cina. Ha anche avvertito che l’Europa è diventata una sorta di “protettorato” imperiale, che ha poca sovranità ed è essenzialmente controllato dagli Stati Uniti.
Todd ha delineato le principali argomentazioni che ha fatto nel libro in un’intervista in lingua francese al principale quotidiano Le Figaro , condotta dal giornalista Alexandre Devecchio. Secondo Todd, la guerra per procura in Ucraina è “esistenziale” non solo per la Russia, ma anche per gli Stati Uniti. Il “sistema imperiale” statunitense si sta indebolendo in gran parte del mondo, ha osservato, ma questo sta portando Washington a “rafforzare la presa sui suoi protettorati iniziali”: Europa e Giappone.
Ciò significa che “Germania e Francia sono diventate partner minori nella NATO”, ha detto Todd, e la NATO è davvero un blocco “Washington-Londra-Varsavia-Kiev”. Le sanzioni degli Stati Uniti e dell’UE non sono riuscite a schiacciare la Russia, come speravano le capitali occidentali, ha osservato. Ciò significa che “la resistenza dell’economia russa sta spingendo il sistema imperiale americano verso il precipizio” e “i controlli monetari e finanziari americani del mondo crollerebbero”.
L’intellettuale francese ha indicato i voti delle Nazioni Unite riguardanti la Russia e ha avvertito che l’ Occidente non è in contatto con il resto del mondo . “I giornali occidentali sono tragicamente divertenti. Non smettono di dire: “La Russia è isolata, la Russia è isolata”. Ma quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che poi sembra molto piccolo”, ha osservato Todd. Ha anche criticato le metriche del PIL utilizzate dagli economisti neoclassici occidentali per minimizzare la capacità produttiva dell’economia russa, esagerando contemporaneamente quella delle economie neoliberiste finanziarizzate come negli Stati Uniti.
Nell’intervista a Le Figaro, Todd ha sostenuto (tutte le sottolineature sono state aggiunte):
Questa è la realtà, la terza guerra mondiale è iniziata. È vero che è iniziato “in piccolo” e con due sorprese. Siamo entrati in questa guerra con l’idea che l’esercito russo fosse molto potente e che la sua economia fosse molto debole.
Si pensava che l’Ucraina sarebbe stata schiacciata militarmente e che la Russia sarebbe stata schiacciata economicamente dall’Occidente. Ma è successo il contrario. L’Ucraina non è stata schiacciata militarmente anche se in quella data ha perso il 16% del suo territorio; La Russia non è stata schiacciata economicamente. Mentre vi parlo, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dal giorno prima dell’inizio della guerra.
Quindi c’è stata una sorta di malinteso. Ma è evidente che il conflitto, passando da una limitata guerra territoriale a uno scontro economico globale, tra tutto l’occidente da un lato e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altro, è diventato un mondo di guerra. Anche se la violenza militare è bassa rispetto a quella delle precedenti guerre mondiali.
Il giornale ha chiesto a Todd se stesse esagerando. Ha risposto: “Forniamo ancora armi. Uccidiamo russi, anche se non ci esponiamo. Ma resta vero che noi europei siamo impegnati soprattutto economicamente. Sentiamo anche la nostra vera entrata in guerra attraverso l’inflazione e la penuria”.
Todd ha sottovalutato il suo caso. Non ha menzionato il fatto che, dopo che gli Stati Uniti hanno sponsorizzato il colpo di stato che ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina nel 2014, scatenando una guerra civile, la CIA e il Pentagono hanno immediatamente iniziato ad addestrare le forze ucraine per combattere la Russia.
Il New York Times ha riconosciuto che la CIA e le forze per le operazioni speciali di numerosi paesi europei sono sul campo in Ucraina. E la CIA e un alleato europeo della NATO stanno persino effettuando attacchi di sabotaggio all’interno del territorio russo.
Tuttavia, nell’intervista, Todd ha continuato:
Putin ha commesso un grosso errore all’inizio, il che è di immenso interesse storico-sociale. Coloro che lavoravano in Ucraina alla vigilia della guerra consideravano il paese non come una democrazia alle prime armi, ma come una società in decadenza e uno “stato fallito” in formazione.
Penso che il calcolo del Cremlino fosse che questa società in decomposizione si sgretolasse al primo shock, o addirittura dicesse “benvenuta mamma” nella santa Russia. Ma quello che abbiamo scoperto, al contrario, è che una società in decomposizione, se alimentata da risorse finanziarie e militari esterne, può trovare nella guerra un nuovo tipo di equilibrio, e anche un orizzonte, una speranza. I russi non avrebbero potuto prevederlo. Nessuno potrebbe.
Todd ha detto di condividere il punto di vista sull’Ucraina del politologo statunitense John Mearsheimer, un realista che ha criticato la politica estera aggressiva di Washington. Mearsheimer “ci ha detto che l’Ucraina, il cui esercito era stato rilevato dai soldati della NATO (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi un membro de facto della NATO, e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato una NATO membro dell’Ucraina”, ha detto Todd.
Per la Russia, questa è una guerra che è “dal loro punto di vista difensivo e preventivo”, ha ammesso. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata.
Tuttavia, Todd ha sostenuto che Mearsheimer “non va abbastanza lontano” nella sua analisi. Lo scienziato politico statunitense ha trascurato il modo in cui Washington ha limitato la sovranità di Berlino e Parigi, ha detto Todd:
Germania e Francia erano diventate partner minori nella NATO e non erano a conoscenza di ciò che stava accadendo in Ucraina a livello militare. L’ingenuità francese e tedesca è stata criticata perché i nostri governi non credevano nella possibilità di un’invasione russa. Vero, ma perché non sapevano che americani, inglesi e polacchi avrebbero potuto rendere l’Ucraina in grado di condurre una guerra più ampia. L’asse fondamentale della NATO ora è Washington-Londra-Varsavia-Kiev.
Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo paese. Ritiene che, se per i russi la guerra in Ucraina è esistenziale, per gli americani non è altro che un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una debacle in più o in meno… Che importa?
L’assioma fondamentale della geopolitica americana è: ‘Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al riparo, lontano, tra due oceani, non ci succederà mai niente’. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Insufficienza di analisi che oggi porta Biden a una serie di azioni sconsiderate.
L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa sta spingendo il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno si aspettava che l’economia russa avrebbe resistito alla “potenza economica” della NATO. Credo che gli stessi russi non l’avessero previsto.
Emmanuel Todd prosegue nell’intervista sostenendo che, resistendo a tutta la forza delle sanzioni occidentali, la Russia e la Cina rappresentano una minaccia per “i controlli monetari e finanziari americani del mondo”. Questo, a sua volta, mette in discussione lo status degli Stati Uniti come emittente della valuta di riserva globale , che gli conferisce la capacità di mantenere un “enorme deficit commerciale”:
Se l’economia russa resistesse indefinitamente alle sanzioni e riuscisse a esaurire l’economia europea, pur rimanendo essa stessa, sostenuta dalla Cina, crollerebbero i controlli monetari e finanziari americani del mondo, e con essi la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il loro enorme disavanzo commerciale.
Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti . Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono lasciarsi andare. Ecco perché ora ci troviamo in una guerra senza fine, in uno scontro il cui esito deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.
Todd ha avvertito che, mentre gli Stati Uniti si stanno indebolendo in gran parte del mondo, il loro “sistema imperiale” sta “rafforzando la presa sui suoi protettorati iniziali”: Europa e Giappone. E ha spiegato:
Ovunque vediamo l’indebolimento degli Stati Uniti, ma non in Europa e in Giappone, perché uno degli effetti del ritiro del sistema imperiale è che gli Stati Uniti rafforzano la presa sui loro protettorati iniziali.
Se leggiamo [Zbigniew] Brzezinski (The Grand Chessboard), vediamo che l’impero americano si è formato alla fine della seconda guerra mondiale con la conquista della Germania e del Giappone, che sono ancora oggi protettorati. Man mano che il sistema americano si restringe, pesa sempre più pesantemente sulle élite locali dei protettorati (e includo qui tutta l’Europa).
I primi a perdere ogni autonomia nazionale saranno (o lo sono già) gli inglesi e gli australiani. Internet ha prodotto un’interazione umana con gli Stati Uniti nell’anglosfera di tale intensità che le sue élite accademiche, mediatiche e artistiche sono, per così dire, annesse. Nel continente europeo siamo in qualche modo protetti dalle nostre lingue nazionali, ma la caduta della nostra autonomia è considerevole e rapida.
Come esempio di un momento della storia recente in cui l’Europa era più indipendente, Todd ha sottolineato: “Ricordiamo la guerra in Iraq, quando Chirac, Schröder e Putin hanno tenuto conferenze stampa congiunte contro la guerra” — riferendosi agli ex leader della Francia (Jacques Chirac) e Germania (Gerhard Schröder).
L’intervistatore del quotidiano Le Figaro, Alexandre Devecchio, ha ribattuto Todd chiedendo: “Molti osservatori sottolineano che la Russia ha il PIL della Spagna. Non stai sopravvalutando il suo potere economico e la sua resilienza?” Todd ha criticato l’eccessiva dipendenza dal PIL come parametro, definendolo una “misura fittizia della produzione” che oscura le reali forze produttive in un’economia:
La guerra diventa un banco di prova dell’economia politica, è il grande rivelatore. Il Pil di Russia e Bielorussia rappresenta il 3,3% del Pil occidentale (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), praticamente nulla. Ci si può chiedere come questo PIL insignificante possa far fronte e continuare a produrre missili.
Il motivo è che il PIL è una misura fittizia della produzione. Se togliamo al Pil americano la metà della sua spesa sanitaria sovrafatturata, allora la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più piene del mondo, quindi da un’intera economia di servizi mal definiti, compresi i “produzione” dei suoi 15-20 mila economisti con uno stipendio medio di 120.000 dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo PIL è vapore acqueo.
La guerra ci riporta all’economia reale, ci permette di capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità di produzione, e quindi la capacità di guerra.
Todd ha osservato che la Russia ha mostrato “una reale capacità di adattamento”. Ha attribuito questo al “ruolo molto ampio dello stato” nell’economia russa, in contrasto con il modello economico neoliberista statunitense:
Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014 abbiamo messo in atto le prime sanzioni importanti contro la Russia, ma poi ha aumentato la sua produzione di grano, che è passata da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Intanto, grazie al neoliberismo, la produzione di grano americana, tra il 1980 e il 2020, è passata da Da 80 a 40 milioni di tonnellate.
…
La Russia ha quindi una reale capacità di adattamento. Quando vogliamo prendere in giro le economie centralizzate, sottolineiamo la loro rigidità, e quando glorifichiamo il capitalismo, lodiamo la sua flessibilità.
…
L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole di funzionamento del mercato (è persino un’ossessione di Putin preservarle), ma con un ruolo molto ampio per lo Stato, ma trae la sua flessibilità anche dalla formazione di ingegneri, che ne consentono gli adattamenti industriali e militari.
Questo punto è simile a quanto sostenuto dall’economista Michael Hudson – che sebbene l’economia di Mosca non sia più socialista, come lo era quella dell’Unione Sovietica, il capitalismo industriale guidato dallo stato della Federazione Russa si scontra con il modello finanziarizzato del capitalismo neoliberista che gli Stati Uniti hanno cercato di imporre al mondo.
Fonte originale: https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112
Pubblichiamo il discorso pronunciato da Lula nel Parlamento della capitale Brasília il 1° gennaio 2023, in occasione dell’insediamento del nuovo governo.
Per la terza volta mi presento a questo Parlamento Nazionale per ringraziare il popolo brasiliano per il voto di fiducia ricevuto. Rinnovo il mio giuramento di fedeltà alla Costituzione della Repubblica, insieme al Vice Presidente Geraldo Alckmin e ai ministri che lavoreranno con noi per il Brasile.
Se siamo qui oggi, è grazie alla consapevolezza politica della società brasiliana e al fronte democratico che abbiamo formato durante questa storica campagna elettorale.
La democrazia è stata la grande vincitrice di queste elezioni, riuscendo a prevalere sulla più grande mobilitazione di risorse pubbliche e private mai vista; le più violente minacce alla libertà di voto, la più abietta campagna di bugie e odio tramata per manipolare e mistificare l’elettorato.
Mai prima d’ora risorse pubbliche statali sono state così mal utilizzate a vantaggio di un progetto autoritario di potere. Mai la macchina pubblica è stata così sottratta ai controlli repubblicani. Gli elettori non sono mai stati così vincolati dal potere economico e dalle bugie diffuse su scala industriale.
Nonostante tutto, ha prevalso la decisione delle urne, grazie a un sistema elettorale riconosciuto a livello internazionale per la sua efficacia nel ricevere e contare i voti. L’atteggiamento coraggioso della Magistratura, in particolare del Tribunale Superiore Elettorale, è stato fondamentale per far prevalere la verità delle urne sulla violenza dei suoi detrattori.
Signore e signori parlamentari,
Tornando a questa seduta plenaria della Camera dei Deputati, dove ho partecipato all’Assemblea Costituente del 1988, ricordo con commozione gli scontri che qui abbiamo combattuto, democraticamente, per inscrivere nella Costituzione il più ampio insieme di diritti sociali, individuali e collettivi, a vantaggio della popolazione e della sovranità nazionale.
Vent’anni fa, quando sono stato eletto presidente per la prima volta, insieme al collega vicepresidente José Alencar, ho iniziato il mio discorso inaugurale con la parola “cambiamento”. Il cambiamento che intendevamo era semplicemente quello di attuare i precetti costituzionali. A cominciare dal diritto a una vita dignitosa, senza fame, con accesso al lavoro, alla salute e all’istruzione.
In quell’occasione ho affermato che la missione della mia vita si sarebbe compiuta quando ogni uomo e donna del Paese avesse potuto consumare tre pasti al giorno.
Dover ripetere oggi questo impegno – di fronte all’aumento della povertà e al ritorno della fame, che avevamo superato – è il sintomo più grave della devastazione che si è imposta al Paese in questi anni.
Oggi il nostro messaggio al Brasile è di speranza e di ricostruzione. Il grande edificio di diritti, sovranità e sviluppo che questa Nazione ha costruito dal 1988 è stato sistematicamente demolito negli ultimi anni. È per ricostruire questo edificio di diritti e valori nazionali che dirigeremo tutti i nostri sforzi.
Signore e signori,
Nel 2002 dicevamo che la speranza aveva vinto la paura, nel senso di aver superato i timori di fronte all’inedita elezione di un rappresentante della classe operaia a presiedere ai destini del Paese. In otto anni di governo abbiamo chiarito che tali timori erano infondati. Altrimenti non saremmo qui di nuovo.
È stato dimostrato che un rappresentante della classe operaia può di fatto dialogare con la società per promuovere la crescita economica in modo sostenibile e a beneficio di tutti, specialmente dei più bisognosi. Si è dimostrato che era davvero possibile governare questo Paese con la più ampia partecipazione sociale, includendo i lavoratori e i più poveri nelle decisioni di bilancio e di governo.
Durante questa campagna elettorale ho visto brillare la speranza negli occhi di un popolo sofferente, a causa della distruzione delle politiche pubbliche che promuovevano la cittadinanza, i diritti essenziali, la salute e l’istruzione. Ho visto il sogno di una Patria generosa, che offra opportunità ai suoi figli e figlie, in cui la solidarietà attiva sia più forte del cieco individualismo.
La diagnosi che abbiamo ricevuto dal Gabinetto per la Transizione di Governo è spaventosa. Hanno svuotato le risorse sanitarie. Hanno smantellato Istruzione, Cultura, Scienza e Tecnologia. Hanno distrutto la protezione dell’ambiente. Non hanno lasciato risorse per mense scolastiche, vaccinazioni, sicurezza pubblica, protezione forestale, assistenza sociale. Hanno disorganizzato il governo dell’economia, il finanziamento pubblico, il sostegno alle imprese, agli imprenditori e al commercio estero. Hanno sperperato aziende statali e banche pubbliche; hanno consegnato il patrimonio nazionale. Le risorse del paese sono state saccheggiate per soddisfare l’avidità dei redditieri e degli azionisti privati delle aziende pubbliche.
È su queste terribili rovine che prendo l’impegno, insieme al popolo brasiliano, di ricostruire il Paese e costruire di nuovo un Brasile di tutti e per tutti.
Signore e signori,
Di fronte al disastro di bilancio che abbiamo ricevuto, ho presentato al Congresso nazionale proposte che ci consentono di sostenere l’immenso strato di popolazione che ha bisogno dello Stato semplicemente per sopravvivere.
Ringrazio la Camera e il Senato per la loro sensibilità alle urgenze del popolo brasiliano. Prendo atto dell’atteggiamento estremamente responsabile della Corte Suprema Federale e della Corte Federale dei conti di fronte a situazioni che avrebbero potuto distorcere l’arminia dei tre poteri repubblicani.
L’ho fatto perché non sarebbe giusto né corretto chiedere pazienza a chi ha fame. Nessuna nazione è risorta né può sollevarsi dalla miseria della sua gente.
I diritti e gli interessi della popolazione, il rafforzamento della democrazia e la ripresa della sovranità nazionale saranno i pilastri del nostro governo.
Questo impegno inizia con la garanzia di un Programma Bolsa Família [è un programma di assistenza sociale realizzato dal Governo del Brasile, fornisce aiuti finanziari alle famiglie in stato di povertà. NdT] rinnovato, più forte e più equo, al servizio dei più bisognosi. Le nostre prime azioni mirano a salvare 33 milioni di persone dalla fame e salvare dalla povertà più di 100 milioni di uomini e donne brasiliani, che hanno sopportato il peso più duro del progetto di distruzione nazionale che oggi si conclude.
Signore e signori,
Questo processo elettorale è stato caratterizzato anche dal contrasto tra diverse visioni del mondo. Il nostro, centrato sulla solidarietà e sulla partecipazione politica e sociale per la definizione democratica del destino del Paese. L’altro, nell’individualismo, nella negazione della politica, nella distruzione dello Stato in nome di presunte libertà individuali.
La libertà che abbiamo sempre difeso è quella di vivere con dignità, con pieni diritti di espressione, manifestazione e organizzazione.
La libertà che coloro che abbiamo battuto predicano è quella di opprimere i vulnerabili, massacrare l’avversario e imporre la legge del più forte al di sopra delle leggi della civiltà. Il nome di ciò è barbarie.
Ho capito, fin dall’inizio del percorso della campagna elettorale, che dovevo candidarmi con un fronte più ampio rispetto all’ambito politico in cui mi ero formato, mantenendo fermo il legame con le mie origini. Questo fronte è stato consolidato per impedire il ritorno dell’autoritarismo nel Paese.
Da oggi sarà nuovamente rispettata la Legge sull’accesso all’informazione, il Portale della Trasparenza svolgerà nuovamente il suo ruolo, saranno nuovamente esercitati i controlli repubblicani a difesa dell’interesse pubblico. Non abbiamo alcuno spirito di rivalsa contro chi ha cercato di soggiogare la Nazione ai propri disegni personali e ideologici, ma garantiremo lo stato di diritto. Chi ha sbagliato risponderà dei propri errori, con ampio diritto di difesa, entro le dovute vie legali. Il mandato che abbiamo ricevuto, contro oppositori ispirati dal fascismo, sarà difeso con i poteri che la Costituzione conferisce alla democrazia.
All’odio, risponderemo con amore. Alla menzogna, con la verità. Al terrore e alla violenza, risponderemo con la Legge e le sue più dure conseguenze.
Sotto i venti della ridemocratizzazione dopo il ventennio del golpe dei militari, affermammo: mai più dittatura! Oggi, dopo la terribile sfida vinta, dobbiamo dire: democrazia per sempre!
Per confermare queste parole, dovremo ricostruire la democrazia nel nostro Paese su basi solide. La democrazia sarà difesa dal popolo nella misura in cui garantisce a tutti i diritti sanciti dalla Costituzione.
Signore e signori,
Firmo oggi i provvedimenti per riorganizzare le strutture dell’Esecutivo, affinché consentano nuovamente al governo di funzionare in modo razionale, repubblicano e democratico. Salvare il ruolo delle istituzioni statali, delle banche pubbliche e delle aziende statali nello sviluppo del Paese. Pianificare investimenti pubblici e privati verso una crescita economica sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale.
Dialogando con i governatori dei 27 Stati della Federazione, definiremo le priorità per la ripresa dele opere pubbliche irresponsabilmente paralizzate, che nel Paese sono più di 14mila. Riprenderemo il Programma Minha Casa, Minha Vida [mira ad aiutare gli strati sociali più bassi ad acquisire la casa propria. NdT] e struttureremo un nuovo Programma di Accelerazione della Crescita [PAC, è un importante programma infrastrutturale del governo federale del Brasile. NdT] per generare posti di lavoro alla velocità nesessaria per il Paese. Cercheremo finanziamenti e cooperazione – a livello nazionale e internazionale – per gli investimenti, per potenziare ed espandere il mercato interno dei consumatori, per sviluppare il commercio, le esportazioni, i servizi, l’agricoltura e l’industria.
Le banche pubbliche, in particolare il BNDES [Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale è una banca di sviluppo strutturata come una società pubblica federale associata al Ministero dell’Economia del Brasile. L’obiettivo dichiarato è quello di fornire finanziamenti a lungo termine per gli sforzi che contribuiscono allo sviluppo del paese. NdT], e le aziende che promuovono la crescita e l’innovazione, come la Petrobras [è la compagnia pubblica brasiliana di ricerca, estrazione, raffinazione, trasporto e vendita di petrolio. NdT], giocheranno un ruolo fondamentale in questo nuovo ciclo. Allo stesso tempo, daremo impulso alle piccole e medie imprese, potenzialmente i maggiori generatori di posti di lavoro e reddito, all’imprenditorialità, al cooperativismo ed alla economia creativa.
La ruota dell’economia tornerà a girare e il consumo popolare giocherà un ruolo centrale in questo processo.
Riprenderemo la politica di valorizzazione permanente del salario minimo. E state pur certi che porremo fine, ancora una volta, alla vergognosa coda dell’INSS [Istituto di previdenza sociale brasiliano. NdT], un’altra ingiustizia ristabilita in questi tempi di distruzione. Apriremo un tavolo di dialogo, in modo tripartito – governo, sindacati e centrali d’impresa – su una nuova legislazione sul lavoro. Garantire la libertà di intraprendere, insieme alla protezione sociale, è una sfida importante nei tempi attuali.
Signore e signori,
Il Brasile è troppo grande per rinunciare al suo potenziale produttivo. Non ha senso importare carburanti, fertilizzanti, piattaforme petrolifere, microprocessori, aerei e satelliti. Disponiamo di capacità tecnica, capitale e mercato sufficienti per riprendere l’industrializzazione e offrire servizi a un livello competitivo.
Il Brasile può e deve essere in prima linea nell’economia globale.
Spetterà allo Stato articolare la transizione digitale e portare l’industria brasiliana nel 21° secolo, con una politica industriale che sostenga l’innovazione, stimoli la cooperazione pubblico-privata, rafforzi la scienza e la tecnologia e garantisca l’accesso a finanziamenti a costi adeguati.
Il futuro sarà di chi investe nell’industria della conoscenza, che sarà oggetto di una strategia nazionale, progettata in dialogo con il settore produttivo, i centri di ricerca e le università, insieme al Ministero della Scienza, Tecnologia e Innovazione, le banche pubbliche, le imprese statali e le agenzie di finanziamento della ricerca.
Nessun altro Paese ha le condizioni del Brasile per diventare una grande potenza ambientale, basata sulla creatività della bioeconomia e sulle attività basate sulla socio-biodiversità. Inizieremo la transizione energetica ed ecologica verso un’agricoltura e un’estrazione mineraria sostenibili, un’agricoltura familiare più forte e un’industria più verde.
Il nostro obiettivo è raggiungere deforestazione zero in Amazzonia e zero emissioni di gas che alimentano l’effetto serra nella matrice elettrica, oltre ad incoraggiare il riutilizzo dei pascoli degradati. Il Brasile non ha bisogno di disboscare per mantenere ed espandere la sua frontiera agricola strategica.
Incoraggeremo sicuramente la prosperità nel settore rurale. La libertà e l’opportunità di creare, piantare e raccogliere continueranno ad essere il nostro obiettivo. Quello che non possiamo ammettere è che ci sia un ambiente rurale senza legge. Non tollereremo la violenza contro le piccole proprietà agricole, la deforestazione e il degrado ambientale, che hanno già fatto tanto male al Paese.
Questo è uno dei motivi, non l’unico, per la creazione del Ministero dei Popoli Indigeni. Nessuno conosce meglio le nostre foreste o è più capace di difenderle di chi è qui da tempo immemorabile. Ogni terra indigena delimitata è una nuova area di protezione ambientale. A questi uomini e donne brasiliani dobbiamo rispetto e con loro abbiamo un debito storico.
Aboliremo tutte le ingiustizie commesse contro i popoli nativi. Cari amici e amiche,
Una nazione non si misura solo con le statistiche, per quanto impressionanti possano essere. Proprio come un essere umano, una nazione si esprime veramente attraverso l’anima della sua gente. L’anima del Brasile risiede nella diversità senza pari della nostra gente e delle nostre manifestazioni culturali.
Stiamo rifondando il Ministero della Cultura, con l’ambizione di riprendere più intensamente le politiche di incentivazione e di accesso ai beni culturali, interrotte dall’oscurantismo negli ultimi anni.
Una politica culturale democratica non può temere critiche o eleggere favoriti. Che tutti i fiori sboccino e tutti i frutti della nostra creatività siano raccolti, che tutti ne godano, senza censure o discriminazioni.
È inaccettabile che neri e mulatti continuino ad essere la maggioranza povera e oppressa di un paese costruito con il sudore e il sangue dei loro antenati africani. Abbiamo creato il Ministero per la promozione dell’uguaglianza razziale per ampliare la politica delle quote nelle università e nel servizio pubblico, oltre a riprendere le politiche pubbliche rivolte alle persone di colore nella sanità, nell’istruzione e nella cultura.
È inammissibile che le donne ricevano meno degli uomini, svolgendo la stessa funzione; o che non siano riconosciute in un mondo politico sessista. Che siano molestate impunemente nelle strade e sul lavoro. Che siano vittime di violenze dentro e fuori casa. Stiamo rifondando, quindi, anche il Ministero delle Donne per abbattere questo secolare castello di disuguaglianze e pregiudizi.
Non ci sarà vera giustizia in un paese in cui un solo essere umano subisca un torto. Spetterà al Ministero dei Diritti Umani garantire e agire affinché ogni cittadino abbia i propri diritti rispettati, nell’accesso ai servizi pubblici e privati, nella protezione contro i pregiudizi o davanti all’autorità pubblica. La cittadinanza è l’altro nome della democrazia.
Il Ministero della Giustizia e della Pubblica Sicurezza agirà per armonizzare i poteri e gli organismi federali al fine di promuovere la pace dove è più urgente, nelle comunità povere, tra le famiglie vulnerabili, dove agiscono la criminalità organizzata, le milizie e la violenza, da qualsiasi parte venga.
Stiamo revocando i decreti criminali che ampliavano l’accesso ad armi e munizioni e che hanno causato tanta insicurezza e tanti danni alle famiglie brasiliane. Il Brasile non vuole e non ha bisogno di armi nelle mani del popolo. Il Brasile ha bisogno di sicurezza, il Brasile ha bisogno di libri, istruzione e cultura per poter essere un paese più giusto. Sotto la protezione di Dio, questo mandato riafferma che in Brasile la fede può essere presente in tutte le abitazioni, nei vari templi, chiese e culti. In questo Paese tutti potranno esercitare liberamente la propria religiosità.
Signore e signori,
Il periodo che si chiude è stato segnato da una delle più grandi tragedie della storia. La pandemia di covid-19. In nessun altro paese il numero di vittime è stato così alto in proporzione alla popolazione come in Brasile. Uno dei Paesi meglio preparati ad affrontare le emergenze sanitarie, grazie alla competenza del nostro Sistema Sanitario Unificato [Pubblico. NdT] e alla competenza delle nostre persone nella vaccinazione. Questo paradosso si spiega solo con l’atteggiamento criminale di un governo negazionista, oscurantista, insensibile alla vita.
La responsabilità di questo genocidio va indagata e non deve restare impunita. Sta a noi, in questo momento, essere solidali con i parenti, i genitori, gli orfani, i fratelli e le sorelle di quasi 700mila vittime della pandemia. Il Sistema Sanitario Unificato è probabilmente la più democratica delle istituzioni create dalla Costituzione del 1988. Per questo da allora è sicuramente la più perseguitata ed è stata anche la più danneggiata da una stupidità chiamata “tetto di spesa” [legge inserita nella Costituzione che fissa limiti specifici per le spese pubbliche sociali primarie. NdT] che dovremo revocare.
Ricomporremo il budget sanitario per garantire l’assistenza di base, la farmacia popolare, promuovere l’accesso alla medicina specialistica. Ricomporremo il budget dell’istruzione, investiremo in più università nell’istruzione tecnica, nell’universalizzazione dell’accesso a internet, nell’espansione degli asili nido e nell’insegnamento pubblico a tempo pieno. Questo è l’investimento che porterà veramente allo sviluppo del Paese.
Il modello che proponiamo, approvato nelle urne, richiede un impegno di responsabilità, credibilità e prevedibilità. E non ci arrenderemo. È stato con realismo di bilancio, fiscale e monetario, ricercando la stabilità, controllando l’inflazione e rispettando i contratti che abbiamo governato questo Paese. Non possiamo fare diversamente. Ora abbiamo l’obbligo di fare meglio di quello che abbiamo fatto precedentemente.
Signore e signori,
Gli occhi del mondo erano puntati sul Brasile in queste elezioni. Il mondo si aspetta che il Brasile diventi ancora una volta un leader nell’affrontare la crisi climatica e un esempio di Paese socialmente e ambientalmente responsabile, capace di promuovere la crescita economica con distribuzione del reddito, combattere la fame e la povertà, con un processo democratico.
Il nostro protagonismo si materializzerà attraverso la ripresa dell’integrazione sudamericana, a partire dal Mercosur, dalla rivitalizzazione dell’Unasur e altre istanze di articolazione sovrane nella regione. Su questa base potremo ricostruire il dialogo fiero e attivo con gli Stati Uniti, la Comunità Europea, la Cina, i Paesi dell’Est e gli altri attori mondiali; rafforzando i BRICS, la cooperazione con i Paesi africani e rompendo l’isolamento in cui era relegato il Paese.
Il Brasile deve essere padrone di se stesso, padrone del proprio destino. Deve tornare ad essere un paese sovrano. Siamo responsabili della maggior parte dell’Amazzonia e di vasti biomi, grandi falde acquifere, giacimenti minerari, petrolio e fonti di energia pulita. Con sovranità e responsabilità saremo rispettati per condividere questa grandezza con l’umanità – in solidarietà, mai con subordinazione.
La rilevanza delle elezioni in Brasile si riferisce, infine, alle minacce che il modello democratico ha dovuto affrontare. In tutto il pianeta si sta articolando un’ondata di estremismo autoritario che diffonde odio e bugie attraverso mezzi tecnologici non soggetti a controlli trasparenti.
Difendiamo la piena libertà di espressione, consapevoli che è urgente creare istanze democratiche per l’accesso a informazioni affidabili e la responsabilizzazione dei mezzi con i quali vengono inoculati i veleni dell’odio e della
menzogna. Questa è una sfida di civiltà, allo stesso modo del superamento delle guerre, della crisi climatica, della fame e delle disuguaglianze nel pianeta.
Riaffermo, per il Brasile e per il mondo, la convinzione che la Politica, nella sua accezione più alta – e nonostante tutti i suoi limiti – sia la via migliore per il dialogo tra interessi divergenti, per la costruzione pacifica del consenso. Negare la politica, svalutarla e criminalizzarla è il percorso delle tirannie.
La mia missione più importante, da oggi, sarà quella di onorare la fiducia ricevuta e rispondere alle speranze di un popolo sofferente, che non ha mai perso la fiducia nel futuro e nella capacità di superare le sfide. Con la forza del popolo e la benedizione di Dio, dovremo ricostruire questo paese.
Viva la democrazia!
Lunga vita al popolo brasiliano! Grazie a tutti e tutte.
Traduzione in italiano a cura di Alessandro Vigilante
di John Pilger
Negli anni settanta ho incontrato Leni Riefenstahl, una delle principali propagandiste di Hitler, i cui film epici glorificavano il nazismo. Ci capitò di soggiornare nello stesso hotel in Kenya, dove lei si trovava per un incarico fotografico, essendo sfuggita al destino di altri amici del Führer. Mi disse che i “messaggi patriottici” dei suoi film non dipendevano da “ordini dall’alto” ma da quello che lei definiva il “vuoto sottomesso” del pubblico tedesco.
Questo coinvolgeva la borghesia liberale e istruita? Ho chiesto. “Sì, soprattutto loro”, rispose.
Penso a questo quando mi guardo intorno e osservo la propaganda che sta deteriorando le società occidentali.
Certo, siamo molto diversi dalla Germania degli anni trenta. Viviamo in società dell’informazione. Siamo globalisti. Non siamo mai stati così consapevoli, così in contatto, così connessi.
Lo siamo? Oppure viviamo in una Società Mediatica in cui il lavaggio del cervello è insidioso e implacabile e la percezione è filtrata in base alle esigenze e alle bugie del potere statale e del potere delle imprese?
Gli Stati Uniti dominano i media del mondo occidentale. Tutte le dieci principali società mediatiche, tranne una, hanno sede in Nord America. Internet e i social media – Google, Twitter, Facebook – sono per lo più di proprietà e controllo americano.
Nel corso della mia vita, gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare più di 50 governi, la gran parte democrazie. Hanno interferito nelle elezioni democratiche di 30 Paesi. Hanno sganciato bombe sulla popolazione di 30 paesi, la maggior parte dei quali poveri e indifesi. Hanno tentato di assassinare i dirigenti politici di 50 paesi. Hanno combattuto per reprimere i movimenti di liberazione in 20 paesi.
La portata e l’ampiezza di questa carneficina è in gran parte non riportata, non riconosciuta; e i responsabili continuano a dominare la vita politica anglo-americana.
Negli anni precedenti la sua morte, avvenuta nel 2008, il drammaturgo Harold Pinter pronunciò due discorsi straordinari, che ruppero il silenzio.
“La politica estera degli Stati Uniti”, disse, “è meglio definita come segue: baciami il culo o ti spacco la testa. È così semplice e cruda. L’aspetto interessante è che ha un successo incredibile. Possiede le strutture della disinformazione, dell’uso della retorica, della distorsione del linguaggio, che sono molto persuasive, ma in realtà sono un sacco di bugie. È una propaganda di grande successo. Hanno i soldi, hanno la tecnologia, hanno tutti i mezzi per farla franca, e la fanno”.
Nell’accettare il Premio Nobel per la Letteratura, Pinter ha detto questo: “I crimini degli Stati Uniti sono stati sistematici, costanti, feroci, senza remore, ma pochissime persone ne hanno veramente parlato. Occorre riconoscerlo all’America. Ha esercitato una manipolazione affatto patologica del potere in tutto il mondo, mascherandosi come forza per il bene universale. È un atto di ipnosi brillante, persino spiritoso e di grande successo”.
Pinter era un mio amico e forse l’ultimo grande saggio politico, cioè prima che la politica del dissenso si fosse imborghesita. Gli chiesi se la “ipnosi” a cui si riferiva fosse il “vuoto sottomesso” descritto da Leni Riefenstahl.
“È la stessa cosa”, ha risposto. “Significa che il lavaggio del cervello è così accurato tanto che siamo programmati a ingoiare un mucchio di bugie. Se non riconosciamo la propaganda, possiamo accettarla come normale e crederci. Questo è il vuoto sottomesso”.
Nei nostri sistemi di “democrazia delle grandi imprese”, la guerra è una necessità economica, il connubio perfetto tra sovvenzioni pubbliche e profitto privato: socialismo per i ricchi, capitalismo per i poveri. Il giorno dopo l’11 settembre i prezzi delle azioni dell’industria bellica sono saliti alle stelle. Stavano per arrivare altri spargimenti di sangue, il che è ottima cosa per gli affari.
Oggi le guerre più redditizie hanno un proprio marchio. Si chiamano “guerre eterne”: Afghanistan, Palestina, Iraq, Libia, Yemen e ora Ucraina. Tutte si basano su un cumulo di bugie.
L’Iraq è la più famosa, con le sue armi di distruzione di massa che non esistevano. Nel 2011 la distruzione della Libia da parte della Nato è stata giustificata da un massacro a Bengasi che non c’è stato. L’Afghanistan è stata una comoda guerra di vendetta per l’11 settembre, la qual cosa non aveva nulla a che fare con il popolo afghano.
Oggi, le notizie dall’Afghanistan parlano di quanto siano malvagi i talebani, e non del fatto che il furto di 7 miliardi di dollari delle riserve bancarie del paese da parte di Joe Biden stia causando sofferenze diffuse. Recentemente, la National Public Radio di Washington ha dedicato due ore all’Afghanistan e 30 secondi al suo popolo affamato.
Al vertice di Madrid di giugno, la Nato, controllata dagli Stati Uniti, ha adottato un documento strategico che militarizza il continente europeo e aumenta la prospettiva di una guerra con Russia e Cina. Il documento propone “un combattimento bellico multidimensionale contro un contendente dotato di armi nucleari”. In altre parole, una guerra nucleare.
Dice: “L’allargamento della Nato è stato un successo storico”.
L’ho letto con incredulità.
Una misura di questo “successo storico” è la guerra in Ucraina, le cui notizie per lo più non sono notizie, ma una litania unilaterale di sciovinismo, distorsione, omissione. Ho raccontato diverse guerre e non ho mai conosciuto una propaganda così generalizzata.
Nello scorso febbraio, la Russia ha invaso l’Ucraina come risposta a quasi otto anni di uccisioni e distruzioni nella regione russofona del Donbass, al suo confine.
Nel 2014, gli Stati Uniti hanno sponsorizzato un colpo di stato a Kiev per sbarazzarsi del presidente ucraino democraticamente eletto e favorevole alla Russia, insediando un successore che gli americani stessi hanno chiarito essere il loro uomo.
Negli ultimi anni, missili “di difesa” americani sono stati installati in Europa orientale, Polonia, Slovenia, Repubblica Ceca, quasi certamente puntati contro Russia, accompagnati da false rassicurazioni che risalgono alla “promessa” di James Baker a Gorbaciov, nel febbraio 1990, secondo la quale la Nato non si sarebbe mai espansa oltre la Germania.
L’Ucraina è la linea del fronte. La Nato ha di fatto raggiunto la stessa terra di confine attraverso la quale l’esercito di Hitler irruppe nel 1941, causando più di 23 milioni di morti in Unione Sovietica.
Lo scorso dicembre, la Russia ha proposto un piano di sicurezza per l’Europa di vasta portata. I media occidentali lo hanno respinto, deriso o soppresso. Chi ha letto le sue proposte passo dopo passo? Il 24 febbraio, il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy ha minacciato di sviluppare armi nucleari se l’America non avesse armato e protetto l’Ucraina. Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Lo stesso giorno, la Russia ha invaso l’Ucraina – secondo i media occidentali, un atto non provocato di infamia congenita. La storia, le bugie, le proposte di pace, gli accordi solenni sul Donbass a Minsk non hanno contato nulla.
Il 25 aprile, il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti, il generale Lloyd Austin, è volato a Kiev e ha confermato che l’obiettivo dell’America è quello di distruggere la Federazione Russa – la parola che ha usato è “indebolire”. L’America aveva ottenuto la guerra che voleva, condotta per procura da una pedina sacrificabile, finanziata e armata dall’America stessa.
Quasi nulla di tutto ciò è stato spiegato alle opinioni pubbliche occidentali.
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è sconsiderata e imperdonabile. Invadere un paese sovrano è un crimine. Non ci sono “ma” – tranne uno.
Quando è cominciata l’attuale guerra in Ucraina, e chi l’ha iniziata? Secondo le Nazioni Unite, tra il 2014 e quest’anno, circa 14.000 persone sono state uccise nella guerra civile del regime di Kiev nel Donbass. Molti degli attacchi sono stati condotti da neonazisti.
Guardate un servizio di ITV News del maggio 2014, realizzato dal veterano dei reporters James Mates, il quale viene bombardato, insieme ai civili nella città di Mariupol, dal battaglione Azov (neonazista) dell’Ucraina.
Nello stesso mese, decine di persone di lingua russa sono state bruciate vive o soffocate in un edificio dei sindacati di Odessa, assediato da teppisti fascisti, seguaci del collaborazionista e fanatico antisemita Stephen Bandera. Il New York Times ha definito i teppisti “nazionalisti”.
“La missione storica della nostra nazione in questo momento critico”, ha dichiarato Andreiy Biletsky, fondatore del Battaglione Azov, “è quella di guidare le Razze Bianche del mondo in una crociata finale per la loro sopravvivenza, una crociata contro gli Untermenschen (sottouomini) guidati dai semiti”.
Da febbraio, una campagna di autoproclamati “news monitors” (“osservatori delle informazioni”), per lo più finanziati da americani e britannici aventi legami con i governi, ha cercato di sostenere l’assurdità secondo la quale i neonazisti ucraini non esistono.
Il ritocco delle fotografie, un termine un tempo associato alle purghe staliniane, è diventato uno strumento del giornalismo dominante.
In meno di un decennio, la Cina “buona” è stata “ritoccata” e la Cina “cattiva” l’ha sostituita: da laboratorio e fabbrica del mondo a nuovo Satana emergente.
Gran parte di questa propaganda ha origine negli Stati Uniti ed è trasmessa attraverso vari intermediari e vari “think tank”, come il famoso Australian Strategic Policy Institute, voce dell’industria delle armi, e da giornalisti zelanti come Peter Hartcher del Sydney Morning Herald, che ha etichettato coloro che diffondono l’influenza cinese come “ratti, mosche, zanzare e passeri” e ha auspicato che questi “parassiti” vengano “estirpati”.
Le notizie sulla Cina in Occidente riguardano quasi esclusivamente la minaccia proveniente da Pechino. “Ritoccate” sono le 400 basi militari americane che circondano la maggior parte della Cina, una collana armata che si estende dall’Australia al Pacifico e al sud-est asiatico, al Giappone e alla Corea. L’isola giapponese di Okinawa e quella coreana di Jeju sono armi cariche puntate a bruciapelo sul cuore industriale della Cina. Un funzionario del Pentagono ha descritto questa situazione come un “cappio”.
La Palestina è stata raccontata in modo errato da sempre, a mia memoria. Per la Bbc, c’è il “conflitto” tra “due narrazioni”. L’occupazione militare più lunga, brutale e illegale dei tempi moderni è innominabile.
La popolazione colpita dello Yemen esiste a malapena. È un “non-popolo mediatico”. Mentre i sauditi fanno piovere le loro bombe a grappolo americane, con i consiglieri britannici che lavorano a fianco degli ufficiali sauditi addetti al bombardamento, più di mezzo milione di bambini rischiano di morire di fame.
Questo lavaggio del cervello per omissione ha una lunga storia. Il massacro della prima guerra mondiale è stato cancellato da reporter che sono stati insigniti del cavalierato per il loro impegno e che hanno poi confessato nelle loro memorie. Nel 1917, il direttore del Manchester Guardian, C. P. Scott, confidò al primo ministro Lloyd George: “Se la gente sapesse davvero [la verità], la guerra verrebbe fermata domani, ma non sa e non può sapere”.
Il rifiuto di vedere le persone e gli eventi come li vedono gli altri paesi è un virus mediatico in Occidente, debilitante quanto il Covid. È come se vedessimo il mondo attraverso uno specchio unidirezionale, in cui “noi” siamo morali e benigni e “loro” no. È una visione profondamente imperiale.
La storia quale presenza viva in Cina e in Russia è raramente spiegata e raramente compresa. Vladimir Putin è Adolf Hitler. Xi Jinping è Fu Man Chu. Risultati epici, come lo sradicamento della povertà in Cina, sono a malapena conosciuti. Quanto è perverso e squallido tutto ciò.
Quando ci permetteremo di comprendere? La formazione dei giornalisti in laboratorio non è la risposta. E nemmeno il meraviglioso strumento digitale, che è un mezzo, non un fine, come la macchina da scrivere con un solo dito e la macchina per linotype.
Negli ultimi anni, alcuni dei migliori giornalisti sono stati espulsi dai media dominanti. “Defenestrati” è il termine usato. Gli spazi un tempo aperti ai cani sciolti, ai giornalisti controcorrente, a quelli che dicevano la verità, si sono chiusi.
Il caso di Julian Assange è il più sconvolgente. Quando Julian e WikiLeaks erano in grado di conquistare lettori e premi per il Guardian, il New York Times e altri autodefiniti importanti “giornali di cronaca”, venivano celebrati.
Quando lo Stato occulto si è opposto e ha chiesto la distruzione dei dischi rigidi e l’assassinio del personaggio di Julian, egli è stato reso un nemico pubblico. Il vicepresidente Biden lo ha definito un “terrorista hi-tech”. Hillary Clinton ha chiesto: “Non possiamo silenziarlo proprio questo tipo?”.
La seguente campagna di abusi e di diffamazione contro Julian Assange – il Relatore sulla Tortura delle Nazioni Unite l’ha definita “mobbing” – ha condotto la stampa liberale al suo minimo storico. Sappiamo chi sono. Li considero dei collaborazionisti: giornalisti del regime di Vichy.
Quando si solleveranno i veri giornalisti? Un samizdat ispiratore esiste già in Internet: Consortium News, fondato dal grande reporter Robert Parry, Grayzone di Max Blumenthal, Mint Press News, Media Lens, Declassified UK, Alborada, Electronic Intifada, WSWS, ZNet, ICH, Counter Punch, Independent Australia, il lavoro di Chris Hedges, Patrick Lawrence, Jonathan Cook, Diana Johnstone, Caitlin Johnstone e altri che mi perdoneranno se non li cito qui.
E quando gli scrittori si alzeranno in piedi, come fecero contro l’ascesa del fascismo negli anni trenta? Quando si alzeranno i registi, come fecero contro la guerra fredda negli anni quaranta? Quando si solleveranno gli autori della satira, come fecero una generazione fa?
Dopo essersi immersi per 82 anni in un profondo bagno di perbenismo, la versione ufficiale dell’ultima guerra mondiale, non è forse giunto il momento che coloro che sono destinati a dire la verità dichiarino la loro indipendenza e decodifichino la propaganda? L’urgenza è più grande che mai.
Questo articolo è una versione modificata di un discorso tenuto al Trondheim World Festival, Norvegia, il 6 settembre 2022. Titolo originale “The Silence of the Lambs. How Propaganda works”.
Traduzione dall’inglese di Giorgio Riolo
Immagine in apertura: Il varco, progetto cinematografico di Federico Ferrone e Michele Manzolini, Italia, 2019, prodotto da Kiné, Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia, Istituto Luce Cinecittà, Rai Cinema, con il contributo di Emilia-Romagna Film Commission
FONTE:http://effimera.org/il-silenzio-degli-innocenti-come-funziona-la-propaganda-di-john-pilger
di Andrea Vento
Come preannunciato da alcuni giorni, il 16 dicembre il Consiglio Europeo, evidentemente non appagato dagli effetti delle tranche precedenti, ha approvato il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia introdotte a partire dal 23 febbraio scorso, due giorni dopo il riconoscimento da parte di Mosca delle Repubbliche Popolari del Donbass e uno prima dell’inizio dell’invasione via terra1.
Nonostante tali misure restrittive, da un lato, non stiano incidendo sulle sorti del conflitto, nel cui contesto l’esercito russo continua a sparare giornalmente dai 30.000 ai 50.000 colpi di artiglieria mentre le forze ucraine non sembrano nemmeno in grado di mantenere il ritmo dei 7.000, dall’altro, stanno avendo pesanti ripercussioni sul ciclo economico e sui flussi commerciali degli Stati che le hanno comminate2. In particolare per quanto riguarda il nostro Paese ilFondo Monetario Internazionale (Fmi) nel suo ultimo Outlook dell’11 ottobre prevede per l’Italia, a seguito degli effetti dell’inasprimento delle sanzioni, una variazione negativa del Pil per il 2023 del -0,2% (rispetto a +0,7% di luglio). Il nostro risulterebbe l’unico Paese in recessione dell’eurozona insieme alla Germania (-0,3%), non causalmente i due Stati maggiormente dipendenti fino allo scorso anno dalle forniture russe, quantificate intorno al 40% del fabbisogno nazionale di entrambi.
Carta 1: le previsioni economiche per il 2023 del World Economic Outlook del Fmi di ottobre 20223.
La destabilizzazione della ripresa post-pandemica italiana e comunitaria risulta, peraltro, accompagnata da una decisa impennata dell’inflazione tendenziale annua, dall’Istat confermata a novembre, in linea con quella di ottobre, all’11,8%, la quale sta causando gravi problemi alle imprese, oltre a ridimensionare in maniera significativa il potere d’acquisto di pensioni, salari e stipendi.
Incuranti del rallentamento economico in cui si sta impantanando l’Eurozona (solo +0,5 nel 2023 secondo l’Outlook di ottobre del Fmi, tab. 1), il Consiglio della Banca Centrale Europea (Bce) nella riunione del 15 dicembre ha deciso, per la quarta volta a partire da luglio, l’innalzamento dei tassi di interesse, questa volta dello 0,50%, portando il saggio di riferimento al 2,5% nell’intento di contenere la spinta inflazionistica e presagendo un ulteriore aumento a marzo 2023. Il rialzo dei tassi, oltre ad incidere negativamente sulle rate dei mutui delle famiglie, comporterà per il nostro Paese, secondo il Centro Studi della Cgia di Mestre, un appesantimento dell’onere degli interessi sulle imprese pari 14,9 miliardi di euro. Politiche monetarie restrittive che provocheranno, in base alle previsioni dell’agenzia EY, una riduzione dei prestiti bancari dell’1,8%4, che insieme all’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime già in corso difficilmente potranno evitare una nuova caduta in recessione della nostra economia (tabella 1).
Tabella 1: previsioni economiche dei 4 World Economic Outlook del 2022 del Fmi per l’anno 2023
Previsioni economiche per l’anno 2023 | ||||
Gennaio 22 | Aprile 22 | Luglio 22 | Ottobre 22 | |
Eurozona | 2,5% | 2,3% | 1,2% | 0,5% |
Italia | 2,2% | 1,7% | 0,7% | – 0,2% |
Germania | 2,5% | 2,7% | 0,8% | – 0,3% |
Russia | 2,1% | – 2,3% | – 3,5% | – 2,3% |
A supporto del fosco trend prospettato dal Fmi, troviamo anche le proiezioni macroeconomiche per l’Italia per il quadriennio 2022-25, elaborate dagli esperti della Banca d’Italia di concerto con la Bce e pubblicate da Via Nazionale il 16 dicembre in contemporanea con l’approvazione della nona tranche di sanzioni (e diffuse il giorno prima dal sito della Bce insieme a quelle degli altri membri dell’Eurozona), le quali rivelano un’incomprensibile distonia prospettica e funzionale nell’operato delle istituzioni comunitarie. Il rapporto, a fianco di un poco probabile scenario base, prevede, sulla scorta della persistente alta inflazione, del rialzo dei tassi e delle perseveranti tranche di sanzioni, altro ben più realistico quadro avverso nell’ipotesi di una eventuale interruzione permanente dei flussi di materie prime energetiche dalla Russia, il quale provocherebbe una limitata disponibilità di gas nel prossimo inverno e in quello successivo. Al netto delle strategie della speculazione finanziaria che hanno determinato l’impennata del gas già da settembre 20215, il rapporto “ipotizza che la riduzione nell’offerta di materie prime energetiche comporti un forte aumento delle loro quotazioni sui mercati internazionali, una maggiore incertezza, in particolare nei mesi invernali 2023 e del 2024, e un marcato indebolimento del commercio mondiale”. Il rapporto conclude affermando che “in questo scenario il Pil si ridurrebbe di circa l’1% sia nel 2023 sia nel 2024 e rimarrebbe poco più che stagnante nell’anno successivo (poco sopra lo zero). L’inflazione al consumo salirebbe ulteriormente nel 2023, avvicinandosi all’11% (come valore medio annuo, ndr), per poi scendere progressivamente, riportandosi al 2,0% nel 2025”6. Con i consumi e gli investimenti in macchinari in contrazione e una disoccupazione stabile all’8,3% nei prossimi 2 anni. Previsioni, peraltro, in linea con quelle della principale agenzia di rating, Standard & Poors, del 9 dicembre7 nelle quali, nel 2023, la flessione del Pil per il nostro Paese viene quantifica in -1,1% e per l’Eurozona addirittura in -0,9%.
Quindi secondo la Bce e la Banca d’Italia, il nostro Paese che ha già rinunciato volontariamente al carbone e al petrolio russo, a seguito delle varie tranche di sanzioni e prevede di fare a meno del gas di Mosca con il piano comunitario REPowerEU del 18 maggio8, in caso di ulteriore inasprimento delle sanzioni, come in realtà già accaduto il 16 u.s, e probabili ritorsioni russe, scenderà in recessione nei prossimi due anni, uno scenario più drammatico di quello dipinto dal Fmi ad ottobre. Il tutto, in attesa del consueto Outlook di gennaio dell’Istituto di Washington, nel quale le previsioni saranno quasi sicuramente riviste al ribasso.
L’aumento dei prezzi che sta interessando il nostro Paese, e in generale tutte le economie occidentali, dalla seconda metà del 2021, si caratterizza come una tipica inflazione importata generata dall’aumento del costo delle materie prime provenienti dall’estero, a causa di un mix di fattori: l’inadeguatezza dell’offerta al cospetto dell’incremento della domanda sospinta dalla ripresa post-pandemica (i cosiddetti colli di bottiglia), le spregiudicate strategie della finanza speculativa tramite strumenti derivati, le sanzioni occidentali imposte alla Russia e, da ultimo, gli effetti della guerra in Ucraina, in termini di varie difficoltà di approvvigionamento, fra i quali il sabotaggio dei gasdotti North Stream 1 e 2. L’elevata inflazione in essere, considerata dagli esperti una delle più gravi problematiche che possono affliggere un’economia, oltre ad aver indotto le banche centrali, Federal Reserve (Fed), Banca Centrale Europea e Bank of England (BoE) in primis9, all’aumento dei tassi di riferimento con effetti depressivi sul ciclo economico (rallentamento e recessione), incidono, a livello sociale sulla contrazione del potere d’acquisto dei lavoratori, mentre in campo commerciale generano effetti negativi sull’interscambio estero.
Su quest’ultimo aspetto, l’Istat nel suo ultimo report10 del 16 dicembre, ci mostra come il saldo della nostra bilancia commerciale abbia cambiato di segno, passando in campo negativo, proprio da dicembre 2021 (grafico 1), non causalmente, in corrispondenza del primo picco a 110 euro a MegaWatt/ora dei prezzi dei contratti spot (vale a dire a pronti) del gas su mercato Ttf di Amsterdam (tabella 2), per poi mantenersi passiva fino ad ottobre 22, ultimo mese di disponibilità dei dati.
Grafico 1: saldo della bilancia commerciale italiana fra gennaio 2017 e ottobre 2022. Fonte Istat
Tabella 2: prezzi medi mensili in euro delle transazioni spot del gas sul mercato olandese Ttf fra aprile 2021 e novembre 2022 al metro cubo e per MegaWatt/ora11
I prezzi medi mensili dei contratti spot del gas nel mercato Ttf in € | |||
Mese | Anno | Costo in € al mc | Costo in € al MWh |
Aprile | 2021 | 0,219 | 20,50 |
Maggio | 2021 | 0,270 | 25,21 |
Giugno | 2021 | 0.313 | 29,12 |
Luglio | 2021 | 0.388 | 36,23 |
Agosto | 2021 | 0,472 | 44,12 |
Settembre | 2021 | 0,679 | 63,45 |
Ottobre | 2021 | 0,936 | 87,47 |
Novembre | 2021 | 0,874 | 81,70 |
Dicembre | 2021 | 1,178 | 110,12 |
Gennaio | 2022 | 0,895 | 83,63 |
Febbraio | 2022 | 0,889 | 83,07 |
Marzo | 2022 | 1,342 | 125,42 |
Aprile | 2022 | 0,990 | 92,80 |
Maggio | 2022 | 0,956 | 89,34 |
Giugno | 2022 | 1,112 | 103,92 |
Luglio | 2022 | 1,746 | 173,17 |
Agosto | 2022 | 2,487 | 232,20 |
Settembre | 2022 | 2,019 | 188,69 |
Ottobre | 2022 | 0,850 | 79,44 |
Novembre | 2022 | 0,975 | 91,18 |
Dal rapporto in questione, fra le varie, si evince come nei primi 10 mesi di quest’anno, rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente, il valore delle nostre esportazioni sia cresciuto del 20,8%, mentre quello delle importazioni di ben il 41,8%, principalmente a causa dell’impennata del 151,7% della “bolletta” dell’energia importata, facendo sprofondare il saldo della bilancia commerciale fra gennaio e ottobre a -33,57 miliardi di euro.
Una debacle commerciale, riconducibile in primis alle poco avvedute sanzioni comminate alla Russia e ai suoi vari effetti collaterali, che è andata aggravandosi nel terzo trimestre dell’anno in corso, nel quale, rispetto al precedente (variazione congiunturale), il valore dell’export è addirittura diminuito dello 0,7% e quello dell’import è invece cresciuto del 3,9%.
L’Istat, infine, ci indica che è crollato anche il nostro interscambio commerciale con la Russia ad ottobre 2022 su base tendenziale (rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente), quantificato in -30,9% per l’export e, addirittura, del -44,2% per l’import, con un controvalore totale dell’interscambio annuo fra Roma e Mosca di 25 miliardi di euro nel 2021. Ciò in conseguenza delle sanzioni adottate su pressione statunitense e del piano REPowerEU a causa dei quali abbiamo ridotto l’export e l’acquisto dalla Russia di materie prime minerarie, prodotti siderurgici, petrolio e, soprattutto, gas via conduttura, acquistato tramite convenienti contratti pluriennali, sostituendolo, oltre che con maggiori forniture tramite il gasdotto algerino, anche con l’aumento dell’import del Gas Naturale Liquefatto (Gnl) via nave12, a costi decisamente più elevati, da Stati Uniti, Qatar e, situazione paradossale, anche dalla Russia stessa, passato da 11,3 a 16,2 miliardi di mc nei primi 10 mesi di quest’anno (+46%) rispetto al corrispondente periodo del 202113 e con l’aggravante dell’incertezza nella continuità di forniture.
Mentre la transizione energetica, insieme all’inefficiente ministro Cingolani, è rimasta al palo, le famiglie e le imprese italiane arrancano per l’insostenibile aumento delle spese energetiche e dell’inflazione in generale a causa di improvvide scelte in campo economico e di politica internazionale.
Una volta acquisito, alla luce dell’analisi effettuata, che dal punto di vista economico e sociale il trend in atto è destinato ad aggravarsi nel prossimo biennio, con un sempre più probabile ritorno in recessione a soli 3 anni da quella pandemica e un aumento dell’aumento della povertà assoluta, in aggiunta ai 5,6 milioni di persone già quantificate per 2021 dall’Istat a giugno scorso14, non resta che individuare quanto lo Stato italiano abbia speso per la guerra in Ucraina e per contenere l’impatto dell’aumento dell’energia su famiglie e imprese.
Per quanto riguarda il solo costo degli armamenti inviati fino a tutto novembre, in base ai calcoli effettuati dall’Osservatorio Mil€x su dati del Ministero della Difesa, ammonterebbe a 450 milioni di euro, in attesa di ulteriori decisioni con la finanziaria in corso di definizione15. Dall’analisi delle tabelle preliminari della Legge di Bilancio 2023, sempre effettuata dalla stessa associazione, risulterebbe che il bilancio ordinario della Difesa passerebbe da 25,9 a 27,7 miliardi di europer il 2023, a causa principalmente dell’aumento dei costi del personale di Esercito, Marina e Aeronautica di 600 milioni di euro e dell’acquisto di nuovi armamenti per 700 milioni ai quali vanno aggiunti gli stanziamenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) per le missioni all’estero, pari a 1,5 miliardi di euro, con un aumento del 10% rispetto al 202216.
Le spese per il contenimento del caro energia, invece, secondo il think tank belga Bruegel (Brussels European and Global Economic Laboratory), ammonterebbero per il nostro Paese a ben 49,5 miliardi di euro fra settembre 2021, inizio dell’impennata del gas, e il termine del mandato di Draghi, risultando il secondo Paese dell’Ue per valore assoluto, dietro solo alla Germania e il terzo in rapporto al Pil (2,8%)17. Ai quali vanno aggiunti ben 21 dei 35 miliardi (pari a 2/3) dell’intera manovra di Bilancio 2023 predisposta dal Governo Meloni, al momento ancora non sottoposta all’approvazione parlamentare. In totale l’entità della spesa ammonterebbe al momento ad oltre 70 miliardi di euro, in sostanza fatti in dono dal contribuente italiano alla speculazione finanziaria, nonché frutto delle scellerate sanzioni imposte alla Russia.
Tutto ciò, mentre nel DDL Bilancio 2023 approvato dal Consiglio dei Ministri il 22 novembre, con il quale il Governo ha predisposto la proposta di Legge di Bilancio, non v’è traccia del termine sanità fra i capitoli di spesa18, abbandonando a se stesso il Sistema Sanitario Nazionale affossato da ben 37 miliardi di euro di definanziamento fra il 2010 e 2019 secondo la Fondazione Gimbe19 e ormai letteralmente prossimo al collasso, anche a causa della pressione esercitata sugli ospedali dalla nuova ondata pandemica.
Risulta evidente a chi avesse l’accortezza di esaminare i processi reali economici, finanziari e geopolitici in atto analizzando i dati ufficiali e i contenuti delle decisioni dei governi europei, senza avventurarsi su affermazioni superficiali o, nel peggiore dei casi, tendenziose, che la crisi geopolitica, energetica, economica e, conseguentemente, sociale in atto è frutto dell’impudente operato della speculazione finanziaria, dell’incapacità di svincolarsi dal masochistico assoggettamento geopolitico statunitense che ci ha portato a continuare ad adottare supinamente le sanzioni alla Russia, anche in evidenza di pesanti ricadute negative. Oltre al fatto di perseverare nelle forniture di armamenti senza produrre alcun sforzo diplomatico teso al raggiungimento del cessate il fuoco e all’apertura di un serio ed efficace negoziato in sede Onu che apra le porte ad una pace stabile e duratura.
E’ assolutamente necessario che l’anestetizzata opinione pubblica nazionale prenda coscienza dell’incapacità della nostra classe politica di tutelare gli interessi generali dl Paese e tanto meno dei ceti popolari, i quali negli ultimi 15 anni sono stati schiacciati da ben 3 crisi economiche: dei mutui sub-prime del 2008-9, del debito del 2012-14 e quella gravissima (-8,9%) pandemica del 2020 e, a breve, saranno travolti anche dalla quarta.
Se non ora quando, una mobilitazione popolare che chieda con forza un radicale cambio di paradigma?
Andrea Vento – 20 dicembre 2022
Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
1 https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2022/12/16/russia-s-war-of-aggression-against-ukraine-eu-adopts-9th-package-of-economic-and-individual-sanctions/
2 Per i dettagli: “Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni alla Russia” di Andrea Vento
3 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2022/10/11/world-economic-outlook-october-2022
4 https://www.ilsole24ore.com/art/imprese-l-aumento-tassi-d-interesse-bce-costera-quasi-15-miliardi-piu-AEesc7NC
5 Raffaele Picarelli: “Finanza e mercato dell’energia” e “Il vero atto di nascita dell’incremento dei prezzi dell’energia, dell’inflazione e dell’aumento dei tassi”.
6 https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/proiezioni-macroeconomiche/2022/Proiezioni-Macroeconomiche-Italia-dicembre-2022.pdf
7 https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2022/12/09/sp-nel-2023-recessione-in-italia-piu-pesante-11-pil_51c7ef18-ef3a-4fc5-a5f2-1ef3828bde72.html
8 https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/european-green-deal/repowereu-affordable-secure-and-sustainable-energy-europe_it
9 Anche Messico, Svizzera, Taiwan, Filippine, Norvegia, Danimarca e Colombia hanno aumentato i saggi d’interesse
10 https://www.istat.it/it/files//2022/12/Commercio-con-lestero-e-prezzi-allimport_102022.pdf
11 https://luce-gas.it/guida/mercato/ttf-gas
12 https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/05/ecco-come-litalia-ha-saputo-compensare-nei-primi-dieci-mesi-del-2022-le-forniture-mancanti-di-gas-dalla-russia/
13 https://www.ilsole24ore.com/art/l-europa-fa-pieno-gas-liquefatto-ma-quinto-arriva-russia-AEaPNsFC
14 https://www.istat.it/it/files/2022/06/Report_Povert%C3%A0_2021_14-06.pdf
15 https://www.milex.org/2022/11/28/armi-inviate-allucraina-finora-il-costo-per-litalia-e-stato-di-450-milioni-di-euro-la-stima-dellosservatorio-milex/
16 https://www.milex.org/2022/12/02/spese-militari-italiane-aumento-anche-2023/
17 https://www.dire.it/30-08-2022/781434-governo-draghi-aiuti-caro-energia/
18 https://www.mef.gov.it/inevidenza/DDL-Bilancio-approvato-dal-Cdm-manovra-da-35-miliardi/
19https://www.gimbe.org/osservatorio/Report_Osservatorio_GIMBE_2019.07_Definanziamento_SSN.pdf
Dal 2020, la NATO ha portato avanti i piani per una guerra psicologica che deve stare su un piano di parità con le cinque precedenti aree operative dell’alleanza militare (terra, acqua, aria, spazio, cyberspazio). È il campo di battaglia dell’opinione pubblica. I documenti della NATO parlano di “guerra cognitiva” – guerra mentale. Quanto è concreto il progetto, quali passi sono stati compiuti finora e a chi è rivolto?
Per essere vittoriosi in guerra, bisogna vincere anche la battaglia per l’opinione pubblica. Questo viene svolto da oltre 100 anni con strumenti sempre più moderni, le cosiddette tecniche di soft power. Questi descrivono tutti quegli strumenti psicologici di influenza con cui le persone possono essere guidate in modo tale che esse stesse non si accorgano di questo controllo. Il politologo americano Joseph Nye definisce quindi il soft power come “la capacità di convincere gli altri a fare ciò che si vuole senza usare la violenza o la coercizione”.(1)
La sfiducia nei governi e nei militari sta aumentando , mentre la NATO sta intensificando i suoi sforzi per usare una guerra psicologica sempre più sofisticata nella battaglia per le menti e i cuori delle persone. Il programma principale per questo è “Cognitive Warfare” . Con le armi psicologiche di questo programma, l’uomo stesso deve essere dichiarato il nuovo teatro di guerra, il cosiddetto “Dominio Umano” (sfera umana).
Uno dei primi documenti della NATO su questi piani è il saggio del settembre 2020 “NATO’s Sixth Domain of Operations” , scritto per conto del NATO Innovation Hub (abbreviato: IHub ). Gli autori sono l’americano August Cole , ex giornalista del Wall Street Journal specializzato nell’industria della difesa che da diversi anni lavora per il think tank transatlantico Atlantic Council, e il francese Hervé le Guyader.
Fondata nel 2012, IHub afferma di essere un think tank in cui “esperti e inventori di ogni dove lavorano insieme per risolvere le sfide della NATO” e ha sede a Norfolk, Virginia, negli USA. Ufficialmente non fa parte della NATO, è finanziato dal NATO Allied Transformation Command, uno dei due quartier generali strategici della NATO.
Il saggio racconta diverse storie di fantasia e si conclude con un discorso inventato del presidente degli Stati Uniti, che spiega ai suoi ascoltatori come funziona la guerra cognitiva e perché chiunque può essere coinvolto:
“I progressi odierni nella nanotecnologia, nella biotecnologia, nella tecnologia dell’informazione e nelle scienze cognitive, guidati dall’avanzata apparentemente inarrestabile della troika dell’intelligenza artificiale, dei big data e della ‘dipendenza digitale’ della nostra civiltà, hanno creato una prospettiva molto più inquietante: un quinto pilastro integrato, dove ognuno, a sua insaputa, agisce secondo i piani di uno dei nostri avversari”.
I pensieri e i sentimenti di ogni individuo sono sempre più al centro di questa nuova guerra:
“Tu sei il territorio conteso, ovunque tu sia, chiunque tu sia.”
Inoltre, c’è da lamentare una “costante erosione del morale della popolazione”. Cole e le Guyader sostengono quindi che il dominio umano è la più grande vulnerabilità. Questa area operativa (“dominio”) sarebbe di conseguenza la base per tutti gli altri campi di battaglia (terra, acqua, aria, spazio, cyberspazio) che devono essere controllati. Pertanto, i due autori invitano la NATO ad agire rapidamente e a considerare lo spirito umano come il “sesto dominio delle operazioni” della NATO.
Quasi contemporaneamente, l’ex funzionario francese e responsabile dell’innovazione presso l’IHub, François du Cluzel, stava lavorando all’ampio documento strategico ” Cognitive Warfare” che è stato pubblicato dall’IHub nel gennaio 2021. Invece di utilizzare scenari immaginari, Du Cluzel ha scritto un’analisi dettagliata della guerra delle menti. Come gli autori del “Sesto dominio delle operazioni della NATO”, sottolinea che “la fiducia (…) è l’obiettivo”. Questo può essere vinto o distrutto nella guerra dell’informazione o attraverso PsyOps, cioè la guerra psicologica. Tuttavia, le tecniche convenzionali di soft-power non sono più sufficienti, occorre una guerra cognitiva, cioè relativa alla mente, una “propaganda partecipativa” a cui “tutti prendono parte”.
Non è chiaro chi sia esattamente l’obiettivo di questa propaganda, ma du Cluzel sottolinea che tutti sono coinvolti in questa nuova forma di manipolazione e che l’obiettivo è proteggere il “capitale umano della NATO”. L’area di applicazione si riferisce a “l’intero ambiente umano, amico o nemico che sia”. Sebbene le capacità del nemico e la minaccia nel campo della guerra cognitiva siano “ancora basse”, du Cluzel chiede che la NATO agisca rapidamente e promuova la guerra cognitiva:
“La guerra cognitiva può essere l’elemento mancante che consente la transizione dalla vittoria militare sul campo di battaglia a un duraturo successo politico. Il “dominio umano” potrebbe benissimo essere il fattore decisivo (…). I primi cinque teatri di operazioni [terra, mare, aria, spazio, cyberspazio] possono portare a vittorie tattiche e operative, ma solo il teatro umano di operazioni può portare alla vittoria finale e completa.” ( p. 36 )
Pochi mesi dopo, la NATO ha accolto le richieste degli strateghi. Nel giugno 2021, ha tenuto il suo primo incontro scientifico sulla guerra cognitiva a Bordeaux, in Francia. In un’antologia che ha accompagnato il simposio, gli strateghi dell’Innovation Hub hanno avuto la possibilità di parlare insieme a funzionari della NATO di alto rango. Nella prefazione, il generale francese André Lanata ha ringraziato “il nostro Innovation Hub” e ha sottolineato l’importanza di “sfruttare le debolezze della natura umana” e condurre questa “battaglia” in “tutti gli ambiti della società”. Si tratta anche di coinvolgere le neuroscienze nella corsa agli armamenti (“Weaponization of Neurosciences”). È stato evidenziato che la guerra cognitiva della NATO è una difesa contro guerre simili da parte di Cina e Russia. Le loro “attività di disinformazione” hanno portato a “crescente preoccupazione” tra gli alleati della NATO.
Al simposio, c’è stata un’intensa discussione su come utilizzare le neuroscienze per effettuare attacchi digitali al pensiero, ai sentimenti e all’azione umana:
“Dal punto di vista dell’aggressore, l’azione più efficiente, anche se più difficile da intraprendere, è incoraggiare l’uso di dispositivi digitali che possono interrompere o influenzare tutti i livelli dei processi cognitivi di un avversario.” (p. 29)
La NATO vorrebbe confondere i potenziali oppositori nel modo più completo possibile per “dettare” il loro comportamento. (p. 29) Nell’ambito del simposio, Du Cluzel ha scritto un saggio insieme al ricercatore cognitivo francese Bernard Claverie in cui si spiega che – contrariamente all’affermazione che si reagisce solo alle minacce dalla Russia o dalla Cina – si tratta anche di ” buono per eseguire processi di attacco ben ponderati, nonché contromisure e misure preventive” (p. 26):
“Attaccare è l’obiettivo dichiarato e sfruttare, svalutare o addirittura distruggere il modo in cui si costruisce la propria realtà, la propria fiducia spirituale in se stessi, la propria fede in gruppi, società o persino nazioni funzionanti” (p. 27).
Gli strateghi raramente ammettono apertamente che queste tecniche possono essere utilizzate non solo sulle popolazioni nemiche ma anche all’interno dei paesi della NATO. Le dichiarazioni su questo sono spesso vaghe. Tuttavia, ci sono indicazioni che la NATO stia prendendo di mira anche la sua stessa popolazione. Scrive il generale francese Eric Autellet in un articolo dell’antologia citata (p. 24) :
“Dal Vietnam, le nostre guerre sono andate perdute nonostante i successi militari, in gran parte a causa della debolezza della nostra narrativa (vale a dire, ‘conquistare i cuori e le menti della gente’), sia in relazione alle popolazioni locali nei teatri delle operazioni sia rispetto alle nostre stesse popolazioni. Ci sono due poste in gioco nei nostri rapporti con il nemico e l’amico, e possiamo scegliere modalità di azione passive e attive — o entrambe — quando consideriamo i limiti e le limitazioni del nostro modello di libertà e democrazia. Per quanto riguarda il nostro nemico, dobbiamo essere in grado di “leggere” le menti dei nostri avversari per anticipare le loro reazioni. Se necessario, dobbiamo essere in grado di “penetrare” le menti dei nostri avversari per influenzarli e renderli capaci di agire per nostro conto. Quanto al nostro amico (e anche a noi stessi), dobbiamo essere in grado di proteggere il nostro cervello e migliorare le nostre capacità cognitive di comprensione e quelle decisionali”.
Il passo successivo è stato compiuto dall’IHub, che nell’ottobre 2021 ha annunciato ufficialmente il concorso per l’innovazione della NATO Countering Cognitive Warfare. L’ Innovation Challenge esiste dal 2017 e da allora la competizione si tiene due volte l’anno. Al fine di raccogliere quante più idee possibili, la NATO sottolinea sempre la natura aperta della competizione: “La sfida è aperta a tutti (individui, imprenditori, start-up, industria, scienza, ecc.) che si trovano in un paese membro della NATO.” Chi vince può aspettarsi un premio in denaro di 8.500 dollari.
Gli argomenti sono selezionati in collaborazione con la Johns Hopkins University. Si tratta sempre di argomenti “particolarmente influenti per lo sviluppo delle future capacità militari”, secondo il motto “il modo migliore per anticipare il futuro è inventarlo”. Le aree sono: intelligenza artificiale, sistemi autonomi, spazio, ipersonico, tecnologia quantistica e biotecnologia.
Le domande chiave delle precedenti competizioni sono quindi contrastanti e stabiliscono priorità molto diverse. Nell’autunno 2018, ad esempio, si trattava di sistemi utilizzabili per intercettare droni senza pilota. Qui ha vinto il produttore olandese di droni Delft. Nell’autunno 2019, l’attenzione si è concentrata sull’aiutare i soldati con stress psicologico o affaticamento al fine di migliorare le loro prestazioni in combattimento. La primavera del 2021 riguardava la sorveglianza spaziale. Qui ha vinto la start-up francese Share My Space.
Nonostante i diversi punti focali, un argomento continua a emergere: la gestione delle informazioni e dei dati su Internet. Nella primavera del 2018, il concorso per l’innovazione è stato dedicato a questo argomento all’insegna del motto “Complessità e gestione delle informazioni”, nella primavera del 2020 il tema era “Fake News in Pandemics” e nell’autunno 2021 infine “La minaccia invisibile — neutralizzare la guerra cognitiva”.
Nell’ottobre 2021, poco prima che questa competizione fosse pubblicizzata sul sito web di IHub, la NATO ha trasmesso un live streaming che discuteva di guerra cognitiva e chiedeva la partecipazione alla competizione per l’innovazione. Il compito è “uno dei temi più caldi per la NATO al momento”, ha sottolineato du Cluzel nel suo discorso di apertura. L’esperta di difesa francese Marie-Pierre Raymond ha colto l’occasione per spiegare cos’è effettivamente la guerra cognitiva, vale a dire “la forma più avanzata di manipolazione che esiste oggi”.
C’erano dieci partecipanti alla finale del concorso, trasmessa quasi due mesi dopo. Otto di loro avevano sviluppato programmi per computer che utilizzano l’intelligenza artificiale per scansionare e analizzare grandi quantità di dati su Internet al fine di monitorare meglio e, si presume, prevedere le opinioni, i pensieri e lo scambio di informazioni delle persone. Il bersaglio più gettonato dei programmi per computer sono i social media: Facebook, Twitter, Tik-Tok, Telegram.
Il vincitore è stata la s
ocietà statunitense Veriphix (motto: “Misuriamo le convinzioni per prevedere e modificare il comportamento”), che ha sviluppato una piattaforma con la quale è possibile identificare i cosiddetti nudge, ovvero “nudge” psicologici inconsci su Internet. La piattaforma Veriphix è in uso da anni, lavorando con diversi governi e grandi aziende, secondo il capo, John Fuisz, che ha stretti legami familiari con l’apparato di sicurezza statunitense. Per lui, la guerra cognitiva è il cambiamento delle convinzioni ( “cambiamento di credenze”). Il suo software può analizzare questi cambiamenti “all’interno dei tuoi militari, all’interno della tua popolazione e all’interno di una popolazione straniera”, come ha spiegato ai giudici della competizione .
Considerando che la guerra cognitiva è già in atto e le più moderne tecniche di manipolazione sono attualmente utilizzate nella guerra in Ucraina per dirigere i pensieri e i sentimenti delle popolazioni di tutte le nazioni coinvolte nella guerra, un chiarimento sulle tecniche di soft power della guerra cognitiva sarebbe apprezzato e dovrebbe essere più urgente che mai.
Le massicce proteste in Iran, alimentate dall’audacia di giovani donne e bambini, affondano le radici in oltre un secolo di lotte. Un articolo pubblicato sul sito della rivista Dissent.
Nel marzo 1979, donne e ragazze iraniane urbane e i loro sostenitori maschi presero parte a una settimana di manifestazioni a Teheran, a partire dalla Giornata internazionale della donna, per protestare contro l’editto del nuovo regime islamista che obbligava le donne a indossare l’hijab. Le manifestanti espressero un profondo senso di tradimento per la direzione presa dalla rivoluzione iraniana, allora vecchia di poche settimane. “All’alba della libertà, non abbiamo libertà”, gridavano. I loro ranghi crescevano di giorno in giorno, raggiungendo almeno 50.000 dimostranti. Il movimento attirò la solidarietà internazionale, anche da Kate Millet, che notoriamente viaggiò per unirsi a loro, e Simone de Beauvoir. In patria, le femministe iraniane ottennero il sostegno dei People’s Fedayeen, un gruppo marxista-leninista che si era impegnato nella resistenza armata contro la monarchia appoggiata dagli americani prima che fosse rovesciata dalla rivoluzione. Per qualche giorno, i Fedayeen formarono un cordone protettivo, separando i manifestanti dalla folla di islamisti che cercavano di attaccarli fisicamente. Ma col tempo, influenzati da una visita di Yasser Arafat e altri, i Fedayn ritirarono il loro sostegno per paura di indebolire la rivoluzione in un momento in cui, era convinzione diffusa, il governo degli Stati Uniti era pronto ad attaccare e restaurare lo scià. Negli anni successivi, il movimento femminista iraniano sembrò morire, o almeno diventare clandestino.
Più di quarant’anni dopo Mahsa (Jina) Amini, una donna curda di ventidue anni, è arrivata a Teheran con la sua famiglia in vacanza. Poco dopo, il 13 settembre 2022, gli agenti della famigerata polizia morale del paese l’hanno arrestata con l’accusa di indossare l’hijab in modo improprio. Nonostante le sue vigorose proteste, l’hanno presa in custodia, dopodiché, secondo testimoni oculari, è stata duramente picchiata. Tre giorni dopo, è morta per lesioni cerebrali. La morte di Amini ha colpito un nervo scoperto in tutta la nazione. Il rifiuto dello stato di indagare sulle cause della sua morte, o di offrire scuse, ha ulteriormente alimentato la rabbia delle manifestanti. La manifestanti hanno presto iniziato a gridare: “Non aver paura, non aver paura, siamo tutti insieme”.
Le manifestazioni hanno avuto luogo in più di ottanta città e centri abitati in tutto il paese. Con il diffondersi delle proteste, le giovani donne, anche studentesse delle scuole superiori e medie, si sono strappate il velo e hanno gridato: “Morte al dittatore!” La rivolta è radicata nella rabbia rovente contro l’apartheid di genere, e non solo tra le donne. Come ha detto a Le Monde la famosa attrice Golshifteh Farahani , ciò che ha reso storicamente nuove queste proteste è che “gli uomini sono disposti a morire per la libertà delle donne”.
Dal punto di vista demografico, l’Iran, con una popolazione di 85 milioni, è un paese molto diverso da quello che era nel 1979. Il 75% del paese è completamente urbanizzato, l’alfabetizzazione è quasi del 100% tra le persone sotto i venticinque anni e ci sono 4 milioni di studenti universitari, la maggior parte dei quali sono donne. Nel frattempo, il tasso di fecondità è sceso a 2,1 nati per donna, dai 6,5 del 1979.
Molte questioni oltre ai diritti delle donne sono legate alle proteste: autoritarismo, stagnazione economica e grave disoccupazione, disastro climatico e varie imposizioni religioso-fondamentaliste. L’attuale rivolta rappresenta anche la risposta dell’opinione pubblica al colossale clientelismo e alla corruzione del regime, alla sua politica estera conflittuale e all’espansionismo regionale, che hanno isolato l’Iran e contribuito a un’inflazione estremamente elevata nel paese. Queste lamentele hanno alimentato altre proteste negli ultimi anni, ma la rivolta del 2022 si distingue anche per una dimensione etnica: Mahsa Amini proveniva dal Kurdistan iraniano, un’area povera ed emarginata con una lunga storia di resistenza rivoluzionaria. Quando è nata, la sua famiglia voleva darle un nome curdo, Jina, ma le politiche della Repubblica islamica limitarono le loro scelte ai nomi persiani e arabi. In Kurdistan, la rivolta del 2022 ha conquistato intere città e il regime non ha esitato a usare munizioni vere contro i manifestanti. Molti credono anche che Mahsa Amini sia stata individuata dalla polizia morale di Teheran perché vestita da curda.
Decenni di oppressione etnica hanno anche alimentato le proteste nel Sistan e nel Baluchistan, una regione sud-orientale al confine con il Pakistan. Dopo che i manifestanti sono usciti a Zahedan per protestare contro lo stupro denunciato di una ragazza locale da parte di un funzionario di polizia, il regime ha risposto con colpi di arma da fuoco il 30 settembre 2022. La polizia ha cacciato i manifestanti dalle strade, sparando proiettili contro una moschea sunnita durante i servizi di culto. La violenza ha provocato almeno novantatré morti, presto noto come il massacro di Zahedan. Ciò ha portato a proteste diffuse e continue nella regione, sostenute dal religioso di più alto rango della provincia, l’imam sunnita Mowlavi Abdulhamid, noto per sostenere l’ala riformista del regime. Questi eventi, che mostrano una connessione tra movimenti contro l’oppressione di genere e contro l’oppressione etnico-nazionale, sottolineano il carattere profondamente intersezionale della rivolta del 2022. Vari gruppi professionali e artistici, tra cui attori, avvocati, medici, infermieri, insegnanti, professori e persino alcuni membri passati e presenti della squadra nazionale di calcio, hanno espresso solidarietà alle proteste.
La rivolta è proseguita con particolare forza nel Kurdistan iraniano, con la città di Sanandaj che ha svolto un ruolo centrale. (Anche i leader curdi in Iraq e Siria hanno condannato l’uccisione di Amini.) A ottobre, le forze del regime che usavano munizioni vere stavano assaltando la città, sparando indiscriminatamente con mitragliatrici contro i manifestanti, imperversando nelle case della gente e persino sparando a morte a un uomo che aveva semplicemente suonato il clacson clacson in solidarietà con i manifestanti. Il Kurdistan, in particolare Sanandaj, Mahabad e la città natale di Amini, Saghez, sono stati di nuovo al centro della scena alla fine di ottobre, quando vaste folle provenienti da tutto il paese si sono riunite per celebrare il quarantesimo anniversario della morte di Amini, un’usanza secolare seguita da tutte le comunità musulmane in Iran. Lo stato ha cercato di suscitare paura e dissuadere le persone dal radunarsi affermando che una sparatoria al santuario religioso di Shah Cheraq a Shiraz (il secondo santuario più sacro in Iran) era stata “un attacco dell’ISIS”. Ma nessuno sembrava credere alla versione del governo, e i manifestanti hanno risposto con slogan come “Voi siete il nostro ISIS”. Anche la polizia ha cercato di bloccare lo sfogo, ma senza successo. A un certo punto hanno aperto il fuoco e ucciso alcune delle persone in lutto. Per quel giorno è stato indetto anche uno sciopero generale nazionale, con scarso successo.
Nella prigione di Evin a Teheran, dove sono detenuti migliaia di manifestanti, a fine ottobre è scoppiato un incendio che si è potuto vedere in tutta la città. Non è chiaro cosa abbia provocato l’incendio, ma potrebbe essere stato appiccato dalle guardie nel tentativo di mettere a tacere i prigionieri che cantano in solidarietà con i manifestanti all’interno dei cancelli. A novembre, i bazar stavano chiudendo mentre le proteste continuavano senza sosta, con i più grandi scioperi a Teheran e nel Kurdistan. La casa natale del fondatore del regime Ayatollah Ruhollah Khomeini è stata incendiata.
La rivolta è stata alimentata dall’audacia di giovani donne e bambini, che hanno sperimentato la risposta brutale del regime. Un comandante delle Guardie rivoluzionarie ha rivelato a settembre che l’età media dei manifestanti detenuti era di soli quindici anni. La sedicenne Nika Shahkarami è stata arrestata dopo essersi tolta l’hijab e avergli dato fuoco durante una protesta a Teheran a settembre, ed è morta poco dopo sotto la custodia della polizia. Sarina Esmailzadeh, anche lei sedicenne, è stata picchiata duramente dalla polizia durante una protesta di settembre a Karaj, un sobborgo industriale di Teheran, e successivamente è morta in una stazione di polizia. A ottobre, Asra Panahi, un’altra sedicenne, è stata picchiata a morte dalla polizia dopo aver interrotto una cerimonia pro-regime nella sua scuola ad Ardabil, nell’Azerbaigian iraniano. A novembre, un bambino di nove anni di nome Kian Pirfalak sarebbe stato ucciso dalle forze di sicurezza nella provincia meridionale del Khuzestan. La sua morte ha ulteriormente galvanizzato le proteste e lo ha trasformato in una nuova icona del movimento, rappresentando centinaia di bambini arrestati o assassinati. Il pubblico è diventato quasi inconsolabile quando si è saputo che il ragazzo era progressista e aveva usato un’invocazione laica, “al Dio dell’arcobaleno” in un progetto scolastico, in un allontanamento dall’ortodossia religiosa.
Le proteste hanno visto giovani donne alzarsi in piedi davanti alla folla, scoprire la testa e poi tagliarsi i capelli in un atto di sfida – e in una rinascita di una pratica culturale delle donne che si tagliano i capelli in segno di lutto, che risale al testo fondante della letteratura persiana dell’undicesimo secolo, lo Shahnameh . Il movimento ha anche sviluppato un proprio inno, “Baraye” (“For the Sake of”). Scritto dal cantante Shervin Hajipour, è suonato e cantato costantemente in tutto l’Iran e nelle comunità della diaspora. I testi dicono:
Per la paura di ballare nei vicoli
Per la paura al momento di baciare
Per mia sorella, tua sorella, le nostre sorelle
Per aver cambiato menti arrugginite, per la vergogna della povertà
Per la voglia di vivere una vita normale
Per i bambini che abitano nei cassonetti e i loro auguri
Per questa economia dittatoriale
Per quest’aria inquinata
Per i platani logori di Vali ‘Asr Street
Per il ghepardo e la sua possibile estinzione
Per gli innocenti cani randagi banditi
Per le lacrime inarrestabili
Per ripetere questo momento
Per i volti sorridenti
Per gli studenti e il loro futuro
Per questo paradiso obbligatorio
Per gli studenti d’élite imprigionati
Per i bambini afgani
Per tutti questi “per” irripetibili
Per tutti questi slogan senza senso
Per tutti gli edifici crollati e scadenti
Per la sensazione di pace
Per il sole dopo una lunga notte
Per i sonniferi e l’insonnia
Per l’uomo, la patria, la prosperità
Per la ragazza che desiderava essere un ragazzo
Per la donna, la vita, la libertà
Per la libertà, per la libertà, per la libertà
Sebbene finora la rivolta sia stata senza leader, non è stata senza scopo o incoerente. I suoi slogan indicano le aspirazioni generali del movimento. Il più importante, “Donna, vita, libertà”, non solo pone al centro l’emancipazione delle donne, ma evoca anche un cambiamento trasformativo: ha avuto origine nella regione del Rojava in Siria, dove le forze curde, alcune comandate da donne, hanno cacciato lo Stato islamico alla fine del 2017. È incredibilmente commovente sentire i manifestanti a Teheran, che appartengono in gran parte alla comunità persiana dominante, gridare uno slogan che ha avuto origine nel Kurdistan. Di solito lo gridano in persiano, ma a volte, in un ulteriore atto di solidarietà, usano il curdo.
“Morte al dittatore”, l’altro slogan principale del movimento, ha iniziato a emergere nel 2019. Segna una chiara rottura con il tenore del massiccio Movimento dei Verdi del 2009-10, che aveva una chiara leadership che ha incanalato il movimento in richieste per il democratizzazione della Repubblica islamica, non il suo rovesciamento. Facendo eco allo slogan più importante della rivoluzione del 1979, “Morte allo scià”, la versione del 2022 si riferisce invece al leader religioso supremo Ali Khamenei. (Una variante popolare di questo slogan – “Morte all’oppressore, sia Shah che Rahbar [leader religioso supremo]” – suggerisce l’opposizione agli sforzi di alcuni conservatori della diaspora per ripristinare la monarchia nella persona di Reza Pahlavi, il figlio del defunto shah.) Lo slogan è particolarmente rischioso perché Khamenei è, nei termini legali della teocrazia iraniana, il rappresentante di Dio sulla Terra; anche gli attacchi verbali contro di lui potrebbero essere soggetti a una legge che rende la “ribellione contro Dio” un reato punibile con la pena capitale. Un altro slogan sottolinea la profondità della rabbia popolare: “Questo è l’anno del sangue. Seyyed Ali [Khamenei] sarà rovesciato”.
Donna, Vita, Libertà
Gli attuali disordini sono scoppiati sulla scia di diverse rivolte minori negli ultimi anni. Nel 2017, le giovani donne hanno iniziato una serie di proteste contro l’hijab in cui hanno pubblicato selfie sui social media che le mostravano mentre si svelavano in pubblico. Nel settembre 2019, una giovane donna, Sahar Khodayari, è morta dopo essersi data fuoco per protestare contro il divieto alle donne di assistere alle partite di calcio. Successivamente, nel 2019 e nel 2020, le manifestazioni sui prezzi della benzina si sono trasformate in proteste antigovernative a livello nazionale concentrate nelle città più piccole e nelle aree rurali. Tuttavia, questi due tipi di proteste, uno provocato dall’apartheid di genere e l’altro derivante da rimostranze economiche, sono rimasti in gran parte separati.
Mentre le proteste si attenuavano un po’ durante la pandemia di COVID-19, il regime ha organizzato l’elezione del presidente Ebrahim Raisi nel 2021, una figura di estrema destra che è stata direttamente coinvolta nell’esecuzione di migliaia di prigionieri politici iraniani nel 1988 e che in precedenza era stato capo della giustizia del paese . Subito dopo è iniziata una repressione. Nell’estate del 2022, il governo ha demolito le case di un villaggio abitato da più di un secolo da membri della minoranza religiosa bahá’í. Negli stessi mesi, la polizia morale ha intensificato gli attacchi contro le giovani donne per “hijab improprio”, accusandole di non coprire sufficientemente i capelli o altre parti del corpo. Fu questa fase di repressione che tolse la vita a Mahsa Amini.
Alcuni credono che il regime potrebbe allentare i regolamenti sull’hijab ed evolversi verso una dittatura militare più “normale” sotto il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche. La subordinazione di genere è stata intessuta nella fibra di questo regime sin dal 1979. Il leader supremo Khamenei, che ha ricoperto la carica dal 1989, è in condizioni di salute in declino, il che rappresenta anche una crisi per il regime. Se i funzionari che orchestrano l’attuale repressione sono riluttanti a perseguire una completa repressione, come ha rivelato il recente hacking della comunicazione statale, è perché non vogliono essere lasciati con le mani in mano quando la nuova leadership salirà al potere, nel caso in cui quella leadership sia desiderosi di usare funzionari particolarmente odiosi come capri espiatori mentre affermano, per quanto fraudolentemente, che una nuova era comporterà un maggiore ascolto del popolo.
Oltre a irritarsi per le restrizioni religiose, gli iraniani della classe media e operaia hanno visto il loro tenore di vita calare drasticamente negli ultimi dieci anni. Il paese ha affrontato prezzi e costi delle case alle stelle e un’elevata disoccupazione. All’inizio di ottobre, i gruppi sindacali, compresi alcuni nel settore petrolifero strategico, avevano iniziato ad assumere un ruolo di primo piano nelle proteste. All’inizio del ventunesimo secolo, gli alti prezzi del petrolio permisero brevemente al governo di spendere di più per i programmi sociali interni. Negli ultimi anni, tuttavia, il crescente consumo interno, l’invecchiamento degli impianti di produzione e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti hanno limitato la capacità dell’Iran di esportare petrolio. Inoltre, le spese statali finanziate dal petrolio hanno contribuito poco allo sviluppo economico, per non parlare della creazione di posti di lavoro.
Le sanzioni statunitensi, reintrodotte durante la presidenza di Donald Trump, hanno notevolmente aumentato le sofferenze del popolo iraniano. Tuttavia, molti economisti iraniani vedono la corruzione e la cattiva gestione come fattori più importanti nella crisi economica dell’Iran. Molti credono che la sofferenza del popolo iraniano derivi in gran parte dalla politica estera aggressiva del “complesso militare-industriale-teocratico” guidato dalle Guardie Rivoluzionarie e da Khamenei. In cambio del sostegno politico, lo Stato ha assegnato grossi contratti alle Guardie Rivoluzionarie e alle milizie paramilitari Basij che sovrintende. Le Guardie e le loro milizie sono direttamente coinvolte nel sostenere alleati sgradevoli, incluso il regime omicida di Assad in Siria, e nella costruzione di droni e missili balistici che vengono inviati per assistere Putin nell’invasione russa dell’Ucraina. Nel 2020, circa l’80% dell’economia iraniana (comprese le industrie del petrolio e del gas) era sotto il controllo delle Guardie Rivoluzionarie. Sono diventati il principale datore di lavoro del paese. Alcuni sostengono che le Guardie detengano il vero potere in Iran, anche se sotto la guida nominale di Khamenei.
C’è un’accesa discussione in corso nei circoli della diaspora iraniana su come chiamare l’attuale rivolta. Alcuni l’hanno definita una rivoluzione femminista; altri hanno sostenuto che il termine “rivoluzione” è inappropriato. Eppure la situazione è fluida. Alla fine di ottobre, il Parlamento ha votato per concedere alle forze di sicurezza un aumento salariale del 20%, apparentemente per mantenerle motivate tra le preoccupazioni che i soldati potrebbero essere riluttanti ad aprire il fuoco su giovani studenti, alcuni dei quali sarebbero figli di membri delle Guardie Rivoluzionarie e dei veterani della guerra Iran-Iraq. Ci sono anche voci secondo cui i militari si sono avvicinati a Khamenei e hanno chiesto un compromesso riportando indietro i riformisti che sono stati espulsi dal potere, tra cui il presidente Mohammad Khatami (1997-2005) e Mir-Hossein Mousavi, il vero vincitore delle elezioni presidenziali del 2009 . Mousavi, insieme alla moglie, la femminista musulmana Zahra Rahnavard, e l’altro candidato alla presidenza riformista del 2009, il religioso Mehdi Karroubi, sono agli arresti domiciliari da quasi tredici anni.
Resta da vedere se i manifestanti accetterebbero un governo islamista un po’ più tollerante. Ma con ogni decennio che è passato dal 1979, la società iraniana si è avvicinata sempre di più a un punto di rottura. Dopo la rivoluzione, l’Iran ha assistito a drammatici cambiamenti negli atteggiamenti nei confronti del sesso, del matrimonio e della procreazione, cambiamenti che minacciano il tessuto ideologico di un regime che ha costruito la sua legittimità sulla segregazione di genere e afferma di valorizzare la famiglia, la devozione e le vecchie nozioni di giustizia e moralità. Ma la lotta contro l’apartheid di genere in Iran risale a più di un secolo fa, molto prima della Repubblica islamica.
Il primo grande movimento sociale nell’Iran moderno, il movimento messianico Babi, iniziò a metà del diciannovesimo secolo. Tra gli obiettivi del movimento c’era la fine di molti rituali sciiti che erano alla base delle gerarchie sociali e di genere nella società iraniana, tra cui il velo obbligatorio e la segregazione di genere. Questi problemi sono stati al centro dei moderni movimenti sociali iraniani fin dall’inizio.
L’Islam, specialmente nella sua forma sciita iraniana, è una religione “attenta all’inquinamento”, molto simile allo zoroastrismo, al giudaismo e all’induismo. In queste religioni, gli orifizi da cui fuoriescono sangue, seme e urina sono particolarmente custoditi perché sono punti di ingresso attraverso i quali le impurità potrebbero entrare nel corpo. Le donne sono viste come la porta di ingresso della comunità, e il loro accesso agli spazi pubblici e il controllo del proprio corpo sono visti come minacce per l’intera società, poiché la loro esposizione potrebbe consentire alle impurità (fisiche e morali) di infiltrarsi nella famiglia. Nell’Iran sciita del diciannovesimo secolo (come nelle comunità ebraiche ortodosse e zoroastriane), le funzioni sessuali e riproduttive di una donna trasformavano il suo corpo in un luogo conteso di potenziale e reale contaminazione rituale. Non sorprende quindi che il leader più importante del movimento Babi fosse una donna di nome Qurrat al-Ayn, che con un atto radicale si è pubblicamente svelata. In parte a causa della sua presentazione, c’è stata una reazione contro il movimento e le sue richieste. La corte reale e gli alti chierici ordinarono il massacro dei Babis, a cominciare dai suoi capi, tra cui Qurraat al-Ayn, che morì nel 1852.
La posizione delle donne iraniane non era migliorata all’inizio del ventesimo secolo. Le donne iraniane erano molto indietro rispetto agli sciiti azeri del Caucaso meridionale (che vissero sotto il colonialismo russo) e ai musulmani sunniti dell’Impero ottomano. Nel Caucaso meridionale, le donne musulmane della classe media e alta ricevevano un’istruzione e i filantropi musulmani erano impegnati a costruire sontuose scuole per ragazze. In Turchia le cose andarono ancora più avanti: la prima scuola di medicina per ostetriche era stata aperta nel 1842, la prima scuola secondaria per ragazze fu istituita nel 1861 e la prima scuola di formazione per insegnanti per donne fu fondata nel 1870. Nessuna scuola per ragazze musulmane in Iran, principalmente a causa della radicata opposizione del clero sciita.
Questa situazione è cambiata radicalmente con la rivoluzione costituzionale iraniana del 1906, che ha portato il paese a una democrazia parlamentare in stile europeo, una costituzione modellata sulla costituzione belga del 1831 e una carta dei diritti progressista. Tra i rivoluzionari c’erano socialisti – prevalentemente socialdemocratici di origine iraniana provenienti da Tiflis (ora conosciuta come Tbilisi, la capitale della Georgia) e Baku (ora capitale dell’Azerbaigian) – che incoraggiarono la formazione di organizzazioni di base conosciute come anjomans, modellate sui soviet della rivoluzione russa del 1905 e ha promosso idee progressiste come aumentare l’accesso delle donne all’istruzione e alla sfera pubblica. Le donne d’élite formavano anjomans femminili così come scuole, cliniche, orfanotrofi e home theater.
I religiosi di alto livello erano indignati da questi sviluppi. Etichettarono i costituzionalisti progressisti come “atei” e avvertirono che presto le donne musulmane avrebbero indossato pantaloni e avrebbero sposato uomini non musulmani. Ma una generazione di giornalisti uomini, deputati parlamentari e poeti sostenne le attività delle donne, e i costituzionalisti furono capaci di mettere da parte l’opposizione del clero conservatore per un certo periodo. La rivoluzione giunse a una fine tragica e brusca nel 1911, quando la Russia occupò il paese in collusione con la Gran Bretagna.
L’ascesa della dinastia Pahlavi, nel 1925, coincise con una nuova era di politica di genere e sessuale, insieme all’emergere di una classe media più istruita. Gli obiettivi gemelli dei costituzionalisti erano stati la democrazia e la modernità. Sotto Reza Shah Pahlavi, che regnò dal 1925 al 1941, non riuscirono a raggiungere il primo, ma gli prestarono il loro sostegno per raggiungere il secondo. Lo scià attuò una serie di riforme di modernizzazione. Il suo sostegno alle scienze minò i chierici quando divenne chiaro che molti rituali religiosi, come il ghusl (immersione rituale nei bagni pubblici), diffondevano malattie. Le sue riforme educative e legali posero fine alla segregazione formale e alla discriminazione contro minoranze religiose come zoroastriani, bahá’í, ebrei, cristiani e musulmani sunniti. Allo stesso tempo, supervisionò una nuova forma di nazionalismo imposto dallo stato, in contrasto con il nazionalismo democratico di base della Rivoluzione costituzionale. Il persiano fu dichiarato lingua ufficiale dello stato, anche se era la prima lingua solo di una risicata maggioranza della popolazione. Reza Shah inoltre tentò di limitare il dissenso trasferendo con la forza alcune popolazioni etniche per impedire le assemblee che potessero evolvere in una resistenza politica organizzata. Le popolazioni di lingua sciita e persiana venivano spesso inviate nelle aree di lingua sunnita e turca per contrastare la minaccia dei movimenti etnici separatisti.
La più controversa delle riforme di Reza Shah fu lo svelamento obbligatorio delle donne, istituito nel 1936. La reazione del pubblico fu mista. Molti membri della nuova classe media (come insegnanti e farmacisti) accettarono il cambiamento e iniziarono ad apparire in pubblico con mogli e figlie senza velo. Ma i membri della classe media più tradizionale, come chierici e mercanti, indietreggiarono e non lasciarono che le loro mogli uscissero di casa. Indipendentemente dall’opposizione, le donne senza velo presto apparvero in pubblico in gran numero, mentre si recavano a scuola, nelle organizzazioni femminili e in varie professioni. L’altra importante riforma di genere del regime di Pahlavi è stata la fine della pratica del concubinato maschile (una tradizione che risale all’era preislamica) e l’ostracismo di tutte le forme di omosessualità.
Nel 1941 gli Alleati occuparono l’Iran. Reza Shah, che tendeva alla neutralità a causa del grande volume di scambi commerciali dell’Iran con la Germania nazista, accettò di abdicare in cambio della salita al trono del figlio di ventidue anni, Muhammad Reza Shah Pahlavi. Sebbene la legge marziale fosse stata presto imposta e le forze alleate fossero rimaste in Iran per tutta la seconda guerra mondiale, lo stato autoritario fu minato, inaugurando il caos ma anche una nuova era di libertà politica e richieste di responsabilità. Per la prima volta dalla Rivoluzione costituzionale, emersero una stampa relativamente libera, sindacati e vari partiti politici. I nazionalisti liberali fecero rivivere l’eredità dell’era costituzionale e si batterono per le riforme politiche e la democrazia. Sostenuto dall’Unione Sovietica, il partito comunista Tudeh ottenne un ampio ed entusiastico sostegno tra i giovani, sia studenti che lavoratori. Questo nonostante il fatto che la prima generazione di comunisti iraniani, guidati da Avetis Sultanzade, fosse stata assassinata dal regime di Stalin nel 1938.
Insieme ai socialdemocratici, i Tudeh contribuirono a promuovere un senso di cameratismo senza precedenti tra diversi gruppi sociali ed etnici. Le organizzazioni di sinistra erano più tolleranti nei confronti delle minoranze etniche e religiose e contribuirono ad abbattere molte vecchie gerarchie di status e genere. Una nuova generazione di giovani donne urbane, molte delle quali studentesse delle scuole superiori provenienti da una varietà di contesti religiosi, aderirono a vari partiti politici e fecero una campagna per il suffragio, il diritto all’elezione alla carica, il diritto al lavoro e all’assistenza all’infanzia. Il velo meno rigoroso in pubblico tornò tra le tradizionali comunità della classe media urbana, ma la stragrande maggioranza delle donne della classe media più moderna rimase senza velo. La sostanziale rottura della segregazione sia religiosa che di genere a Teheran e in altre grandi città fece solo infuriare ulteriormente gli iraniani religiosi più tradizionalisti.
Nel 1951, il parlamento iraniano votò per nazionalizzare l’industria petrolifera di proprietà britannica del paese, rendendo l’Iran la prima nazione del Medio Oriente a farlo. Due anni dopo, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna rovesciarono congiuntamente il primo ministro nazionalista democraticamente eletto Mohammad Mosaddeq (1951-1953) e riportarono in vita il docile giovane monarca Mohammad Reza Shah Pahlavi, che era fuggito brevemente dal paese. Le potenze imperialiste estromisero Mosaddeq in parte sfruttando le differenze all’interno della sua stessa coalizione su questioni sociali e culturali. Negli anni cruciali del 1951 e del 1952, il suffragio femminile divise il movimento nazionalista. La questione fu un fattore che contribuì allo scioglimento della coalizione nazionalista all’inizio del 1953, che facilitò il colpo di stato orchestrato dalla CIA e dall’intelligence britannica.
L’Iran intraprese ancora una volta un’agenda di modernizzazione autoritaria, comprese le riforme di genere, che il governo utilizzò per segnalare il suo impegno nei confronti delle norme occidentali. Sebbene i progetti di riforma di Mohammad Reza Shah Pahlavi avessero una portata limitata in termini di numero di persone che effettivamente adottarono uno stile di vita “moderno”, ebbero un impatto simbolico considerevole: immagini di modernizzazione permearono nuovi spazi pubblici, inclusi giornali, televisione, cinema, cartelloni pubblicitari, industria della moda e riviste popolari. Molte case urbane avevano un televisore alla fine degli anni ’60; andare al cinema era una forma popolare di intrattenimento. Immagini di donne in abiti succinti e gesti provocatori riempirono i media. L’industria pubblicitaria diffuse immagini di ideali e stili di vita di bellezza occidentali e le riviste pubblicarono cartoni animati con donne seminude. Non furono solo i religiosi tradizionalisti a disapprovare questi sviluppi, ma anche la maggior parte della sinistra e dei nazionalisti laici, soprattutto da quando il regime pubblicizzò questi cambiamenti nei ruoli di genere come indicazioni della crescente vicinanza dell’Iran all’Occidente. Di conseguenza, l’ostilità verso le nuove norme di genere divenne un fattore chiave nel cementare un’alleanza politica che sarebbe stata impensabile durante la prima metà del ventesimo secolo: una tenue coalizione “rosso-nera” anti-shah di sinistra antimperialista, nazionalisti e islamisti conservatori.
Fin dalla Rivoluzione costituzionale del 1906, i sostenitori della modernità avevano spinto per i diritti delle donne promettendo implicitamente che dare alle donne nuovi diritti e opportunità non avrebbe interferito con il loro soddisfacimento delle aspettative tradizionali. Sarebbero rimaste figlie rispettose, mogli fedeli e madri altruiste, anche se avessero assunto un ruolo più pubblico nella società. Da questo punto di vista, l’educazione delle donne sarebbe andata a beneficio dell’intera nazione. Negli anni ’60, tuttavia, una nuova generazione di donne assertive che lavoravano all’interno del parlamento, della burocrazia governativa, del sistema legale e delle università iniziò a minare questa idea. Sotto l’impatto del femminismo occidentale della seconda ondata, le moderne donne iraniane urbane rivendicarono nuovi diritti legali, economici e individuali, compresi più diritti nel matrimonio. Infransero anche vecchi tabù sessuali. Le poesie di Forough Farrokhzad, una brillante poetessa e regista femminista che aveva lasciato il marito per un altro uomo e perso la custodia del suo unico figlio, divennero gli inni di questa nuova generazione. Il suo lavoro scioccò i lettori con i suoi messaggi emotivamente e sessualmente provocatori. La poesia “Peccato”, ad esempio, inizia:
Ho peccato un peccato pieno di piacere, in un abbraccio caldo e ardente.
Peccai circondata da braccia calde e vendicatrici e ferree.
La pubblicazione di “Peccato” creò scandalo nei seminari religiosi e nella città di Qom, dove religiosi e loro sostenitori chiesero il divieto delle opere di Farrokhzad. Ancora più oltraggiosa fu un’altra poesia, “Prigioniera”, in cui la narratrice ammette di avere una relazione mentre è sposata e ha un figlio. Si paragona a un uccello in gabbia:
Penso a questo sapendo che non sarò mai in grado di sfuggire a questa situazione,
perché anche se il custode dovesse lasciarmi andare, ho perso tutte le mie forze per il volo.
Ogni mattina di sole un bambino, dietro le sbarre, mi guarda sorridendo
Quando comincio a cantare la mia canzone di gioia, le sue labbra formano i baci che porta per me.
Le violazioni del pudore femminile, come le immagini di giovani donne iraniane nelle riviste femminili popolari e la poesia di Farrokhzad, ruppero il contratto sociale sul genere e galvanizzarono una reazione contro i costumi sessuali occidentali, il femminismo occidentale e, presto, anche il moderno movimento per i diritti dei gay.
Non molto tempo dopo la rivoluzione del 1979, la Repubblica islamica ha istituito un drammatico capovolgimento dei diritti delle donne. Lo stato fece rivivere le convenzioni sociali premoderne, come il velo obbligatorio, il divorzio facile per gli uomini, i matrimoni precoci e la poligamia, ma le fece rispettare attraverso forme moderne di sorveglianza e controllo. Le donne accusate di velo improprio venivano frustate e quelle accusate di sesso prematrimoniale o extraconiugale venivano imprigionate o, in alcuni casi, lapidate a morte, e gli uomini nelle moderne relazioni gay venivano severamente puniti e persino giustiziati.
Esistevano leggi aspramente misogine accanto a programmi sociali ed economici populisti che inizialmente avvantaggiavano i poveri urbani e rurali, comprese le donne. Negli anni ’90, tuttavia, le politiche di privatizzazione hanno ampliato il divario di ricchezza. Dopo aver inizialmente incoraggiato le politiche pronataliste nei primi anni ’80, il regime ha invertito la rotta e ha istituito un programma popolare e completo di pianificazione familiare. Questo periodo, dalla fine degli anni ’80 all’inizio degli anni 2000, divenne noto come l’era dei pragmatici (sostenitori della liberalizzazione economica), seguiti dai riformisti (sostenitori della liberalizzazione culturale). Poiché questi programmi di pianificazione familiare sono stati offerti in nome dell’Islam, molte pie famiglie hanno ceduto e li hanno abbracciati. I risultati, insieme a una campagna di alfabetizzazione che ha preso di mira le donne rurali, hanno portato a una drastica transizione demografica. Il tasso di fertilità complessivo è sceso da 6,4 nascite per donna nel 1984 a 1,8 nel 2010 e si è stabilizzato a 2,1 nel 2022. La Divisione per la popolazione delle Nazioni Unite ha rilevato che nei periodi che vanno dal 1975 al 1980 e dal 2005 al 2010, l’Iran ha registrato le variazioni percentuali al ribasso più marcate nel tassi di fertilità di qualsiasi paese del mondo. Collegato a questo declino è stato un aumento sostanziale dell’età del primo matrimonio sia per le donne che per gli uomini. Il numero dei matrimoni formali è diminuito, mentre sono aumentati i matrimoni temporanei sanciti religiosamente (un’antica forma di concubinato, in cui il sesso è solitamente scambiato con denaro) e, gradualmente, una forma più moderna di convivenza nota come “matrimonio bianco”.
Come risultato dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione, della vaccinazione, di una migliore igiene e dell’adozione di tecnologie contraccettive, l’istituzione del matrimonio ha subito un profondo cambiamento in Iran, proprio come in Occidente. Il matrimonio è diventato meno incentrato sulla procreazione e le richieste delle donne di intimità emotiva e sessuale sono aumentate. Nuove forme di eterosessualità normativa furono stabilite quando il sesso reciprocamente piacevole e l’amore romantico nel matrimonio divennero importanti. Anche il sesso al di fuori del matrimonio è diventato più accettabile. Man mano che le donne diventavano più assertive sessualmente, diventavano anche meno tolleranti nei confronti delle relazioni extraconiugali degli uomini, sia eterosessuali che omosessuali, e meno tolleranti nei confronti dell’intrusione dello stato nelle loro vite personali. Anche i tassi di divorzio sono aumentati.
Le relazioni di genere hanno continuato a cambiare nonostante tutti i tentativi dello Stato islamista di tornare indietro nel tempo. I giovani uomini e donne rurali reclutati nelle forze del regime iniziarono presto a contrarre matrimoni di compagnia benedetti dal regime, piuttosto che organizzati dalle loro famiglie. Nel secondo decennio del ventunesimo secolo, i matrimoni combinati ei matrimoni rigorosamente all’interno di gruppi di parentela non erano più la norma, nemmeno nelle comunità tribali e rurali. Le donne si aspettavano intimità, spontaneità e un maggior grado di vicinanza emotiva e sessuale. Inoltre, con l’aumentare dell’età media del matrimonio per le ragazze, gli appuntamenti sono diventati una parte più accettata della vita.
Oggi l’Iran rimane una terra di profonde contraddizioni non solo in politica ma anche in amore, sesso e matrimonio. Sebbene la partecipazione delle donne all’economia formale sia molto bassa, esse sono fortemente coinvolte nell’economia informale. Molte hanno diversi lavori part-time e sostengono finanziariamente le loro famiglie. Un numero significativo di donne urbane ha anche scelto di rimanere single o, se divorziate o vedove, di non risposarsi. Eppure i libri di testo scolastici rimangono profondamente conservatori, ritraendo le donne principalmente come mogli e madri. I giovani si frequentano online e molte donne urbane praticano sesso prematrimoniale. Ma quando una relazione non finisce con il matrimonio, le donne spesso si sottopongono all’imenoplastica prima di sposarsi con un partner maschio disponibile e più tradizionale che si aspetta che sua moglie sia vergine. Le coppie scelgono sempre più di convivere in “matrimoni bianchi” invece di contrarre matrimonio legale. Allo stesso tempo, leggi anacronistiche continuano a vietare l’intimità tra uomini e donne non imparentati.
Tutti questi fattori hanno spianato la strada alle grandi e persistenti proteste a cui stiamo assistendo oggi in Iran. Le donne iraniane hanno fatto parte di tutte le principali proteste sociali dal secondo decennio della Repubblica islamica e, negli ultimi anni, sono state spesso in prima linea in queste proteste. Le donne hanno combattuto a fianco o addirittura di fronte agli uomini per i loro obiettivi comuni, come l’istruzione, il lavoro ei diritti umani, ma anche specificamente per i diritti delle donne. Hanno assunto ruoli di leadership nelle proteste nazionali di massa e hanno iniettato preoccupazioni femministe in più ampie lamentele sociali ed economiche. I partecipanti a queste proteste sociali hanno incluso un gran numero della classe operaia iraniana, donne e uomini, per lo più giovani, insieme a membri di varie minoranze nazionali emarginate – arabi, curdi, baluchi, lur e azeri – e minoranze religiose perseguitate, come bahá’í e sufi.
Le donne hanno partecipato in modo significativo all’immenso Movimento Verde del 2009, uno sfogo spontaneo contro le elezioni presidenziali truccate nel giugno di quell’anno. Le proteste sono scoppiate quando il presidente Mahmoud Ahmadinejad, che, secondo i sondaggi, avrebbe dovuto perdere le elezioni, è stato dichiarato vincitore di un incredibile 62% dei voti espressi. Milioni di persone sono scese in piazza, chiedendo: “Dov’è il mio voto?” Il giornalista del New York Times Roger Cohen, che all’epoca si trovava a Teheran, scrisse: “Le donne iraniane sono all’avanguardia. Da giorni le vedo incitare gli uomini meno coraggiosi. Le ho viste picchiate e tornare nella mischia”.
Le donne sono state anche le principali partecipanti alle proteste di massa dal dicembre 2017 al gennaio 2018. I manifestanti hanno protestato contro l’elevata inflazione e la corruzione del governo e hanno chiesto la fine della Repubblica islamica e dei suoi interventi all’estero. I manifestanti hanno persino gridato: “Morte a Khamenei”. Migliaia di persone, tra cui molte donne, arabi iraniani e curdi, sono state arrestate dalle forze di sicurezza.
Una seconda ondata di proteste di massa è emersa nel novembre 2019, quando più di 200.000 persone sono scese in piazza dopo che il prezzo della benzina è aumentato del 50% e il paese ha subito una drastica penuria d’acqua causata da una combinazione di cambiamento climatico e rapaci politiche del capitalismo di stato. Ancora una volta, una protesta apparentemente economica si è trasformata in una protesta politica che ha colmato il divario tra i poveri urbani e quelli che il sociologo Asef Bayat ha definito i “poveri della classe media”, cioè, giovani altamente istruiti che non possono raggiungere i livelli base di una vita borghese. Queste proteste furono violentemente represse. Secondo Amnesty International oltre 1500 persone sono state assassinate dalle Guardie Rivoluzionarie nella provincia meridionale del Khuzestan, ricca di petrolio. Come ha scritto Houshyar Dehghani sul quotidiano online Radio Zamaneh, le donne erano chiaramente alla guida di queste proteste:
Le donne sono in prima linea nelle proteste. Sono loro che si oppongono alle Guardie [rivoluzionarie] e si rifiutano di fuggire, incoraggiano il popolo a resistere, discutono con le forze oppressive ,stare davanti alle armi degli uomini in borghese e cantare slogan, per cui la folla si unisce a loro. Sono le donne che scattano foto e video, e quando le [guardie] cercano di arrestare qualcuno, sono le donne che le affrontano e cercano di salvare la persona arrestata. I media statali li hanno definiti sospetti e agenti di potenze straniere. . . . Le forze in borghese hanno usato la violenza sessuale per spaventare le donne e per respingerle nelle loro case. Ma l’influenza di tali tabù e pratiche culturali, che sono alla radice della Repubblica islamica, sta svanendo. Quando qualcuno, dopo aver assistito al massacro di 1500 persone, ha il coraggio di opporsi alle forze dell’ordine, la molestia sessuale è un’arma debole.
Le donne sono state anche organizzatrici e leader di sforzi sociali come la Campagna per il rilascio dei prigionieri politici, la Campagna per sradicare la lapidazione e le esecuzioni, la Campagna per la riforma ambientale, la Campagna delle madri per la pace e la Campagna per protestare contro lo stupro e la tortura di Prigionieri politici. Più recentemente, le femministe iraniane hanno avviato una campagna #MeToo, parlando di molestie sessuali, abusi, aggressioni e stupri, e hanno citato uomini influenti nelle loro accuse, inclusi potenti comandanti della Guardia rivoluzionaria, religiosi e intellettuali.
Hanno anche lanciato un movimento per porre fine al velo obbligatorio. Nel 2014, Masih Alinejad, un giornalista che vive in esilio, ha lanciato un gruppo su Facebook chiamato My Stealthy Freedom. Ha invitato le donne iraniane a pubblicare foto di se stesse senza hijab. Centinaia di donne hanno pubblicato immagini e la pagina ha rapidamente attirato l’attenzione internazionale. Le donne hanno persino partecipato dall’interno dell’Iran, nonostante l’enorme pericolo personale per se stesse e le loro famiglie. Il 27 dicembre 2017, una giovane donna di nome Vida Movahed è stata arrestata quando ha legato il suo hijab a un bastone, si è messa in cima a una cabina di servizio nell’affollata Revolution Avenue a Teheran e l’ha agitata davanti alla folla, diventando un’icona per il proteste. Dozzine si sono impegnate in simili atti di sfida e sono state spesso arrestate.
I sondaggi hanno dimostrato che la maggior parte degli iraniani crede che indossare l’hijab dovrebbe essere volontario. Ma il regime ha raddoppiato le sue politiche. Nel tentativo di respingere le donne in una vita di matrimonio e figli multipli, nell’autunno del 2021 sono state adottate norme draconiane sull’aborto e sul controllo delle nascite, cose che la società iraniana non ha mai visto. Il controllo delle nascite non è più disponibile in tutto l’Iran senza prescrizione medica e le donne incinte sono monitorate dallo stato per assicurarsi che portino a termine la gravidanza. Nel luglio 2022, il presidente Raisi ha deciso di far rispettare severamente le leggi sull’hijab, che gradualmente erano state osservate molto meno rigorosamente. Queste politiche, chiaramente fuorviate persino dagli stessi standard del governo, potrebbero ora abbatterlo.
Le preoccupazioni per la purezza avevano, fino a tempi relativamente recenti, impedito alle donne di partecipare pienamente ai movimenti sociali per paura di essere chiamate “disonorevoli” o “immorali”. Ma in un mondo in cui il sesso prematrimoniale sta diventando molto più comune, tali etichette non hanno più il potere che avevano una volta. Oggi le donne iraniane combattono la polizia sia con il cervello che con il corpo. Gli uomini sono ormai abituati a vedere le donne come leader delle campagne sociali, e le donne usano le arti marziali per combattere la polizia nelle strade. Le proteste di oggi sono il culmine di quasi due secoli di lotta per i diritti civili delle donne iraniane e delle minoranze etniche e religiose.
Il regime iraniano comprende il potere sempre crescente del centenario movimento delle donne, in particolare ora che si è unito alle proteste per i rancori economici ed etnici. Il governo ha usato una miriade di strategie per soffocarlo. Le attiviste vengono picchiate, accecate da colpi di pistola sparati negli occhi, impedite di cercare cure mediche negli ospedali, arrestate e gettate in prigione, dove, secondo un recente rapporto della CNN, sia giovani donne che uomini vengono torturate e violentate. Dall’ultima ondata di proteste iniziata a settembre, il regime ha ucciso circa 500 persone e arrestato più di 18.000 persone, molte delle quali bambini. I giornalisti vengono arrestati per aver riferito di eventi e le principali testate giornalistiche non possono coprire le manifestazioni o vengono chiuse del tutto. Le organizzazioni che forniscono piattaforme agli attivisti ricevono minacciosi avvertimenti e i siti web associati al movimento vengono regolarmente chiusi. Non possiamo sapere cosa accadrà a seguito di questa repressione, ma possiamo affermare con assoluta certezza che le donne iraniane continueranno ad andare avanti. Come un possente fiume bloccato da giganteschi massi, il movimento trova continuamente un nuovo percorso, a volte in modi del tutto imprevisti.
Nel secolo scorso, le donne iraniane hanno realizzato cambiamenti epocali. Hanno conquistato il diritto all’istruzione e all’accesso agli spazi pubblici; hanno costantemente combattuto le normative imposte dallo stato su ciò che potevano o non potevano indossare; hanno ottenuto il diritto di lavorare fuori casa, di votare e di ricoprire cariche; e hanno chiesto sempre più matrimoni più basati sull’affetto, amicizia e gratificazione sessuale e il diritto di lasciare quelli violenti. Le donne hanno risposto positivamente alle misure di controllo delle nascite istituite alla fine degli anni ’80. Hanno preso il controllo del proprio corpo, riducendo il numero di gravidanze o scegliendo di non avere figli. Le donne sono diventate scienziate, ingegnere, accademiche, giornaliste, avvocate, atlete, registe, attrici e scrittrici di alto livello che hanno lottato instancabilmente per i diritti delle donne. Hanno scatenato un nuovo genere di letteratura femminista e sono diventate alcune dei più importanti editori, registi e artisti degli ultimi decenni. Le femministe di lingua persiana continuano a stringere legami di solidarietà con le loro compatriote curde, azere, baluce e arabe e con le appartenenti alle minoranze religiose sunnite e bahá’í, e sono state in prima linea nel movimento di solidarietà con le donne afghane. Nel processo, le sostenitrici iraniane dei diritti delle donne hanno infranto secolari tabù e rituali sessuali e di genere, guadagnandosi anche un enorme rispetto da un’ampia fascia della società. Femministe iraniane come Shirin Ebadi, Nasrin Sotoudeh e Narges Mohammadi sono state riconosciute nella comunità internazionale come coraggiose pioniere e apripista di una società più democratica in Iran. e artisti degli ultimi decenni.
La rivolta del 2022 costituisce già una straordinaria vittoria, non importa come finirà; l’Iran è già cambiato irrevocabilmente. L’attuale confluenza dei movimenti per i diritti delle donne, dei diritti civili e dei diritti delle minoranze, unita al sostegno della popolazione generale, sia della classe media che di quella operaia, ha portato l’Iran sul punto di pronunciare una condanna a morte per il regime teocratico che ha governato per più di quattro decenni.
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* Janet Afary e Kevin B. Anderson sono docenti presso l’Università della California, Santa Barbara
Fonte: https://www.dissentmagazine.org/online_articles/women-life-freedom-iran-uprising-origins
Traduzione di Maurizio Acerbo
La sezione storica di questo saggio si basa sulle seguenti precedenti pubblicazioni degli autori:
Janet Afary. 1996. The Iranian Constitutional Revolution of 1906-11: Grassroots Democracy, Social Democracy, and the Origins of Feminism. New York: Columbia University Press.
Janet Afary. 2003. “Shi’ite Narratives of Karbala, Christian Rites of Penitence: Michel Foucault and the Culture of the Iranian Revolution, 1978-79,” Radical History Review, no. 86 (Spring): 7-36.
Janet Afary. 2009. Sexual Politics in Modern Iran. Cambridge University Press.
Janet Afary and Jesilyn Faust, eds. 2021. Iranian Romance in the Digital Age: From Arranged Marriage to White Marriage. London: Bloomsbury Press.
Janet Afary. 2022. “From Bedrooms to Streets: The Rise of a New Generation of Independent Iranian Women,” Freedom of Thought Journal 11 (Spring): 1-28. DOI: https://doi.org/10.53895/RGZG7213
Janet Afary and Kevin B. Anderson. 2005. Foucault and the Iranian Revolution: Gender and the Seductions of Islamism. Chicago: University of Chicago Press.
Roger Friedland, Janet Afary, Paolo Gardinali, and C. Naslund. 2016. “Love in the Middle East: The Contradictions of Romance in the Facebook World,” Critical Research on Religion 4:3, 229-258.
FONTE: http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2022/12/16/iran-le-origini-della-rivolta/
di Moritz Enders (da Deutsche Wirtschaftsnachrichten)
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Cosa succede ora che i gasdotti Nordstream 1 e Nordstream 2 sono stati fatti saltare?
Oskar Lafontaine: L’esplosione dei due gasdotti è una dichiarazione di guerra alla Germania ed è patetico e vile che il governo tedesco voglia nascondere l’incidente sotto il tappeto. Dice di sapere qualcosa, ma non può dirlo per motivi di sicurezza nazionale. I passeri lo fischiano dai tetti da molto tempo: Gli Stati Uniti hanno eseguito direttamente l’attacco o almeno hanno dato il via libera. Senza la conoscenza e l’approvazione di Washington, non sarebbe stato possibile distruggere gli oleodotti, che costituiscono un attacco al nostro Paese, colpiscono la nostra economia nel profondo e vanno contro i nostri interessi geostrategici. È stato un atto ostile contro la Repubblica Federale – non solo contro di essa, ma anche – che chiarisce ancora una volta che dobbiamo liberarci dalla tutela degli americani.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Nel suo nuovo libro “Ami, è ora di andare!” lei chiede il ritiro delle truppe americane dalla Germania. Non è irrealistico?
Oskar Lafontaine: Naturalmente non accadrà da un giorno all’altro, ma l’obiettivo deve essere chiaro: Il ritiro di tutte le strutture militari e delle armi nucleari statunitensi dalla Germania e la chiusura della base aerea di Ramstein. Dobbiamo lavorare con costanza verso questo obiettivo e allo stesso tempo costruire un’architettura di sicurezza europea, perché la NATO, guidata dagli Stati Uniti, è obsoleta, come ha riconosciuto nel frattempo anche il Presidente francese Emmanuel Macron. Questo perché la NATO ha smesso da tempo di essere un’alleanza difensiva, ma piuttosto uno strumento per rafforzare la pretesa degli Stati Uniti di rimanere l’unica potenza mondiale. In ogni caso, dovremmo formulare i nostri interessi, che non sono affatto congruenti con quelli degli Stati Uniti.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Lei dice che gli americani sono responsabili dell’esplosione degli oleodotti. Crede davvero che rinuncerebbero alla Germania senza combattere?
Oskar Lafontaine: No, sarà un po’ complicato, ma non vedo alternative. Se noi e gli altri Paesi europei resteremo sotto la tutela degli Stati Uniti, questi ci spingeranno verso il precipizio per proteggere i loro interessi. Dobbiamo quindi ampliare progressivamente il nostro raggio d’azione, preferibilmente insieme alla Francia. Come Peter Scholl-Latour, molti anni fa ho invocato un’alleanza franco-tedesca. A quel punto anche la difesa dei due Stati potrebbe essere integrata, come nucleo di un’Europa indipendente. Per usare un’espressione ormai trita e ritrita: stiamo vivendo le doglie della fase di transizione da un ordine mondiale unipolare a uno multipolare. E qui si pone la questione se prenderemo un posto indipendente in questo nuovo ordine mondiale o se ci lasceremo trascinare nei conflitti di Washington con Mosca e Pechino, come vassalli degli Stati Uniti. In questo processo possiamo solo perdere.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: È necessario approfondire l’argomento. L’influenza americana sulla politica e sui media tedeschi è immensa. Come pensate di guadagnare spazio di manovra?
Oskar Lafontaine: Ha funzionato sotto cancellieri come Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl e Gerhard Schröder. Almeno in alcuni conflitti avevano in mente gli interessi tedeschi e non li hanno gettati in mare per anticipata obbedienza. Quando si è a capo di un Paese, occorre anche una spina dorsale. L’immagine del Cancelliere Scholz in piedi come uno scolaretto accanto al Presidente degli Stati Uniti Biden quando ha annunciato che il Nordstream 2 non sarebbe stato realizzato è stata un’umiliazione. E a ciò si aggiungono il Ministro degli Esteri tedesco, che fa da pappagallo alla propaganda statunitense, e il Ministro dell’Economia, che vuole essere “la guida dei servitori”. Non si può essere più compiacenti di così.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: A che tipo di gioco giocano Baerbock e Habeck?
Oskar Lafontaine: Per quanto riguarda la signora Baerbock, vorrei intervenire in sua difesa. Non sta giocando. Probabilmente è davvero così sempliciotta. E Habeck ricopre un ruolo completamente fuori della sua portata.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Nel suo libro cita Machiavelli: “Non è colui che per primo prende le armi ad essere l’istigatore del disastro, ma colui che lo costringe”. Si riferisce al conflitto in Ucraina?
Oskar Lafontaine: Naturalmente, mi riferisco anche al conflitto ucraino, iniziato con il colpo di stato del Maidan di Kiev nel 2014. Da allora, gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali armano l’Ucraina e la preparano sistematicamente alla guerra contro la Russia. In questo modo, l’Ucraina è diventata un membro de facto della NATO, anche se non de jure. Questa storia è stata deliberatamente ignorata dai politici occidentali e dai media mainstream.
Tuttavia, l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo è stata una violazione imperdonabile del diritto internazionale. Le persone muoiono ogni giorno e tutti, Mosca, Kiev o Washington, sono fortemente responsabili del fatto che non c’è ancora un cessate il fuoco. Per oltre 100 anni, l’obiettivo dichiarato della politica statunitense è stato quello di impedire a tutti i costi che l’industria e la tecnologia tedesche si fondessero con le materie prime russe. È assolutamente chiaro che abbiamo a che fare con una guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia, preparata da tempo. È imperdonabile che la SPD, in particolare, abbia tradito in questo modo l’eredità di Willy Brandt e la sua politica di distensione e non abbia nemmeno insistito seriamente sul rispetto dell’accordo di Minsk.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Quindi? Gli Stati Uniti hanno raggiunto i loro obiettivi di guerra?
Oskar Lafontaine: Sì e no. Per quanto riguarda il contenimento delle relazioni tra la Federazione Russa e l’UE, esse hanno avuto un grande successo. Sono anche riusciti a mettere fuori gioco, per il momento, l’UE e la Germania come potenziali rivali geostrategici ed economici. Ancor più che prima del conflitto ucraino, ora determinano le politiche degli Stati dell’UE, anche grazie ai politici compiacenti di Berlino e Bruxelles. Possono vendere il loro sporco gas da fracking e l’industria degli armamenti statunitense fa affari con le bombe.
D’altra parte, non sono riusciti a “rovinare la Russia”, come ha detto la signora Baerbock, uno dei loro portavoce, rovesciando Putin e installando un governo fantoccio a Mosca per ottenere un migliore accesso alle materie prime russe come ai tempi di Eltsin. E ho l’impressione che gli Stati Uniti si rendano conto che stanno mordendo il granito. Nonostante le massicce forniture di armi all’Ucraina e l’invio di numerosi “consiglieri militari”, la Russia, una potenza nucleare, non può essere sconfitta militarmente. Inoltre, le sanzioni occidentali si stanno rivelando un boomerang: stanno danneggiando gli Stati occidentali più della Russia e porteranno alla deindustrializzazione, alla disoccupazione e alla povertà. La popolazione attiva in Europa sta pagando il prezzo delle ambizioni di potere mondiale di un’élite impazzita di Washington e della codardia dei leader europei.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Quindi da qui in poi è tutto in discesa?
Oskar Lafontaine: Dobbiamo urgentemente garantire la fine del conflitto in Ucraina. E questo sarà possibile solo se gli Stati Uniti abbandoneranno il loro piano di mettere in ginocchio la Russia, prima di affrontare la Cina. Per questo è necessaria un’iniziativa europea, che deve partire da Francia e Germania.
Se non lo faremo, e se non troveremo presto un accordo con la Russia sulle importazioni di materie prime ed energia, l’economia della Germania e dell’Europa andrà a rotoli e i partiti di destra diventeranno sempre più forti in Europa.
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Oskar Lafontaine, nato a Saarlouis nel 1943, nella sua vita politica è stato sindaco di Saarbrücken, primo ministro del Saarland, presidente della SPD, candidato alla carica di cancelliere e ministro delle Finanze federale. Nel marzo 1999 si è dimesso da tutti i suoi precedenti incarichi politici nell’SPD a causa delle critiche espresse nei confronti della linea di governo di Gerhard Schröder. È stato il presidente fondatore del partito DIE LINKE, nato su sua iniziativa da PDS e Wahlalternative Arbeit & soziale Gerechtigkeit (WASG), presidente del gruppo parlamentare di sinistra nel Bundestag tedesco e candidato di punta nelle campagne elettorali per il parlamento del Saarland nel 2009, 2012 e 2017. Fino alle sue dimissioni dal partito nel marzo 2022, ha guidato il gruppo parlamentare di Die LINKE nel parlamento del Saarland dal 2009.
(Traduzione: cambiailmondo.org)
di Moritz Enders
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Wie geht es weiter nach der Sprengung der Gaspipelines Nordstream 1 und Nordstream 2?
Oskar Lafontaine: Die Sprengung der beiden Gaspipelines ist eine Kriegserklärung an Deutschland und es ist erbärmlich und feige, dass die Bundesregierung den Vorfall unter den Teppich kehren will. Sie sagt, sie wisse zwar etwas, könne dies aber aus Gründen der nationalen Sicherheit nicht sagen. Die Spatzen pfeifen es doch auch längst schon von den Dächern: Die USA haben den Anschlag entweder direkt durchgeführt oder sie haben zumindest grünes Licht dafür gegeben. Ohne das Wissen und die Zustimmung Washingtons wäre die Zerstörung der Pipelines, die einen Angriff auf unser Land darstellen, unsere Wirtschaft ins Mark treffen und unseren geostrategischen Interessen zuwiderlaufen, nicht möglich gewesen. Es war ein feindseliger Akt gegen die Bundesrepublik – nicht nur gegen sie, aber auch – der einmal mehr deutlich macht, dass wir uns vor der Vormundschaft der Amerikaner befreien müssen.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: In Ihrem neuen Buch „Ami, it´s time to go!“ fordern Sie den Abzug amerikanischer Truppen aus Deutschland. Ist das nicht unrealistisch?
Oskar Lafontaine: Natürlich geht das nicht von heute auf morgen, aber das Ziel sollte klar sein: Der Abzug sämtlicher militärischen Einrichtungen und Atomwaffen der USA aus Deutschland und die Schließung der Ramstein Airbase. Darauf müssen wir beharrlich hinarbeiten und gleichzeitig eine europäische Sicherheitsarchitektur aufbauen, weil die von den Vereinigten Staaten geführte NATO, wie ja auch der französische Präsident Emmanuel Macron zwischenzeitlich richtig erkannt hatte, obsolet ist. Das liegt daran, dass die NATO schon längst kein Verteidigungsbündnis mehr ist, sondern ein Werkzeug zur Durchsetzung des Anspruchs der USA, die einzige Weltmacht zu bleiben. Wir sollten aber unserer eigenen Interessen formulieren und die sind mit denen der USA beileibe nicht deckungsgleich.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Sie sagen, die Amerikaner seien für die Sprengung der Pipelines verantwortlich. Glauben Sie da im Ernst, dass sie Deutschland kampflos aufgeben würden?
Oskar Lafontaine: Nein, das wird haarig, aber ich sehe dazu keine Alternative. Bleiben wir und die übrigen europäischen Länder weiter unter der Vormundschaft der USA, dann werden die uns über die Klippe schieben, um ihre eigenen Interessen zu wahren. Wir müssen also langsam unseren Spielraum erweitern, am besten zusammen mit Frankreich. Wie Peter Scholl-Latour habe ich schon vor vielen Jahren einen deutsch-französischen Bund gefordert. Dann könnte auch die Verteidigung der beiden Staaten integriert werden, als Keimzelle eines unabhängigen Europas. Um einen inzwischen abgedroschenen Ausdruck zu bemühen: Wir erleben die Geburtswehen der Übergangsphase von einer uni- zu einer multipolaren Weltordnung. Und hier erhebt sich die Frage, ob wir in dieser neuen Weltordnung einen eigenständigen Platz einnehmen oder uns als Vasallen der USA in die Konflikte Washingtons mit Moskau und Peking hineinziehen lassen. Wir können dabei nur verlieren.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Da müssen wir noch mal nachhaken. Der amerikanische Einfluss auf die deutsche Politik und die Medien ist doch unendlich groß. Wie wollen Sie sich da Spielraum erarbeiten?
Oskar Lafontaine: Unter Kanzlern wie Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl und Gerhard Schröder ging es doch auch. Die hatten zumindest in einigen Konflikten die deutschen Interessen im Blick und haben sie nicht in vorauseilendem Gehorsam über Bord geworfen. Man braucht eben auch Rückgrat, wenn man an der Spitze eines Landes steht. Das Bild von Bundeskanzler Scholz, der wie ein Schuljunge neben US- Präsident Biden stand, als dieser verkündete, aus Nordstream 2 werde nichts, war eine Demütigung. Und dazu noch die deutsche Außenministerin, die die US- Propaganda nachplappert und der Wirtschaftsminister, der „führend dienen“ will. Mehr Anbiederung geht nicht.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Was für ein Spiel spielen Baerbock und Habeck?
Oskar Lafontaine: Was Frau Baerbock anbelangt, so möchte ich sie in Schutz nehmen. Die spielt kein Spiel. Die ist vermutlich wirklich so einfältig. Und Habeck ist in seinem Amt komplett überfordert.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: In Ihrem Buch zitieren Sie Machiavelli: „Nicht wer zuerst zu den Waffen greift, ist Anstifter des Unheils, sondern wer dazu nötigt.“ Beziehen Sie das auf den Ukraine-Konflikt?
Oskar Lafontaine: Natürlich meine ich damit auch und vor allem den Ukraine-Konflikt, der spätestens mit dem Putsch auf dem Kiewer Maidan im Jahr 2014 begonnen hat. Die USA und ihre westlichen Vasallen haben seitdem die Ukraine aufgerüstet und sie auf einen Krieg gegen Russland systematisch vorbereitet. So wurde die Ukraine zwar nicht de jure, aber de facto ein NATO- Mitglied. Diese Vorgeschichte wird von den westlichen Politikern und Mainstreammedien geflissentlich ignoriert.
Gleichwohl war es ein unverzeihlicher Bruch des Völkerrechts, dass die russische Armee in die Ukraine einmarschiert ist. Täglich sterben Menschen und alle, ob Moskau, Kiew oder Washington, die Verantwortung dafür tragen, dass es noch keinen Waffenstillstand gibt, laden schwere Schuld auf sich. Seit über 100 Jahren ist es das erklärte Ziel der US- Politik, ein Zusammengehen der deutschen Wirtschaft und Technik mit den russischen Rohstoffen um jeden Preis zu verhindern. Es ist vollkommen klar, dass wir es hier, wenn man die Vorgeschichte mit einbezieht, mit einem Stellvertreterkrieg der USA gegen Russland zu tun haben, der von langer Hand vorbereitet worden ist. Dass gerade die SPD das Erbe Willy Brandts und seiner Entspannungspolitik derartig verraten und nicht einmal auf der Einhaltung des Minsker Abkommen ernsthaft bestanden hat, ist unverzeihlich.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Und? Haben die USA ihre Kriegsziele erreicht?
Oskar Lafontaine: Ja und nein. Was die Kappung der Beziehungen zwischen der Russischen Föderation und der EU anbelangt, waren sie äußerst erfolgreich. Auch ist es ihnen gelungen, die EU und Deutschland als ihre potentiellen geostrategischen und wirtschaftlichen Rivalen vorerst aus dem Spiel zu nehmen. Noch mehr als vor dem Ukraine-Konflikt bestimmen sie jetzt die Politik der EU-Staaten, auch dank willfähriger Politiker in Berlin und Brüssel. Sie können ihr dreckiges Fracking-Gas verkaufen und die US- Rüstungsindustrie macht Bombengeschäfte.
Auf der anderen Seite ist es ihnen nicht gelungen, „Russland zu ruinieren“, wie es Frau Baerbock als eines ihrer Sprachrohre formuliert hat, Putin zu stürzen und in Moskau eine Marionettenregierung einzusetzen, um wie zu Zeiten Jelzins besser an die russischen Rohstoffe heranzukommen. Und ich habe den Eindruck, dass die USA inzwischen einsehen, dass sie hier auf Granit beißen. Trotz massiver Waffenlieferungen an die Ukraine, die Entsendung zahlreicher „Militär-Berater“, ist die Atommacht Russland militärisch nicht zu bezwingen. Zudem erweisen sich die westlichen Sanktionen als Bumerang, sie schaden den westlichen Staaten mehr als Russland und werden zu De-Industrialisierung, Arbeitslosigkeit und Armut führen. Die arbeitende Bevölkerung in Europa zahlt den Preis für die Weltmachtambitionen einer durchgeknallten Elite in Washington und die Feigheit der europäischen Staatenlenker.
Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Ab jetzt geht es also abwärts?
Oskar Lafontaine: Wir müssen dringend dafür Sorge tragen, dass der Ukraine-Konflikt beendet wird. Und das wird nur gehen, wenn die USA ihren Plan, Russland in die Knie zu zwingen – bevor sie sich China zur Brust nehmen – aufgeben. Hierfür brauchen wir eine europäische Initiative und die muss von Frankreich und Deutschland ausgehen.
Tun wir es nicht, und kommen wir nicht bald zu einem Arrangement mit Russland bezüglich unserer Rohstoff-und Energieimporte, dann wird die Wirtschaft in Deutschland und Europa den Bach runtergehen und rechte Parteien werden in Europa immer stärker.
Info zur Person:
Oskar Lafontaine, Jahrgang 1943 in Saarlouis geboren, war Im Verlauf seines politischen Lebens Oberbürgermeister in Saarbrücken, Ministerpräsident des Saarlandes, Vorsitzender der SPD, Kanzlerkandidat und Bundesfinanzminister. Im März 1999 legte er alle seine bisherigen politischen Ämter in der SPD aus Kritik am Regierungskurs von Gerhard Schröder nieder. Er war Gründungsvorsitzender der Partei DIE LINKE, die auf seine Initiative hin aus PDS und Wahlalternative Arbeit & soziale Gerechtigkeit (WASG) entstanden ist, Vorsitzender der Linksfraktion im Deutschen Bundestag und Spitzenkandidat bei den saarländischen Landtagswahlkämpfen 2009, 2012 und 2017. Bis zu seinem Parteiaustritt im März 2022 führte er seit 2009 die Fraktion der Linken im saarländischen Landtag.
Venerdì scorso 25 novembre, la penultima serata del XIV° Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli è stata interrotta da un gruppo di rappresentanti di alcune Ong italiane che hanno bloccato la proiezione di un documentario sulla Libia; “L’urlo”, questo il titolo del film, realizzato da Michelangelo Severgnini, sembra aver scosso e indignato parte della platea che ha protestato in modo scomposto e imposto al resto degli spettatori il blocco della proiezione al 20simo minuto.
Nei report che sono girati in rete si ascoltano accuse di antisemitismo e si definisce il documento una porcheria, una schifezza, ecc. ecc.
Tra coloro che intervengono a giustificare la sospensione (che altri vorrebbero continuare a seguire) troviamo Beppe Caccia e Valentina Brinis che dicono di parlare in rappresentanza rispettivamente di Mediterranea e Open Arms due delle navi che soccorrono da diversi anni i naufraghi provenienti prevalentemente dalla Libia.
Non si intendono, nell’alterco, i motivi specifici di questa indignazione che sembrerebbe essere derivata da alcune interviste a migranti africani in Libia che esprimono valutazioni non troppo conformi a quelle attese.
Il fatto è di una certa gravità; come previsto dal programma si poteva discutere del film alla sua conclusione; invece qualcuno si è sentito nella condizione di imporre con metodi sbrigativi e discutibili, degni di altra tradizione, l’interruzione della visione.
Noi non abbiamo visto il film perché a quanto pare la sua diffusione non è consentita da alcuni dei soggetti promotori e, da quanto sostiene il regista, l’unica possibilità di vederlo è quello di presentazioni limitate in sua presenza in quanto autore.
Non sappiamo quindi quali orridi contenuti o abissi morali contenga.
Una ragione in più per trovare un’occasione per vederlo.
Non ci accodiamo neanche alla polemica emersa nel fine settimana su alcuni blog. O almeno, riteniamo che il fatto che il film fosse stato proposto, fuori concorso, all’interno del Festival mostri l’interesse e l’imparzialità del team organizzatore al quale ciò va riconosciuto.
Quello che invece possiamo a ragione sostenere sulla base del materiale a disposizione è che sulla genesi, sulle condizioni e vicende dei migranti in generale e su quelli provenienti dalla Libia in particolare, non c’è Ong che abbia qualche sorta di primato interpretativo. E se c’è qualche occasione di ascoltare cosa pensano i migranti in prima persona della loro stessa condizione, dei loro paesi, dell’Europa, ecc. si tratta di un’occasione d’oro.
Le Ong dovrebbero fare al meglio il loro meritorio lavoro in mare e in terra. Sul resto, trattandosi di temi pubblici che riguardano tutti, tutti debbono potersi liberamente esprimere, soprattutto quando le vicende di cui si parla derivano da una guerra di aggressione dell’occidente in territorio africano che dura da oltre un decennio e che non accenna a concludersi. Cosa che sembra dimenticata da molti operatori.
In ogni caso, in attesa di vedere il film o leggere il libro-dossier che porta lo stesso titolo, proponiamo di seguito il racconto e le tesi dell’autore, che per dirla tutta, non ci sembrano lontane dalla verità, salvo le opportune verifiche su fatti e contesti specifici citati.
A dicembre del 2018 la FIEI organizzò un evento di una intera giornata a Roma assieme ad una Ong inglese, la Oxfam, in occasione del suo rapporto sull’Africa dell’anno precedente, con molti interventi dall’Italia e da diversi paesi africani. Si intitolava “I migranti, l’Africa, le nostre responsabilità”. Quanto sostiene Michelangelo Severgnini nel video che segue ci sembra confermare la sostanza di quanto ascoltammo in quell’occasione.
Rodolfo Ricci (FIEI)