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Distopico Stomp: Surrogata

SURROGATA

Nel ‘32, ad alcuni anni dall’esaurimento della lunga polemica tra fautori e oppositori della surrogata, ciò che restava dei sistemi sanitari aveva acquisito nuovi protocolli di intervento universali. Il decoupling generale aveva consentito di superare le rigidità precedenti; non era più necessario affidarsi a legislazioni liberali per sottoscrivere i contratti di gestazione internazionale denominati in Yuan; la sperimentazione nei laboratori aveva consentito importanti avanzamenti.

In Carghissia i trapianti di utero su femmine di orangutan risultavano efficaci. Nel ‘36, il trapianto fu avviato sui bonobo, anche individui maschili, con eccellenti risultati abbinati ai farmaci per il prolungamento della gestazione.

Già nel ‘38 le nuove scoperte sulle bioplastiche autoagglutinanti consentirono di produrre i primi extra uteri artificiali gestiti da bioreattori automatizzati, superando la mediazione animale.

Il loro impiego su vasta scala si impose però dopo la fine della guerra. Sia per le necessità di ripopolamento, sia perché la ricostruzione aveva imposto la fine del genere primario in ambito giuridico.

Anche la sua proliferazione secondaria fu abolita nel corso del decennio successivo. Non vi era più ragione di distinzione tra eterofilia o omofilia nelle diverse sub-varietà. L’approvvigionamento territoriale di capi umani seguì una pianificazione forzata fino al raggiungimento di una soglia ritenuta stabile e sostenibile anche rispetto alla necessità di contenimento dell’avanzamento di specie superstiti che si erano allargate oltremisura nel periodo bellico fin dentro le metropoli.

Gli uteri esterni artificiali consentirono anche una socializzazione delle eredità e comportarono la scomparsa della copula e dell’ordine sessuale binario; cosa che rese superfluo anche quello ternario e quaternario.

La letteratura dell’epoca riporta alcuni esempi di questo passaggio: i personaggi diventano via via più flebili e meno connotati, finché anche il romanzo di estingue. Così il teatro e il cinema di intrattenimento. La televisione diventa un fiume documentaristico e gli spazi una volta riservati ai talk show furono occupati dalle meditazioni.

Intorno alla metà degli anni ‘50 si manifesta una certa ripresa di volontà differenziante nelle arti astratte, anche grazie alla pratica degli innesti chimerici che nel frattempo si era affermata.

L’unghia retrattile o la mobilità della peluria cutanea furono casi che fecero discutere. Assieme allo smerigliamento oculare.

Per evitare rischi di risorgente razzismo le abitazioni in surplus furono adibite a loro salvaguardia; alcuni sostengono piuttosto al loro nascondimento.

E’ un fatto comunque che non si registrarono più conflitti attorno a tali temi.

FONTE: Ds (Distopico stomp)

La Guerra contro il mondo multipolare

di Hauke Ritz*

Politici di spicco suggeriscono che si potrebbe rischiare una continua escalation della guerra in Ucraina perché una vittoria russa sarebbe peggiore di una terza guerra mondiale. A cosa è dovuta questa enorme volontà di escalation? Perché sembra non esistere un piano B? Per quale motivo l’élite politica degli Stati Uniti e quella della Germania hanno legato il proprio destino all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale?

Non si può ignorare che il mondo occidentale sia in preda a una sorta di frenesia bellica nei confronti della Russia. Ogni escalation sembra portare quasi automaticamente alla successiva. Non appena è stata decisa la consegna di carri armati all’Ucraina, si è parlato della consegna di jet da combattimento. Un drone spia americano era appena stato abbattuto vicino al confine russo dal passaggio ravvicinato di un caccia russo, quando la Corte penale internazionale dell’Aia ha pubblicato un mandato di arresto per Vladimir Putin. Criminalizzando il presidente russo, l’Occidente ha deliberatamente distrutto il percorso verso una soluzione negoziale e ha portato l’escalation a un nuovo livello. Ma come se il livello così raggiunto non fosse abbastanza alto, la Gran Bretagna ha annunciato la consegna di munizioni all’uranio, considerate armi “convenzionali” che lasciano una contaminazione radioattiva sul luogo dell’esplosione. La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è consistita nella decisione di posizionare armi nucleari tattiche in Bielorussia a stretto giro.

La rinuncia al controllo dell‘escalation

Da dove deriva questa disposizione quasi automatica all’escalation da parte dei politici al potere oggi? È un fenomeno di decadenza? Qualcosa di analogo si verifica quando l’adattamento allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) è diventato più importante dell’adattamento alla realtà. Oppure la disponibilità all’escalation può essere spiegata razionalmente? È forse l’espressione di un certo obiettivo politico che è stato minacciato ma che non può essere abbandonato dalla classe politica al potere e che quindi sembra raggiungibile solo attraverso un azzardo?

Una dichiarazione molto significativa, rilasciata dal Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg il 18 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, fa pensare a quest’ultima ipotesi: Stoltenberg ha ammesso nel suo discorso che, continuando a sostenere l’Ucraina, c’era il rischio di un’escalation militare tra la NATO e la Russia che non poteva più essere controllata. Tuttavia, ha fatto seguito a questa ammissione chiarendo immediatamente che non esistono soluzioni prive di rischi e “che il rischio più grande di tutti sarebbe una vittoria russa”. In un certo senso, Stoltenberg ha legittimato il rischio di un’escalation militare tra le due superpotenze nucleari. In altre parole, si potrebbe tranquillamente rischiare l’escalation perché una vittoria russa in Ucraina sarebbe potenzialmente peggiore di una terza guerra mondiale.

Ora, si potrebbe liquidare la dichiarazione di Stoltenberg come irrazionale se non fosse in linea con altre dichiarazioni allarmanti di politici, militari e persone che gravitano in questi mondi. Si consideri, ad esempio, l’osservazione fiduciosa di Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, che si è detto sicuro che Putin non userà le armi nucleari anche in caso di escalation (1), il che implicherebbe dunque che si può osare un’escalation. Che altri leader della NATO la pensino allo stesso modo è stato recentemente reso noto da una prostituta (Hanna Lakomy su “Berliner Zeitung”) che bazzica in questi ambienti. Anche il capo del governo ungherese, Victor Orban, ha recentemente avvertito che i Paesi occidentali sono sul punto di discutere seriamente l’invio di proprie truppe in Ucraina. Solo due giorni dopo, il famoso giornalista investigativo Seymour Hersh, noto per le sue fonti nella burocrazia di Washington, ha lanciato avvertimenti molto simili. Secondo Hersh, il governo statunitense sta valutando la possibilità di inviare proprie truppe in Ucraina sotto la copertura della NATO. Il presidente serbo, a sua volta, ha commentato la notizia del mandato di arresto della Corte penale internazionale contro il presidente russo con le parole “E sono pronto a dirvi che temo che non siamo lontani dallo scoppio della terza guerra mondiale”. Perché si era creata una situazione “in cui entrambe le parti scommettono su tutto o niente e rischiano fino in fondo”. Lo scorso dicembre, il leggendario Segretario di Stato americano Henry Kissinger aveva espresso sentimenti simili. Nel suo articolo “Come evitare un’altra guerra mondiale”, ha descritto come in questa guerra si scontrino posizioni assolutiste che potrebbero effettivamente portare allo scoppio di una guerra mondiale.

Affermazioni di questo tipo sollevano la questione di cosa si stia effettivamente combattendo in Ucraina: qual è il vero scopo di questa enorme volontà di escalation? I bacini carboniferi del Donbass? Probabilmente no. Ma allora di cosa si tratta?

Il contrasto tra ordine mondiale unipolare e multipolare

La tesi di lavoro di questo saggio è che nel conflitto ucraino si stanno confrontando due concetti di ordine mondiale, ovvero la contrapposizione tra un ordine mondiale unipolare e uno multipolare. Di seguito, le caratteristiche di entrambi i principi dell’ordine mondiale saranno sviluppate e messe a confronto.

Se si esaminano i documenti di politica estera pubblicati negli ultimi due decenni dalle principali riviste di politica estera occidentale (ad esempio negli Stati Uniti “Foreign Affairs”, rivista del Council on Foreign Relations, o in Germania “Internationale Politik”, rivista del DGAP – Consiglio tedesco per le relazioni estere), una circostanza colpisce particolarmente: in queste pubblicazioni l’obiettivo di un mondo normativamente governato dagli Stati Uniti o dalla NATO non viene messo in discussione, ma sempre presupposto. Il potenziale fallimento del dominio occidentale non viene nemmeno preso in considerazione, nemmeno come possibilità. La situazione è simile a quella di quasi tutti gli altri think tank statunitensi o tedeschi e delle loro pubblicazioni sulla geopolitica e la politica estera. Per queste istituzioni la validità dell’ordine mondiale incentrato sull’Occidente è inconfutabile, mentre il declino della Russia è considerato un dato di fatto.

In altre parole, al momento non sembra esistere un “piano B” nella pianificazione politica occidentale. È proprio l’assenza di un tale piano che potrebbe spiegare l’enorme disponibilità dell’Occidente all’escalation. Per qualche motivo, l’élite politica degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, della Germania e di numerosi altri Paesi, ha legato il proprio destino politico all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale. Gli Occidentali sembrano essere dominati dall’idea che la guerra in Ucraina possa portare a un cambio di regime a Mosca e quindi a una restaurazione del potere occidentale. Ma ora che, contrariamente alle aspettative, il predominio dell’Occidente ha iniziato a scivolare, si stanno verificando le reazioni isteriche di cui sopra.

Per arrivare al nocciolo del conflitto, dobbiamo quindi rispondere alla domanda su che cosa sia in realtà un ordine mondiale a guida occidentale, sul perché sia chiamato anche ordine mondiale unipolare, tra le altre cose, e su quale sia il suo contro-concetto.

Caratteristiche dell’ordine mondiale unipolare

Un ordine mondiale unipolare è un ordine globale strutturato in modo tale che solo una regione del globo sia davvero abbastanza sviluppata da essere il polo di potere che dà forma a tutte le sfere del mondo moderno. In un ordine mondiale unipolare, ad esempio, gran parte del potere militare sarebbe concentrato nelle mani di un’unica superpotenza o alleanza di Stati. A causa di questa concentrazione di potere, in questo caso ci sarebbe anche una sola norma di politica estera che strutturerebbe la politica estera di tutti i Paesi. Una politica estera sovrana sarebbe, per così dire, modellata solo dal centro, il polo unico; il resto del mondo, cioè la periferia, dovrebbe seguirla.

Il polo di potere in un mondo unipolare plasmerebbe le condizioni quadro delle relazioni economiche globali, ad esempio propagando una teoria economica generalmente riconosciuta come valida e controllando importanti istituzioni come la Banca Mondiale, il FMI o persino i grandi gestori di fondi. Il polo di potere eserciterebbe anche il controllo su una quota significativa delle materie prime globali, sulle rotte commerciali via terra e via mare e sulla fatturazione globale. A causa di questo monopolio economico, la crescita economica in altre regioni del mondo potrebbe essere colpita, il che ridurrebbe notevolmente la possibilità di emergere di un secondo centro di potere.

In un ordine mondiale unipolare, anche le tendenze a lungo termine dello sviluppo tecnologico sarebbero progettate e modellate da un solo polo di potere, che dominerebbe allo stesso tempo lo sviluppo e la progettazione del sistema finanziario globale e la regolamentazione giuridica delle relazioni economiche.

Tutto ciò porterebbe il diritto internazionale ad assumere la forma di una politica interna mondiale. Infine, in un ordine mondiale unipolare, anche lo sviluppo della cultura sarebbe orientato verso il centro globale: tutte le tendenze decisive nascerebbero al centro e da lì si diffonderebbero alla periferia. Questo influenzerebbe aspetti diversi come la forma del sistema educativo, l’emergere di mode, tendenze estetiche e stili, e persino la questione dei criteri con cui artisti e scrittori, così come scienziati e le loro teorie, ottengono o meno un riconoscimento internazionale. In breve, tutte le questioni riguardanti lo sviluppo della civiltà sarebbero determinate da un solo potere centrale in un ordine mondiale unipolare.

In un certo senso, un ordine mondiale unipolare creerebbe un mondo in cui l’esterno o l’altro scomparirebbero. In un mondo unipolare, ci sarebbe un solo polo di potere e quindi un solo modello di civiltà. Un ordine mondiale unipolare sarebbe in definitiva un impero la cui sfera di potere comprenderebbe l’intero globo per la prima volta nella storia: il mondo assumerebbe una struttura completamente immanente.

Dal 1991 al 2022 – Un ordine mondiale unipolare in sospeso

Questo elenco delle caratteristiche di un mondo unipolare è stato volutamente scritto a immagine e somiglianza di questo ordine mondiale per sottolinearne chiaramente il carattere presuntuoso, addirittura antiumanista. Tuttavia, bisogna tenere presente che un ordine mondiale unipolare è già esistito in forma latente a partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, e molti dei criteri appena elencati in realtà descrivono già il nostro mondo di oggi. La situazione degli ultimi tre decenni non è stata il risultato di un processo di sviluppo naturale, ma piuttosto l’esito non pianificato del crollo caotico dell’Unione Sovietica, che ha colto di sorpresa quasi tutti i contemporanei. È stata quindi una svolta storica difficile da prevedere che ha portato gli Stati Uniti a trovarsi nel ruolo di polo di potere unipolare del mondo negli anni Novanta.

Il risultato è stato che nel primo decennio e mezzo dopo il crollo dell’URSS, gli USA hanno potuto determinare la forma della politica globale quasi da soli. Hanno dominato tutte le istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nonché molte delle fondazioni attive a livello internazionale e, a partire dagli anni ’90, sempre più spesso anche molte organizzazioni non governative, che in molti casi possono certamente essere considerate organizzazioni semi-governative. Infine, gli Stati Uniti hanno avuto una grande influenza anche nella sfera della cultura (soft power), nella misura in cui le tendenze e le mode emerse negli Stati Uniti hanno influenzato lo sviluppo della cultura mondiale nel suo complesso. Inoltre, sono stati in grado di determinare autonomamente la standardizzazione di nuove tecnologie come Internet e i telefoni cellulari e di utilizzarle per la loro influenza culturale e per lo spionaggio.

Si può quindi affermare che l’ordine mondiale unipolare è rimasto in sospeso dal 1991 fino alla crisi finanziaria del 2008. Sebbene in quel periodo il mondo avesse già una struttura unipolare, mancavano ancora i criteri decisivi per la piena attuazione dell’unipolarismo. Gli Stati Uniti, tuttavia, erano così forti della loro nuova posizione di potere che hanno valutato male il rischio che comportava l’instaurazione definitiva di un tale ordine. Dal mandato di George W. Bush Jr. in poi, l’ordine mondiale unipolare è stato apertamente proclamato dagli USA, dividendo il mondo in Stati amici e nemici (i cosiddetti “Stati canaglia”).

I primi segni di crisi dell’ordine mondiale unipolare dopo il 1991

L’euforia è durata poco. Sono stati tre i fattori principali che hanno provocato la graduale erosione del ruolo degli Stati Uniti come polo di potere unipolare nella politica mondiale: in primo luogo, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti si sono giocati la loro reputazione politica globale con un comportamento apertamente imperialista in Iraq. Attraverso l’esibizione di un imperialismo dichiarato, è emersa una nuova consapevolezza in gran parte del mondo arabo, in America Latina e nel Sud e Sud-Est asiatico. La subordinazione a lungo termine di questi Paesi all’egemonia statunitense è man mano divenuta sempre più difficile.

Un secondo fattore è stato che, a partire dalla metà degli anni Novanta, l’ascesa di Cina, India e di una serie di piccole economie emergenti ha iniziato a spostare l’equilibrio economico globale. Il deficit commerciale degli Stati Uniti ha rivelato la dipendenza dell’economia americana dall’economia finanziaria, perché il settore produttivo, necessario per la stabilità del settore finanziario, è andato perso nel corso degli anni. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, gli squilibri strutturali dell’economia statunitense sono diventati generalmente visibili. Da allora, il ruolo del dollaro come valuta mondiale e di riserva è stato messo sempre più apertamente in discussione.

Il terzo fattore che ha messo in discussione l’ordine mondiale unipolare nella seconda metà degli anni Novanta è stato il fatto che la Russia è riuscita gradualmente a ripristinare la propria sovranità e il proprio potenziale militare dopo il crollo dell’URSS negli anni Novanta. Il discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 può essere visto come un punto di svolta simbolico, in cui la Federazione Russa ha assunto una contro-posizione differenziata davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino.

In quanto erede diretto dell’Unione Sovietica, la Russia ha un potenziale di armi nucleari, pari a quello degli Stati Uniti, che ostacola un ordine mondiale unipolare. Questo perché un ordine mondiale unipolare richiede il monopolio dell’uso della forza per essere realizzato e in questo senso assomiglia a uno Stato che non può esistere senza il monopolio dell’uso della forza. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno ampliato la NATO verso est durante il mandato di Bill Clinton, in violazione di precedenti accordi con Mosca, e hanno iniziato a sviluppare uno scudo missilistico durante il mandato di George W. Bush jr. L’intenzione di neutralizzare la capacità di attacco della Russia è stata tuttavia vanificata dallo sviluppo di nuovi missili russi. Anche se non esiste ancora un’alleanza ufficiale tra Russia e Cina o Russia e India, il potenziale nucleare russo è comunque un fattore che protegge indirettamente l’ascesa economica di questi Paesi.

A partire dagli anni Novanta, al ruolo di seconda potenza nucleare di Mosca si è aggiunto anche quello di fornitore di sistemi di difesa moderni. Vendendo sistemi di difesa aerea, ad esempio, Mosca è stata in grado di limitare in modo massiccio il raggio d’azione militare degli Stati Uniti. Paesi ricchi di petrolio e sovrani come l’Iran o il Venezuela sono stati in grado di proteggersi dall’azione militare degli Stati Uniti, anche grazie all’acquisto di armi russe.

A causa di questi tre fattori, gli intellettuali hanno parlato della fine dell’ordine mondiale unipolare al più tardi a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008: non appena è stata proclamata, sembrava già parte del passato. L’insieme di libri, articoli e saggi scritti in tutti i continenti su questo slittamento di potere dalla metà degli anni ’90 potrebbe riempire intere biblioteche. (2) Ciò solleva naturalmente la questione del perché Stoltenberg e i suoi compagni d’armi oggi sembrino addirittura disposti ad accettare un’escalation sconsiderata, compreso il rischio di una guerra mondiale, solo per far passare qualcosa che è sostanzialmente inapplicabile. Non sono a conoscenza delle numerose analisi negli uffici del Dipartimento di Stato americano e nei corridoi della NATO che trattano dell’impossibilità di un ordine mondiale unipolare?

È vero che la sovranità e la forza militare russa sono uno dei tre fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare. Se la Russia riuscirà a difendere la sua zona d’influenza in Ucraina, avrà indirettamente difeso anche la sovranità di numerosi altri Paesi al di fuori dell’Occidente. Agli occhi del mondo, una vittoria russa in Ucraina equivarrebbe quindi all’attuazione dell’ordine mondiale multipolare. Tuttavia, si tratterebbe solo di un passo evolutivo che avverrà comunque nei prossimi anni. Infatti, l’enorme sviluppo economico della Cina, dell’India, ma anche del Brasile, dell’Iran, dell’Indonesia e di numerosi altri Paesi emergenti non può più essere fermato e porterà in ogni caso a un mondo multipolare. Anche il risveglio intellettuale e politico che si sta verificando in vaste aree dell’emisfero meridionale e orientale, nel corso del quale vengono ricordati anche i crimini dell’imperialismo occidentale, va in questa direzione e rende impossibile una centralità permanente dell’ordine mondiale in Occidente. (3)

Unipolarismo e valori occidentali

Storicamente, un ordine mondiale multipolare è “la norma”: Quasi per tutta la storia dell’umanità, il mondo è sempre stato costituito da diversi poli di potere. Anche negli ultimi secoli di dominazione europea, nella stessa Europa sono sempre esistiti diversi centri di potere che si controllavano e limitavano a vicenda. Il tentativo della Francia sotto Napoleone di unificare l’intera Europa con la forza militare fallì a causa della Russia. Anche il tentativo del “Terzo Reich” di sottomettere nuovamente l’Europa con la forza militare è fallito a causa di Mosca. E anche il tentativo degli Stati Uniti, avviato dopo il crollo dell’URSS, di estendere il proprio potere dall’Europa al mondo intero si è nuovamente infranto a causa della resistenza russa.

È per via di questo schema costante della storia mondiale che la NATO sta ora letteralmente azzannando la Russia e trascurando gli altri fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare? Comunque sia, l’alba di un ordine mondiale multipolare vedrà il mondo tornare a un vecchio schema. Non c’è motivo di descrivere questo ritorno di un vecchio ordine come il “rischio più grande di tutti”, come ha fatto Stoltenberg durante l’ultima Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Al contrario: un ordine mondiale unipolare monopolizzerebbe il potere su scala globale. Si tratterebbe di uno sviluppo che non solo sarebbe in contraddizione con gli interessi di Russia, Cina, India e numerosi altri Paesi dell’emisfero meridionale e orientale, ma una tale concentrazione di potere sarebbe anche fondamentalmente in contrasto con i valori dell’Occidente stesso.

I valori occidentali sono emersi da una serie di rivoluzioni iniziate con le aspirazioni di autonomia delle città-stato italiane del Rinascimento, proseguite nella Confederazione svizzera, attraverso la guerra dei contadini tedeschi, la rivolta olandese, le rivoluzioni inglese e americana e infine culminate nella grande rivoluzione francese. (4) I valori occidentali sono quindi valori rivoluzionari, del tutto incompatibili con l’idea di una concentrazione globale del potere. Si basano sulla possibilità di un’inversione dei rapporti di forza esistenti che può essere avviata in qualsiasi momento. Desacralizzano il potere e sono quindi in grado di impegnarlo per il bene comune. Questa idea è stata istituzionalizzata nella Repubblica. L’idea della separazione dei poteri svolge un ruolo decisivo nel garantire equilibri stabili, nel rendere visibili gli abusi di potere e nel correggere le politiche sbagliate.

Il fatto che l’Occidente, tra tutti i Paesi, abbia fatto dell’idea di un ordine mondiale unipolare e quindi del concetto di concentrazione globale del potere la base della sua politica estera nell’era iniziata dopo la caduta del Muro di Berlino dimostra quanto il mondo occidentale si sia allontanato dalle sue basi intellettuali. Naturalmente, l’Occidente è sempre stato diviso tra la sua tradizione imperiale e quella repubblicana. Spesso le due sono esistite in parallelo, anche se i loro principi filosofici si escludevano a vicenda. Un esempio famoso è la rivolta degli schiavi ad Haiti, che il governo francese cercò invano di sedare con la forza delle armi, anche se gli schiavi in rivolta invocavano i valori della Rivoluzione francese. Con le sue azioni, Parigi ha chiarito che i valori della Rivoluzione francese – cioè libertà, uguaglianza, fraternità – dovevano valere solo per i cittadini francesi, ma non per quelli delle colonie. (5)

Tuttavia, deve essere successo qualcosa nell’Occidente stesso che ha fatto sì che l’ambivalenza che esisteva ancora all’epoca tra repubblica e impero, che poteva esistere in parallelo per molto tempo, si è chiaramente dissolta nel nostro tempo a favore dell’imperialismo nella forma di un ordine mondiale unipolare. Un Occidente che voglia professare i propri valori politici potrebbe, al contrario, lottare per un mondo multipolare, in accordo con la Russia e le grandi civiltà dell’Asia. Un ordine mondiale multipolare trasferirebbe nel mondo l’idea della separazione dei poteri e quindi l’effetto benefico degli equilibri di potere; rimarrebbe la competizione tra civiltà.

La competizione tra civiltà

La competizione tra civiltà è un fattore importante per il futuro sviluppo dell’umanità. Proprio perché le nuove tecnologie del XXI secolo permettono di interferire con i diritti naturali degli individui su una scala molto più ampia rispetto al XX secolo, la competizione tra civiltà deve essere mantenuta ad ogni costo. I diritti naturali sono diritti che precedono il diritto positivo stabilito da uno Stato. Questi diritti esistono “per natura” e sono dati per scontati, come il diritto di disporre del proprio corpo, i diritti fondamentali della libertà umana o il diritto dei genitori di crescere i propri figli.

Tecnologicamente, oggi è possibile monitorare una persona per tutta la vita, memorizzare e valutare in modo permanente le sue tracce digitali e, su questa base, regolare e limitare individualmente il suo accesso alla società. Questo permette di intervenire nell’ordine della legge naturale che prima era impensabile. Lo sviluppo futuro dell’ingegneria genetica si aggiunge a tutto questo e potrebbe, ad esempio, mettere in discussione il diritto all’integrità corporea e all’autonomia della persona in modo molto più drastico di quanto abbiano potuto fare i dittatori del passato. Finché le civiltà possono essere messe a confronto tra loro, questi sviluppi indesiderati delle singole civiltà possono essere riconosciuti e nominati. In un mondo determinato da civiltà diverse, nessuna di esse potrebbe interferire con i diritti naturali dei propri cittadini per un lungo tempo senza subire uno svantaggio strutturale nei confronti delle altre civiltà.

In un mondo unipolare, invece, la comparabilità e la competizione latente delle civiltà scomparirebbero. In un mondo del genere, sarebbe molto più facile definire in modo esaustivo le implicazioni di potere della tecnologia moderna e limitare o addirittura abolire i diritti naturali. Ne consegue che: chi sogna un mondo tecnocratico in cui l’uomo sia sottomesso alla tecnologia non può evitare di lottare per un mondo unipolare per realizzare questo obiettivo. Al contrario, se si vuole vedere tutelata la libertà e la dignità umana nel XXI secolo, si deve lottare per un mondo multipolare. Vediamo quindi che i due concetti di ordine mondiale, unipolarismo e multipolarismo, rappresentano ordini di valori diversi.

Un altro svantaggio dell’ordine mondiale unipolare è che non dà spazio alla diversità culturale del mondo e alla diversità delle civiltà emerse nella storia. Poiché l’ordine unipolare cerca di governare il mondo secondo un unico principio, deve inevitabilmente vedere una minaccia nella diversità culturale e tendere a unificare culturalmente il mondo. Ma questo provocherebbe inevitabilmente una resistenza, alla quale il governo mondiale unipolare può rispondere solo con la propaganda, la manipolazione o la violenza. Per questo motivo, un ordine mondiale unipolare sarebbe possibile solo come dittatura globale.

I fautori di un ordine mondiale unipolare sostengono spesso che solo un governo mondiale potrebbe abolire la guerra e garantire la pace nel mondo. Tuttavia, qualsiasi conquistatore del passato avrebbe potuto affermare lo stesso, secondo il motto: “Quando vi avrò conquistati tutti, allora…”. Ci devono essere altri modi per garantire la pace nel mondo che non la realizzazione di un monopolio globale del potere. Perché la strada per raggiungere questo obiettivo è lastricata di sangue e violenza, come ha recentemente sottolineato il musicista Roger Waters nel suo discorso alle Nazioni Unite. (6)

È vero che anche in un ordine mondiale multipolare esiste un pericolo di guerra a causa della moltitudine di attori. Tuttavia, va detto in primo luogo che le guerre all’interno di un ordine mondiale multipolare non assumerebbero probabilmente il carattere assoluto che caratterizza la ricerca dell’unipolarismo, a cui ha fatto riferimento anche Roger Waters nel suo discorso all’ONU. In secondo luogo, non sono solo gli equilibri di potere a proteggere dalla guerra, ma anche la cultura. In una certa misura, il livello di cultura determina la capacità di pace di una società. Poiché il livello di cultura in un mondo multipolare potrebbe essere inegualmente più sviluppato che in un ordine mondiale unipolare orientato all’unificazione, la pace in un ordine mondiale multipolare potrebbe essere garantita in due modi, da un lato attraverso gli equilibri di potere e dall’altro attraverso il più alto livello di cultura possibile.

Anche l’argomentazione secondo cui alcuni problemi, come la regolamentazione delle armi di distruzione di massa, il cambiamento climatico o la prevenzione delle pandemie, potrebbero essere risolti solo a livello internazionale non è efficace, perché il polo di potere unipolare o il “governo mondiale” cercherebbero di convertire questi problemi internazionali in una fonte di legittimità per il proprio potere. Invece di risolvere i problemi, se ne temerebbe l’appropriazione indebita. Un polo di potere unipolare non avrebbe alcun interesse a risolvere i problemi internazionali o globali, poiché ne avrebbe bisogno come pretesto per esercitare il proprio potere. Chiunque abbia seguito con un po’ di distanza i dibattiti pubblici in Occidente negli ultimi anni potrebbe facilmente vedere le indicazioni di una simile appropriazione indebita del potere. Chi vuole davvero risolvere i problemi citati dovrebbe quindi impegnarsi maggiormente per la stipula di trattati tra Stati sovrani, invece di un “governo mondiale” che sarebbe al di sopra di tutti e quindi non potrebbe più essere controllato da nessuno.

L’unipolarismo, la guerra e il fallimento politico dell’Europa

Fa parte della natura del nostro mondo il fatto che esso sia costituito da diverse civiltà molto grandi e antiche. Molte di queste civiltà hanno prodotto in passato importanti conquiste culturali che hanno anche costituito dei punti di riferimento per il futuro dell’umanità. Tuttavia, queste civiltà sono nate da religioni e filosofie molto diverse e da storie diverse. Sebbene si possano trovare valori e intuizioni comuni, gli approcci scelti si basano spesso su principi opposti tra i quali non sempre sembra possibile un compromesso. Ad esempio, i confini della vergogna, l’ordine dei sentimenti e degli affetti, il rapporto dell’individuo con la famiglia, la società e lo Stato, il senso del tempo e della storia o il rapporto con la propria soggettività sono codificati in modo molto diverso nelle diverse culture.

Il polo di potere unipolare, a sua volta, non può essere culturalmente neutrale e inevitabilmente globalizzerebbe l’ordine di valori della sua cultura di origine – nel mondo di oggi, quella degli Stati Uniti. Le altre culture al di fuori del polo di potere difficilmente potrebbero quindi essere rappresentate culturalmente. La loro diversità culturale rappresenterebbe una fonte costante di instabilità all’interno dello “Stato mondiale”, che l’ordine mondiale unipolare dovrebbe contrastare con una sempre maggiore omogeneizzazione. La propaganda e la violenza dovrebbero essere costantemente utilizzate a questo scopo, il che a sua volta porterebbe a nuove resistenze. Ma questo meccanismo sopprimerebbe, indebolirebbe e forse addirittura dissolverebbe proprio quelle conquiste culturali di cui l’umanità ha tanto bisogno per riappropriarsi del proprio futuro.

È chiaro che molte delle civiltà più antiche non possono acconsentire alla loro dissoluzione in un ordine mondiale unipolare dominato dalla cultura consumistica americana senza opporre resistenza. Il tentativo di stabilire un mondo unipolare deve quindi necessariamente portare a una situazione in cui le rivendicazioni di un ordine unipolare e le rivendicazioni di uno Stato sovrano più grande, che eventualmente rappresenti anche la propria sfera culturale, entrano in conflitto esistenziale tra loro. In questo conflitto, o il concetto di governo mondiale crollerà o lo Stato in questione perderà la sua sovranità. In un certo senso, tra Stati Uniti e Russia è sorto esattamente un conflitto di questo tipo: poiché non è possibile alcun compromesso tra gli Stati Uniti, in quanto rappresentanti dell’ordine mondiale unipolare, e la Russia, in quanto rappresentante dei Paesi emergenti che lottano per la sovranità, ora c’è persino la minaccia di una guerra tra le due potenze nucleari.

Chiunque rifletta su questi problemi con un po’ di conoscenza storica e senso di responsabilità deve, per tutte queste ragioni, rifiutare l’idea di un mondo unipolare o di un governo mondiale. Poiché il concetto di istituire un governo mondiale porta necessariamente a un conflitto esistenziale tra potenze nucleari, questo concetto non avrebbe mai dovuto essere ricercato dagli europei. Quando, a partire dagli anni Novanta, è apparso chiaro che gli Stati Uniti non potevano più staccarsi da questo piano, gli europei avrebbero dovuto separarsi dagli USA.

Il fatto che gli Stati Uniti siano stati ricettivi a queste fantasie di potere è dovuto anche al fatto che si tratta di un Paese molto giovane che si è espanso quasi continuamente dalla sua fondazione. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti non hanno il tipo di esperienze storiche drastiche che l’Europa ha subito più volte sul suo territorio, dalla Guerra dei Trent’anni alle due guerre mondiali. Chi è stato così viziato dalla Storia come gli Stati Uniti ha avuto difficoltà a imparare la maturità e l’autocontrollo. Sarebbe stato quindi compito degli europei esercitare saggezza e lungimiranza e contrastare l’euforia di potenza statunitense con una riflessione sul bene comune di tutta l’umanità. Una riflessione, si badi bene, che avrebbe dovuto essere concepita in dialogo con le altre grandi civiltà.

Come si vede, gli argomenti a favore di un ordine mondiale multipolare sono ovvi. Avrebbero potuto essere sviluppati senza sforzo nei ministeri degli Esteri di Germania, Francia o Italia. Perché ciò non sia avvenuto, perché l’Europa non abbia intrapreso un percorso indipendente e abbia invece assecondato una “Grande Strategia” americana che avrebbe potuto fare dell’Europa, ancora una volta, il campo di battaglia di una grande guerra, è sconcertante. Il fatto che quasi nessuno delle migliaia di esperti che lavorano nei ministeri degli Esteri dei vari Paesi europei sia apparso pubblicamente come voce critica e ammonitrice indica o un’enorme mancanza di senso di responsabilità o dimostra che i rappresentanti dell’intellighenzia sono stati attivamente esclusi da queste istituzioni.

Il fallimento dell’Europa e la vera paura delle élite

Il fatto che oggi, 33 anni dopo la riunificazione, l’Europa si trovi di fronte al pericolo reale di una guerra nucleare è l’espressione di un fallimento fondamentale della politica estera tedesca, francese e italiana che difficilmente può essere descritto a parole. Nel 1989, l’Europa è stata benedetta dalle circostanze della storia. Era dotata della possibilità di un ordine di pace duraturo, potenzialmente in grado di durare per generazioni, sotto forma di unificazione tedesca ed europea. L’Europa di oggi, invece, che sta di nuovo sguinzagliando i cani da guerra sul suo continente con un occhio al futuro e persino con una certa astuzia, (7) si è dimostrata indegna di questo dono. Il potere in politica estera di almeno due decenni è stato sprecato per un obiettivo discutibile.

La separazione dell’Ucraina dalla Russia era un vecchio obiettivo bellico dell’Impero tedesco nella Prima Guerra Mondiale, imposto con la forza nel trattato di pace di Brest-Litovsk. Il “Terzo Reich” riattivò questo obiettivo bellico e lo ampliò ulteriormente, cercando non solo di appropriarsi dell’Ucraina, ma anche di sterminare una parte considerevole di tutti i russi. La campagna di Hitler contro l’Unione Sovietica era infatti apertamente concepita come una guerra di sterminio razziale e ideologica. Nella vecchia Repubblica Federale e nella DDR, ma anche nella Germania riunificata sotto Kohl e Schröder, c’era ancora un consenso sul fatto che i vecchi obiettivi bellici tedeschi erano falliti e che quindi un futuro conflitto con la Russia per l’Ucraina doveva essere evitato a tutti i costi. Il fatto che questa convinzione abbia perso la sua validità incondizionata durante i mandati di Merkel e Scholz non è altro che una catastrofe intellettuale e morale per il nostro Paese e per l’Europa nel suo complesso.

Torniamo alla dichiarazione del Segretario Generale della NATO: Jens Stoltenberg ritiene che una vittoria russa sarebbe peggiore di una continua escalation che potrebbe portare a una vera e propria guerra mondiale con miliardi di morti. Che un simile azzardo possa essere davvero pianificato è indicato anche dalle dichiarazioni di numerosi politici e testimoni contemporanei citati all’inizio. Quale paura di fondo può aver portato Stoltenberg a chiedere un’escalation?

Forse teme che l’irrazionalità di 30 anni di politica estera occidentale possa venire alla luce, che i cittadini vengano illuminati su ciò che è stato realmente tentato negli ultimi tre decenni? Vale a dire, che i politici occidentali hanno cercato un ordine mondiale che, da un lato, porta necessariamente alla guerra? E dall’altro contraddice fondamentalmente l’ordine di valori occidentale.

Tuttavia, se questa rivelazione diventasse nota, potrebbe essere l’inizio di una rivalutazione che, man mano che procede, potrebbe trasformarsi in un secondo Illuminismo. Il primo Illuminismo ha messo in discussione il potere illegittimo della Chiesa e del clero, nonché della nobiltà e della società classista. Oggi viviamo di nuovo in un mondo in cui il potere è cresciuto enormemente – come nella Francia assolutista – ma sta perdendo sempre più la sua base di legittimità nel corso di questa espansione.

Un secondo Illuminismo oggi, sull’esempio della critica al clero, dovrebbe mettere in discussione il potere dei media e smascherare le loro sofisticate tecniche di manipolazione psicologica. E, sul modello della critica all’aristocrazia e alla grazia divina della monarchia, dovrebbe illuminare oggi sul potere dell’oligarchia e sull’economia mondiale sempre più dominata dai monopoli. Naturalmente, se questo secondo illuminismo dovesse iniziare, emergerebbe una dinamica che andrebbe ben oltre una semplice riforma del nostro sistema politico. È forse questo lo sviluppo che Stoltenberg definisce “il rischio più grande di tutti”, ossia il ritorno dell’Occidente ai suoi valori originari?


* multipolar-magazin.de

FONTE: https://multipolar-magazin.de/artikel/der-krieg-gegen-die-multipolare-welt


Traduzione di oval.media

Hauke Ritz. Ha conseguito un dottorato in filosofia e pubblica soprattutto su temi di geopolitica e storia delle idee. Libri: “Der Kampf um die Deutung der Neuzeit” (2013), “Endspiel Europa” (2022, insieme a Ulrike Guérot).

Fonte originale: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
Fonte traduzione: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
NOTE
(1) Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, Intervista al canale televisivo RTP, 29.01.2023
(2) Chalmers Johnson, Un impero in declino: quando finirà il secolo americano? Monaco 2001; Peter Scholl-Latour, Weltmacht im Treibsand – Bush gegen die Ayatollahs, Berlino 2004; Emmanuell Todd, Weltmacht USA – Ein Nachruf, Monaco 2003
(3) Cfr: Hauke Ritz, Geopolitischer Gezeitenwechsel, in: Carsten Gansel (a cura di), Deutschland Russland – Topographie einer literarischen Beziehungsgeschichte, Berlino 2020, pp. 427-442.
(4) Anche la Rivoluzione russa del 1917 rientra in questa serie, ma in un modo particolare, che non può essere discusso in modo esaustivo in questa sede.
(5) Cfr. Susan Buck-Morss, Hegel und Haiti – Für eine neue Universalgeschichte, Berlino 2011.
(6) “…e la marcia egemonica di un impero o di un altro verso il dominio unipolare del mondo. La prego di rassicurarci che questa non è la sua visione, perché non c’è alcun risultato positivo su quella strada. Quella strada porta solo al disastro, tutti su quella strada hanno un pulsante rosso nella loro valigetta e più andiamo avanti su quella strada più le dita pruriginose si avvicinano a quel pulsante rosso e più ci avviciniamo tutti all’Armageddon”. Roger Waters, Discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, New York, 08.02.2023
(7) Vedi: Ulrike Guerot, Hauke Ritz, Endspiel Europa – Warum das politische Projekt Europa gescheitert ist und wie wieder davon träumen können, Frankfurt a. Main 2022, p. 118ss.

La Previsione di Dos Santos

Considerazioni sulle società multinazionali

Il grafico è tratto da: S. Vitali, J.B. Glattfelder, and S. Battiston: “The network of global corporate control” – Zürich, September/2011

Premessa

Il saggio che segue comparve sul numero luglio-ottobre 1973 di Problemi del Socialismo, rivista diretta da Lelio Basso.

Il numero della rivista uscì a ridosso del golpe cileno. Si apriva con uno struggente “Epicedio per Salvador Allende”, dello stesso Lelio Basso che aveva seguito da vicino gli eventi cileni, l’ascesa di Unidad Popular e che condivideva con Allende una fraterna amicizia.

Il saggio di Theotonio Dos Santos riprende alcuni concetti espressi nella seconda parte (Praxis) del volume “!Bendita Crisis! – Socialismo y democracia en el Chile de Allende”, dove si susseguono diversi interventi di Dos Santos in concomitanza con gli eventi cileni del 1972, ma che fu pubblicato solo nel 2009 in Venezuela, per le Edizioni “El perro y la rana”, un progetto editoriale bolivariano che si apre con una “Carta abierta a Hugo Chavez” da parte di Dos Santos.

Si tratta del capitolo XIV: “Corporaciones multinacionales, imperialismo y estados nacionales” che contiene una sintesi parziale di quanto espresso più ampiamente nel presente saggio.

Quello scritto descrive essenzialmente il ruolo centrale delle multinazionali (nord-americane) nel destino del sottosviluppo latinoamericano, mentre non contiene né la lunga premessa analitica qui presente, né la interessantissima ricostruzione storica dell’affermarsi delle multinazionali nei paesi di insediamento per trasformarsi poi in soggetti “senza confini”; non contiene neanche la parte finale – quella che ci è sembrata particolarmente interessante ai fini di questa pubblicazione – che descrive le dinamiche e l’evoluzione contraddittoria delle relazioni e degli effetti prodotti dalle entità transnazionali, sia sullo stato di emanazione (USA) che sui paesi di insediamento.

Mentre gli effetti su questi ultimi sono abbastanza noti e corroborati da un’ampia letteratura, quelli sul paese di emanazione, come tendenze già individuabili allora, lo sono molto meno.

Dos Santos arriva infatti qui a ipotizzare che l’alternativa tendenziale tra fascismo o socialismo – titolo di un altro suo noto libro – non riguarderà solo i paesi “sottosviluppati”, come confermato dai golpe susseguitesi nei decenni che ci separano da allora, ma anche quelli da cui le multinazionali emanano, cioè quelli del nord, gli Usa in particolare.

Secondo Dos Santos la contraddizione centrale del multinazionalismo è che la piena libertà di movimento del capitale internazionale entra in conflitto (anche, ndr) con gli interessi del suo centro egemonico, tende a indebolirne l’economia e rende più profonde le sue contraddizioni interne”.

Nella evoluzione storica di queste entità multinazionali ci si emancipa progressivamente da un insediamento iniziale nel paese di arrivo a mo’ di “enclave” autosufficiente e autarchico, fino ad una integrazione progressiva nel contesto locale, sia in termini di relazioni sempre più strette con la forza lavoro, con le istituzioni e la politica, con gli altri settori produttivi, sia anche con una capacità di produzione e commercializzazione che tende alla progressiva emancipazione e sganciamento dalla casa madre, di modo che essa inizia ad esportare anche in paesi terzi e nello stesso paese di nascita, e a necessitare per tutto ciò, di supporto finanziario parallelo (che consente l’arrivo dalle banche estere), in definitiva ad agire come soggetto che può massimizzare i propri profitti in misura del suo grado di autonomia, inclusa quella di programmare investimenti in altri settori e in altri paesi rischiando anche di fare concorrenza alla casa madre.

La natura degli agglomerati transnazionali è dunque spuria: “La società multinazionale, intesa come una organizzazione internazionale, ha interessi, strategia, organizzazione e finanziamento propri. Da questo punto di vista ha i suoi interessi specifici all’interno dell’economia mondiale. Cosicché, teoricamente, potremmo pensare che la società multinazionale operi con un criterio diverso da quello dell’economia del paese dove ha il suo centro di operazioni. Sappiamo, tuttavia, che questa indipendenza della società multinazionale è relativa, dato che la sua forza economica è in gran parte basata sul potere dell’economia nazionale da cui essa prende l’avvio. Nello stesso tempo le sussidiarie sono sottoposte alla dinamica globale della società multinazionale e, insieme, alla capacità economica e alle leggi di sviluppo dell’economia in cui operano. Perciò la tendenza a sviluppare le sussidiarie in direzione del mercato interno, le fonti di rifornimento locale e la nazionalizzazione della produzione vengono a trovarsi in contrasto sia con gli interessi della società nel suo insieme, sia con quelli dell’economia del paese dominante.”

La logica ferrea del profitto, però, non guarda in faccia a nessuno, neanche alla propria madre o levatrice e, in prospettiva, costruisce un nuovo spazio autocentrato che entra in frizione col mondo circostante, sia quello locale, verso il quale tenta di imporre le proprie condizioni, sia quello lontano, ma strutturalmente più vincolante, costituito dal paese di emanazione. Si può affermare che, superata una certa soglia, gli appetiti crescono e il figlio si rimangia il padre.

Il conflitto tra dimensione territoriale (statuale) del potere e quello della connaturata qualità e capacità di spaziare oltre ogni confine, insita nella logica stessa del capitalismo e storicamente applicata nella secolare conquista coloniale che diventa l’imperialismo, può tornare indietro fino ai territori di partenza dell’entità multinazionale e sottoporre anche quei territori alla sua logica perenne. E’ anche una dimensione di conflitto tra pubblico (senza alcun giudizio di ordine morale) e privato; ma si afferma, egli dice, anche tra le parti costituenti la dimensione privata, i punti di articolazione della singola multinazionale.

Theotonio Dos Santos, come detto, scrive probabilmente tra la fine del 1972 e l’inizio del 1973, da Santiago del Cile, dove si è rifugiato fin dal 1966 dopo il golpe in Brasile. Insegna all’università di Santiago e fa parte del gruppo di consiglieri di Allende insieme ad altri sociologi, economisti militanti: Vania Bambirra (che è anche la sua compagna), Ruy Mauro Marini, come lui fuoriusciti e provenienti da Minas Gerais; André Gunder Frank, berlinese emigrato a Chicago, anche lui approdato a Santiago intorno al 1968; lì ci sono già due cileni, Orlando Caputo e Roberto Pizarro, ricercatori del CESO (Centro de Estudios Socio-Económicos – Universidad de Chile), che vengono aggregati al gruppo: sono i creatori della Teoria della Dipendenza, riarticolando le tesi di Paul Baran e Paul Swizy su sottosviluppo e capitale monopolistico e confrontandosi con quelle di Raùl Prebisch, argentino e di Celso Furtado anch’egli brasiliano, anch’essi ispiratori di Allende, verso i quali si sviluppa la polemica intorno alla praticabilità ed efficacia delle politiche economiche nazionaliste, di industrializzazione tramite sostituzione delle importazioni, ecc. che costituiva il cuore della proposta della CEPAL.

La Teoria della dipendenza propone una rottura decisiva nella chiave di lettura proposta fino ad allora: il sottosviluppo non è un ritardo storico rispetto ai centri motori del capitalismo, ma la condizione dell’esistenza stessa di questi centri motori; in altre parole, il centro propulsore esiste solo in quanto drena ed incamera risorse potenziali verso sé stesso e lascia nelle periferie le macerie di questo salasso. In questo processo si serve delle borghesie locali come garante e agente di controllo locale di tale processo; e può farlo poiché la loro esistenza è strettamente legata alla perpetuazione dell’estrazione ed esportazione di valore verso i paesi dominanti.

E’ da tali conclusioni che le proposte di alternative nazionaliste vengono messe in discussione come concretamente impraticabili o scarsamente produttive, come anche non risolutive e infondate saranno, secondo Dos Santos, le proposte “riformistiche” successive al periodo delle dittature sostenute, ad esempio in Brasile, da Fernando Henrique Cardoso, di “sviluppo nel sottosviluppo”, una contraddizione in termini e verificata.

Ma non è questo il luogo di un approfondimento della avvincente riflessione e discussione che si svilupperà proprio dopo il golpe cileno e quelli seguenti in tutta l’America Latina nel corso degli anni ‘70 (e alle incursioni e successive guerre dell’occidente, passando per la caduta dell’Urss e i cui esiti arrivano ai giorni nostri) e che riguarderanno anche altri importanti interpreti di questa teoria critica, da Emmanuel Wallerstein a Giovanni Arrighi, Hosea Jaffe e e proseguita da Michel Husson, David Harvey e molti altri.1

L’unica cosa che in questa sede vale la pena sottolineare è che, come probabilmente i teorici della Dipendenza avevano già capito, nel lungo percorso di mutazione dell’animale multinazionale, accade, come abbiamo visto, che può crescere il livello di industrializzazione del paese dipendente, certamente nella misura in cui esso rimane subalterno, ma tuttavia riducendo man mano i differenziali produttivi con il nord (iniziando dai settori a minor composizione organica di capitale) e trasformandosi, dopo molti anni, da “sottosviluppato” ad “emergente”.

Questa deve essere stata la considerazione, ancora non del tutto chiara, a cui era pervenuto Dos Santos in quegli anni; una cosa che necessitava di essere approfondita, ma non c’erano tempo e condizioni per farlo nei momenti tragici di metà 1973 a Santiago; quindi la chiusura della riflessione ne risente e la scorciatoia proposta è appunto quella dell’alternativa finale tra fascismo o socialismo anche nei paesi guida.

Cosa che presuppone che nel loro tragitto le multinazionali hanno visto crescere il proprio potere fino a determinare effetti economico-sociali contundenti anche nei punti di origine della loro avventura.

Quindi l’oggetto effettivo della riflessione del saggio non è già più la Dipendenza, ma le multinazionali in quanto tali, delle quali si intravvede che saranno il soggetto in grado di destrutturare un ordine e di ricrearne uno nuovo; non solo in un paese o in un gruppo di paesi dipendenti, ma a livello globale.

Più tardi, intorno a questi punti Arrighi postulerà le sue idee di evoluzione ciclica delle relazioni tra centri motore territoriali ed elementi strutturali egemonici che sono destinati a succedersi nel corso storico e a sostituirsi l’uno dopo l’altro in considerazione della capacità di riorganizzare meglio e più efficacemente la disponibilità di capitali e risorse. I momenti di passaggio, secondo Arrighi sono preceduti dall’estremo grado di finanziarizzazione che assume il sistema, con enormi sovrappiù di capitali che preferiscono mantenere una forma liquida piuttosto che misurarsi con il rischio dell’investimento produttivo. E quella che stiamo ora attraversando sarebbe proprio una di queste fasi che sboccherà nell’individuazione di un altro centro territoriale e culturale egemone da cui ripartire: la Cina.

Ma la cosa che colpisce nello scritto di Dos Santos è anche la descrizione delle dinamiche conflittuali all’interno stesso dell’agente centrale dei processi di globalizzazione, la società multinazionale; oltre alla dialettica che si produce non solo con i paesi di insediamento ma anche che con quello di emanazione. E la descrizione, che assume toni profetici, dell’esito finale di questa dialettica che riassume infine nell’opzione “fascismo o socialismo”; non solo nelle periferie, ma anche nei centri guida della globalizzazione.

Il saggio appare dunque come un frammento di un pensiero in fieri interrotto bruscamente, probabilmente proprio dal golpe cileno e del suo impatto sul gruppo che a Santiago andava realizzando il suo lavoro di ricerca.

A fronte dei terribili eventi del 1973 e seguenti, quella soglia temporale in cui la dialettica delle multinazionali avrebbe investito, con lo stesso dilemma (fascismo o socialismo), anche i paesi guida della globalizzazione appariva molto lontano e incerto, forse non così degno di essere approfondito nell’immediato, mentre il compañero Presidente moriva sotto il bombardamento del Palazzo de la Moneda.

Anche se successivamente, per altre vie, essa riemerge già in relazione al conflitto tra le spinte centripete e centrifughe dei grandi movimenti di capitali seguenti alla crisi energetica del 1974 tra USA ed Europa e alla fine della convertibilità del dollaro.

Parafrasando per incerte analogie alcuni concetti proposti da Caro Rovelli nel suo recente libro “Buchi bianchi” potremmo riassumere così: la moderna globalizzazione è lo stretto prodotto dell’azione delle multinazionali; essa si distingue da quella meramente mercantile di fino ’800/inizio ‘900; è prima estrattiva, poi produttiva e industriale; poi finanziaria. Via via che cresce e si consolida, la società multinazionale funziona come un buco nero; cioè interagisce ed è in grado di modificare le coordinate spaziali circostanti fino a modificarne gli spazi giuridici e politici “euclidei” fondati sul principio dello stato-nazione (in cui arriva), le modalità di funzionamento classiche dei suoi apparati amministrativi e di stimolare e introdurre altri processi normativi e ideologici; la sua crescente egemonia muta le culture e le narrazioni consolidate, fino alla stessa configurazione di centri e periferie territoriali, sostituendosi infine ad essi e inaugurando un tempo nuovo che si assottiglia fino a ridurre la storia alle sue esigenze fisiologiche di una soggettività isterica in permanente movimento e in sempre più rapida dislocazione, fino ad agire, necessariamente, solo come flusso di capitale sempre più svincolato dalla mediazione produttiva.

Il nuovo tempo che si afferma è dunque il tempo delle sue variazioni in termini di allargamento pluriverso in ogni direzione e di spostamenti sempre più repentini di investimenti collocati laddove la redditività attesa è maggiore, prescindendo da alcun elemento valoriale o culturale legato alla sua genesi, al suo dislocamento storico, o dispiegamento provvisorio. Fino a riprogettare e a riprodurre il vivente e l’umano tramite, magari, bio-reattori di proteine che sostituiscano la “mediazione” agricola per gli alimenti e con ciò annientando il vincolo fisico-chimico naturale, anche perché, nel frattempo lo ha distrutto.

Il tempo che ne scaturisce è quello di un perenne cambiamento del suo ipotetico centro che tende a corrispondere col suo scopo, il suo obiettivo, quello del profitto a brevissimo termine. Di fronte ad esso tutto può essere ed è sacrificato. Può dunque tornare anche al suo territorio di partenza con l’obiettivo di estrarne il massimo possibile allo stesso modo di come si è abituata a fare con tutte le periferie in cui ha transitato. Poiché il nuovo tempo è quello in cui il centro è mobile come il capitale in movimento e dunque le periferie spaziali si susseguono secondo le sue volontà. L’unica chances di queste successive periferie di stare in campo è quella di competere sull’offerta delle condizioni ottimali per un suo atterraggio dal cielo, visto che ormai è essenzialmente denaro astratto tenuto insieme dai tassi di interesse promessi agli investitori.

Questo suo transitare svincolato da ogni laccio determina cambiamenti nella sfera politica, sociale, culturale in ogni paese, spostamenti paralleli di masse umane da un paese all’altro, arricchimento o distruzione dei territori antropizzati, incide sul clima e sulla biosfera, cambia le coordinate dell’immaginario individuale e collettivo. E per consolidarsi come sistema ha un estremo bisogno di emanare una propria teologia sistemica che prescinda da altre intrusioni territoriali o statuali e che diventi egemone a prescindere da ogni confine. Anzi, il nuovo confine, che tutto ingloba, è proprio la sua narrazione.

Per questo sviluppa sempre di più i propri centri R&S non più quelli legati – solo – ai processi produttivi, ma quelli ideologici, della comunicazione, dell’educazione, della dottrina.

Siccome non esiste più una corrispondenza necessitata tra puntuazioni spaziali e capitale, non vi sono tendenzialmente limiti alla sua ulteriore concentrazione che è destinata a procedere fino ad inglobare successivamente in agglomerati sempre più grandi le stesse entità multinazionali che si sono emancipate singolarmente da territori e stati “a livelli che superano di molto la nostra immaginazione” dice Dos Santos, poiché lo spazio metafisico che hanno creato e in cui si trovano ad agire, conosce solo una legge gravitazionale definita da uno spazio giuridico unificato che deve essere tuttavia legittimato, prima della completa autonomia, dalle puntuazioni di potere statuale che è in condizione di determinare: gli accordi internazionali sul libero commercio di merci e capitali, sono questa cosa.

E’ immaginabile che lungo questa traiettoria i buchi neri più poderosi, ciascuno con i propri concorrenziali orizzonti degli eventi statuiscano orbite di equilibrio provvisorio tra di essi, con proprie galassie al seguito composte anche da stati e territori secondo le proprie specificità settoriali e di risorse disponibili (l’occidente), inaugurando magari altre e nuove entità spaziali sotto il loro completo dominio; sarebbero, in un futuro senza intoppi, le loro sedi legali extraterritoriali, le nuove metropoli caratterizzate da filosofie e sistemi di valori ad hoc, entità di diritto privato sostitutive degli antichi spazi di diritto statuale ai quali potrebbero succedere, alla ricerca di un sottostante ideologico concreto come le variazioni interpretative della Santissima Trinità e parallelamente ad una cittadinanza che viene attribuita per comune congenialità, adesione o credo individuale; perché il limite ontologico della loro astratta natura contabile, va reso comunque potabile (comprensibile) per i soggetti che in ultima istanza debbono continuare a legittimarlo.

C’è una soglia quantistica (e storica) che registrerà questo passaggio? Sarà un oggetto di indagine di studiosi e ricercatori. Ma se le premesse sono verosimili, queste potrebbero essere le linee di tendenza e se ne intravvedono alcune luccicanze già da diversi anni: le grandi compagnie delle reti, l’attivismo delle megaconcentrazioni specializzate nella terra, nel cibo, nei farmaci, nella chimica, nella mobilità, nella comunicazione; sempre meno gli agglomerati che controllano tutto ciò che occorre ad emettere derivati e altre invenzioni finanziarie. Altro non sono che le opportunità offerte dalla residua concretezza fisica in direzione di un’astrazione strutturale di capitale.

Dove dovremmo essere allora, oggi, lungo questo ipotetico tragitto? Potremmo trovarci ad una stazione molto avanzata. Quasi ad un passo dalla chiusura del circuito. Che, per attivare la sua modalità perpetua, non ammette tuttavia defezioni o intoppi. Negli ultimi tre decenni sono stati contenuti o abbattuti quasi tutti i recalcitranti: attraverso guerre e altre operazioni strategiche che non erano affatto finalizzate alla conquista, ma alla destrutturazione di chi ancora si attardava sulle presunte prerogative dei confini, gli stati canaglia, resi ormai così permeabili a scorrerie che se ne evidenziava la manifesta nullità.

I confini formali, la statualità, sono riservati solo a coloro che aderiscono fino in fondo al modello; servono a legittimarlo da un punto di vista diverso, un alter ego di ultima istanza; come nella funzione assolta dal Papato medioevale, dopo la fine della sua aspirazione di governo temporale. Perché comunque, nella narrazione utile al passaggio storico di fase è fondamentale disporre ancora di un ancoraggio normativo che consenta il rispetto “di regole”. Anche il ripetuto aggancio ai superiori processi formali della democrazia sono indispensabili per tranquillizzare l’opinione pubblica e ritardare la consapevolezza di trovarsi ormai in un diverso ordine di cose, una sorpresa che non dovrà essere troppo preoccupante, la mattina che accadrà, quando essa sarà rivelata e, al vertice della piramide, si scoprirà il nuovo brand che tutto governa, come nella profezia di “Gaia”, l’inquietante documentario del primo Casaleggio.

Così, a ripensarci, l’11/9 può essere servito più a sfasciare il neonato movimento contro la globalizzazione neoliberista piuttosto che ad annientare coloro che erano stati fino a poco prima i soci islamici dell’imperialismo. Più pericoloso il primo, perché scaturiva in casa dell’occidente e si andava diffondendo con inattesa velocità; inoltre stava introducendo un paradigma rischiosissimo: quello del tentativo di saldatura tra classi sociali subalterne e marginalizzate del nord con quelle del sud del mondo; si trattava dell’attualizzazione rivista e corretta della Teoria della dipendenza e di una maturità, almeno analitica, in grado di mettere a nudo il re.

Spostare (in termini psico-sociali e politici) l’agenda globale era un imperativo. Più stringente di qualsiasi confronto con mondi secondari, dopo che anche il muro era crollato e l’avversario presunto si era arreso.

Forse non siamo già più nello spazio di opportunità colto nel 1973 da Theotonio Dos Santos: fascismo o socialismo. La prospettiva socialista era emersa alla fine degli anni’90 ed è durata lo spazio di un biennio rosso, tra Seattle e Porto Alegre.

Dopo i primi venti anni di guerra infinita restano tutte le macerie diffuse sul pianeta e un pianeta che viene progressivamente intaccato nella sua tenue pellicola dell’ecosistema.

Green washing, passaggio da combustione a celle, produzioni di virus e vaccini, di proteine in bio-reattori, ecc. sono una ulteriore frontiera per le transazioni e per il consolidamento dell’opera: riportare a ragion finanziaria tutto quello che ne è ancora parzialmente al di fuori.

Invece le ultime pagine del saggio non possono non richiamare alla memoria le immagini della riemersione del fascismo; quello di Trump nel 2016 negli Usa, l’assalto al Campidoglio dei suoi adepti; una congerie confusa di aggregazioni ideali e di gruppi sociali compositi e contraddittori, all’assalto della nuova divisione internazionale del lavoro, secondo la narrativa di Steve Bannon, che si deve allargare – e si sta allargando – agli altri paesi centrali:

L’instaurazione di questa nuova divisione internazionale del lavoro presuppone la soluzione di molti problemi preliminari, tra i quali, in primo luogo, la divisione interna che questa politica provoca in seno alla stessa borghesia dei paesi dominanti. Questa soluzione comporta il sacrificio della media e piccola borghesia all’interno dei paesi dominanti a favore del progresso delle società multinazionali e della borghesia internazionale (…). Questa contraddizione è grave e di difficile soluzione, perché le borghesie locali dei paesi dominanti sono ancora molto forti ed hanno un’influenza politica, hanno capacità di resistere al grande capitale internazionale, soprattutto nella misura in cui riescono ad influenzare altri settori della popolazione e a muoverli politicamente. Se pensiamo che al mercato locale nordamericano sono legate in maniera fondamentale società di grande potenza, possiamo dedurne che si tratta di un confronto tra giganti e non semplicemente tra alta borghesia e borghesia media. A lunga scadenza, le borghesie locali non potrebbero resistere, soprattutto perché non hanno da offrire un’alternativa di sviluppo economico a livello nazionale e internazionale, ma un’alternativa di regresso, d’immobilismo, di ristagno che ai nostri giorni non può rappresentare, evidentemente, una base valida per una politica economica con proiezioni internazionali.”

O forse non siamo ancora del tutto entrati nell’orizzonte degli eventi in agglutinamento attorno ai buchi neri; possiamo ancora verificare l’attivismo delle ultime grandi puntuazioni statuali in conflitto per porre uno stop all’inesorabile: Russia, Cina e altre medie potenze riottose per le quali diventa difficile un’assimilazione hic et nunc agli stati canaglia; che resistono proponendo una alternativa pluricentrica, un multipolarismo che non ha ambizioni di egemonia immediata, ma piuttosto di stallo, di tregua, guadagno di tempo, time gain; queste potenze hanno proceduto pragmaticamente negli ultimi decenni all’emanazione forzata e accelerata di propri nuclei multinazionali, cosiddetti oligarchici, in grado di creare e intercettare parzialmente il flusso di capitali, sperimentando una incerta direzione e un complesso controllo al movimento illimitato delle multinazionali di primo rango, cercando di mantenere un guinzaglio produttivo agli investimenti esteri, rivendicando la correttezza dogmatica della classica valorizzazione capitalistica e richiamando Adam Smih a Pechino, come ci racconta Arrighi.

L’esito di questo estremo confronto si vedrà alla fine del grande conflitto.

Per ora basti dire che il modello del buco nero attorno a cui tutto gravita non funziona se non è totale; e se viene messo in discussione vuol dire che non è ancora in grado di cancellare la stessa possibilità di alternative. Ciò stesso lo rende in sé parziale, dunque limitato, dunque aggredibile nella sua pretesa onnicomprensiva.

Ci sono allora tre opzioni: la vittoria piena oppure la riapertura dei giochi; o infine la compartimentazione stagna di due modelli gravitazionali destinati a competere entro spazi che, in questo caso, ridiventano, loro malgrado, territoriali. Nel secondo e terzo caso, il progetto di unico centro mobile è sconfitto. Nel terzo caso si tenta un pari e patta, ciascuno a casa sua. Ma, appunto, sempre si tratta di una sconfitta dell’unipolarità.

Mi pare che al momento stazioniamo qui. L’ipotesi di arrocco e il ritorno alla logica della cortina di ferro infioccata di superiorità civilizzatrice indica che c’è un altro, sufficientemente forte, in gioco. Si alzano i muri perché una parte del coacervo multinazionale globalizzato (quello ancora legato alla produzione concreta di manufatti e servizi e alla disponibilità di risorse naturali) riconosce in lui potenzialità e redditività di lunga durata.

E iniziano dunque a cogliersi vistose crepe nella direzione esclusiva e indiscutibile della ragion finanziaria. Il buco nero, fino a poco fa dotato di una certa compattezza, va scindendosi. Nel momento in cui la redditività di produzioni e commerci recupera slancio, allora vuol dire che il centro motore sta cambiando. Per ostacolarlo bisogna abiurare a tutto ciò che è stato diffuso come vero in mezzo secolo di apertura neoliberistica; si può, anzi, si deve, tornare al protezionismo. Rinverdito da sciocche narrazioni tra società aperte (ma con i muri) e autocrazie (che vogliono apertura).

Se ha ragione Giovanni Arrighi, ad una egemonia dovrebbe succederne un’altra più forte, che renda più gestibili le contraddizioni e preservi la civiltà umana attraverso un nuovo e più efficace equilibrio, allontanando la catastrofe.

Le due varianti di Dos Santos, fascismo o socialismo, si ridefiniscono forse dentro questo scenario, come sovrastrutture dei processi in corso su scala globale; segno ne sia che le varianti “Trump” e “Biden” sono, sul piano globale, mero elemento di cronaca; valgono solo all’interno di ogni singolo paese nel confronto innescatosi tra borghesie globalizzate e grandi borghesie nazionali, un “confronto tra giganti”, ma interno all’occidente che va perdendo egemonia. E nello spazio senza confini sia accentuano le contraddizioni interne allo stesso capitale finanziario, abituato a scorrazzare indisturbato tramite le sue catene globali del valore che rischiano di essere messe in dubbio.

Mentre nell’oriente si dovrebbe accentuare l’attenzione agli enormi mercati interni, forse in grado, da soli, di contenere le spinte delle multinazionali oligarchiche abituate ad operare globalmente. Ma non tutti dispongono di tali dimensioni potenziali.

I territori intermedi, Africa, America Latina, Asia sottosviluppata, saranno probabilmente quelli in cui la frizione tra i blocchi sarà massima, indispensabili, come sono, ad ammortizzare gli effetti dell’arrocco e a garantire i nuovi prodotti primari. C’è da vedere se il loro corteggiamento produrrà o meno processi simili a quelli previsti dalla Teoria della dipendenza, o se saranno un atroce campo di battaglia; oppure se auspicabilmente, la loro centralità per gli esiti del conflitto non ne consenta un’accelerazione dello sviluppo e una soggettività terza, non allineata.

Tuttavia, l’occasione che si presenta per una rivalsa del mezzo millennio di colonizzazione subita dall’occidente, non è cosa secondaria. E quindi l’ammiccamento sud-sud ha grandi chances potenziali.

Molte cose e diverse dovranno accadere; per il momento si può osservare che siamo ancora fuori dall’orizzonte degli eventi. Per quanto inquietante sia il nostro tempo, il tempo non si è fermato.

R. R. – Aprile 2023

NOTE:

1 Una ampia illustrazione critica della Teoria della dipendenza e dei suoi sviluppi è nel recente volume: Alessandro Visalli – Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare – Meltemi – Milano 2020


Theotonio Dos Santos

Considerazioni sulle società multinazionali


Concetto di impresa multinazionale

Nel mondo contemporaneo, una parte sempre maggiore della produzione e della distribuzione dei prodotti viene realizzata da un tipo di società che opera a livello internazionale con una direzione centralizzata. Sono le società conosciute col nome di multinazionali, transnazionali o internazionali. Si è anche tentato di stabilire una specie di graduatoria fra le società internazionali, transnazionali e multinazionali secondo un ordine che dovrebbe riflettere un grado crescente di multinazionalismo. In questo articolo parliamo specialmente del fenomeno del multinazionalismo, inteso come forma finale di un processo in corso e, in alcune parti, già terminato.

Utilizziamo questo concetto nello stesso senso in cui si usa il termine di monopolio per designare un tipo di concorrenza e di organizzazione imprenditoriale.

Come il monopolio non elimina la concorrenza, ma la sviluppa in forme nuove, e come nelle situazioni reali si ritrovano piuttosto forme oligopolistiche che monopolistiche, così il multinazionalismo delle società non significa superamento della loro base nazionale di operazione e di espansione, come vedremo in seguito.

Le multinazionali si distinguono da altri tipi di società per il fatto che le attività da esse realizzate all’estero non svolgono un ruolo secondario o complementare nel quadro delle loro operazioni.

Queste attività rappresentano una percentuale essenziale delle loro vendite, dei loro investimenti e dei loro profitti, e condizionano la loro struttura organizzativa e amministrativa.

Fin dal rinascimento si formarono in Europa società che si dedicarono al commercio estero. In Italia, in Spagna, in Portogallo, in Inghilterra e in Olanda esistevano importanti complessi imprenditoriali destinati a sfruttare il commercio coloniale, aperto all’Europa dalle scoperte marittime dei secoli XV e XVI. Però, anche quando queste imprese stabilivano unità produttive all’estero e dovevano preoccuparsi di problemi di popolazione, di difesa e di amministrazione delle regioni conquistate, rimanevano sempre fondamentalmente legate allo sviluppo del capitale commerciale e a interesse, essendo le attività produttive un aspetto puramente marginale e secondario dei loro affari.

In generale le funzioni produttive venivano affidate in concessione o direttamente a produttori locali o emigranti che rimanevano sotto il controllo dei capitalisti commerciali o finanziari. Queste imprese assunsero un ruolo molto importante nella accumulazione primitiva di capitale che permise il sorgere del capitalismo contemporaneo, ma si collocano piuttosto nella preistoria che nella storia del capitalismo e non possono essere considerate come precursori diretti delle società multinazionali contemporanee 1.

Soltanto nella seconda metà del secolo XIX sorsero le imprese capitaliste che esercitavano importanti attività all’estero, particolarmente nelle colonie. In questo periodo si creano nuove forme di divisione del mercato internazionale attraverso gli accordi commerciali e i cartelli fra le grandi aziende monopolistiche.

Si estendono anche gli investimenti all’estero, orientati soprattutto verso i paesi con un certo sviluppo capitalista. Si trattava di investimenti di portafoglio, e cioè attraverso l’acquisto di azioni e la speculazione in borsa, che cercavano di facilitare sia l’esportazione di prodotti che esigevano investimenti assai considerevoli (come nel caso delle ferrovie) sia l’installazione di aziende di produzione e di commercializzazione di materie prime e di prodotti agricoli da vendere nei paesi più ricchi.

Nel totale degli investimenti all’estero, solo una piccola parte assunse la forma dell’investimento diretto, attualmente predominante nell’economia mondiale.

Le aziende all’estero costituivano piuttosto unità imprenditoriali autonome che non una parte della struttura organica della casa madre; le vendite da esse realizzate avvenivano soprattutto sul mercato del paese della casa madre o nei paesi sviluppati, e rappresentavano di rado un’attività sostanziale dell’impresa, avendo di preferenza un carattere di complementarietà. Soltanto l’importanza strategica della materia prima utilizzata dall’impresa poteva far si che il ruolo da esse svolto diventasse significativo. Si può dire che, nel loro complesso, gli affari all’estero avevano un’importanza secondaria nella vita di queste imprese, e non rappresentavano quindi che una percentuale limitata dei loro profitti, vendite o investimenti.

La situazione non era la stessa per tutti i paesi capitalisti. Gli investimenti di portafoglio, il commercio di esportazione e di importazione, gli investimenti diretti, gli interessi dei prestiti bancari formavano, già all’inizio del nostro secolo, una parte importante delle entrate di alcuni paesi capitalisti, specialmente l’Inghilterra.2

E’ dal contrasto di questi interessi che prende le mosse la prima guerra mondiale, come conseguenza di una lotta accanita per il dominio coloniale. In queste circostanze, l’impresa capitalista non era il nucleo più importante dell’espansione coloniale. La borsa valori era il cuore di questa espansione finanziaria e commerciale che si alleava con gli interessi dei produttori minerari e agricoli nelle colonie.

Le moderne società multinazionali hanno caratteristiche che le distinguono sostanzialmente dalle precedenti. Non vanno all’estero soltanto per speculare con le azioni, per commercializzare i loro prodotti o per creare aziende esportatrici di materie prime e prodotti agricoli. Una parte sempre più importante dei loro affari all’estero è costituita da imprese industriali orientate verso i mercati interni dei paesi in cui investono. Questa situazione crea necessità nuove dal punto di vista amministrativo, dal momento che si stabilisce un rapporto molto più diretto fra la casa madre e le filiali.

Essa produce anche effetti molto importanti sulla struttura di commercializ-zazione, produzione e finanziamento delle imprese. Di conseguenza sono molto importanti anche gli effetti sulla struttura economica dei paesi toccati da questi investimenti, sul commercio mondiale e sugli obiettivi e il modo di operare delle società.

Il processo di formazione e di sviluppo della società multinazionale è legato alla tendenza intrinseca dell’accumulazione capitalista verso l’internazionaliz-zazione del capitale. Non ne tratteremo in questo articolo, perché questo ci porterebbe ad ampliare troppo il suo obiettivo, che intende invece mantenersi al livello di una analisi della evoluzione delle società.

Come definire in modo operativo queste società?

Si è cercato di mettere in luce molti fattori che consentirebbero di caratterizzarle. Uno di questi sarebbe la percentuale rappresentata dalle vendite delle filiali all’estero sul totale delle vendite delle società. Si calcola che il limite del 25 per cento permette di tracciare una linea divisoria che separa un gruppo abbastanza significativo di imprese da quelle le cui operazioni all’estero sono meno importanti. Altri autori credono tuttavia che sia più importante tener conto della nazionalità dei proprietari della società. Secondo questi autori, si può considerare come multinazionale una società i cui proprietari abbiano varie nazionalità. In altri casi si considera la nazionalità degli amministratori o dei dirigenti come il fattore determinante della multinazionalità. Questi due ultimi criteri non sono fondamentali per caratterizzare una società come multinazionale, in quanto si basano su una concezione del multinazionalismo più ideologica che reale. Quelle che, al giorno d’oggi, vengono chiamate multinazionali non sono necessariamente società appartenenti a capitalisti di varie nazioni e nemmeno amministrate o dirette da capitalisti di varie nazioni.

Anche se svolgono una politica internazionale, esse operano di preferenza da una base nazionale. Per questo motivo, la nazionalità degli amministratori, dei padroni e dei dirigenti continua ad essere essenzialmente quella del paese in cui ha sede la società e, come vedremo in seguito, questo è uno dei problemi cui si trova di fronte il multinazionalismo nella misura in cui esso cerca di essere coerente con le tendenze alla formazione di una economia mondiale che abbia caratteri realmente internazionali.

Il concetto di società multinazionale sorse in particolare con questo intento apologetico, nel tentativo di caratterizzare l’impresa stessa come un fenomeno che permetteva di superare i limiti ristretti del nazionalismo. Nel definire questo concetto noi cerchiamo di superare questo intento apologetico che ha enormemente influenzato tutta la letteratura su questo argomento.

Si tratta di trovare quello che queste società rappresentano in quanto avanzata del capitalismo, per rispondere alle necessità poste dall’immenso sviluppo delle forze produttive e dal suo carattere retrogrado e reazionario che cerca di frenare l’avanzata internazionale del socialismo e la vera internazionalizzazione che questo comporta. In questo senso il nostro concetto di società multinazionale, anche se ad un lettore sprovveduto può sembrare una sintesi della letteratura esistente, è piuttosto un tentativo di mostrare i suoi limiti e i pericoli derivanti dall’accettare acriticamente le descrizioni apologetiche che se ne danno.

Avendo scartato questo primo significato del concetto apologetico del multinazionalismo, occorre proseguire nell’analisi di altre definizioni che toccano maggiormente il fondo del problema senza tuttavia mettere sufficientemente in risalto l’insieme dei fattori che costituiscono la dinamica del fenomeno. Raimond Vernon insiste nel caratterizzare il multinazionalismo soprattutto secondo la prospettiva in cui l’impresa colloca i suoi affari, ritenendo questo il fattore chiave. Nel suo ultimo libro definisce così la società multinazionale: « Una società che cerca di portare le sue attività su scala internazionale, come chi creda che non esistano frontiere nazionali, in base ad una strategia comune diretta dal centro corporativo » 3 . D’accordo con Vernon, così si esprime il Dipartimento del commercio: « Le affiliate sono articolate in un processo integrato e le loro politiche sono determinate dal centro corporativo per quanto concerne le decisioni relative alla produzione, alla localizzazione degli impianti, al tipo di prodotti, alla commercializzazione e al finanziamento » 4.

Questo accento posto sulla prospettiva dell’impresa, sulla sua strategia e la sua organizzazione à più importante e più significativo dei fattori cui si accennava più sopra. Tuttavia, non è ancora sufficiente a caratterizzare perfettamente il fenomeno di cui ci occupiamo. Esso infatti ci costringe a considerare un aspetto relativamente sovrastrutturale, anche se essenziale. Jacques Maisonrouge, presidente della IBM World Trade Corporation, indica quattro elementi che considera fondamentali per definire una società multinazionale: in primo luogo si tratta di imprese che operano in molti paesi; in secondo luogo sono imprese che effettuano ricerca e sviluppo e fabbricano anche prodotti in questi paesi; in terzo luogo hanno una direzione multinazionale; in quarto luogo, hanno una proprietà multinazionale delle azioni. Questa definizione introduce un maggior numero di elementi, ma è necessario analizzarla meglio.

Come abbiamo visto, i due ultimi motivi sono quasi complementari dei due primi, ma non si ritrovano nella realtà se non in casi molto eccezionali e si basano su un concetto di multinazionalismo superiore alla realtà attualmente esistente. Ma i due primi motivi ci sembrano essere i più significativi. La cosa fondamentale è che si tratta di imprese che operano in vari paesi e che in questi paesi sviluppano la produzione e che eventualmente vi realizzano anche la ricerca e lo sviluppo. Per completare il nostro quadro concettuale, può servire infine la caratteristica messa in rilievo da Vernon, e cioè che queste imprese hanno una strategia multinazionale e una organizzazione di affiliate, articolate in un processo integrato, e determinate da un centro corporativo. Queste caratteristiche non sono casuali e indeterminate, come potrebbe far credere una definizione puramente descrittiva. Esse corrispondono a fenomeni storici, determinati dalla struttura stessa del modo di produzione capitalista e riflettono il processo di accumulazione di capitale nella sua evoluzione storica. Questa capacita di operare in molti paesi con una prospettiva internazionale e con una organizzazione centralizzata è un prodotto del processo di internazionaliz-zazione del capitale; questo processo si realizzò alla fine del secolo scorso e al principio di questo, e poté approfondirsi grazie alla prima guerra mondiale e alla ripresa che le fece seguito; esso divenne in seguito molto più determinante a causa della internazionalizzazione dell’economia, come conseguenza della seconda guerra mondiale, che permise l’assimilazione dello sviluppo tecnologi-co e delle comunicazioni a livello internazionale, le quali, a loro volta, facilitano questa internazionalizzazione.

L’internazionalizzazione dell’economia istituisce un mercato mondiale di manodopera, di beni, di servizi e di capitali e in questo modo tocca e influenza il ciclo del capitale. Come la produzione capitalista è sempre un momento dello sviluppo del capitale, è anche, al tempo stesso, determinante del capitale e da esso determinata. I processi di internazionalizzazione dell’Economia e del capitale si sviluppano così parallelamente, in un movimento dialettico. La formazione delle società multinazionali va anche vista in connessione molto diretta con la concentrazione economica e con lo sviluppo del monopolio e delle grosse imprese. Esiste una correlazione diretta fra il multinazionalismo, il monopolio, e le grosse imprese. Le società multinazionali sono proprio quelle che hanno raggiunto il maggior grado di controllo monopolistico del mercato interno del loro paese e sono quelle più concentrate, tranne rare eccezioni costituite dalle società formatesi già all’inizio in funzione del mercato internazionale.

Multinazionalismo, concentrazione e monopolio sono legati e caratterizzano le tendenze principali dell’economia mondiale contemporanea. I dati che illustrano questo rapporto necessario fra concentrazione, monopolio e multi-nazionalismo sono molto evidenti.

Nel suo studio sulle multinazionali, “Sovereignity at Bay, The Multinational Spread of US Enterprises”, Raimond Vernon, confrontando le 187 società nordamericane a carattere multinazionale con il totale delle imprese manifatturiere degli Stati Uniti rileva i seguenti dati:

Nel 1966, le 187 società effettuarono vendite per un totale di 208.000 milioni di dollari, e il loro patrimonio ammontava a 176.000 milioni di dollari. Nello stesso anno, tutte le industrie manifatturiere effettuarono vendite per 532.000 milioni di dollari, con un patrimonio di 386.000 milioni di dollari; il che, in percentuali, significa che le 187 società multinazionali controllavano nel 1966 il 39,2 per cento delle vendite e il 45,7 per cento del patrimonio delle industrie manifatturiere nordamericane. E i dati dimostrano, in generale, che esiste una tendenza all’aumento di questa concentrazione e di questo controllo delle società multinazionali.

Nel presente articolo non ci proponiamo di approfondire questo rapporto che è alla base del multinazionalismo. Ai fini di quello che vogliamo esporre, basta segnalare questi aspetti essenziali allo scopo di arrivare ad un concetto generale di società multinazionale che riesca ad inquadrare il fenomeno nel suo insieme. Nella misura in cui restiamo fedeli al postulato dialettico, secondo cui il reale è il tutto e l’obiettivo della concettualizzazione è quello di prendere il fenomeno nel suo complesso stabilendo un rapporto dialettico fra le sue parti essenziali, cerchiamo di superare le definizioni di moda del fenomeno.

Andando oltre la descrizione dei vari elementi che integrano il fenomeno, stabiliamo una gerarchia fra di essi e determiniamo i rapporti concreti che storicamente presuppongono. Questa concettualizzazione, invece di portarci alle visioni apologetiche del fenomeno che abbondano nella letteratura attuale e che esercitano la loro influenza anche su autori marxisti, ci porta alle contraddizioni che la società multinazionale contiene in sé stessa. Per ultimare la caratterizzazione concettuale delle società multinazionali bisogna quindi separa-re i vari aspetti che le compongono.

In primo luogo è necessario considerare il fatto che esse, come abbiamo detto, svolgono una parte importante delle loro operazioni all’estero, il che si riflette sulle loro vendite e sui loro investimenti. Raimond Vernon trae alcune conclusioni a proposito delle 140 maggiori società multinazionali nordame-ricane da lui analizzate a questo scopo. Esaminando la percentuale di « contenu-to estero » delle operazioni di queste 140 società multinazionali, si può constatare quanto segue:

Nel 1964, le imprese che avevano una percentuale di partecipazione estera dallo 0 al 9 per cento nelle loro vendite erano 11, nei loro profitti 14, nel loro patrimonio 16, nell’occupazione 14. Le società che avevano una partecipazione estera fra il 10 e il 19 per cento nelle vendite erano 25, nei profitti 25, nel patrimonio 30, nell’occupazione 10.

Le società che avevano una percentuale di partecipazione estera tra il 20 e il 29 per cento nelle vendite erano 22, nei profitti 17, nel patrimonio 27 e nell’occupazione 14. Quelle che avevano una partecipazione estera fra il 30 e il 39 per cento nelle vendite erano 19, nei profitti 9, nel patrimonio 17 e nell’occupazione 7. Fra le società che avevano una partecipazione delle loro operazioni all’estero fra il 40 e il 49 per cento, 10 l’avevano nelle vendite, 6 nei profitti, 5 nel patrimonio e 4 nell’occupazione; continuando l’elenco, fra le società con partecipazione estera fra il 50 e il 59 per cento, 4 l’avevano nelle vendite, 5 nei profitti, 4 nel patrimonio e 7 nell’occupazione.

I dati sono abbastanza significativi soprattutto se consideriamo che la mancanza di dati di alcune società si deve al fatto che non si disponeva di elementi sufficienti per classificarle. Una percentuale molto significativa delle società dei cui dati si disponeva — percentuale vicina al 60 per cento — ha vendite all’estero che oscillano fra il 20 e il 59 per cento. Per quanto riguarda i profitti, circa il 50 per cento delle società multinazionali analizzate ricavano all’estero dal 20 al 59 per cento dei loro profitti. Per quanto riguarda il patrimonio e l’occupazione, si ha una percentuale analoga. Molti altri dati possono confermare questa tendenza alla trasformazione delle attività all’estero in una parte fondamentale delle operazioni delle grandi società.

Qual è, d’altra parte, il grado di controllo e di concentrazione economica raggiunto dalle sussidiarie nordamericane all’estero? (una tendenza che esiste anche nelle società multinazionali di altre origini nazionali). Vedremo che queste imprese tendono ad agire nei settori di maggiore concentrazione economica e tecnologicamente più avanzati, che esse tendono a monopolizzare e a controllare. Basandosi sul « Survey of Current Business » e sugli studi del Dipartimento del tesoro statunitense sugli investimenti all’estero, Raimond Vernon: riusci a stabilire, per il 1964, i seguenti dati: le vendite delle sussidiarie statunitensi rappresentano la seguente percentuale delle vendite locali nei paesi e nei settori industriali sotto indicati:

Canada: in certi settori come trasporti, attrezzature e macchinari, tranne il settore elettrico, le sussidiarie statunitensi controllano il 100 per cento delle vendite. Per quanto riguarda i prodotti della gomma, rappresentano il 72,2 per cento delle vendite locali; nel settore chimico, le sussidiarie nordamericane rappresentano il 50,2 per cento delle vendite in tutto il Canada; nel settore carta e affini, rappresentano il 42,6 per cento; per i metalli primari e lavorati il 25,1 per cento, per i prodotti alimentari il 21,8 per cento.

America Latina: vediamo che il settore dei prodotti della gomma, per esempio, è controllato per il 58,1 per cento dal capitale nordamericano. Teniamo presente che si tratta di dati globali per l’America Latina e che, quindi, in alcuni paesi si può avere una percentuale assai superiore. Per quanto concerne l’industria chimica, le sussidiarie statunitensi vendono il 28,3 per cento dell’insieme delle loro vendite in America Latina. Per i prodotti di metallo di base la percentuale è del 20,2 per cento; per carta e cellulosa 18,4 per cento; per i prodotti agricoli 7,9 per cento.

Europa e Inghilterra: “la partecipazione delle aziende statunitensi alle vendite di prodotti della gomma é del 12,7 per cento; trasporti e attrezzature 12,8 per cento; macchinario, ad eccezione di quello elettrico, 9,7 per cento; macchinario elettrico 9,1 per cento; chimica 6,2 per cento; prodotti alimentari 3,1 per cento; carta e cellulosa 1,2 per cento; metalli primari e lavorati 2,4 per cento.

Questi dati non mettono tuttavia in risalto il grado di controllo che questi investimenti esercitano sui paesi verso i quali si orientano, essendo essi molto globali e non distinti per paesi.

E’ certo che in alcuni paesi troveremo un grado di controllo molto superiore a quello indicato dalle cifre globali. D’altro canto è necessario vedere i dati nella prospettiva delle tendenze storiche che manifestano.

Dall’analisi fatta si può concludere:

Le società multinazionali sorgono come conseguenza del processo di internazionalizzazione del capitale, che si approfondisce nel dopoguerra, e finiscono per costituire l’unità produttiva fondamentale nel sistema capitalistico mondiale. Sono caratterizzate da un cambiamento qualitativo dell’importanza relativa delle attività esterne nell’insieme delle operazioni imprenditoriali. Arrivano a costituire un elemento necessario e determinante della produzione, della distribuzione, dell’ammontare dei profitti e dell’accumulazione di capitale di queste imprese. Nello stesso tempo le loro attività all’estero si fondono con l’economia presso la quale si trasferiscono, essendo destinate non soltanto al mercato internazionale, ma anche ai mercati interni dei paesi in cui operano e articolandosi profondamente nella loro struttura produttiva. I meccanismi di concentrazione, di monopolizzazione e di internazionalizzazione del capitale che diedero impulso a queste società, facendone delle multinazionali, cominciano ad operare anche al livello delle loro filiali, determinando un complicato processo di interrelazioni fra di esse e dando origine a una nuova tappa dell’economia mondiale. L’essenza della società multinazionale sta tuttavia nella sua capacita di dirigere in modo centralizzato questo complesso sistema di produzione, di distribuzione e di capitalizzazione a livello mondiale. Di modo che anche le nuove contraddizioni cui questa situazione dà origine sono il prodotto di questa capacita centralizzatrice e integratrice che riflette la caratteristica globale del sistema internazionale, di cui l’impresa multinazionale è la cellula.

Concentrazione dell’unità produttiva commerciale e finanziaria e concentra-zione economica nazionale, e concomitante processo di monopolizzazione a li-vello nazionale e internazionale; riproduzione della concentrazione a livello internazionale, concentrazione delle società a livello internazionale, concen-trazione del processo distributivo e finanziario, integrazione economica interregionale e internazionale: ecco l’ordinamento teorico-storico di uno stesso processo, pieno di contraddizioni interne che si manifestano non solo in oscillazioni cicliche, ma anche in violenti cataclismi. Mentre il capitalismo sviluppa le forze produttive su scala sempre più ampia e crea le condizioni e la necessità di una direzione collettiva e pianificata della nuova economia e delle società che da questo processo derivano, la proprietà privata dei mezzi di produzione, base del capitalismo come modo di produzione, diventa un ostacolo insuperabile per il pieno sviluppo di queste tendenze che il capitalismo stesso mette in moto.

Nella concettualizzazione della società multinazionale devono emergere questi elementi contraddittori che ci permettono di svilupparne correttamente l’analisi. Il concetto di queste società deve quindi comprendere, necessariamente, questo processo storico che le trasforma in cellule di un movimento globale e determinato di internazionalizzazione del capitale e dell’economia; questo movimento è, a sua volta, l’espressione delle tendenze alla concentrazione tecnologica ed economica, alla monopolizzazione e alla diversificazione di attività che costituiscono, da parte loro, l’espressione concreta e storica della evoluzione dell’accumulazione del capitale nel modo di produzione capitalista.

Un bilancio quantitativo

Nel paragrafo precedente siamo giunti a definire l’oggetto della nostra analisi. Siamo riusciti, nello stesso tempo, a dimostrare la sua importanza fra le grandi società nordamericane e il profondo controllo che esercita sulle varie economie nazionali.

Si rende ora necessario abbozzare un quadro descrittivo che ci permetta di fare un bilancio quantitativo delle società multinazionali, il che ci consentirà di portare avanti l’analisi della loro evoluzione storica e delle loro tendenze di sviluppo futuro.

Quante sono queste società multinazionali e come sono distribuite?

Negli Stati Uniti, presso l’Ufficio investimenti esteri, sono registrate 3.000 società che effettuano operazioni con l’estero; di queste circa 180 vennero selezionate da Raimond Vernon e da lui considerate come società multinazionali. Egli ne aggiunse altre 150 non nordamericane. Judd Polk, presidente della Camera di commercio internazionale, selezionò 150 società in tutto il mondo, di cui la metà nordamericane, che egli considera come multinazionali.

Sidney Rolfe selezionò, nel 1965, 80 società nordamericane (fra le 500 maggiori del paese, secondo la rivista « Fortune »), che avevano operazioni con l’estero superiori al 25 per cento sia nei profitti, sia nella produzione, sia nella occupazione, sia nel patrimonio. 199 imprese di queste 500 selezionate da « Fortune » avevano il 10 per cento o più delle loro attività all’estero.

In questo modo possiamo operare con un gruppo di 300 o 400 società al massimo che controllano oggi gran parte della produzione mondiale 5.

Queste imprese svolgono in generale operazioni in quasi tutti i paesi o le zone del mondo. Delle 187 società selezionate da Vernon, per esempio, 185 svolgono attività manifatturiere in tutti i continenti; 162 vi effettuano vendite; 45 vi svolgono attività estrattive; 186 hanno una qualche forma di affari in tutti i continenti. Se prendiamo alcune regioni o aree, vediamo che 174 svolgono operazioni in Canada; 182 in America Latina; 185 in Europa e nel Regno Unito; 158 svolgono operazioni di ogni tipo in Asia e in parte dell’Africa.

Il numero di sussidiarie che queste società hanno all’estero è molto significativo. Le 187 multinazionali classificate da Vernon avevano, nel 1967, 7.927 sussidiarie nel mondo, delle quali 1.048 in Canada, 1924 in America Latina, 3.401 in Europa e nel Regno Unito, 648 nei dominions inglesi, 906 in Asia e in altre parti dell’Africa 6.

Come sono distribuiti, per importanza, questi investimenti?

Nel 1970, gli investimenti nordamericani erano di 25.000 milioni di dollari nel Canada, pari al 33 per cento del totale; 4.000 milioni nel Regno Unito, pari al 10 per cento; 5.000 milioni in Germania, pari al 4 per cento; 2.600 milioni in Venezuela, pari al 3,3 per cento; 2.600 milioni in Francia, pari al 3,3 per cento; 1.600 milioni nel Medio Oriente, pari al 2 per cento; 1.800 milioni in Brasile, pari al 2 per cento; 1.800 milioni in Messico, 2 per cento; Svizzera 1.800 milioni, 2 per cento; Italia 1.500 milioni, 1,9 per cento; Argentina 1.300 milioni, 1,2 per cento; Belgio e Lussemburgo 1.500 milioni, 1,9 per cento; Giappone 1.500 milioni, 1,9 per cento; Olanda 1.500 milioni, 1,9 per cento. 7

Analizzando l’aumento degli investimenti nordamericani per area, secondo la fonte già citata, si nota che gli investimenti diretti nordamericani all’estero sono cresciuti in maniera impressionante fra il 1929 e il 1970. Nel 1929 il totale di questi investimenti era di 7.500 milioni di dollari, nel 1950 di 11.800 milioni e nel 1970 di 78.100 milioni. Analizzandoli per zone, si trova che il Canada ne è il principale destinatario, con un totale di investimenti che dal 1929 al 1970, è aumentato di più di 10 volte, rimanendo peraltro invariata la sua quota di partecipazione. La partecipazione dell’America Latina al totale degli investimenti nordamericani è diminuita dal 46,7 per cento nel 1929 al 18,8 per cento nel 1970. L’Europa ha registrato il maggiore aumento relativo, passando dal 18,7 per cento nel 1929 al 31,4 per cento nel 1970; da 1.400 milioni di dollari nel 1929 a 24.500 milioni di dollari nel 1970, ossia la maggiore concentrazione di investimenti nordamericani all’estero. Il Medio Oriente vede anch’esso aumentare la sua partecipazione dall’1,3 per cento al 6,5 per cento; nelle altre aree la partecipazione aumenta dal 6,6 per cento al 14,1 per cento. Si constata quindi che l’aspetto più significativo della redistribuzione degli investimenti nordamericani negli ultimi anni è rappresentato dal « boom » in Europa e dalla diminuzione della partecipazione relativa dell’America Latina.

Nel loro complesso gli investimenti nei paesi sviluppati rappresentavano, nel 1970, il 68 per cento degli investimenti nordamericani, mentre quelli nei paesi sottosviluppati rappresentavano, nello stesso anno, il 27,4 per cento del totale. Un altro 4,6 per cento riguardava paesi non identificati. C’è però da dire che questo fenomeno non è soltanto nordamericano.

Questa grande espansione degli investimenti e la tendenza a rivolgersi verso paesi sviluppati non si registrano soltanto negli Stati Uniti, ma anche negli altri paesi sviluppati. Il Comitato degli investimenti internazionali dei paesi appartenenti alla OCSE ha stabilito, per il 1966, i seguenti dati:

Gli investimenti stranieri diretti, in termini di valore accumulato dai maggiori paesi dell’Ocse alla fine del 1966 erano, in dollari, i seguenti:

in tutto il mondo si registrava un insieme di investimenti pari a 89.583 milioni di dollari, di cui 29.970, e cioè circa il 33 per cento, nei paesi sottosviluppati.

Del totale degli investimenti gli Stati Uniti detenevano il 60 per cento, con un ammontare di 54.462 milioni di dollari 8, di cui 16.841 nei paesi sottosviluppati, ossia il 56 per cento degli investimenti stranieri in questi paesi.

Il Regno Unito veniva al secondo posto con un ammontare di investimenti di 16.000 milioni di dollari (19 per cento degli investimenti mondiali); i suoi investimenti nei paesi sottosviluppati ammontavano a 6.184 milioni di dollari, pari al 23 per cento degli investimenti esteri in questi paesi.

La Francia aveva un totale di investimenti, nel mondo, pari a 4.000 milioni di dollari, di cui 2.100 nei paesi sottosviluppati. Notiamo qui abbastanza accentuata la tendenza della Francia ad effettuare investimenti nei paesi sottosviluppati, dal momento che i suoi investimenti rappresentano il 4,4 per cento degli investimenti dei paesi dell’Ocse all’estero, mentre i suoi investimenti nei paesi sottosviluppati rappresentano il 7 per cento di questi investimenti nei paesi sottosviluppati.

Nello stesso anno la Germania aveva raggiunto 2.500 milioni di dollari di investimenti all’estero, di cui 845 nei paesi sottosviluppati. Questi investimenti rappresentavano il 2,8 per cento del totale degli investimenti analizzati e il 2,8 per cento del totale degli investimenti analizzati nei paesi sottosviluppati.

La Svezia aveva 793 milioni di dollari all’estero, di cui 161 nei paesi sottosviluppati.

Il Canada aveva investimenti all’estero per 3.238 milioni di dollari, ossia il 4 per cento degli investimenti, e di questi 534 erano destinati ai paesi sottosviluppati.

Il Giappone aveva investimenti all’estero per 1.000 milioni di dollari, di cui 605, e cioè una percentuale assai elevata, destinati ai paesi sottosviluppati.

Che cosa ci indicano i dati sulle tendenze alla espansione e allo sviluppo di queste società multinazionali?

Secondo il professor Rolfe si può calcolare che il valore patrimoniale degli investimenti esteri non nordamericani (il valore patrimoniale degli investimenti non va confuso con il loro valore totale) raggiungeva nel 1966 un ammontare di circa 50.000 milioni di dollari in valori correnti. Sommando a questi i 40.000 milioni che rappresenterebbero il patrimonio degli investimenti nordamericani avremmo 90.000 milioni di dollari. Questa cifra costituirebbe il totale del patrimonio posseduto all’estero dalle società di tutti i paesi capitalisti. Per sapere ciò che questo rappresenta per quanto riguarda il valore delle vendite realizzate nello stesso anno, dobbiamo moltiplicare per due l’ammontare del valore patrimoniale, il che darebbe un risultato di 180.000 milioni di dollari, valore probabile dell’insieme della produzione di queste imprese, perché, secondo Judd Polk, esisterebbe una relazione di 1 a 2 fra patrimonio e produzione delle imprese.

Se sommiamo a questa cifra gli investimenti di portafoglio e riuniamo la loro produzione secondo questo tipo di calcolo, avremmo un totale di 240.000 milioni di dollari come ammontare possibile delle vendite realizzate dalle imprese che hanno capitale all’estero.

Se mettiamo a confronto questo dato con il valore di tutte le esportazioni di questi paesi, che ammontano a 130.000 milioni di dollari, possiamo calcolare che le vendite delle sussidiarie e affiliate all’estero delle multinazionali sono molto superiori all’insieme delle esportazioni dei paesi che investono in queste società.

Fra il 1966 e il 1970 gli investimenti diretti nordamericani all’estero sono aumentati da 55.000 milioni a 78.000 milioni di dollari. Se aggiungiamo gli investimenti di portafoglio questa cifra si eleva a 105.000 milioni di dollari. Utilizzando la proporzione di 2/1 fra patrimonio e vendite, avremo un calcolo delle vendite totali di queste imprese di 210.000 milioni di dollari, il che rappresenta un valore 5 volte maggiore delle esportazioni nordamericane. Questo distacco è destinato ad aumentare nel futuro, dal momento che le esportazioni aumentano al ritmo del 7 per cento all’anno, mentre la produzione delle sussidiarie all’estero aumenta di circa il 10 per cento all’anno. Il probabile aumento di questi investimenti fino a livelli molto elevati tende a creare una situazione di parassitismo che analizzeremo in seguito e che è stata molto ben riassunta nella seguente affermazione contenuta nello studio, gia ricordato, del Dipartimento del commercio:

« Altro indice dell’importanza degli investimenti esteri degli Stati Uniti è il fatto che, fino al 1968, le entrate nette degli investimenti esteri, i profitti rimpatriati, le royalties e i brevetti, meno gli investimenti diretti usciti, sono stati maggiori dei risultati del conto commerciale. Da questi indici messi a confronto con gli inizi degli anni sessanta, risulta il declino del nostro attivo di esportazioni e il continuo aumento delle entrate nette degli investimenti diretti. Queste ultime contribuirono con 3.500 milioni alla nostra bilancia dei pagamenti nel 1970, in confronto con 2.100 milioni della bilancia commerciale. Se facciamo un confronto con i dati del 1960, che mostrano 4.900 milioni nella bilancia commerciale liquida e 500 milioni di dollari nella bilancia degli investimenti diretti, notiamo che, in questi ultimi anni, la tendenza si è accentuata » 9.

Un altro tipo di calcolo si può fare prendendo in considerazione l’insieme della posizione degli investimenti internazionali degli Stati Uniti alla fine dell’anno, fra il 1950 e il 1970.

In questi calcoli si distinguono gli investimenti diretti a lungo termine, di cui ci siamo occupati, da altri tipi di transazione di capitale, come gli investimenti a lungo termine non diretti (di portafoglio), i diritti e i debiti a breve termine, i crediti del governo e le riserve monetarie. Secondo questi calcoli, gli investimenti internazionali degli Stati Uniti sono cresciuti da 36.727 milioni di dollari a 69.067 milioni nel 1970. Nello stesso periodo il patrimonio delle imprese straniere negli Stati Uniti crebbe da 17.632 milioni di dollari a 97.507 milioni. Si vede perciò che il gran saldo attivo ottenuto dagli investimenti diretti degli Stati Uniti viene fortemente diminuito dal calo delle riserve.

E’ importante segnalare che mentre il patrimonio e gli investimenti internazionali degli Stati Uniti tra il 1950 e il 1970 crescono di quasi due volte (e includiamo tutte le voci del paragrafo precedente), anche il patrimonio e gli investimenti stranieri negli Stati Uniti presentano un forte aumento da 17.632 milioni di dollari nel 1950 a 97.507 milioni nel 1970, un aumento quindi, molto superiore a quello degli investimenti nord-americani all’estero.

Occorre tuttavia ricordare che, mentre gli investimenti nordamericani all’estero tendono ad essere essenzialmente investimenti diretti, i quali sono aumentati di oltre 10 volte negli ultimi anni, per quel che riguarda gli investimenti di imprese straniere negli Stati Uniti sono gli investimenti di portafoglio che sono cresciuti nello stesso periodo di circa 9 volte, mentre gli investimenti diretti sono aumen-tati di circa 4 volte.

Questi dati rivelano che le società multinazionali tendono ad espandersi, a differenziarsi, a farsi più complesse e a mescolare investimenti di diverso tipo che prendono differenti direzioni e si intrecciano. Questi dati confermano anche pienamente la tendenza alla universalizzazione del capitale, che viene ad essere l’aspetto principale delle attività internazionali degli Stati Uniti e porta con sé il fenomeno del parassitismo. Per comprendere il significato di questi movimenti storici e le loro prospettive di sviluppo, è necessario analizzare l’evoluzione storica della cellula base del processo di internazionalizzazione del capitale, e cioè la società multinazionale.

L’evoluzione della società internazionale

Le prime operazioni internazionali delle società capitaliste moderne avvennero nel settore delle esportazioni. Il loro obiettivo — la conquista del mercato — le obbligava a creare filiali all’estero con lo scopo di commercializzare i loro prodotti. Per gran parte del XIX secolo le imprese capitaliste si dedicarono a questo tipo di espansione. Già nella seconda metà del secolo XIX cominciarono a presentarsi nuove possibilità di investimenti all’estero. Il capitalismo era riuscito a creare un mercato di capitali a livello internazionale. Molti paesi meno sviluppati mettevano in vendita, alla borsa di Londra o in altre borse importanti, le azioni delle loro imprese. Diventava perciò possibile comprare azioni di imprese in altri paesi e, attraverso gli investimenti di portafoglio, ottenere il controllo soprattutto delle imprese minerarie ed agricole in altri paesi. Nello stesso tempo il controllo di mercati esteri per l’esportazione comincia ad aver bisogno di una politica più centralizzata e unificata che si effettua attraverso le « holdings » e i cartelli.

Il centro dell’espansione economica di questo periodo è costituito soprattutto dall’Inghilterra e da alcuni paesi europei che, creando una industria di base nella seconda metà del secolo XIX e riuscendo a industrializzare la produzione di macchine, aprirono prospettive di grande espansione per i loro investimenti; nello stesso tempo aumentarono in modo rilevante la domanda di materie prime e di prodotti agricoli. Per soddisfare questo mercato in espansione nei paesi centrali, si sviluppa una importante produzione mineraria e agricola nei paesi periferici, che avevano già una tradizione come esportatori, terre vergini che potevano essere conquistate dai coloni, oppure un’economia agraria tradizionale abbastanza rilevante e una certa esperienza mercantile, in paesi cioè che disponevano di una base per intensificare la loro produzione per l’esportazione.

Si forma così, nella seconda metà del secolo XIX, una economia di esportazione su vasta scala, controllata generalmente da capitalisti del posto o dalle società degli stessi paesi sviluppati. Queste società si trasformarono in un nuovo tipo di impresa, e cioè o in sussidiarie delle società dei paesi dominanti oppure in società costituite al solo scopo di controllare il mercato o la produzione in questi paesi.

Generalmente queste società assumevano le caratteristiche di una « enclave », cioè di un’azienda all’interno di un paese con economia precapitalista che produce essenzialmente per il mercato estero, sviluppando al loro interno una economia particolare con motivazioni capitalistiche molto chiare, ma utilizzando rapporti di produzione generalmente più arretrati di quelli del capitalismo sviluppato.

In generale queste aziende hanno scarsi contatti con l’economia del paese che le ospita. Questi contatti, quando esistono, assumono la forma di pagamento di imposte e di acquisti di prodotti necessari all’impresa, sia per i suoi lavoratori, sia per la sua produzione. Queste imprese hanno perciò un carattere complementare nei confronti dell’economia dominante, e non nei confronti dell’economia dove operano direttamente; da questa ragione deriva loro il carattere di « enclave ». La loro libertà di azione, la loro autonomia amministrativa, il loro isolamento sociale sono così rilevanti che intere regioni vengono plasmate dalla loro direzione quasi autocratica 10.

Nell’America centrale vi sono segni molto evidenti del dominio di questo tipo di società, delle quali la United Fruit fu la più significativa. Sono classici gli esempi di questa identificazione tra l’impresa e certe regioni. Quando ha esaurito le terre di una zona, la società si trasferisce in un’altra, portando via perfino i binari ferroviari. Se ne va la popolazione, se ne vanno le istallazioni, le case, i traffici, e intere regioni, da un giorno all’altro, si trasformano in deserti umani e naturali.

Perfino la moneta circolante all’interno di questa azienda era quasi tutta straniera, dato che riuscivano a risolvere il problema del capitale di giro pagando i lavoratori con gettoni, con i quali dovevano per forza comperare negli spacci della società.

Molte volte i prodotti che vi si vendevano erano importati dagli stessi paesi d’origine della casa madre e si riusciva così ad evitare la necessità di disporre di capitale di giro per pagare i lavoratori. Per quel che si riferisce ai tecnici in generale, molto spesso venivano pagati in dollari o nella moneta del paese dominante; essi vivevano in questi paesi, o più precisamente in queste aziende, in queste « enclaves » dei paesi dipendenti, come in una propaggine della loro casa e del loro paese, in contatto molto più stretto con la cultura, l’economia e la società proprie che con quelle del paese dove era collocata l’« enclave ».

Questo tipo di società non era molto complesso, dato che era quasi un’estensione all’estero della casa madre. Minimo era lo sforzo di adattamento al paese che l’ospitava, come pure minima era la dipendenza dall’economia di tale paese. Logicamente, sorgevano problemi politici con le classi medie dei paesi dipendenti che, per un lungo periodo, svolsero una politica di opposizione antimperialista, criticando il carattere di semplice sfruttamento delle « enclaves », che non lasciavano quasi niente di questo sfruttamento per i lavoratori locali e per le classi medie e la borghesia del paese.

Per questo motivo, le classi medie arrivarono fino ad appoggiare l’organiz-zazione dei lavoratori contro i loro padroni, perché potessero ottenere migliori condizioni nelle trattative con essi.

Parallelamente a questi investimenti, che avevano lo scopo di sviluppare la produzione per servire il mercato dei paesi dominanti, si sviluppa anche un altro tipo di investimenti con fini più commerciali, e cioè, fondamentalmente, quello di facilitare la vendita dei propri prodotti all’estero. Questi investimenti vengono effettuati sia nelle economie sviluppate che in quelle sottosviluppate e servono principalmente a portare a termine il prodotto per mezzo di fabbriche collegate all’apparato commerciale, esportatore, che generalmente li precede.

Già negli anni ’20 e ’30 si impiantarono le prime fabbriche di montaggio per le auto e altri prodotti che avevano bisogno di una linea di montaggio più complessa. Si venne a formare così un nuovo tipo di investimenti all’estero, con lo scopo di servire i mercati interni dei paesi sviluppati e sottosviluppati.

Nel periodo postbellico gli investimenti sia degli Stati Uniti sia dell’Europa si orientano di nuovo, in maniera definitiva, verso i settori industriali dei paesi sviluppati e dipendenti. Le ragioni sono le seguenti:

1) la ripresa economica dell’Europa, che apre enormi prospettive di investimenti, e lo sfruttamento da parte delle grandi società nordamericane, dei vantaggi relativi di cui disponevano per utilizzare questa ripresa come strumento di espansione dei loro investimenti;

2) nei paesi dipendenti il progresso industriale, raggiunto negli anni ‘30, per gli effetti della crisi del 1929, aveva impedito il controllo diretto dei mercati di questi paesi attraverso le esportazioni dai paesi dominanti. Si era sviluppata un’industria locale per servire il mercato interno e tutto un apparato di leggi e di politiche governative per favorire questo sviluppo, con il forte appoggio della classe operaia e/o contadina e delle classi medie.

In questo modo, il ritorno degli investimenti in questi paesi, nelle condizioni favorevoli createsi nel dopoguerra per l’investimento estero nordamericano, esigeva una riconversione verso i settori industriali sollecitati dai loro mercati interni.

Oltre alle restrizioni all’importazione di prodotti lavorati, che obbligavano a produrli all’interno, si presentavano una serie di vantaggi relativi che rendevano questi investimenti quanto mai favorevoli e interessanti. Da una parte i prezzi imposti dal protezionismo erano molto alti, dall’altra la mano d’opera e i costi industriali erano molto bassi. Nell’ansia di attirare il capitale straniero, i governi dipendenti si affannavano a dare « aiuti » e concessioni di ogni tipo. Infine il mercato interno, pur essendo relativamente piccolo, era costituito da una classe media e una borghesia ricche e in espansione.

I dati relativi a questo aspetto sono abbastanza indicativi:

nel 1929 gli investimenti nordamericani nell’industria mineraria ed estrattiva erano di 1.200 milioni di dollari; nel 1950 di 1.100 milioni di dollari; nel 1970 di 6.100 milioni di dollari. Vi fu forse un certo rallentamento in questi investimenti tra il 1929 e il 1950 e una certa ripresa dopo gli anni ’50, ma, in molti casi, i nuovi investimenti nell’industria mineraria ed estrattiva hanno un carattere abbastanza diverso da quello degli anni precedenti; molte volte sono destinati a servire anche mercati interni e non solamente per l’esportazione. Tuttavia, per quel che riguarda la partecipazione relativa degli investimenti nell’industria mineraria ed estrattiva essi passarono dal 16 per cento al 9,3 per cento nel 1950 e al 7,8 per cento nel 1970.

Il petrolio è un altro importante settore di investimenti che mantiene ancora la sua importanza, soprattutto per il rinnovamento subito in conseguenza dell’espansione dell’industria petrolchimica, che ne ha fatto la base di una delle più importanti industrie moderne. Per questo pensiamo che non tutti gli investimenti odierni nel settore petrolifero da parte delle grandi società sono diretti all’esportazione; una parte è diretta al mercato interno dei paesi dove risiedono, pur trattandosi di una percentuale molto inferiore. Nel 1929 questi investimenti erano di 1.100 milioni di dollari; nel 1950 di 3.400, milioni di dollari; nel 1970 di 21.800 milioni di dollari. Abbiamo quindi una percentuale del 14,7 per cento per il 1929; del 18,8 per cento per il 1950; del 27,9 per cento nel 1970, degli investimenti nordamericani all’estero.

Gli investimenti nelle industrie manifatturiere che erano di 1.800 milioni di dollari nel 1928, arrivano a 3.800 milioni di dollari nel 1950 e a 32.000 milioni nel 1970. La partecipazione passa dal 24 per cento nel 1929 al 32,2 per cento nel 1950 e al 41,2 per cento nel 1970, venendo ad essere la voce principale degli investimenti nordamericani all’estero nel 1970.

La voce «altri», che comprende agricoltura, commercio, ecc., è abbastanza importante, ma in passato lo era molto di più.

Nel 1929 era di 3.400 milioni di dollari, nel 1950 di 3.500 e nel 1970 di 17.900 milioni di dollari; la sua partecipazione scende quindi dal 45,3 per cento al 29,7 per cento e al 23 per cento.

Questi dati generali sugli investimenti nordamericani dal 1929 al 1970 11 ci dimostrano con estrema chiarezza l’importanza relativa raggiunta dagli investimenti industriali negli ultimi anni. Analizzando la situazione degli investimenti mondiali di tutti i paesi dell’Ocse (cioè Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Olanda, Svezia, Svizzera, Regno Unito e Stati Uniti) notiamo che nel 1966, mentre l’industria mineraria e estrattiva rappresentava il 7 per cento, quella manifatturiera occupava già il primo posto con il 40 per cento e la voce « altri » raggiungeva il 24 per cento. Però, per quel che riguarda le regioni sottosviluppate, il petrolio occupava una posizione di privilegio, dato che vanno compresi gli investimenti del Medio Oriente che sono quasi esclusivamente nel settore petrolifero.

Perciò il petrolio rappresenta il 40 per cento dell’insieme degli investimenti dei paesi della Ocse all’estero nel 1966, mentre l’industria mineraria ed estrattiva raggiungeva il 10 per cento, la manifatturiera il 27 per cento e la voce « altri » il 23 per cento.

E’ interessante mettere in rilievo che gli investimenti nel settore petrolifero sono così significativi a causa dell’incidenza relativa del Regno Unito, i cui investimenti nei paesi sottosviluppati sono così ripartiti: 35 per cento nel settore petrolifero, 23 per cento nell’industria manifatturiera e il 37 per cento nella voce «altri», che comprende importanti investimenti agricoli nei paesi dipendenti dall’Inghilterra. E’ chiaro quindi che accanto a un settore nuovo e importante permangono le forme tradizionali di investimento. Invece un paese come la Germania mostra un orientamento molto marcato verso il settore industriale, dato che, su un totale di investimenti di 2.500 milioni di dollari di cui 845 nei paesi dipendenti, 645 vengono destinati all’industria. Su un totale di 2.100 milioni di dollari investiti nei paesi dipendenti, gli investimenti francesi nel settore industriale sono di 1.280 milioni di dollari.

Questi dati rivelano che, ancor oggi, settori come il petrolio sono abbastanza caratteristici, ma indicano pure che si è creata una struttura economica nuova degli investimenti all’estero e dimostrano che la maggior parte di essi, soprattutto negli ultimi anni, è stata destinata soprattutto al settore industriale, al settore commerciale e ai servizi e, qualche volta, anche al settore agricolo che serve il mercato interno dei paesi dove sono diretti gli investimenti.

Questa tendenza dominante negli anni ‘50 e al principio degli anni ‘60 rappresenta un cambiamento molto significativo anche nella struttura delle imprese. Quella che oggi chiamiamo società multinazionale è soprattutto il risultato di questo fenomeno che porta al superamento delle economie di « en-clave », da noi precedentemente analizzate.

La nuova situazione che si è venuta a creare comporta un cambiamento qualitativo rispetto allo studio precedente, per quel che concerne il funzionamento delle leggi economiche. Il mercato interno dei paesi ai quali sono destinati questi investimenti presenta una dinamica economica che ha proprie leggi di sviluppo. La sussidiaria, che viene ad integrarsi in questa economia per servire le necessita di mercato, non può più comportarsi secondo il modello astensionista che era caratteristico

dell’« enclave ». Essa deve prendere in considerazione le leggi economiche che regolano questa economia, la distribuzione delle entrate, le possibilità di espansione economica, di nuovi investimenti; deve legarsi, in un certo modo, al mercato finanziario per ottenere il suo capitale di giro; deve vincolarsi alla realtà politica di questi paesi, che è influenzata dalla politica economica nel suo insieme. La politica economica, infatti, agisce sull’inflazione, sulla politica dei crediti e su tutti gli aspetti del normale funzionamento dell’economia dei paesi in cui la società opera.

I vincoli organici con le economie « ospitanti »

Il contatto con l’economia « ospitante » (come viene chiamata da alcuni studiosi nordamericani l’economia che è vittima del processo di sfruttamento di queste società) si fa perciò molto più profondo e organico. Sia per ragioni di ordine economico, sia a causa della politica economica vigente, le imprese straniere sono costrette a rifornirsi di certi prodotti (a volte, anche della totalità dei prodotti che consumano) sul mercato locale. Restringiamo l’analisi di questo problema al caso delle economie dipendenti, nelle quali si avvertono più direttamente gli effetti dei vincoli tra le società multinazionali e i mercati locali.

Si comprendono agevolmente i motivi di carattere economico che portano a questi cambiamenti considerando che molte imprese si trasferiscono nei paesi dipendenti a causa della vicinanza di alcune materie prime, che consente di diminuire non solo il costo dei trasporti ma anche altri costi, il che giustifica l’utilizzazione dei rifornimenti locali. Ma non sempre l’approvvigionamento sul posto viene utilizzato in modo esteso, dato che molte volte le imprese preferiscono rifornirsi a prezzi più alti presso le loro case madri o presso altre ditte dello stesso gruppo economico nei paesi sviluppati, allo scopo di approfittare di alcuni espedienti fiscali, come i sovrapprezzi, oppure per l’interesse a trasferire i profitti nei paesi sviluppati, dove hanno maggiori occasioni di investimento.

D’altra parte, le industrie nei paesi sviluppati vivono in un costante stato di sottoutilizzo, dato che è più vantaggioso aumentare le vendite attraverso gli acquisti delle proprie sussidiarie piuttosto che creare delle nuove imprese. Per tutti questi motivi, e ancor più per pressioni esercitate dallo Stato e per altri interessi nazionali del paese di origine, le società multinazionali tendono a rinviare il processo di sfruttamento e collegamento con i rifornimenti locali, soprattutto di prodotti più industrializzati.

Le ragioni di politica economica sono molto più forti: in generale i governi di tipo « sviluppista » esigono che le filiali e le sussidiarie che si installano nei loro paesi si riforniscano sul mercato locale. Vi sono settori nei quali si pone maggiormente l’accento, com’è il caso dell’industria senza casa madre, per la quale molti paesi dipendenti hanno chiari programmi di nazionalizzazione della produzione per formare un nucleo industriale, in vista di raggiungere uno sviluppo economico.

II finanziamento è un’altra forma di contatto delle società con l’economia « ospitante ». Generalmente le sussidiarie sono create attraverso un sistema di credito internazionale, per cui i paesi dominanti (specialmente gli Stati Uniti) finanziano i governi locali perché essi trasferiscano questo finanziamento a imprese nordamericane, le quali lo utilizzano per l’acquisto di macchinari e di altri prodotti di base nel paese che ha concesso il credito. L’operazione si articola così in 4 fasi circolari: gli Stati Uniti aprono un credito, attraverso qualcuna delle istituzioni bancarie internazionali di cui dispongono (o il credito viene aperto da una istituzione multinazionale sotto controllo nordamericano) per il finanziamento di una determinata società, come ulteriore investimento di capitale, oppure per creare una nuova società.

Il governo del paese che riceve l’aiuto (grato per l’aiuto che favorisce il suo sviluppo, ecc.) si assume la responsabilità del debito, ma poiché l’aiuto é destinato a un determinato investimento, viene trasferito all’impresa sussidiaria o a una impresa mista con capitali nazionali o statali. Nei due casi di società mista si deve ricordare che l’aiuto si trasferisce verso il capitale degli azionisti stranieri che si associano a quelli nazionali o allo Stato. Lo Stato partecipa infatti con la sua parte, la società nazionale con un’altra e la parte dell’aiuto viene destinata chiaramente a formare il capitale della società straniera che si installa nel paese 12. Così si completa la seconda fase, il che significa, come abbiamo visto, che lo Stato del paese ospitante assume la responsabilità finanziaria del debito della società beneficiaria, che è straniera.

La terza fase è il trasferimento del contenuto reale di questo «aiuto». In realtà, esso è solo un credito che permette di importare determinati prodotti, in generale macchinari e installazioni. Possiamo quindi concludere dicendo che il circolo si chiude con questa terza fase e ci si accorge che il contenuto reale dell’«aiuto» è una semplice esportazione di merci con credito dello Stato, con interessi abbastanza alti, destinato alle sussidiarie americane all’estero, garantito dagli Stati dipendenti.

Queste spese per investimenti sono vincolate e le merci devono essere comprate nel paese che da l’aiuto.

Con questo meccanismo il governo finanzia le società del suo paese che hanno bisogno di vendere i loro prodotti all’estero.

I prezzi che si pagano per queste merci sono determinati da condizioni altamente monopolistiche e al di fuori di ogni concorrenza sul mercato internazionale. Non occorre analizzare qui il risultato di queste forme di «aiuto» ai paesi dipendenti.

E’ importante segnalare tuttavia che questo tipo di finanziamento presuppone un vincolo tra la sussidiaria all’estero e il governo del paese « ospitante » nonché con i suoi programmi di sviluppo economico; ciò é tanto più importante quanto maggiore è la sua autonomia relativa e la sua capacità di decisione autonoma. Questo vincolo rappresenta qualche cosa di nuovo nei paesi dipendenti e comporta in un certo senso la sottomissione del gran capitale a leggi economiche nuove, nelle quali il capitalismo di stato dei paesi dipendenti ha un peso molto significativo. Perché un’impresa funzioni occorre il capitale di giro per pagare gli operai, i lavoratori in genere e certe materie prime che si trovano sul mercato locale. Questo capitale funziona con moneta del posto e perciò deve essere raccolto sul mercato dei capitali; si crea così un legame con il sistema bancario del paese « ospitante ». A questo scopo si utilizza molte volte un sistema bancario straniero, creato attraverso filiali bancarie, che sono molte volte legate agli stessi gruppi economici ai quali appartiene l’impresa. Ciò significa che il sistema bancario multinazionale non funziona solamente per finanziare operazioni di carattere internazionale, ma anche per finanziare operazioni chiaramente legate al mercato locale.

Questo sistema bancario comincia anche a raccogliere gran parte del risparmio locale, trasformandosi così in un concorrente della banca locale e creando una società multinazionale di tipo finanziario. Le conseguenze dello sviluppo di tali vincoli finanziari sono molto evidenti nel caso dell’Europa, dove non solo le banche multinazionali intervengono profondamente nella vita locale dei vari paesi, ma sono anche legate. in maniera diretta alla formazione di un mercato finanziario parallelo, cioè gli eurodollari. Nei paesi dipendenti questo processo è ancora agli inizi, ma tende a svilupparsi.

Un altro tipo di legame con l’economia ospitante che si produce nelle nuove condizioni di internazionalizzazione del capitale è costituito dallo sviluppo del processo di commercializzazione. Questo processo ha vari aspetti e comprende non solo la vendita del prodotto a un intermediario o direttamente a un consumatore, ma anche la creazione di un apparato commerciale, costituito sia da imprese che effettuano la commercializzazione sia da personale destinato a questo ramo di attività, che crea vincoli concreti col processo economico locale.

Ma oggi la commercializzazione é intimamente legata alla pubblicità dei prodotti, il che comporta la creazione di un sistema di preparazione di annunci economici o di una agenzia pubblicitaria. La commercializzazione è anche legata a operazioni di « marketing » più ampie, per le quali è necessario un sistema di analisi di mercato assolutamente indispensabile per le odierne operazioni capitaliste. A tutto il sistema di analisi di mercato e di pubblicità, sono legati i problemi di presentazione dei prodotti che, come sappiamo, non riguardano solamente l’aspetto esterno dell’involucro, ma anche la presen-tazione del prodotto stesso, specialmente per quanto riguarda i prodotti di consumo di massa.

Questo porta, di conseguenza, alla necessità di installare un sistema minimo di ricerca e sviluppo (molto più di sviluppo, che di ricerca) per assicurare il funzionamento di un buon sistema di marketing che permetta di essere competitivi sul mercato locale. Questa competitività ha possibilità immediate o potenziali tranne nel caso dei produttori dei paesi sottosviluppati senza grandi prospettive; ma soprattutto le ha per le società di paesi sviluppati le quali sono in grado di competere sia sui mercati dei paesi sviluppati sia su quelli dei paesi sottosviluppati.

Nella misura in cui è necessario assicurare il grado di controllo economico raggiunto precedentemente, si fanno sempre più forti le tendenze ad aumentare il grado di articolazione dei gruppi internazionali con i mercati locali dei paesi «ospitanti».

Le possibilità di mantenere questo controllo sono aumentate, perché gli alti tassi di profitto generano grandi eccedenze finanziarie che possono essere reinvestite nel paese « ospitante » senza impedire una grande mobilità finanziaria a livello internazionale. Nello stesso tempo bisogna soddisfare le esigenze di espansione della sussidiaria sul mercato locale per mantenere la sua capacità competitiva e anche, evidentemente, per sfruttare le possibilità di investimento che offrono questi paesi.

Ci troviamo quindi davanti a due ordini di problemi. Il primo, si riferisce al trasferimento dei profitti, i quali comportano un rapporto tra monete e, quindi, legano molto strettamente le società agli interessi finanziari dei paesi in cui operano. Il capitale straniero arriva a interessarsi in maniera molto diretta alla politica finanziaria da due punti di vista. Da un lato, si rende necessario il dominio dei fattori della congiuntura, il che esige la conoscenza e la previsione dei mutamenti del valore delle monete. D’altro lato è indispensabile influire sulla politica finanziaria a più lungo termine.

Per il primo punto, le società multinazionali hanno bisogno di un apparato di esperti finanziari, che permetta di controllare le oscillazioni del valore delle monete a livello internazionale, in modo da poter spostare il denaro da un paese all’altro a seconda delle variazioni che intervengono nei cambi. Per quel che riguarda la politica a lunga scadenza, le società hanno interesse ad influire sulla politica locale per poterla dirigere in modo da rendere più facile la libera entrata ed uscita dei profitti.

A tale scopo le società multinazionali parlano oggi in nome di un nuovo liberalismo (posizione difesa dalla commissione speciale della Ocse che si dedica allo studio dei movimenti di capitali), che renda più facile le operazioni internazionali della società, l’entrata e l’uscita di denaro non solo in grandi quantità costituite dai profitti annuali, ma anche in denaro liquido (hot money).

Questo permetterebbe una forte mobilità del capitale a livello internazionale. Malgrado l’aspetto più speculativo che propriamente imprenditoriale di questo tipo di operazioni, esse rappresentano gran parte dell’attività degli amministratori delle società.

Allo stesso modo, la necessità di orientare correttamente i reinvestimenti esige una conoscenza molto approfondita del mercato locale. Alle società multinazionali interessa ottenere i migliori risultati finanziari dai mercati locali e sfruttare al massimo le possibilità di nuovi investimenti, soprattutto quando offrono tassi elevati di profitto.

Per sviluppare un efficiente programma di investimenti locali, bisogna disporre di un apparato per le ricerche di mercato, con un buon livello di previsione, di una conoscenza dell’economia nazionale e di una certa influenza sulla politica economica, che consentano di sfruttare correttamente le possibilità di investimento.

Tutti questi meccanismi portano alla formazione di uno stretto legame con l’economia locale, per potere utilizzare positivamente i vantaggi relativi che offre la condizione di multinazionale ai fini del dominio dei mercati locali.

Vediamo perciò che le società multinazionali, quando ampliarono l’area di operazione delle società internazionali e indirizzarono la produzione verso i mercati locali, crearono un nuovo ordinamento nell’economia dei paesi dove si trasferirono le loro sussidiarie.

Esse stabilirono nuovi legami di carattere economico, sociale e politico con tali economie. Questi legami incidono sul loro funzionamento interno e su quello del paese « ospitante » e aprono un nuovo capitolo nella storia delle relazioni economiche internazionali.

Si deve sottolineare che l’importanza dei cambiamenti di funzionamento studiati è molto maggiore nei paesi dipendenti che in quelli che avevano già raggiunto un maggior grado di sviluppo.

La dinamica creata da questi legami organici con le economie locali è tanto più determinante per la vita del paese quanto minore è il suo sviluppo economico precedente.

I paesi dipendenti hanno una struttura produttiva molto debole, una classe dominante nazionale dominata dal capitale internazionale, una autonomia di decisione economica minima.

Per tutti questi motivi l’invasione della società multinazionale attraverso gli investimenti nei mercati locali distrugge le basi di resistenza del capitale nazionale e crea una nuova classe dominante, così come comincia a determinare la dinamica dell’insieme del suo sviluppo economico, aprendo una nuova tappa nella sua evoluzione storica. I fenomeni accennati meritano perciò un’analisi più approfondita, per l’importanza degli effetti che essi producono sul piano nazionale e internazionale.

La società multinazionale è il nucleo di una nuova economia mondiale e bisogna analizzare più da vicino le contraddizioni che racchiude nel suo complesso sviluppo.

Le contraddizioni del multinazionalismo

Dalle analisi fatte risulta evidente che la sussidiaria che si orienta verso un mercato locale segue una dinamica diversa da quella delle società del tipo « enclave » che dominarono l’economia mondiale fino al 1945, e si differenzia anche dalle filiali destinate alla vendita o a certi processi finali di produzione, ossia le fabbriche di « assemblaggio ». Questa dinamica è condizionata in buona parte dalle leggi di sviluppo della economia di montaggio dove è avvenuto il trasferimento del capitale. Questo condizionamento è tanto maggiore quanto maggiori sono lo sviluppo dell’economia del paese che riceve il capitale e l’autonomia relativa del suo mercato interno. Anche nel caso dei paesi dipendenti abbiamo un condizionamento da parte della struttura del mercato locale che subordina alle sue leggi la società multinazionale.

Il fattore determinante del funzionamento della società multinazionale continua ad essere l’interesse del grande capitale, che nasce dalla struttura economica dei paesi dominanti e soprattutto della potenza egemone nel sistema internazionale.

Questa struttura è strettamente intrecciata con l’economia internazionale che essa egemonizza. D’altra parte la società multinazionale rappresenta una unità economica in una certa misura autonoma dalla economia dominante. Gli interessi dell’insieme delle sue operazioni internazionali determinano la sua condotta più immediata e creano una struttura di rapporti cellulari che, pur essendo determinati dalla struttura capitalista internazionale, formano la rete di rapporti fondamentali sopra i quali poggia questa struttura. All’interno della società multinazionale si mescolano e tentano di conciliarsi gli interessi contraddittori creati da questi tre livelli strutturali: l’economia locale, l’economia dominante e la società multinazionale.

La lotta per coordinare le dinamiche che orientano queste istanze, nel quadro dell’economia capitalista internazionale, comporta un nuovo ordine di problemi che si esprime attraverso l’insieme di contraddizioni che la società multinazionale deve affrontare.

La società multinazionale, intesa come una organizzazione internazionale, ha interessi, strategia, organizzazione e finanziamento propri. Da questo punto di vista ha i suoi interessi specifici all’interno dell’economia mondiale. Cosicché, teoricamente, potremmo pensare che la società multinazionale operi con un criterio diverso da quello dell’economia del paese dove ha il suo centro di operazioni. Sappiamo, tuttavia, che questa indipendenza della società multinazionale è relativa, dato che la sua forza economica è in gran parte basata sul potere dell’economia nazionale da cui essa prende l’avvio. Nello stesso tempo le sussidiarie sono sottoposte alla dinamica globale della società multinazionale e, insieme, alla capacita economica e alle leggi di sviluppo dell’economia in cui operano. Perciò la tendenza a sviluppare le sussidiarie in direzione del mercato interno, le fonti di rifornimento locale e la nazionalizzazione della produzione vengono a trovarsi in contrasto sia con gli interessi della società nel suo insieme, sia con quelli dell’economia del paese dominante.

La società multinazionale, presa nel suo insieme, non vuole essere costretta a fare investimenti complementari per garantire il controllo dei mercati nei quali si trasferisce; il suo interesse è di far circolare il capitale non in funzione della integrazione economica delle strutture locali, ma per accrescere l’ammontare e il tasso dei suoi profitti a livello internazionale.

La società vuole conservare una grande facilità di trasferimento dei suoi profitti verso altre regioni. Questo fatto entra in contraddizione con gli interessi della economia locale presa nel suo insieme, perché il suo sviluppo può continuare solamente per mezzo di stimoli artificiali e del protezionismo, dato che il suo mercato interno é ristretto e non permette un alto tasso di investimenti.

Se la società multinazionale segue le leggi della libera concorrenza internazionale, avrà la tendenza a reinvestire i profitti non nei paesi dipendenti, ma in quelli che offrono grandi mercati interni in espansione. I vantaggi della manodopera a buon mercato e delle protezioni tariffarie che permettono di ottenere alti tassi di profitto nei paesi dipendenti vengono ad essere annullati dalla limitatezza dei mercati che essi presuppongono.

D’altro canto, le economie dei paesi dominanti hanno interesse a mantenere le loro esportazioni a un livello elevato.

Queste esportazioni possono anche essere stimolate a breve scadenza dagli investimenti all’estero — soprattutto nei paesi dipendenti — quando aumenti il consumo di macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate. Questa situazione cambia, tuttavia, nella misura in cui tali paesi riescono a produrre questi macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate, dando un nuovo drastico orientamento al commercio mondiale.

Le economie dei paesi dominanti, prese nel loro insieme, risentono perciò dello sviluppo economico dei paesi dipendenti quando esso assume una forma capace di portare all’autonomia. Per queste contraddizioni, la classe dominante dei paesi dominanti cerca di conciliare questi opposti interessi orientando lo sviluppo economico dei paesi dipendenti in modo da renderlo più compatibile con l’interesse a conservare la potenza dell’economia dominante dove il capitale internazionale ha le sue basi più solide e ad aumentare la capacita di movimento di questo stesso capitale internazionale.

Ma ciò non risolve del tutto le contraddizioni del multinazionalismo, poiché questa libertà d’azione del capitale lo porta ad aumentare i suoi investimenti nelle economie capitaliste più dinamiche, che non sono né quelle dei paesi dipendenti, né gli Stati Uniti, ma altri paesi capitalisti avanzati.

Questa situazione fa aumentare gli investimenti riguardanti questi paesi a scapito degli Stati Uniti. In ogni modo la piena liber di movimento del capitale internazionale entra in conflitto con gli interessi del suo centro egemonico, tende a indebolirne l’economia e rende più profonde le sue contraddizioni interne.

Per far fronte a interessi così complessi che si manifestano al suo interno, la società multinazionale deve garantire il controllo assoluto sulle sue sussidiarie, che potrebbero seguire gli interessi locali e pregiudicare, in futuro, la base di potere della casa madre.

Nasce, così, un importante problema di controllo e la società madre comincia ad operare, in gran parte, in funzione del dominio che può esercitare sulla sussidiaria.

La sua politica finisce per essere guidata più dalle esigenze di controllo che da quelle che presenta il mercato e dalle possibilità di sviluppo. Questa contraddizione può portare l’impresa sussidiaria a una situazione di impotenza nei confronti delle esigenze dell’economia dei paesi dove si trova, nei confronti della concorrenza degli investitori nazionali e di altri paesi dotati di maggiore elasticità e possibilità di sviluppare il campo specifico in cui si produce una situazione di immobilità. La contraddizione diventa più acuta quando la società nel paese « ospitante », sia esso sviluppato o anche dipendente con un certo grado di sviluppo, comincia ad avere la possibilità di competere con la società madre attraverso le esportazioni verso altri mercati. In queste condizioni l’impresa sussidiaria comincia a competere con la società dominante non solo sul mercato specifico in cui opera, ma anche su altri mercati. Nei paesi piccoli questo fenomeno ha poca importanza; ne ha invece nei paesi dominanti o nei paesi sottosviluppati con un certo livello di potenzialità economica.

Questa situazione si produce di frequente come risultato della logica di sviluppo della impresa capitalista, che cerca di superare il suo mercato iniziale e di ampliarlo costantemente.

D’altra parte, gli stessi interessi delle economie nazionali, nel senso di aumentare le loro esportazioni, creano una dinamica oggettiva che le società sussidiarie sono costrette a seguire per non essere emarginate. Per questo motivo diventa necessario un forte controllo monopolistico dei mercati locali e delle politiche economiche dei loro governi, per permettere alla società di controllare queste tendenze. Come vedremo, il grande capitale non ha motivo di opporsi sistematicamente a questa tendenza. L’iniziale atteggiamento di resistenza è progressivamente sostituito da un riconoscimento delle leggi di sviluppo e dall’intento di incanalare questo processo a favore dei propri interessi, sebbene questo implichi il sacrificio di certe posizioni e della propria base nazionale di potere, cioè gli Stati Uniti come economia dominante.

Vedremo come la strategia ideata cerchi di assicurarsi con altri mezzi questa egemonia.

Una sussidiaria ha scarse possibilità di liberarsi e vi sono leggi internazionali abbastanza forti per garantire il controllo da parte della società madre; ma, evidentemente, in circostanze politiche eccezionali, questo controllo può cambiare, questa capacità di controllo può essere messa in discussione. Di conseguenza, la società dominante deve preoccuparsi di impedire uno sviluppo eccessivo della sussidiaria, che potrebbe permetterle di trasformarsi in una sua concorrente. Studiando i problemi di organizzazione vedremo quali forme abbiano cercato le società per assicurarsi questo controllo. Ci sono, tuttavia, altre alternative, seguite da alcune società o gruppi economici, che favoriscono una più vivace concorrenza interna tra le loro sussidiarie, poiché il controllo finanziario resta in mano al gruppo centrale. Queste tendenze sono in corso e ancora non si sa che risultato daranno.

Nella misura in cui si sviluppano senza un sicuro orientamento, le contraddizioni cui si è accennato tendono a creare un’anarchia sempre meno controllabile nel mercato mondiale, portando i paesi capitalisti a un confronto fra di loro e con le società multinazionali.

Per questo la teoria economica borghese, i suoi politici, ideologi ed esperti hanno cercato di ridare rapidamente un orientamento a questa nuova economia internazionale che nasce con il multinazionalismo. Dobbiamo perciò studiare più a fondo i nuovi rapporti di scambio che lo sviluppo della società multinazionale crea a livello internazionale.

La società multinazionale e la divisione internazionale del lavoro

Nella lotta tra la società madre e la sussidiaria si rispecchiano le contraddizioni più profonde tra l’economia del paese egemone, le altre economie dominanti e le economie dipendenti.

Queste contraddizioni si manifestano, a livello della economia internazionale, attraverso i rapporti che stabiliscono tra di esse.

Questi rapporti hanno la loro infrastruttura nella divisione internazionale del lavoro, che cerca di rendere compatibili le diverse economie nazionali in un sistema di riproduzione internazionale della economia.

Le contraddizioni che nascono dallo sviluppo del multinazionalismo avevano trovato una prima soluzione negli anni ’50 e all’inizio degli anni ’60. Questa soluzione si basava sullo scambio di macchinari, attrezzature e materie prime lavorate da parte dei paesi dominanti, contro materie prime e prodotti agricoli da parte dei paesi dipendenti. Vediamo in maniera particolareggiata questa forma di scambio.

Per quanto concerne i paesi sviluppati si presentavano due nuove grandi voci di esportazione; il che non significava porre fine completamente alle antiche esportazioni di prodotti di consumo finali, ma sostituirli progressivamente, nella misura in cui la loro produzione si sviluppava alla periferia del sistema.

La prima voce è l’esportazione di macchinari e attrezzature industriali, commerciali e di servizi. Investire in un paese che non ha un settore sviluppato per la produzione di macchine, comporta una domanda di questi beni di produzione nei paesi sviluppati. La vendita di queste macchine viene generalmente controllata dai grandi gruppi economici; inoltre, i crediti per il finanziamento si ottengono presso le banche o presso i governi controllati da questi gruppi. In molti casi i macchinari e le attrezzature che si trasferiscono nei paesi dipendenti sono già stati usati dalla società che effettua gli investimenti e che realizza, in questo caso, un buon affare, rinnovando contemporaneamente le sue istallazioni.

Le materie prime industrializzate che si esportano nei paesi dipendenti costituiscono la seconda voce di esportazioni, che riscatta il carattere di complementarità di queste economie. Montare una industria comporta l’utilizzazione di certe formule o la necessita di un tipo specifico di materie prime semi-industrializzate. Gran parte degli investimenti di petrolio raffinato furono fatti nel settore dell’industria chimica che utilizza direttamente materie prime industrializzate; ma questo accade anche in altri settori, come quello tessile, della gomma, ecc. Quando unità di produzione si istallano in altri paesi, aumenta il consumo di queste materie prime lavorate e aumenta così il commercio di questi prodotti tra il paese che fa l’investimento e quello che lo riceve, nella misura in cui le società preferiscono rifornirsi dalla casa madre. Qualche volta succede che si riforniscano da qualche sussidiaria, un fenomeno del resto frequente negli ultimi anni, come risultato naturale dell’avanzata del multinazionalismo.

D’altra parte bisogna notare anche che gran parte di questi acquisti di materie prime vengono effettuati all’interno di una stessa società o di uno stesso gruppo economico, trasformandosi così in una operazione interimprenditoriale a prezzi artificiali, che permette di assicurarsi forme indirette di trasferimento di profitti attraverso il sovrapprezzo e offre nel contempo degli espedienti per evadere l’imposta sul reddito nel paese dove opera l’impresa.

In questo modo la politica di sviluppo, che cercava di stimolare l’ingresso del capitale straniero nel settore industriale, il miglioramento dei prezzi dei prodotti esportati, i prestiti internazionali e gli « aiuti » economici, veniva a costituire un insieme di misure complementari intese a formare una unità di interessi, sul piano internazionale, tra paesi dipendenti e paesi dominanti, che si esprimeva nella divisione del lavoro tra esportatori di materie prime e prodotti agricoli da una parte, ed esportatori di macchinari, di attrezzature e materie prime industrializzate dall’altra. La condizione per mantenere questa divisione del lavoro era che non si sviluppassero nei paesi dipendenti i settori di produzione di macchinari, attrezzature e materie prime industrializzate. Abbiamo visto tuttavia che la logica stessa dello sviluppo economico capitalista entrava in contraddizione con queste limitazioni e si scontrava con gli interessi immediati del grande capitale.

Questa complementarietà dimostra così il suo carattere provvisorio. Primo: perché le economie dipendenti esercitano una pressione crescente nel senso che i rifornimenti e i settori economici complementari si sviluppano in questi paesi. Secondo: perché l’industria di macchinari tende anch’essa a svilupparsi con questo fine. Terzo: perché la stessa sussidiaria della società multinazionale, avendo la necessita e la possibilità di fare nuovi investimenti e trasformandosi in un importante acquirente di certi prodotti, finisce con l’essere interessata a creare questi settori complementari, allo scopo di ottenere i prodotti a prezzi più bassi. Infine un effetto molto più importante ed essenziale: si viene progressivamente a creare la possibilità di dominare la forza lavoro a livello internazionale, a prezzi molto più bassi, con facilitazioni di commercializzazione, con potenziale istallato non utilizzato, con appoggi governativi sempre più sostanziosi per una politica di sviluppo economico basato sul capitale straniero, con l’annullamento dell’opposizione nazionale borghese, che si raggiunge soprattutto negli anni ’60, e con la formazione di una burocrazia tecnocratica e militare « sviluppista », che si identifica strettamente con gli obiettivi del capitale internazionale.

Tutti questi fattori concorrono a creare la possibilità reale che queste industrie dei paesi dipendenti, oltre ad orientarsi verso il loro mercato interno, si trasformino anche in importanti società di esportazione, sia per aree più arretrate o vicine, sia per aree controllate economicamente e politicamente da paesi intermediari degli Stati Uniti, sia per sfruttare vantaggi relativi all’interno di una comunità economica (come l’Inghilterra rispetto al Commonwealth o le sue ex colonie africane integrate nel Mercato Comune), sia, infine, per sfruttare il vasto mercato nordamericano, gran consumatore di prodotti che hanno bisogno di molta manodopera e che sono cari e di cattiva qualità negli Stati Uniti. Per tutti questi motivi si apre uno spazio a una politica di esportazione dai paesi progrediti e dai paesi dipendenti verso gli Stati Uniti o verso altre zone dei paesi sviluppati.

Inizia così una terza fase nella storia degli investimenti stranieri all’estero, caratterizzata dagli investimenti nel settore manifatturiero, allo scopo di effettuare esportazioni. Nonostante il suo carattere recente, se ne può valutare il rapido sviluppo in base ai dati forniti da Raimond Vernon, sulle vendite, nel 1957 e nel 1958, delle sussidiarie industriali straniere delle società americane classificate secondo il mercato di destinazione (fonti del Dipartimento del Commercio).

Nel 1957, le sussidiarie nel Canada destinavano circa l’85 per cento delle loro vendite al mercato interno, circa il 10 per cento a esportazioni negli Stati Uniti e circa il 5 per cento a esportazioni in altre aree. Nel 1968 la proporzione delle vendite locali è del 70 per cento, quella delle vendite negli Stati Uniti del 20 per cento, e quella delle vendite ad altre regioni del 10 per cento.

In Europa, nel 1957, il 75 per cento delle vendite è destinato al mercato locale, il 4 per cento al mercato nordamericano e circa il 20 per cento a mercati di altre regioni. Nel 1968, si registra già un forte aumento del totale delle vendite, delle quali più del 20 per cento è destinato al mercato di varie aree, il 3 per cento al mercato nordamericano e il resto al mercato locale.

Nell’America Latina l’esportazione, nel 1957, era minima. Quasi tutte le vendite erano destinate al mercato locale. Nel 1968 le sussidiarie industriali latinoamericane destinano già circa il 10 per cento delle loro vendite in parte agli Stati Uniti e la maggior parte ad altre regioni.

Anche nelle altre regioni, escludendo il Canada, l’Europa e l’America Latina, si registra una tendenza all’aumento delle esportazioni. E’ importante notare che le vendite delle sussidiarie industriali nordamericane nell’America Latina oltrepassano nel 1968 i 750 milioni di dollari, il che rappresenta più del 40 per cento di tutte le esportazioni di manufatti latinoamericani nello stesso anno; queste vendite comprendevano forti quantitativi di prodotti chimici, di macchinari e di parti di automobili. Questi nuovi investimenti vanno distinti in due tipi. Uno è diretto verso i « paesi emporio », e cioè quei paesi che esplicano solamente una funzione di intermediario, e che si limita a completare una fase finale della produzione dei prodotti. E’ il caso della Corea del Sud, di Hong Kong, del Messico del Nord e della Cina nazionalista, dove si istallano aziende per completare la lavorazione di prodotti, le cui parti sono fabbricate in altri paesi, specialmente negli Stati Uniti.

Si tratta semplicemente di sfruttare la manodopera a buon mercato per certi lavori finali che hanno caratteristiche semi-artigianali e richiedono molta mano d’opera con un certo grado di specializzazione artigianale. In questi casi vengono compensate le spese di trasporto, oltre a trarre vantaggio dalle esenzioni fiscali e dalle altre facilitazioni offerte da questi paesi.

Un altro tipo di investimenti nel settore manifatturiero destinati all’esportazione è quello che cerca di sfruttare le materie prime nazionali industrializzandole prima di esportarle.

Questi investimenti trovano però un limite nella vecchia politica imperialista intesa a far sì che l’industrializzazione avvenga nel paese dominante. Nel caso degli Stati Uniti le difficoltà sono particolarmente grandi, dato che da molti anni il governo nordamericano, sotto la pressione dei settori industriali, pone una serie di ostacoli all’importazione di prodotti già industrializzati, assoggettandoli a tasse molto alte. Esistono tuttavia grandi possibilità di espansione per questo tipo di investimenti sotto il patrocinio di istituzioni internazionali, come l’UNCTAD, che li presentano come la grande alternativa per ristabilire condizioni di scambio favorevoli ai paesi sottosviluppati.

Se la industrializzazione delle materie prime può offrire qualche vantaggio immediato, non rappresenta affatto una soluzione per i problemi del sottosviluppo, e tanto meno nella misura in cui viene effettuata dalle imprese straniere, che trattengono le eccedenze ricavate da questa attività e le trasferiscono all’estero sotto forma di enormi profitti.

Un aspetto più nuovo, tuttavia, è costituito dagli investimenti in prodotti più sofisticati da esportare nei paesi sviluppati. Si tratta in genere di un’industria per la produzione di parti per prodotti finali da realizzarsi nei paesi sviluppati. Vi sono parti di certi prodotti, come quelli elettronici, le quali hanno bisogno di una mano d’opera abbastanza numerosa e specializzata, che si trova con più facilità nei paesi con uno sviluppo relativo inferiore. Vi sono casi di industrializzazione di prodotti di base che passano per un certo processo di sofisticazione per il quale sono necessarie imprese di alto livello.

E’ il caso della produzione di acciaio, materia prima lavorata che richiede grandi investimenti e offre una bassa redditività negli Stati Uniti, dove attraversa una crisi molto grave, che trasforma questo paese in un potenziale acquirente di tale prodotto. Altre voci come tessili, scarpe, caffè solubile, ecc. formano una estesa gamma di prodotti che presentano un grado di industrializzazione relativamente basso delle materie prime e richiedono una mano d’opera semi-artigianale, i cui salari negli Stati Uniti sono molto alti.

Un altro fattore rilevante è la differenziazione di questi prodotti, a causa della sofisticazione del mercato, il che richiede una produzione su scala ridotta, una buona rifinitura e altri fattori che rendono più elevati i costi in una economia sviluppata.

Esiste dunque un altro campo di investimenti industriali per l’esportazione che si dirige in gran parte verso il mercato nordamericano; si tratta senza dubbio di un vastissimo campo aperto agli investimenti delle multinazionali, che trovano così una nuova complementarietà internazionale a un livello superiore e una nuova divisione internazionale del lavoro. Questa avrebbe, qualora si riuscisse a realizzarla su vasta scala, una stabilità storica relativa che consentirebbe al capitalismo, a livello mondiale, di avere a disposizione un periodo di sopravvivenza più lungo di quello che gli concede la sua attuale struttura economica, che dal 1968 attraversa una profonda crisi internazionale.

La società multinazionale, negli ultimi tempi, tenta di adeguarsi a queste nuove tendenze trasformandosi internamente, creando nelle alte sfere e nel pubblico un’opinione favorevole a questi cambiamenti, studiando le alternative di sviluppo e le strategie che esse implicano, cercando di prevenire i gravi problemi e le contraddizioni che esse recano in sé.

Difficoltà e contraddizioni della nuova divisione internazionale del lavoro

L’instaurazione di questa nuova divisione internazionale del lavoro presuppone la soluzione di molti problemi preliminari, tra i quali, in primo luogo, la divisione interna che questa politica provoca in seno alla stessa borghesia dei paesi dominanti. Questa soluzione comporta il sacrificio della media e piccola borghesia all’interno dei paesi dominanti a favore del progresso delle società multinazionali e della borghesia internazionale che, paradossalmente, passa a controllare buona parte dell’economia nazionale attraverso il dominio dell’apparato produttivo delle altre nazioni. Questa contraddizione è grave e di difficile soluzione, perché le borghesie locali dei paesi dominanti sono ancora molto forti ed hanno un’influenza politica, hanno capacita di resistere al grande capitale internazionale, soprattutto nella misura in cui riescono ad influenzare altri settori della popolazione e a muoverli politicamente.

Se pensiamo che al mercato locale nordamericano sono legate in maniera fondamentale società di grande potenza, possiamo dedurne che si tratta di un confronto tra giganti e non semplicemente tra alta borghesia e borghesia media. A lunga scadenza, le borghesie locali non potrebbero resistere, soprattutto perché non hanno da offrire un’alternativa di sviluppo economico a livello nazionale e internazionale, ma un’alternativa di regresso, d’immobilismo, di ristagno che ai nostri giorni non può rappresentare, evidentemente, una base valida per una politica economica con proiezioni internazionali.

Per far fronte a questo problema, la borghesia internazionale cerca sempre più di caratterizzare la società multinazionale come un tipo diverso d’impresa, che rappresenta una nuova concezione internazionale e una nuova tappa nella storia dell’umanità.

I suoi ideologi cercano di distinguerla nettamente dalle società tradizionali, lottando per liberarla dalla immagine negativa che il monopolio ha acquistato nel movimento liberale con radici nelle classi medie e nel movimento operaio nord-americano, e sviando la lotta politica verso problemi marginali.

La situazione attuale è molto complicata, perché i dirigenti sindacali reagiscono contro l’aumento delle importazioni negli Stati Uniti, che avvengono a danno della produzione locale e che portano innegabilmente alla disoccupazione di gran parte della popolazione operaia nordamericana. Trascinati dal loro spirito corporativo, gli operai nordamericani tendono a formare un fronte comune con i settori più conservatori, invece di innalzare una bandiera indipendente di carattere socialista, che permetta di superare veramente queste contraddizioni.

Dalla prospettiva dell’insieme dell’economia nordamericana, lo sviluppo di questa nuova divisione internazionale del lavoro significa l’accentuazione di una economia parassitaria, con un accrescimento del settore dei servizi, delle persone che vivono di rendita, con i suoi effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti. Infatti il conto capitali, per quanto alto, non riuscirebbe a coprire del tutto il « deficit » che risulterebbe da un conto commerciale sempre più negativo in funzione di questo tipo di sviluppo dell’economia mondiale.

Tenuto conto dell’opposizione del settore nazionale dell’alta borghesia, di importanti settori della piccola e media borghesia e del movimento operaio e delle difficoltà immediate create dalla bilancia dei pagamenti, l’alta borghesia internazionale ha davanti a sé un periodo più o meno lungo per risolvere le contraddizioni insite nel passaggio a una nuova divisione internazionale del lavoro, che consentirebbe di salvare il sistema capitalista per un certo periodo di tempo.

Il trionfo di questo modello di sviluppo comporta l’accentuazione e l’approfondimento del processo di concentrazione e di monopolizzazione dell’economia, fino a livelli che superano di molto la nostra immaginazione.

Con esso si approfondisce la crisi della piccola borghesia, delle sue ultime forme di potere locale o regionale, e si accentuano i conflitti interregionali all’interno dei paesi capitalisti così come le loro espressioni nazionali e religiose. Insieme alla crisi di questi settori, si assiste alla pauperizzazione e all’emarginazione di milioni di lavoratori agricoli e urbani, che sopravvivevano grazie alla conservazione di queste imprese minori.

Nei paesi dipendenti queste contraddizioni si presentano in forme molto acute. I pochi settori nazionali della borghesia che hanno resistito al processo di snazionalizzazione degli ultimi anni, la piccola e media borghesia, vedono chiaramente che questo schema di sviluppo toglie loro ogni speranza di sopravvivenza come classe e lo contrastano in maniera accanita ed idealista, sia da destra che da sinistra.

Gli operai e i lavoratori in genere e le grandi masse dei sottoccupati e dei disoccupati non hanno alcun posto di rilievo in questo nuovo ordine di cose. Al contrario, esso rende più profonda la loro pauperizzazione e la loro emarginazione dal sistema produttivo e inoltre devia il grande potenziale di lavoro di questi paesi per servire i mercati già costituiti nel mondo, e cioè quelli che ora godono di entrate più elevate.

La tendenza di questo schema di sviluppo è di rafforzare, in maniera brutale, l’attuale struttura di distribuzione delle entrate nel mondo, assicurando, in maniera disperata, la sopravvivenza del sistema socio-economico su cui essa si poggia.

Dato il carattere nettamente irrazionale e reazionario del modello di crescita del capitale monopolistico internazionale, si determina contro di esso la formazione di un confuso schieramento di quelle forze sociali che ne vengono danneggiate o anche distrutte. Abbiamo visto che tra queste forze si forma un blocco prevalentemente conservatore che comprende i capitalisti orientati verso i loro mercati nazionali, i settori di destra delle classi medie e della piccola borghesia, settori oligarchici anch’essi danneggiati da questa espansione del capitale internazionale che arriva perfino alle campagne, senza contare quei settori più poveri della popolazione, specialmente tra i sottoccupati e disoccupati, che possono essere trascinati, con un programma radicale, contro l’ordine di cose instaurato dal grande capitale.

D’altro lato si forma un blocco di forze proletarie, con l’appoggio delle masse semi-proletarie e della piccola borghesia rurale e urbana, uniti da un programma anti-imperialista e antimonopolistico in grado di aprire un’alternativa rivoluzionaria, di carattere socialista. Questi due grandi blocchi di forze, che prendono forma storicamente come risultato della crisi generale del 1929, da molto tempo tendono a trasformarsi in una nuova realtà storica all’interno della nuova crisi del capitalismo mondiale che stiamo vivendo dal 1969 13.

All’interno della nuova economia mondiale capitalista, di cui la società multinazionale è la cellula, si sviluppano le seguenti tendenze: crescente concentrazione e monopolizzazione su scala internazionale, sfruttamento del mercato degli Stati Uniti e di altri paesi sviluppati da basi produttive situate nei centri di mano d’opera a buon mercato, rinascita del commercio mondiale sulla base di una nuova divisione internazionale del lavoro, crisi politica quale conseguenza dei forti interessi che saranno schiacciati da questo processo, formazione di un blocco fascista e di un blocco antimonopolista e antimperialista di carattere socialista, e la conseguente radicalizzazione della situazione politica, accentuazione della lotta interregionale e internazionale per facilitare o impedire questo processo di concentrazione, di monopolizzazione e di internazionalizzazione.

In questo modo la nuova divisione internazionale del lavoro, invece di salvare il capitalismo dalla sua crisi finale, rende questa crisi più profonda e porta la società multinazionale, che ne è la manifestazione cellulare, a rispecchiare nel suo interno, nella sua programmazione, nella sua strategia e nelle sue forme di organizzazione, le contraddizioni che il capitalismo non riesce a risolvere.

Bisognerebbe segnalare, infine, che in questo nuovo contesto la nuova società che si profila ha caratteristiche che cominciano a notarsi ora. In primo luogo, essa incomincia ad agire strategicamente sempre meno in funzione di interessi nazionali e sempre più in funzione degli interessi generali dell’impresa.

In secondo luogo, nell’insieme della sua strategia di crescita, gli aspetti speculativi e finanziari acquistano un ruolo sempre più predominante.

In terzo luogo, la società si trasforma a poco a poco in un organo di direzione finanziaria e di investimento, anziché in un organo di direzione del processo produttivo e l’attività produttiva si separa progressivamente dall’attività di direzione generale dell’impresa.

In quarto luogo, queste nuove condizioni si rispecchiano in un aumento anarchico della produzione e delle attività svolte, sfociando in un processo di conglomerazione a livello internazionale che non è altro che una estensione del processo di conglomerazione che si verifica a ritmo accelerato negli Stati Uniti.

Questa rapida analisi della evoluzione delle società internazionali ci mostra la complessità delle forme e dei tipi che queste società devono assumere nel loro sviluppo, in funzione dei loro interessi generali, in funzione dell’interesse del paese dove si installano, in funzione della opposizione o della conciliazione d’interessi, con i paesi in cui operano. Perciò è necessario uno studio dei diversi tipi di imprese che si creano in questo processo.

NOTE:

Il saggio di Theotonio Dos Santos “Considerazioni sulle società multinazionali” fu pubblicato su PROBLEMI DEL SOCIALISMO – Rivista bimestrale diretta da Lelio Basso – N. 16/17 – terza serie – anno XV – 1973 (pag. 555-597) – MARSILIO EDITORI

1 Questo raffronto si trova nel lavoro di Stephen Hymer The Multinational Corporation and The Law of Uneven Development; manoscritto da pubblicare in J. N. BHAGWAITI (a cura di) Economics and World Order, New York, World Law Fund, 1970.

2 La diversità di situazione fra le operazioni delle imprese e gli affari dei capitalisti si deve alla grande espansione del capitale finanziario nel periodo in cui il mercato azionario ebbe il suo primo grande sviluppo. D’altra parte, l’Inghilterra aveva un forte commercio estero, a differenza degli Stati Uniti, paese per il quale il commercio estero ha importanza relativa scarsa. Lo studio di Hobson sull’Imperialismo e quello di Hilferding sul Capitale finanziario sono i due classici su questo tema, che servì di base a Lenin e Bucharin nelle loro opere fondamentali sull’imperialismo.

3 RAIMOND VERNON, Sovereignity at Bay, The Multinational Spread of US Enterprises, Basic Books, New York, 1971. La fondazione Ford finanzia un’ampia ricerca dell’autore su questo tema presso l’Università di Harvard. Il professor Vernon, malgrado le nostre divergenze ideologiche, mi ha permesso di consultare buona parte del suo materiale ad Harvard. Nel suo libro mi considera uno dei migliori espositori dell’ideologia marxista contraria alla società multinazionale. Anche se non accetto la qualifica di ideologo, che mette in discussione il carattere scientifico del nostro lavoro, devo ricambiargli la lode di buon espositore: il professor Vernon è, senza dubbio, uno dei migliori espositori dell’ideologia del grande capitale internazionale, che cerca di rendere più accetta alle sue vittime la società multinazionale.

4 United States Department of Commerce, Bureau of International Commerce, Office of International Investment, Staff Study, The Multinational Corporations: Studies on us Foreign Investment, vol. I, marzo ‘72.

Questo volume comprende i primi tre di cinque studi sulle società multinazionali commissionati dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. I lavori riuniti in questo volume rappresentano la più completa raccolta di informazioni disponibili oggi sul tema.

5 I calcoli a questo riguardo sono molto vari. « Business Week » del 19 dicembre 1970, calcola che la produzione annuale totale delle società nordamericane all’estero ammonta a 200 miliardi di dollari, il che equivale al prodotto nazionale lordo del Giappone; Judd Polk, console della Camera Internazionale di commercio, calcola che l’insieme delle imprese straniere appartenenti alle società multinazionali di tutto il mondo ha una produzione di circa 450 miliardi di dollari, cioè circa 1/6 del prodotto mondiale lordo, che ascende a 3 bilioni di dollari. Facendo previsioni su tendenze in corso Polk calcola che, in una generazione, la maggior parte della produzione sarà internazionale. Un riassunto del suo intervento al Congresso Nord-americano si trova in « International Financés », A Chase Manhattan Newsletter, 17 agosto 1970.

6 Dati tratti da JAMES W. VAUPEL e JOAN P. CURHAN, The Making of Multinational Enterprises, Harvard University, Boston 1969.

7 Dati del Dipartimento del Commercio, The Multinational Corporation, vol. I. Tutte le volte che nel presente capitolo non citiamo la fonte ci riferiamo a questo studio.

8 Richiamiamo l’attenzione sull’enorme aumento degli investimenti esteri nordamericani negli anni ’50 e ’60. Nel 1950 questi investimenti ammontavano a 11.800 milioni di dollari, nel 1960 a circa 30.000 milioni, alla fine del decennio a 78.100 milioni.

9 Dipartimento del Commercio, The Multinational Corporation, vol. I, p. 10, dello studio su Policy aspects of Foreign Investment by us Multinational Corporation.

10 Una buona bibliografia sul tema e una delle migliori analisi sugli effetti sociali dell’enclave si trovano in Edelberto Torres.

11 I dati di questa parte sono stati ricavati dallo studio già menzionato sulle imprese multinazionali del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.

12 Su queste materie, vedere il capitolo sulla struttura della dipendenza nel nostro Dependencia y Cambio Social, quaderni del CESO, 1972 (seconda edizione) e di CAPUTO e PIZARRO Imperialismo, Dependencia y Relaciones Econémicas Internacionales, quaderni del CESO, 1972 (seconda edizione).

13 Su questa crisi, vedere il nostro libro La Crisis Norteamericana y America Latina, PLA, 1971.

L’imperialismo “Woke”

di Chris Hedges

La cultura “Woke”, priva di coscienza di classe e di impegno a stare dalla parte degli oppressi, è un altro strumento nell’arsenale dello Stato imperiale.

Il brutale omicidio di Tyre Nichols da parte di cinque agenti di polizia neri di Memphis dovrebbe essere sufficiente a far implodere la fantasia secondo cui le politiche identitarie e la diversità risolveranno il degrado sociale, economico e politico che affligge gli Stati Uniti. Non solo gli ex agenti sono neri, ma il dipartimento di polizia della città è guidato da Cerelyn Davis, una donna nera. Niente di tutto questo ha aiutato Nichols, un’altra vittima di un moderno linciaggio da parte della polizia.

I militaristi, le multinazionali, gli oligarchi, i politici, gli accademici e i conglomerati mediatici sostengono la politica dell’identità e della diversità perché non fa nulla per affrontare le ingiustizie sistemiche o il flagello della guerra permanente che affligge gli Stati Uniti. È un espediente pubblicitario, un marchio, usato per mascherare la crescente disuguaglianza sociale e la follia imperiale. Impegna i liberali e i colti con un attivismo da boutique, che non solo è inefficace, ma esaspera il divario tra i privilegiati e una classe operaia in profondo disagio economico. I ricchi rimproverano ai poveri le loro cattive maniere, il razzismo, l’insensibilità linguistica e la sgarbatezza, ignorando le cause profonde del loro disagio economico. Gli oligarchi non potrebbero essere più felici.

La vita dei nativi americani è migliorata a seguito della legislazione che imponeva l’assimilazione e la revoca dei titoli di proprietà delle terre tribali, promossa da Charles Curtis, il primo vicepresidente nativo americano? Stiamo meglio con Clarence Thomas, che si oppone all’azione positiva, alla Corte Suprema, o con Victoria Nuland, un falco della guerra al Dipartimento di Stato? La nostra perpetuazione della guerra permanente è più accettabile perché Lloyd Austin, un afroamericano, è il Segretario alla Difesa? L’esercito è più umano perché accetta i soldati transgender? La disuguaglianza sociale e lo stato di sorveglianza che la controlla sono migliorati perché Sundar Pichai – nato in India – è il CEO di Google e Alphabet? L’industria bellica è migliorata perché Kathy J. Warden, una donna, è l’amministratore delegato di Northop Grumman e un’altra donna, Phebe Novakovic, è l’amministratore delegato di General Dynamics? Le famiglie dei lavoratori stanno meglio con Janet Yellen, che promuove l’aumento della disoccupazione e la “precarietà del lavoro” per ridurre l’inflazione, come Segretario del Tesoro? L’industria cinematografica è migliorata quando una regista donna, Kathryn Bigelow, realizza “Zero Dark Thirty”, che è un’agit-prop per la CIA? Date un’occhiata a questo annuncio di reclutamento pubblicato dalla CIA. Riassume l’assurdità della situazione in cui siamo finiti.

I regimi coloniali trovano leader indigeni compiacenti – “Papa Doc” François Duvalier ad Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Mobutu Sese Seko in Congo, Mohammad Reza Pahlavi in Iran – disposti a fare il lavoro sporco mentre sfruttano e saccheggiano i Paesi che controllano. Per ostacolare le aspirazioni popolari alla giustizia, le forze di polizia coloniali hanno regolarmente compiuto atrocità per conto degli oppressori. I combattenti per la libertà indigeni che lottano a sostegno dei poveri e degli emarginati vengono solitamente estromessi dal potere o assassinati, come nel caso del leader indipendentista congolese Patrice Lumumba e del presidente cileno Salvador Allende. Il capo Lakota Toro Seduto è stato ucciso da membri della sua stessa tribù, che prestavano servizio nella polizia della riserva di Standing Rock. Se si sta dalla parte degli oppressi, si finisce quasi sempre per essere trattati come tali. È per questo che l’FBI, insieme alla polizia di Chicago, ha ucciso Fred Hampton ed è quasi certamente coinvolta nell’omicidio di Malcolm X, che si riferiva ai quartieri urbani impoveriti come “colonie interne”. Le forze di polizia militarizzate negli Stati Uniti funzionano come eserciti di occupazione. Gli agenti di polizia che hanno ucciso Tyre Nichols non sono diversi da quelli delle riserve e delle forze di polizia coloniali.

Viviamo sotto una specie di colonialismo aziendale. I motori della supremazia bianca, che hanno costruito le forme di razzismo istituzionale ed economico che mantengono poveri i poveri, sono oscurati dietro personalità politiche attraenti come Barack Obama, che Cornel West ha definito “una mascotte nera per Wall Street”. Questi volti della diversità sono controllati e selezionati dalla classe dirigente. Obama è stato preparato e promosso dalla macchina politica di Chicago, una delle più sporche e corrotte del Paese.

“È un insulto ai movimenti organizzati di persone che queste istituzioni affermano di voler includere”, mi ha detto nel 2018 Glen Ford, il defunto editore di The Black Agenda Report. “Queste istituzioni scrivono il copione. È il loro dramma. Scelgono gli attori, le facce nere, marroni, gialle, rosse che vogliono”.

Ford ha definito coloro che promuovono le politiche identitarie “rappresentazionisti” che “vogliono vedere alcuni neri rappresentati in tutti i settori della leadership, in tutti i settori della società. Vogliono scienziati neri. Vogliono stelle del cinema nere. Vogliono studiosi neri ad Harvard. Vogliono neri a Wall Street. Ma è solo una rappresentanza. Tutto qui”.

Il tributo del capitalismo aziendale alle persone che questi “rappresentativi” pretendono di rappresentare smaschera l’imbroglio. Gli afroamericani hanno perso il 40% della loro ricchezza dal crollo finanziario del 2008, a causa dell’impatto sproporzionato del calo del patrimonio netto delle case, dei prestiti predatori, dei pignoramenti e della perdita del lavoro. Secondo l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti e il Dipartimento per la salute e i servizi umani, i neri e i nativi americani sono al secondo posto per tasso di povertà (21,7%), seguiti dagli ispanici (17,6%) e dai bianchi (9,5%). Nel 2021, i bambini neri e nativi americani vivevano in povertà rispettivamente al 28 e al 25%, seguiti dai bambini ispanici al 25% e dai bambini bianchi al 10%. Quasi il 40% dei senzatetto della nazione sono afroamericani, sebbene i neri rappresentino circa il 14% della popolazione. Questa cifra non comprende le persone che vivono in abitazioni fatiscenti e sovraffollate o presso parenti o amici a causa di difficoltà economiche. Gli afroamericani sono incarcerati a un tasso quasi cinque volte superiore a quello dei bianchi.

La politica dell’identità e la diversità permettono ai liberali di crogiolarsi in una stucchevole superiorità morale mentre castigano, censurano e deplorano coloro che non si conformano linguisticamente al linguaggio politicamente corretto. Sono i nuovi giacobini. Questo gioco maschera la loro passività di fronte agli abusi delle aziende, al neoliberismo, alla guerra permanente e alla riduzione delle libertà civili. Non affrontano le istituzioni che orchestrano l’ingiustizia sociale ed economica. Cercano di rendere più appetibile la classe dirigente. Con il sostegno del Partito Democratico, i media liberali, il mondo accademico e le piattaforme di social media della Silicon Valley demonizzano le vittime del colpo di stato aziendale e della deindustrializzazione. Fanno le loro principali alleanze politiche con coloro che abbracciano la politica dell’identità, sia che si trovino a Wall Street o al Pentagono. Sono gli utili idioti della classe miliardaria, crociati morali che ampliano le divisioni all’interno della società che gli oligarchi al potere promuovono per mantenere il controllo.

La diversità è importante. Ma la diversità, quando è priva di un programma politico che combatta l’oppressore per conto dell’oppresso, è un’operazione di facciata. Si tratta di incorporare un piccolo segmento di persone emarginate dalla società in strutture ingiuste per perpetuarle.

Il gruppo di un corso che ho tenuto in un carcere di massima sicurezza del New Jersey ha scritto “Caged”, un’opera teatrale sulla loro vita. L’opera è stata rappresentata per quasi un mese al Passage Theatre di Trenton, nel New Jersey, dove ha registrato il tutto esaurito quasi ogni sera. Successivamente è stata pubblicata da Haymarket Books. I 28 studenti della classe hanno insistito affinché l’agente di custodia della storia non fosse bianco. Era troppo facile, dicevano. Era una finzione che permette alle persone di semplificare e mascherare l’apparato oppressivo di banche, aziende, polizia, tribunali e sistema carcerario, che assumono persone diverse. Questi sistemi di sfruttamento e oppressione interna devono essere presi di mira e smantellati, indipendentemente da chi assumono.

Il mio libro, “La nostra classe: Trauma and Transformation in an American Prison”, utilizza l’esperienza della scrittura dell’opera teatrale per raccontare le storie dei miei studenti e trasmettere la loro profonda comprensione delle forze repressive e delle istituzioni schierate contro di loro, le loro famiglie e le loro comunità. Potete vedere la mia intervista in due parti con Hugh Hamilton su “La nostra classe” qui e qui.

L’ultima opera di August Wilson, “Radio Golf”, aveva preannunciato la direzione che avrebbero preso la diversità e le politiche identitarie prive di coscienza di classe. Nella pièce, Harmond Wilks, un immobiliarista istruito dalla Ivy League, sta per lanciare la sua campagna per diventare il primo sindaco nero di Pittsburgh. Sua moglie, Mame, aspira a diventare addetta stampa del governatore. Wilks, navigando nell’universo dell’uomo bianco fatto di privilegi, affari, ricerca di uno status e gioco del golf nel country club, deve asportare e negare la sua identità. Roosevelt Hicks, che era stato compagno di stanza di Wilk all’università Cornell ed è vicepresidente della Mellon Bank, è il suo socio in affari. Sterling Johnson, il cui quartiere Wilks e Hicks stanno facendo pressioni affinché la città lo dichiari degradato per poterlo radere al suolo per il loro progetto di sviluppo multimilionario, dice a Hicks:

Sai cosa sei? Mi ci è voluto un po’ per capirlo. Sei un negro. I bianchi si confondono e ti chiamano negro, ma non lo sanno come lo so io. Io so la verità. Sono un negro. I negri sono la cosa peggiore della creazione di Dio. I negri hanno stile. I negri hanno la cecità. Un cane sa di essere un cane. Un gatto sa di essere un gatto. Ma un negro non sa di essere un negro. Pensa di essere un bianco.

Terribili forze predatorie stanno divorando il Paese. I corporativisti, i militaristi e i mandarini politici che li servono sono il nemico. Il nostro compito non è quello di renderle più attraenti, ma di distruggerle. Tra noi ci sono autentici combattenti per la libertà di tutte le etnie e provenienze, la cui integrità non permette loro di servire il sistema di totalitarismo invertito che ha distrutto la nostra democrazia, impoverito la nazione e perpetuato guerre senza fine. La diversità, quando serve agli oppressi, è una risorsa, ma una truffa quando serve agli oppressori.

FONTE: https://open.substack.com/pub/chrishedges/p/listen-to-this-article-woke-imperialism?r=1tqdxn&utm_campaign=post&utm_medium=email


Woke Imperialism

Woke culture, devoid of class consciousness and a commitment to stand with the oppressed, is another tool in the arsenal of the imperial state.

Identity Politics – by Mr. Fish

The brutal murder of Tyre Nichols by five Black Memphis police officers should be enough to implode the fantasy that identity politics and diversity will solve the social, economic and political decay that besets the United States. Not only are the former officers Black, but the city’s police department is headed by Cerelyn Davis, a Black woman. None of this helped Nichols, another victim of a modern-day police lynching.

The militarists, corporatists, oligarchs, politicians, academics and media conglomerates champion identity politics and diversity because it does nothing to address the systemic injustices or the scourge of permanent war that plague the U.S. It is an advertising gimmick, a brand, used to mask mounting social inequality and imperial folly. It busies liberals and the educated with a boutique activism, which is not only ineffectual but exacerbates the divide between the privileged and a working class in deep economic distress. The haves scold the have-nots for their bad manners, racism, linguistic insensitivity and garishness, while ignoring the root causes of their economic distress. The oligarchs could not be happier.

Did the lives of Native Americans improve as a result of the legislation mandating assimilation and the revoking of tribal land titles pushed through by Charles Curtis, the first Native American Vice President? Are we better off with Clarence Thomas, who opposes affirmative action, on the Supreme Court, or Victoria Nuland, a war hawk in the State Department? Is our perpetuation of permanent war more palatable because Lloyd Austin, an African American, is the Secretary of Defense? Is the military more humane because it accepts transgender soldiers? Is social inequality, and the surveillance state that controls it, ameliorated because Sundar Pichai — who was born in India — is the CEO of Google and Alphabet? Has the weapons industry improved because Kathy J. Warden, a woman, is the CEO of Northop Grumman, and another woman, Phebe Novakovic, is the CEO of General Dynamics? Are working families better off with Janet Yellen, who promotes increasing unemployment and “job insecurity” to lower inflation, as Secretary of the Treasury? Is the movie industry enhanced when a female director, Kathryn Bigelow, makes “Zero Dark Thirty,” which is agitprop for the CIA? Take a look at this recruitment ad put out by the CIA. It sums up the absurdity of where we have ended up.

Colonial regimes find compliant indigenous leaders — “Papa Doc” François Duvalier in Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Mobutu Sese Seko in the Congo, Mohammad Reza Pahlavi in Iran — willing to do their dirty work while they exploit and loot the countries they control. To thwart popular aspirations for justice, colonial police forces routinely carried out atrocities on behalf of the oppressors. The indigenous freedom fighters who fight in support of the poor and the marginalized are usually forced out of power or assassinated, as was the case with Congolese independence leader Patrice Lumumba and Chilean president Salvador Allende. Lakota chief Sitting Bull was gunned down by members of his own tribe, who served in the reservation’s police force at Standing Rock. If you stand with the oppressed, you will almost always end up being treated like the oppressed. This is why the FBI, along with Chicago police, murdered Fred Hampton and was almost certainly involved in the murder of Malcolm X, who referred to impoverished urban neighborhoods as “internal colonies.” Militarized police forces in the U.S. function as armies of occupation. The police officers who killed Tyre Nichols are no different from those in reservation and colonial police forces.

We live under a species of corporate colonialism. The engines of white supremacy, which constructed the forms of institutional and economic racism that keep the poor poor, are obscured behind attractive political personalities such as Barack Obama, whom Cornel West called “a Black mascot for Wall Street.” These faces of diversity are vetted and selected by the ruling class. Obama was groomed and promoted by the Chicago political machine, one of the dirtiest and most corrupt in the country.

“It’s an insult to the organized movements of people these institutions claim to want to include,” Glen Ford, the late editor of The Black Agenda Report told me in 2018. “These institutions write the script. It’s their drama. They choose the actors, whatever black, brown, yellow, red faces they want.”

Ford called those who promote identity politics “representationalists” who “want to see some Black people represented in all sectors of leadership, in all sectors of society. They want Black scientists. They want Black movie stars. They want Black scholars at Harvard. They want Blacks on Wall Street. But it’s just representation. That’s it.”

The toll taken by corporate capitalism on the people these “representationalists” claim to represent exposes the con. African-Americans have lost 40 percent of their wealth since the financial collapse of 2008 from the disproportionate impact of the drop in home equity, predatory loans, foreclosures and job loss. They have the second highest rate of poverty at 21.7 percent, after Native Americans at 25.9 percent, followed by Hispanics at 17.6 percent and whites at 9.5 percent, according to the U.S. Census Bureau and the Department for Health and Human Services. As of 2021, Black and Native American children lived in poverty at 28 and 25 percent respectively, followed by Hispanic children at 25 percent and white children at 10 percent. Nearly 40 percent of the nation’s homeless are African-Americans although Black people make up about 14 percent of our population. This figure does not include people living in dilapidated, overcrowded dwellings or with family or friends due to financial difficulties.  African-Americans are incarcerated at nearly five times the rate of white people.

Identity politics and diversity allow liberals to wallow in a cloying moral superiority as they castigate, censor and deplatform those who do not linguistically conform to politically correct speech. They are the new Jacobins. This game disguises their passivity in the face of corporate abuse, neoliberalism, permanent war and the curtailment of civil liberties. They do not confront the institutions that orchestrate social and economic injustice. They seek to make the ruling class more palatable. With the support of the Democratic Party, the liberal media, academia and social media platforms in Silicon Valley, demonize the victims of the corporate coup d’etat and deindustrialization. They make their primary political alliances with those who embrace identity politics, whether they are on Wall Street or in the Pentagon. They are the useful idiots of the billionaire class, moral crusaders who widen the divisions within society that the ruling oligarchs foster to maintain control. 

Diversity is important. But diversity, when devoid of a political agenda that fights the oppressor on behalf of the oppressed, is window dressing. It is about  incorporating a tiny segment of those marginalized by society into unjust structures to perpetuate them. 

A class I taught in a maximum security prison in New Jersey wrote “Caged,” a play about their lives. The play ran for nearly a month at The Passage Theatre in Trenton, New Jersey, where it was sold out nearly every night. It was subsequently published by Haymarket Books. The 28 students in the class insisted that the corrections officer in the story not be white. That was too easy, they said. That was a feint that allows people to simplify and mask the oppressive apparatus of banks, corporations, police, courts and the prison system, all of which make diversity hires. These systems of internal exploitation and oppression must be targeted and dismantled, no matter whom they employ. 

My book, “Our Class: Trauma and Transformation in an American Prison,” uses the experience of writing the play to tell the stories of my students and impart their profound understanding of the repressive forces and institutions arrayed against them, their families and their communities. You can see my two-part interview with Hugh Hamilton about “Our Class” here and here.

August Wilson’s last play, “Radio Golf,” foretold where diversity and identity politics devoid of class consciousness were headed. In the play, Harmond Wilks, an Ivy League-educated real estate developer, is about to launch his campaign to become Pittsburgh’s first Black mayor. His wife, Mame, is angling to become the governor’s press secretary. Wilks, navigating the white man’s universe of privilege, business deals, status seeking and the country club game of golf, must sanitize and deny his identity. Roosevelt Hicks, who had been Wilk’s college roommate at Cornell and is a vice president at Mellon Bank, is his business partner. Sterling Johnson, whose neighborhood Wilks and Hicks are lobbying to get the city to declare blighted so they can raze it for their multimillion dollar development project, tells Hicks: 

You know what you are? It took me a while to figure it out. You a Negro. White people will get confused and call you a nigger but they don’t know like I know. I know the truth of it. I’m a nigger. Negroes are the worst thing in God’s creation. Niggers got style. Negroes got blindyitis. A dog knows it’s a dog. A cat knows it’s a cat. But a Negro don’t know he’s a Negro. He thinks he’s a white man.

Terrible predatory forces are eating away at the country. The corporatists, militarists and political mandarins that serve them are the enemy. It is not our job to make them more appealing, but to destroy them. There are amongst us genuine freedom fighters of all ethnicities and backgrounds whose integrity does not permit them to serve the system of inverted totalitarianism that has destroyed our democracy, impoverished the nation and perpetuated endless wars. Diversity when it serves the oppressed is an asset, but a con when it serves the oppressors.

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/woke-imperialism

Angela Merkel ricorda ai leader occidentali le ragioni della Russia

di Giuseppe Salamone

Le parole della Merkel rilasciate al Die Zeit qualche giorno fa non sono altro che un riconoscimento pubblico delle ragioni della Russia.
Fino ad adesso, ciò che ha affermato la Merkel era uscito solo dalla bocca di Poroshenko, ex Presidente dell’Ucraina. Non a caso, da quella uscita lì, Poroshenko non ha più aperto bocca. Chissà come mai…

Quando la Merkel afferma che “Gli accordi di Minsk del 2014 sono stati un tentativo di far guadagnare tempo all’Ucraina”, e che “l’Ucraina ha usato questo tempo per diventare più forte”, sta riconoscendo pubblicamente l’inaffidabilità, la pericolosità e la malafede dell’Ucraina e dei paesi occidentali che l’hanno sostenuta negli anni trascorsi da prima del 2014 fino ad oggi.

Bisogna prestare attenzione quando apre bocca la Merkel e stare attenti nell’interpretare ogni singola sua dichiarazione perché la Signora in questione non è una sprovveduta, parla con cognizione di causa e mai a sproposito, ed è stata una delle leader Europee più importanti ed autorevoli almeno dalla seconda guerra mondiale in poi.

Si può dire tutto sulla Merkel, ma non le si può imputare scarsa autonomia politica tantomeno additarla come serva di Washington, cose che invece non si possono dire di altri leader, i quali sono stati e continuano ad essere i cani da guardia della Casa Bianca.

Nessuno ha avuto il coraggio di dire ciò che ha detto la Merkel; e non lo ha fatto perché non “si fida di Putin” come hanno scritto i giornaloni, bensì è esattamente il contrario.

La Merkel si è sempre fidata di Putin e della Russia, ci ha costruito il Nord Stream 2 e lo ha fatto dopo il 2014. Ha costruito il benessere dei Tedeschi ed in parte anche dell’Europa attraverso la collaborazione energetica con la Russia; collaborazione che è stata spezzata dagli USA ricorrendo in ultima istanza anche ad una guerra per procura preparata da decenni che rischia di essere distruttiva per l’intero pianeta.

Esattamente nel 2015, si sono intensificate le collaborazioni tra Russia e Germania per finire quanto prima il nord Stream 2 che avrebbe dovuto giovare tantissimo all’industria e di conseguenza all’economia Tedesca ed Europea. Se fosse vero ciò che scrivono i giornaloni, questo gasdotto per aumentare la cooperazione tra Europa e Russia, non sarebbe stato nemmeno pensato. La Merkel, a differenza di ciò che dicono i giornaloni, si fida di Putin, e le sue parole relative agli accordi di Minsk sopra riportate lo dimostrano.

Se realmente la storia fosse per come ce la racconta la propaganda occidentale, la Merkel non avrebbe mai e poi mai dovuto pronunciare queste frasi proprio perché, accreditano enormemente le ragioni della Russia e accresce ancora di più la popolarità di Putin all’interno della sua opinione pubblica. Se la Merkel avesse voluto “colpire” Putin con queste dichiarazioni, l’unica cosa che avrebbe dovuto fare sarebbe stata quella di tapparsi la bocca, tacere come hanno fatto tutti gli altri leader occidentali su questo punto e non rilasciare questa versione così roboante.

Mentre la grande stampa cerca goffamente di camuffare le parole dell’ex Cancelliera, la stessa mette in mostra chi sono gli Ucraini, chi sono gli occidentali e “riabilita” le ragioni Russe che venivano spacciate come complotti o propaganda. Il messaggio che la Merkel sta lanciando credo sia abbastanza chiaro: dice a quei leader occidentali di abbassare la cresta perché lei le cose le sa, le ricorda tutte, e le potrebbe esternare pubblicamente in qualsiasi momento. E fa anche anche capire nell’intervista che lei la sua carriera politica l’ha finita; e che quindi non ha nulla da perdere nel rivelare le circostanze in cui è stata protagonista.
Qualcun altro che invece gira tra i tappeti rossi Europei invece si, qualcosa da perdere ce l’ha ancora.

Comunque, chi ha voluto intendere, ha inteso. Tra questi intenditori ovviamente non c’è la grande stampa che puntualmente distorce il tutto per servire il padrone. Tanto alla fine, chi li legge, il cervello glielo ha già consegnato.

Pian piano ci stiamo accorgendo che l’Occidente è una bolla in cui sistematicamente i diritti vengono subdolamente violati, soprattutto il diritto ad una corretta informazione.

FONTE: http://www.osservatoriosullalegalita.org/22/acom/12/12salapace.htm

Leggi anche:

Per Angela Merkel gli Accordi di Minsk furono un tentativo di dare tempo all’Ucraina

Special operation should have started earlier, but Russia still hoped for Minsk-2 — Putin

VIDEO: dichiarazioni di Putin (sottotitoli in Italiano)

Libia, migranti, navi: chi detiene la verità ?

Venerdì scorso 25 novembre, la penultima serata del XIV° Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli è stata interrotta da un gruppo di rappresentanti di alcune Ong italiane che hanno bloccato la proiezione di un documentario sulla Libia; “L’urlo”, questo il titolo del film, realizzato da Michelangelo Severgnini, sembra aver scosso e indignato parte della platea che ha protestato in modo scomposto e imposto al resto degli spettatori il blocco della proiezione al 20simo minuto.

Nei report che sono girati in rete si ascoltano accuse di antisemitismo e si definisce il documento una porcheria, una schifezza, ecc. ecc.

Tra coloro che intervengono a giustificare la sospensione (che altri vorrebbero continuare a seguire) troviamo Beppe Caccia e Valentina Brinis che dicono di parlare in rappresentanza rispettivamente di Mediterranea e Open Arms due delle navi che soccorrono da diversi anni i naufraghi provenienti prevalentemente dalla Libia.

Non si intendono, nell’alterco, i motivi specifici di questa indignazione che sembrerebbe essere derivata da alcune interviste a migranti africani in Libia che esprimono valutazioni non troppo conformi a quelle attese.

Il fatto è di una certa gravità; come previsto dal programma si poteva discutere del film alla sua conclusione; invece qualcuno si è sentito nella condizione di imporre con metodi sbrigativi e discutibili, degni di altra tradizione, l’interruzione della visione.

Noi non abbiamo visto il film perché a quanto pare la sua diffusione non è consentita da alcuni dei soggetti promotori e, da quanto sostiene il regista, l’unica possibilità di vederlo è quello di presentazioni limitate in sua presenza in quanto autore.

Non sappiamo quindi quali orridi contenuti o abissi morali contenga.

Una ragione in più per trovare un’occasione per vederlo.

Non ci accodiamo neanche alla polemica emersa nel fine settimana su alcuni blog. O almeno, riteniamo che il fatto che il film fosse stato proposto, fuori concorso, all’interno del Festival mostri l’interesse e l’imparzialità del team organizzatore al quale ciò va riconosciuto.

Quello che invece possiamo a ragione sostenere sulla base del materiale a disposizione è che sulla genesi, sulle condizioni e vicende dei migranti in generale e su quelli provenienti dalla Libia in particolare, non c’è Ong che abbia qualche sorta di primato interpretativo. E se c’è qualche occasione di ascoltare cosa pensano i migranti in prima persona della loro stessa condizione, dei loro paesi, dell’Europa, ecc. si tratta di un’occasione d’oro.

Le Ong dovrebbero fare al meglio il loro meritorio lavoro in mare e in terra. Sul resto, trattandosi di temi pubblici che riguardano tutti, tutti debbono potersi liberamente esprimere, soprattutto quando le vicende di cui si parla derivano da una guerra di aggressione dell’occidente in territorio africano che dura da oltre un decennio e che non accenna a concludersi. Cosa che sembra dimenticata da molti operatori.

In ogni caso, in attesa di vedere il film o leggere il libro-dossier che porta lo stesso titolo, proponiamo di seguito il racconto e le tesi dell’autore, che per dirla tutta, non ci sembrano lontane dalla verità, salvo le opportune verifiche su fatti e contesti specifici citati.

A dicembre del 2018 la FIEI organizzò un evento di una intera giornata a Roma assieme ad una Ong inglese, la Oxfam, in occasione del suo rapporto sull’Africa dell’anno precedente, con molti interventi dall’Italia e da diversi paesi africani. Si intitolava “I migranti, l’Africa, le nostre responsabilità”. Quanto sostiene Michelangelo Severgnini nel video che segue ci sembra confermare la sostanza di quanto ascoltammo in quell’occasione.

Rodolfo Ricci (FIEI)

Sul Convegno citato leggi anche: Africa, smettiamola di rapinarli a casa loro

Video integrale del Convegno FIEI: “I migranti, l’Africa, le nostre responsabilità”


Leggi anche:

Il docufilm “L’Urlo” fa saltare i nervi alle Ong. La destra ne approfitta

Voci dalla Libia – Speciale Fortezza Italia con Michelangelo Severgnini

Di seguito il trailer del film “L’urlo” e l’intervento di Michelangelo Severgnini alla presentazione del film (e del libro) al Goethe Institut di Palermo nell’ambito del Festival delle Letterature migranti, del 15 ottobre scorso.

Ignazio La Russa, l’amico degli americani

Un articolo di Antonio Mazzeo del settembre 2011

Un ministro da adulare, vezzeggiare, sostenere, consigliare, orientare. Una “rarità” di politico con un cuore tutto per Washington e gli interessi a stelle e strisce in Europa e nel mondo. Sacerdote del pensiero atlantico e strenuo paladino delle crociate contro il terrorismo in Africa e Medio oriente. Il più fedele dei Signorsì per piegare le ultime resistenze all’occupazione del territorio da parte di ecomostri e dispositivi di morte. Lui è Ignazio La Russa, ministro della difesa dell’ultimo governo Berlusconi, leader politico cresciuto nelle organizzazioni di estrema destra. A farne un’icona del filo-americanismo in salsa tricolore sono invece i più alti funzionari dell’ambasciata degli Stati Uniti in Italia nei cablogrammi inviati a Washington, da qualche giorno on line sul sito di Wikileaks.

Roma, 5 ottobre 2009. Fervono i preparativi per il viaggio del ministro La Russa negli States dove incontrerà il segretario della difesa Robert Gates. Il vertice è fissato per il 13 ottobre e l’ambasciata di via Veneto emette il cablo top secret, classificato 09ROME1132. Destinatario proprio mister Gates.“Il tuo incontro con Ignazio La Russa giunge in un momento cruciale, con l’Italia che ritiene possibili i tagli al budget destinato alle missioni militari all’estero”. L’establishment USA è preoccupato per i riflessi che ciò potrebbe avere sulla missione NATO-ISAF in Afghanistan, ma per fortuna a dirigere il ministero della difesa del paese partner c’è “un buon amico degli Stati Uniti, forte sostenitore dei comuni interessi per la sicurezza  transatlantica”.

“La Russa – continua il cablo – a differenza di suoi molti colleghi di governo, è stato un rumoroso sostenitore di un forte sistema difensivo e di robuste operazioni all’estero, sin da quando il governo Berlusconi è giunto al potere nel maggio 2008. Sebbene non appartenga allo stretto circolo di Berlusconi, egli è un importante politico alla sua destra – la seconda figura più potente del partito di Alleanza Nazionale che recentemente si è incorporato nel Popolo della Liberta (PdL). Di professione avvocato, La Russa è un accorto stratega politico, il cui aspetto e comportamenti piuttosto bruschi nascondono un’intelligenza acuta e piena padronanza per i dettagli. Sebbene sia spesso accusato di essere più attento ai partiti politici che alle leadership militari, La Russa è uno strenuo difensore dell’aumento delle spese militari e di maggiori protezioni per le truppe italiane impegnate sul campo, ed è popolare tra le forze armate. Egli tiene tantissimo alla sua personale relazione con te e lo ha dimostrato nei passati meeting, negli incontri interministeriali e nelle dichiarazioni alla stampa”.

“La Russa, una rarità in Europa, è un grande sostenitore della missione NATO in Afghanistan e non teme di esporre pubblicamente la necessità di continuare l’impegno dell’Italia in questo paese. Grazie in buona parte alla sua ferma difesa pubblica, la missione ISAF rimane una priorità italiana di massimo livello. L’obiettivo principale della sua venuta a Washington è di ascoltare da te la posizione assunta dagli Stati Uniti sul futuro della missione in Afghanistan alla luce del report di McChrystal. Il vostro incontro gli darà l’orientamento e gli argomenti per continuare a sostenere efficacemente la causa in Parlamento, sulla stampa, e all’interno del governo. Subito dopo, dovrà ottenere il consenso in consiglio dei ministri per un nuovo decreto che finanzi l’attività all’estero di 9.000 militari italiani, 3.100 dei quali da destinare alla missione ISAF, 2.300 a UNIFIL e 1.900 a KFOR. Per ottenerlo, dovrà respingere le richieste del ministero delle finanze di maggiori tagli al bilancio della difesa e trattare con un partner minore della coalizione del presidente Berlusconi, Umberto Bossi, leader della Lega Nord, che ha espresso scetticismo sulla missione afgana a seguito dell’attentato del 17 settembre a Kabul in cui sono stati uccisi sei soldati italiani. La Russa vorrà essere rassicurato da te sul fatto che gli Stati Uniti hanno implementato una chiara strategia sulla scia delle valutazioni fatte da McChrystal, dato che dovrà sostenere l’aumento del numero dei militari italiani e delle risorse, come richiesto dalla NATO”. 

Secondo i diplomatici statunitensi, il ministro potrebbe pure avere un ruolo importante per impedire il ritiro o il drastico ridimensionamento del contingente italiano schierato in Libano nell’ambito della missione UNIFIL. “La Russa – scrivono – come molti nel centro-destra italiano, tende a considerare UNIFIL come una missione “soft” ereditata dal governo Prodi di centro-sinistra, ma un tuo segnale che gli Stati Uniti non vogliono la riduzione della missione e preferirebbero che l’Italia mantenesse l’odierno livello delle truppe – anche se no al costo dell’impegno militare in Afghanistan – lo aiuterebbe a sostenere la causa in consiglio dei ministri. Con sufficienti volere politico e risorse finanziarie, l’Italia può continuare a mantenere in vita entrambe le missioni con la forza di oggi o meglio”.

La Russa viene inoltre ritenuto l’uomo chiave per conseguire gli obiettivi di potenziamento qualitativo e numerico delle installazioni militari USA presenti sul territorio italiano. “L’Italia è il nostro più importante alleato in Europa per proiettare la potenza militare nel Mediterraneo, in Nord Africa e in Medio oriente. I cinque maggiori complessi militari (Napoli, Sigonella, Camp Darby, Vicenza e Aviano) ospitano approssimativamente 13.000 tra militari statunitensi e personale civile del Dipartimento della difesa, 16.000 familiari e 4.000 impiegati italiani. Miglioramenti o cambiamenti di queste infrastrutture potrebbero generare controversie con i politici locali e noi contiamo sul sostegno politico ai più alti livelli, così com’è stato in passato”. “L’approvazione e il sostegno del governo italiano al progetto di espansione dell’aeroporto Dal Molin di Vicenza per consentire il consolidamento del 173rd Airborne Brigade Combat Team è un esempio positivo di questo tipo di collaborazione” prosegue il cablo. “A breve termine, possiamo richiedere l’aiuto di La Russa su una serie di problemi relativi alle basi militari, ad esempio per la nostra richiesta di riconoscimento formale, da parte del governo italiano, del sito di supporto US Navy a Gricignano (Napoli) quale base militare nell’ambito del NATO SOFA del 1951 (l’accordo sullo status delle forze militari straniere ospitate in un paese in ambito alleato) e del Bilateral Infrastructure Agreement del 1954, e per l’approvazione della costruzione del nuovo sistema di comunicazione globale satellitare Mobile User Objective System (MUOS) della marina militare USA all’interno del Navy Radio Transmitter Facility di Niscemi, in Sicilia. In passato La Russa ha fatto, su nostra richiesta, utili dichiarazioni pubbliche sulla questione MUOS. Un tuo segnale di apprezzamento per il suo sostegno su questo punto aiuterebbe a focalizzare la sua attenzione sulle arcane questioni tecniche e legali che ruotano attorno alla nostra presenza miliare in Italia”.

Il 22 gennaio 2010 è l’ambasciatore David H. Thorne a tessere in prima persona le lodi del ministro italiano in un secondo cablogramma inviato direttamente al segretario Gates in procinto di raggiungere l’Italia a febbraio. “Mi sono incontrato con La Russa il 19 gennaio, poco prima che egli inviasse la portaerei Cavour ad Haiti con un carico di aiuti umanitari ed elicotteri per il loro trasporto. Il suo approccio sulla crisi di Haiti è tipica del suo stile: è un leader orientato all’azione che fa le cose con poco rumore o ostentazione”. “La Russa – aggiunge il diplomatico – è felice che tu abbia accettato il suo invito e sta lavorando alacremente per assicurare che il vostro meeting a Roma dia visibilità nel migliore dei modi la relazione bilaterale Italia-Stati Uniti nel campo della difesa che lui sta cercando di rafforzare ed espandere in tutti i modi. La Russa, con l’attivo supporto del ministro degli esteri Frattini, è stato il nostro campione nell’interazione con l’Italia (…) Egli è stato la voce più forte in consiglio dei ministri a favore dei nostri comuni interessi nell’ambito della sicurezza…”.

Thorne rileva che la vista di Gates “dimostrerà pubblicamente che l’Italia è all’interno del più stretto circolo dei nostri partner europei”, “faciliterà l’approvazione parlamentare per l’invio di altri 1.000-1.200 militari in Afghanistan” e “consentirà a La Russa di pronunciarsi su altri obiettivi chiave USA”. “Egli ha risposto immediatamante alla tua telefonata del 25 novembre per uno sforzo concertato in vista di un maggiore impegno delle truppe in Afghanistan. La Russa e il ministro Frattini hanno convinto il premier Berlusconi ad approvare ed annunciare l’aumento di 1.000 militari prima di aver consultato il Parlamento, assicurando in tal modo che l’Italia fosse il primo paese della NATO a farlo”.

Per l’ambasciatore, La Russa non si risparmierà pure nel sostenere le posizioni USA in merito al procedimento giudiziario contro il colonnello dell’aeronautica militare statunitense Joseph Romano, già comandante del 31st Security Forces Squadron di Aviano, implicato nel vergognoso affaire del rapimento CIA-servizi segreti italiani dell’ex imam di Milano, Abu Omar. “La Russa è stato di grande aiuto per persuadere il ministro della Giustizia a sostenere le nostre asserzioni affinché venga applicata la giurisdizione prevista dal NATO SOFA per il caso che vede imputato il colonnello Romano. La Russa, un avvocato di successo ed esperienza, in qualità di ministro della difesa non è un attore chiave nelle questioni giudiziarie e, come il resto del governo, ha pochissima influenza sul potere giudiziario italiano, assai indipendente. Noi abbiamo sollevato ripetutamente la nostra posizione con i leader italiani più importanti e La Russa comprende che la questione continua a essere rilevante per i militari USA. La Russa ti vorrà offrire l’aiuto che può dare, ma potrebbe riconoscere la propria impotenza di fronte ad un ordinamento giudiziario testardo che resta rinchiuso in un amaro e lungo conflitto con il presidente del consiglio Berlusconi per vecchi casi di corruzione”.

A conclusione del lungo cablogramma, Mister Thorne auspica che il viaggio in Italia del segretario Gates possa essere l’occasione per risolvere le due questioni che stanno più a cuore ai comandi USA ospitati in Italia, lo status giuridico della nuova stazione US Navy di Gricignano e il progetto del MUOS di Niscemi. “Sentire che le consideri come due importanti priorità per gli Stati Uniti d’America conferirà a La Russa il potere di fare il meglio per la loro risoluzione”, scrive il diplomatico. “Abbiamo investito più di 500 milioni di dollari per realizzare a Gricignano, che è l’hub di supporto logistico per tutti i comandi US Navy nel Mediterraneo, la sede del principale ospedale navale per la regione europea, due scuole DOD e gli alloggi residenziali per circa 3.000 membri di US Navy e i rispettivi familiari. Nel 2008, durante i negoziati per attualizzare l’accordo sulle installazioni ospitate nell’area di Napoli, lo staff generale del ministero della difesa italiano c’informò che non avremmo più potuto proteggere a lungo il sito con le forze di sicurezza della marina militare USA, poiché sorge su un’area presa in affitto (o meglio, ceduta dal ministero della difesa) e US Navy non ha ottenuto l’autorizzazione specifica che le conferisce lo status d’installazione militare. I legali di US Navy hanno rifiutato le argomentazioni italiane, mostrando la serie di autorizzazioni che gli Stati Uniti hanno ottenuto per il trasferimento della base dall’ex sito di Agnano (che la marina USA ha occupato a partire dal 1950, con tutti i privilegi garantiti dal NATO SOFA), ma i legali dei militari italiani si sono mantenuti fermi nelle loro considerazioni. La loro posizione minaccia non solo la viabilità della base dal punto di vista della sicurezza, ma anche lo status di esenzione fiscale del commissariato, del cambio valute, dell’ospedale e di altre attività al suo interno. Ho chiesto a La Russa di rompere l’empasse con una dichiarazione politica che affermi che Gricignano è un’installazione militare, e lui ha promesso di trovare una soluzione, ma un segnale da parte tua che la sicurezza del nostro personale militare non è negoziabile lo aiuterà a dare massima priorità alla questione…”.

Ancora più “cruciale” l’aiuto che il ministro può fornire per consentire alle forze armate USA d’installare a Niscemi l’antenna del nuovo sistema di telecomunicazione satellitare MUOS. “Una campagna dell’opposizione politica locale in Sicilia ha impedito che US Navy ottenesse l’approvazione finale a realizzare la quarta e ultima stazione terrestre. Quando entrerà in funzione nel 2012, il MUOS consentirà alle unità militari statunitensi (e NATO) presenti in qualsiasi parte del mondo di comunicare istantaneamente con i comandi generali negli Stati Uniti o altrove. Dato che il progetto è seriamente in ritardo (US Navy deve iniziare la costruzione nel marzo 2010 o prevedere di trasferire il sito altrove nel Mediterraneo), ho chiesto a La Russa di aiutarci a fare un passo in avanti con il presidente regionale siciliano Lombardo, il cui ufficio ha negato le necessarie autorizzazioni. La Russa si è detto disponibile, ma ascoltare da te che il MUOS è una priorità USA lo spronerà a spendere il consistente capitale politico nella sua regione d’origine e assicurare che il progetto vada avanti”.

Considerazioni profetiche. Dopo un’offensiva a tutto campo di La Russa e capi militari, Raffaele Lombardo ha ribaltato il suo “No, senza se e senza ma” in un “Sì subito al MUOS!”. Così, l’11 maggio 2011, l’Assessorato Regionale Territorio ed Ambiente ha autorizzato i militari USA ad installare il terminal terrestre MUOS all’interno della riserva naturale “Sughereta” di Niscemi. I lavori sono stati avviati immediatamente. L’EcoMUOStro sorgerà nel nome e per grazia di La Russa e dell’“autonomista” Lombardo.

FONTE: http://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2011/09/ignazio-la-russa-lamico-degli-americani.html

Premio Nobel per il pompiere incendiario della FED

di Tonino D’Orazio

Ho riso non poco all’annuncio del Premio Nobel per l’Economia che è stato assegnato, tra gli altri, a Ben Bernanke, l’ex presidente della FED dal 2006 al 2014. È stato lui che ha officiato come boss della FED, la Banca Centrale americana durante la crisi dei mutui subprime.

È anche un po’ lui che ha creato questa crisi alzando i tassi di interesse per far scoppiare volontariamente la nota bolla immobiliare americana trascinandoci tutti nella famosa crisi dalla quale non ci siamo mai rimessi. Fu lui a non salvare la banca Lehman Brothers provocando l’esplosione dei mercati finanziari.

Ha esportato la crisi finanziaria americana e poi quella economica in tutto il mondo affinché la pagassero gli altri al posto loro, sempre secondo il noto adagio: America first!

Alla fine, questa star che ha abbassato i tassi a zero, usò il “quantitative easing” un’espressione che sembra tecnica, ma che designa qualcosa di vecchio come il mondo… stampare biglietti!

Ha creato miliardi e miliardi, rifilati ai suoi compari in modo che potessero riacquistare a basso prezzo beni massacrati dalla crisi pochi mesi prima.

Quindi è normale che questo genio di 68 anni venga premiato per il suo lavoro e la sua ricerca su “Banche e crisi finanziarie”.

C’è da dire che Ben Bernanke era già noto per essere “LO” specialista della crisi del 29 e della depressione degli anni 30. Per lui, per combattere una grande depressione che è una grande deflazione, era necessario creare molto denaro per evitare precisamente la deflazione e mantenere un minimo di inflazione. Questo ragazzo ha appena ricevuto il Nobel perché ha creato soldi dal nulla per trilioni di dollari per arricchire i suoi compari nell’alta finanza.

I Nobel non valgono più la trippa!

Giusto per informazione, il Premio Nobel per l’Economia non esiste, l’economia non è una scienza. D’altra parte, è solo il premio della Banca di Svezia in onore di Alfred Nobel, che i media chiamano falsamente il Premio Nobel cercando di nob-ilitarlo. Il Premio Riksbank in Scienze Economiche è un premio che riflette, come il Premio Nobel per la Pace, interessi e visioni politiche ben definite. In un certo senso, sono principalmente strumenti di comunicazione che hanno l’effetto di dare peso e legittimità a queste visioni e interessi.

Mi sono sempre chiesto come si possa essere così ingenui da ritenere che tali premi siano necessariamente indicativi di “altissimi livelli di scientificità o di umanità” del lavoro o delle persone così premiate… senza negare che questo possa essere, a volte, anche il caso.

Colonizzatori e colonizzati

di Andrea Zhok

L’altro giorno stavo assistendo ad una bella discussione di tesi avente per oggetto autori dei cosiddetti “postcolonial studies”.

Era tutto molto interessante, ma mentre ascoltavo gli argomenti di Frantz Fanon, Edward Said, ecc. ad un certo punto ho avuto quello che gli psicologi della Gestalt chiamano un’Intuizione (Einsicht, Insight).

Ascoltavo di come gli studi postcoloniali cercano di depotenziare quelle teorie filosofiche, linguistiche, sociali ed economiche per mezzo delle quali i colonialisti occidentali avevano “compreso” i popoli colonizzati proiettandovi sopra la loro autopercezione.

Ascoltavo di come veniva analizzata la natura psicologicamente distruttiva del colonialismo, che imponendo un’identità coloniale assoggettante intaccava la stessa salute mentale dei popoli soggiogati.

Queste ferite psicologiche, questa patogenesi psichiatrica avevano luogo in quanto lo sguardo coloniale toglieva al colonizzato la capacità di percepirsi come “essere umano pienamente riuscito”, perché e finché non riusciva ad essere indistinguibile dal colonizzatore.

Ma tale compiuta assimilazione era destinata a non avvenire mai, ad essere guardata sempre come ad un ideale estraneo ancorché bramato. Di conseguenza il subordinato era condannato ad una esistenza dimidiata, in una sorta di mondo di seconda classe, irreale.

Quest’inferiore dignità rispetto alla cultura colonizzante finiva per inculcare una mentalità insieme servile e frustrata, perennemente insoddisfatta.

Di fronte al rischio di perenne dislocazione mentale una parte dei colonizzati reagiva cercando di fingere che la propria condizione subordinata era proprio ciò che avevano sempre desiderato.

D’altro canto, con il consolidarsi del dominio coloniale la stessa capacità di organizzare la propria esistenza in una forma diversa da quella del colonizzatore andava impallidendo, con sempre meno gente che aveva memoria del mondo di “prima”.

Il passo finale decisivo era l’adozione della lingua del colonizzatore, che il colonizzato parlava naturalmente sempre in modo subottimale e riconoscibile come derivato. Nel momento in cui i colonizzati iniziano ad adottare la lingua dei colonizzatori essi importano lo sguardo degli oppressori e le loro strutture di alienazione: il colonizzato introiettando lo sguardo del colonizzatore finiva per generare forme di sistematico autorazzismo.

Ecco, mentre sentivo tutte queste cose, ragionavo, come fanno tutti, assumendo che “noi” fossimo i colonizzatori e gli altri i colonizzati.

Ma poi, d’un tratto, lo slittamento gestaltico, l’intuizione.

D’un tratto ho visto che immaginarci come quel “noi” era a sua volta frutto della nostra introiezione della cultura dei colonizzatori.

Noi, come italiani, o mediterranei, dopo essere stati colonizzati dagli angloamericani, ne abbiamo adottato lo sguardo fino ad immaginare che “noi” fossimo come loro, che fossimo noi ad avere sulla coscienza secoli di tratta degli schiavi e di sfruttamento coloniale imperialistico con cui fare i conti (innalzando un paio di patetici e fallimentari episodi in Libia e nel corno d’Africa come se giocassero nella stessa lega con i professionisti).

Nell’ultimo mezzo secolo, abbiamo adottato pienamente e senza remore tutte le dinamiche dei popoli assoggettati, fantasticando che la “vita vera” fosse quella che ci arrivava come immaginario d’oltre oceano, dimenticando tutto ciò che avevamo ed eravamo, per proiettarci nell’esistenza superiore dei colonialisti, pronti ad assumerne i peccati nella speranza che ciò ci assimilasse, almeno da quel punto di vista, al modello irraggiungibile.

Questa condizione di esistenza a metà, tremebonda e felice di essere assoggettata, ma frustrata dal nostro essere ancor sempre distanti dal modello, ha creato ondate di autorazzismo inestinguibile e ha bruciato tutte le possibilità di rinascita.

In sempre maggior misura tutta la nostra cultura, da quella popolare a quella accademica ha iniziato questo processo di mimesi, immaginando che se farfugliavamo qualche neologismo in inglese o se ne infarcivamo i documenti ufficiali (dai programmi scolastici alle direttive ministeriali) avremmo magicamente acquisito la potenza del nostro santo oppressore.

Come paese sotto occupazione ci siamo inventati di essere “alleati” degli occupanti, e mentre eravamo orgogliosi del nostro acume nel denunciare “governi fantoccio” in giro per il mondo non vedevamo quelli che si succedevano (e succedono) in casa nostra.

In tutta questa storia di falsa coscienza conclamata, di cui si dovrebbero narrare le vicende in un libro apposito, siamo sempre rimasti un passo al di sotto della consapevolezza di ciò che siamo e possiamo.

Oggi che gli orientamenti della potenza occupante danno segni di progressivo disinteresse per noi – salvo che come ponte di volo per cacciabombardieri – oggi forse si presenta per la prima volta dopo tre quarti di secolo la possibilità di uscire da questa condizione di falsa coscienza.

Tra non molto saremo forse in grado di applicare lo sguardo dell’emancipazione coloniale anche a noi stessi. Sarà una presa di coscienza dolorosa e vi si opporranno forze enormi, ma il processo è avviato e con il fatale deterioramento della situazione interna esso emergerà sempre di più.

FONTE: Pagina Facebook di Andrea Zhok

https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/23470-andrea-zhok-colonizzatori-e-colonizzati.html?auid=76958

Chi controlla l’Ucraina

Chi comanda davvero l’Ucraina? Zelensky è un leader carismatico o una marionetta nelle mani di altri soggetti? In questa intervista Franco Fracassi racconta a Visione TV chi davvero governa con pugno d’acciaio l’Ucraina, con quali mezzi ha raggiunto il potere e quali finalità porta avanti. E il quadro che ne esce è sconvolgente.

Le sottigliezze della retorica di sinistra

di Tonino D’Orazio.

Il fatto sconcertante è che molti intellettuali di sinistra “rispettati” sono in realtà guardiani dell’impero. Opposizione controllata. Tra queste persone, l’anticomunismo e l’antisocialismo sono profondi e le mezze verità sono abilmente brandite per rivendicare un’elevata imparzialità.

Mentre i media cosiddetti liberali e conservatori – tutti al soldo delle agenzie di intelligence – riversano la propaganda più sfacciata su Russia e Ucraina, così evidente che diventerebbe comica se non fosse così pericolosa, gli autoproclamati intenditori ingeriscono anche messaggi più sottili, spesso da media alternativi.

Esiste un ottimo esempio di resoconto fuorviante, in cui la verità si mescola con le bugie per trasmettere una narrativa “liberale”, che sostiene fondamentalmente le élite al potere mentre sembra combatterle. Questa non è una novità, ovviamente, dal momento che questo è il modus operandi di tutti i media aziendali, ciascuno a suo modo ideologico e spesso disonesto, come The New York Times, CBS, The Washington Post, The New York Daily News, Fox News, CNN, NBC, ecc. da molto tempo. Anche quelli di stato come la Pravda.

Per esempio in The Intercept, giornale on line del miliardario Pierre Omidyar, ho letto un articolo. Scritto da Alice Speri, il suo titolo suonava ambiguo – “La sinistra in Europa affronta la rinascita della NATO dopo che la Russia invade l’Ucraina” – finché non ho visto il sottotitolo che inizia con queste parole: “La brutale invasione della Russia complica…” Ma ho continuato a leggere. Nel quarto paragrafo, è diventato chiaro dove stava andando l’articolo. Speri scrive che “In Ucraina, in contrasto [con l’Iraq], è stata la Russia a organizzare un’invasione illegale e non provocata, e il sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina è stato considerato da molti cruciale per evitare atrocità anche peggiori di quelle che l’esercito russo aveva già commesso”.

In realtà, sebbene apparentemente siano attivisti europei contro la guerra e contro la NATO, sono presi in un dilemma, l’articolo prosegue affermando che mentre gli Stati Uniti e la NATO sono stati colpevoli di un’espansione ingiustificata per molti anni, la Russia è stata un aggressore in Ucraina e Georgia ed è colpevole di terribili crimini di guerra e così via. Non c’è una parola sul colpo di stato sponsorizzato dagli Stati Uniti del 2014, o sui mercenari sostenuti dalla CIA e dal Pentagono in Ucraina, o sul loro sostegno al battaglione neonazista Azov e sugli anni degli attacchi ucraini nel Donbass dove sono state uccise diverse migliaia di persone. Si presume che queste azioni non siano criminali o provocatorie.

E c’è questo: “La risposta vacillante degli attivisti europei per la pace è sia il riflesso di un’invasione brutale e non provocata che ha sbalordito il mondo (sic) sia di un movimento contro la guerra che si è rimpicciolito ed è stato emarginato nel corso degli anni. La sinistra sia in Europa sia negli Stati Uniti ha lottato per rispondere a un’effusione di sostegno all’Ucraina che va contro gli sforzi decennale per liberare l’Europa da un’alleanza militare guidata dagli Stati Uniti”. In altre parole, l’articolo, stratificato in una retorica contro la guerra, è propaganda anti-russa.

Per esempio lo stesso Noam Chomsky, uno degli intellettuali di massimo rilievo internazionale, parla saggiamente della propaganda dei media statunitensi riguardo alla loro guerra non provocata contro l’Iraq e definisce con precisione la guerra in Ucraina “provocata”. E poi, riguardo alla guerra in Ucraina, lascia cadere questa affermazione sorprendente:

Non credo che ci siano ‘menzogne ​​significative’ nei resoconti di guerra. I media americani generalmente fanno un lavoro molto lodevole nel denunciare i crimini russi in Ucraina. (sic) È prezioso, così come è prezioso che siano in corso indagini internazionali per possibili processi per crimini di guerra”.

In un batter ciglia, Chomsky dice qualcosa di così incredibilmente falso che a meno che non lo si consideri un moderno Galileo, cosa che molti fanno (spesso anch’io da decenni), può passare per vero e si passerà senza problemi al paragrafo successivo. Eppure è un’affermazione così falsa che diventa ridicola. La propaganda dei media sugli eventi in Ucraina è stata così palesemente falsa e ridicola che un lettore attento si fermerà immediatamente e penserà: l’ha appena detto?

Chomsky quindi ora ritiene che i media, come il New York Times e simili, che ha giustamente castigato per la propaganda per gli Stati Uniti in Iraq e Timor Est, per citare solo due esempi, stiano facendo “un lavoro molto onorevole nel riportare crimini in Ucraina”, come se improvvisamente non fossero più i portavoce della CIA e della disinformazione americana. E lo dice mentre siamo nel mezzo del più grande blitz propagandistico dalla prima guerra mondiale, con la sua censura, il suo comitato per la governance della disinformazione, che rintraccia i dissidenti, ecc. che rasenta la parodia di Orwell del 1984. E’ semplicemente magistrale. Spiegare come la propaganda raggiunge i vertici e come opporsi a essa, e poi insinuare un sospetto nella sua analisi: “La rivendicazione di Putin è pari alla nostra”.

Il revanscismo della Russia? Dove? Revanscismo? Quale territorio perduto gli Stati Uniti hanno mai fatto la guerra per recuperare? Iraq, Siria, Cuba, Vietnam, Jugoslavia, Afganistan, ecc. ? La storia degli Stati Uniti non è una storia di revanscismo ma di conquista imperiale, di sequestro e furto o di controllo del territorio, mentre la guerra della Russia in Ucraina è chiaramente un atto di autodifesa dopo anni di provocazioni e minacce USA/NATO/Ucraina, ciò che Hedges riconosce. «Nove settimane di umilianti fallimenti militari»? – mentre controllano gran parte dell’Ucraina orientale e meridionale, compreso il Donbass. Ma il suo falso messaggio è sottilmente intessuto, come quello di Chomsky, in frasi che sono vere.

Ma essendo nel campo dei giochi mentali (troppa coerenza porta alla chiarezza e tradisce il gioco), ci si può aspettare che offuschino continuamente i loro messaggi per servire l’agenda americana in Ucraina e continuare l’espansione della NATO nella guerra non dichiarata con la Russia, per la quale il popolo ucraino sarà sacrificato. Orwell lo chiamò «pensiero doppio»: “Il duplice pensiero è al centro stesso dell’Ingsoc, poiché l’atto essenziale del Partito è quello di ricorrere all’inganno cosciente pur mantenendo la fermezza d’intenzione che va di pari passo con l’onestà totale. Dire bugie deliberate credendoci sinceramente, dimenticare ogni fatto diventato imbarazzante, poi, quando diventa necessario, tirarlo fuori dall’oblio giusto il tempo necessario, negare l’esistenza della realtà oggettiva e, allo stesso tempo, tenere conto della realtà che si nega – tutto questo è indispensabile… con la menzogna sempre davanti alla verità”.

Christian Parenti scrive questo su Chomsky: “La quasi totalità dell’intellighenzia di sinistra è rimasta psichicamente bloccata nel marzo 2020. I suoi membri hanno applaudito la nuova repressione della biosicurezza e hanno definito bugiardi, truffatori e fascisti tutti coloro che non erano d’accordo. Di solito lo hanno fatto senza nemmeno impegnarsi con le prove ed evitando il dibattito pubblico. Tra i più visibili citiamo Noam Chomsky che ha chiamato le persone non vaccinate a “ritirarsi dalla società” e ha suggerito che si dovrebbero lasciar morire di fame se si rifiutavano di sottomettersi”.

La critica di Parenti sulla risposta della sinistra (non solo quella di Chomsky e Hedges) al Covid si applica anche agli eventi fondatori sopra menzionati, il che solleva domande più profonde sulla penetrazione della CIA e della NSA nei media in generale, un argomento che esula dall’ambito di tale analisi.

Per quelli che probabilmente direbbero di quello che ho scritto qui: Perché prendersela con la sinistra? La mia risposta è molto semplice.

Le perniciose agende della destra e dei neoconservatori sono evidenti; nulla è veramente nascosto; si può e si deve quindi opporsi. Ma molti di sinistra servono due maestri e sono molto più sottili. Ostentatamente dalla parte della gente comune e contraria all’imperialismo e alle predazioni delle élite all’interno e all’esterno del paese, sono spesso gli autori di una retorica seducente che sfugge ai loro sostenitori. Una retorica che alimenta indirettamente le guerre alle quali spesso pretendono di opporsi.

L’imminente rivoluzione finanziaria globale: la Russia segue il copione americano

Ellen Brown ha scritto un articolo imperdibile che spiega con rara lucidità quale sia la posta in gioco dello scontro in atto tra Russia e Stati Uniti. Se in Italia esistesse ancora un giornalismo economico (o anche solo un giornalismo), di questo si dovrebbe parlare.
Nessun paese ha sfidato con successo l’egemonia globale del dollaro USA prima d’ora.
L’articolo originale in inglese è nel suo blog e qui di seguito eccone la traduzione.

I critici stranieri hanno sempre stigmatizzato il “privilegio esorbitante” che ha il dollaro USA come valuta di riserva globale. Gli Stati Uniti possono emetterla sostenuti nient’altro che dalla “piena fede e credito degli Stati Uniti “. I governi stranieri, avendo bisogno di dollari, non solo li accettano nel commercio, ma acquistano titoli statunitensi, finanziando efficacemente il governo statunitense e le sue guerre estere.
Ma nessun governo è stato abbastanza potente da rompere quell’accordo fino ad ora. Come è successo e cosa significherà per gli Stati Uniti e le economie globali?

L’ascesa e la caduta del petrodollaro

Innanzitutto, un po’ di storia: il dollaro USA è stato adottato come valuta di riserva globale alla conferenza di Bretton Woods nel 1944, quando il dollaro era ancora sostenuto dall’oro sui mercati globali. L’accordo prevedeva che l’oro e il dollaro sarebbero stati accettati in modo intercambiabile come riserve globali, i dollari sarebbero stati convertibili in oro su richiesta a $ 35 l’oncia. I tassi di cambio di altre valute sono stati fissati rispetto al dollaro.

Ma quell’accordo è stato rotto dopo che la politica “guns and butter” del presidente Lyndon Johnson ha esaurito le casse degli Stati Uniti finanziando sia la guerra in Vietnam che i suoi programmi sociali “Great Society” all’interno. Il presidente francese Charles de Gaulle, sospettando che gli Stati Uniti stessero finendo i soldi, cambiò gran parte dei dollari francesi in oro. Altri paesi seguirono il suo esempio o minacciarono di farlo.

Nel 1971, il presidente Richard Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro in oro a livello internazionale (nota come “chiusura della finestra dell’oro”), al fine di evitare il prosciugamento delle riserve auree statunitensi.

Il valore del dollaro è poi crollato rispetto ad altre valute negli scambi globali. Per sostenere la situazione, Nixon e il Segretario di Stato Henry Kissinger fecero un accordo con l’Arabia Saudita e i paesi OPEC i quali avrebbero venduto petrolio solo in dollari e che tali dollari sarebbero stati depositati nelle banche di Wall Street e della City di Londra. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero difeso militarmente i paesi OPEC.

Il ricercatore economico William Engdahl ha presentato anche le prove di una ‘promessa’ per la quale il prezzo del petrolio avrebbe dovuto quadruplicarsi. Una crisi petrolifera innescata da una breve guerra mediorientale fece quadruplicare il prezzo del petrolio e l’accordo OPEC fu finalizzato nel 1974.

L’accordo è rimasto in essere fino al 2000, quando Saddam Hussein lo ruppe vendendo petrolio iracheno in euro. Il presidente libico Omar Gheddafi seguì l’esempio. Entrambi i presidenti furono assassinati e i loro paesi furono distrutti da una guerra con gli Stati Uniti. Il ricercatore canadese Matthew Ehret osserva :

Non dobbiamo dimenticare che l’alleanza Sudan-Libia-Egitto, sotto la guida combinata di Mubarak, Gheddafi e Bashir, si era mossa per stabilire un nuovo sistema finanziario garantito dall’oro al di fuori del FMI/Banca mondiale per finanziare uno sviluppo su larga scala in Africa.

Se questo programma non fosse stato minato dalla distruzione della Libia guidata dalla NATO, dalla spartizione del Sudan e dal cambio di regime in Egitto, il mondo avrebbe assistito all’emergere di un importante blocco regionale di stati africani che modellava i propri destini al di fuori dei giochitruccati della finanza controllata dagli anglo-americani per la prima volta nella storia.

L’ascesa del PetroRublo

La prima sfida di una grande potenza a quello che divenne noto come il petrodollaro è arrivata nel 2022. Nel mese successivo all’inizio del conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti e gli alleati europei hanno imposto pesanti sanzioni finanziarie alla Russia, in risposta all’invasione militare.

Le misure occidentali includevano il congelamento di quasi la metà dei 640 miliardi di dollari USA di riserve finanziarie della banca centrale russa, l’espulsione di molte delle più grandi banche russe dal sistema di pagamento globale SWIFT, l’imposizione di controlli sulle esportazioni volti a limitare l’accesso della Russia alle tecnologie avanzate, la chiusura del loro spazio aereo e portuale ad aerei e navi russi, oltre a istituire sanzioni personali contro alti funzionari russi e magnati di alto profilo. I russi preoccupati si sono affrettati a ritirare i rubli dalle loro banche e il valore del rublo è precipitato sui mercati globali proprio come il dollaro USA nei primi anni ’70.

Le certezze riposte nel dollaro USA come valuta di riserva globale, sostenuta “dalla piena fiducia e dal credito degli Stati Uniti”, erano state completamente infrante.
Il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato, in un discorso del 16 marzo, che gli Stati Uniti e l’UE non hanno rispettato i loro obblighi e che il congelamento delle riserve russe aveva segnato la fine dell’affidabilità dei cosiddetti ‘asset di prima classe’.
Il 23 marzo Putin ha annunciato che il gas naturale russo sarebbe stato venduto a “paesi ostili” solo in rubli russi, anziché in euro o dollari attualmente utilizzati. Quarantotto nazioni sono considerate “ostili” dalla Russia, inclusi Stati Uniti, Gran Bretagna, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, Singapore, Norvegia, Canada e Giappone (e Italia n.d.t.)

Putin ha osservato che più della metà della popolazione mondiale rimane “amica” della Russia. I paesi che non hanno votato per sostenere le sanzioni includono due grandi potenze, Cina e India, insieme al Venezuela, Turchia e altri paesi del “sud globale”. I paesi “amici”, ha detto Putin, ora possono acquistare dalla Russia in varie valute.

Il 24 marzo, il parlamentare russo Pavel Zavalny ha affermato in una conferenza stampa che il gas potrebbe essere venduto in Occidente per rubli o oro e in paesi “amici” per valuta nazionale o bitcoin.

I ministri dell’Energia delle nazioni del G7 hanno respinto la richiesta di Putin, sostenendo che violava i termini del contratto del gas che richiedevano la vendita in euro o dollari. Ma il 28 marzo, il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha affermato che la Russia “non è impegnata in beneficenza” e non fornirà gas all’Europa gratuitamente (cosa che farebbe se le vendite fossero in euro o dollari che attualmente non può utilizzare nel commercio). Le stesse sanzioni sono una violazione degli accordi sulla disponibilità delle valute sui mercati globali.

Bloomberg riferisce che il 30 marzo Vyacheslav Volodin, presidente della Camera bassa del parlamento russo, ha suggerito in un post su Telegram che la Russia potrebbe ampliare l’elenco delle merci per le quali richiede il pagamento dall’Occidente in rubli (o oro) per includere il grano, petrolio, metalli e altro.

L’economia russa è molto più piccola di quella degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, ma la Russia è un importante fornitore globale di materie prime chiave, inclusi non solo petrolio, gas naturale e cereali, ma anche legname, fertilizzanti, nichel, titanio, palladio, carbone, azoto e metalli delle terre rare utilizzati nella produzione di chip per computer, veicoli elettrici e aeroplani.

Il 2 aprile, il colosso russo del gas Gazprom ha ufficialmente interrotto tutte le consegne in Europa attraverso il gasdotto Yamal-Europa, un’arteria fondamentale per le forniture energetiche europee.

Il professore di economia britannico Richard Werner definisce la mossa russa intelligente, una replica di ciò che fecero gli Stati Uniti negli anni ’70. Per ottenere materie prime russe, i paesi “ostili” dovranno acquistare rubli, facendo salire il valore del rublo sugli scambi globali proprio come il bisogno di petrodollari sostenne il dollaro USA dopo il 1973. Infatti, entro il 30 marzo, il rublo era già tornato ai livelli di un mese prima.

Una pagina al di fuori della sceneggiatura del “sistema americano”.

La Russia sta seguendo gli Stati Uniti non solo nell’agganciare la sua valuta nazionale alla vendita di un bene fondamentale, ma in un protocollo precedente, quello che i leader americani del 19 ° secolo chiamavano il “Sistema Americano” di moneta e credito sovrano.

I suoi tre pilastri erano:
(a) sussidi federali per miglioramenti interni e per finanziare le industrie nascenti della nazione;
(b) dazi per proteggere quelle industrie;
(c) credito facile emesso da una banca nazionale.

Michael Hudson, un ricercatore professore di economia e autore tra l’altro di “Super-Imperialism: The Economic Strategy of American Empire”, osserva che le sanzioni stanno costringendo la Russia a fare ciò che è stata riluttante a fare da sola: tagliare la dipendenza dalle importazioni e sviluppare le proprie industrie e infrastrutture. L’effetto, dice, è equivalente a quello dei dazi protettivi.

In un articolo intitolato “The American Empire Self-destructs”, Hudson scrive delle sanzioni russe (che in realtà risalgono al 2014):

La Russia era rimasta affascinata dall’ideologia del libero mercato per adottare misure per proteggere la propria agricoltura o industria. Gli Stati Uniti hanno fornito l’aiuto necessario imponendole l’autosufficienza interna (tramite sanzioni). Quando gli stati baltici hanno perso il mercato russo del formaggio e di altri prodotti agricoli, la Russia ha rapidamente creato il proprio settore caseario mentre diventava il principale esportatore mondiale di cereali…

La Russia sta scoprendo (o è sul punto di scoprirlo) che non ha bisogno di dollari americani come supporto per il tasso di cambio del rublo. La sua banca centrale può creare i rubli necessari per pagare i salari interni e finanziare la formazione di capitale. Le confische statunitensi potrebbero quindi portare la Russia a porre fine alla filosofia monetaria neoliberista, come Sergei Glaziev ha sostenuto a lungo secondo la Modern Monetary Theory …

I politici americani stanno costringendo i paesi stranieri a fare ciò che non hanno avuto il coraggio di fare da loro stessi, cioè a sostituire il FMI, la Banca Mondiale e altre armi della diplomazia statunitense. Invece i paesi dell’Europa, del Vicino Oriente e del Sud del mondo che si non seguono i loro stessi interessi economici a lungo termine, l’America li sta allontanando, come ha fatto con Russia e Cina.

Glazyev e il reset eurasiatico

Sergei Glazyev, menzionato sopra da Hudson, è un ex consigliere del presidente Vladimir Putin e del ministro per l’integrazione e la macroeconomia della Commissione economica dell’Eurasia, l’organismo di regolamentazione dell’Unione economica eurasiatica (EAEU). Ha proposto di utilizzare strumenti simili a quelli del “Sistema americano”, inclusa la conversione della Banca centrale russa in una “banca nazionale” che emette la propria valuta russa e fornisce credito per lo sviluppo interno. Il 25 febbraio, Glazyev ha pubblicato un’analisi delle sanzioni statunitensi intitolata “Sanctions ande Sovereignty”, in cui affermava:

[Il] danno causato dalle sanzioni finanziarie statunitensi è indissolubilmente legato alla politica monetaria della Banca di Russia… La sua essenza si riduce a uno stretto legame della questione del rublo con gli utili dell’export e con il tasso di cambio rublo-dollaro. Si crea, infatti, nell’economia un’artificiale penuria di denaro, e la rigida politica della Banca Centrale porta a un aumento del costo dei prestiti, che uccide l’attività imprenditoriale e ostacola lo sviluppo delle infrastrutture nel Paese.

Glazyev ha affermato che se la banca centrale sostituisse i prestiti in essere con i suoi partner occidentali con prestiti propri, la capacità di credito russa aumenterebbe notevolmente, prevenendo un calo dell’attività economica senza creare inflazione.

La Russia ha accettato di vendere petrolio all’India nella sua valuta sovrana, la rupia; in Cina in yuan; e alla Turchia in lire turche. Queste valute nazionali possono quindi essere spese per i beni e i servizi venduti da quei paesi.

Auspicabilmente, ogni paese dovrebbe essere in grado di commerciare nei mercati globali nella propria valuta sovrana; ecco cos’è una valuta fiat: un mezzo di scambio sostenuto dall’accordo tra le persone come misura del valore dei propri beni e servizi, sostenuto dalla “piena fede e credito” della nazione.

Ma questo tipo di sistema di baratto globale potrebbe crollare, proprio come fanno i sistemi di baratto locali, se una parte del commercio non volesse più i beni o i servizi dell’altra. In tal caso sarebbe necessaria una valuta di riserva intermedia per fungere da mezzo di scambio.

Glazyev e le sue controparti ci stanno lavorando. In un’intervista tradotta pubblicata su The Saker, Glazyev ha dichiarato:

Attualmente stiamo lavorando a una bozza di accordo internazionale sull’introduzione di una nuova valuta di regolamento mondiale, ancorata alle valute nazionali dei paesi partecipanti e ai beni scambiati che determinano i valori reali. Non avremo bisogno di banche americane ed europee. Nel mondo si sta sviluppando un nuovo sistema di pagamento basato sulle moderne tecnologie digitali con blockchain, dove le banche stanno perdendo importanza.

Russia e Cina hanno entrambe sviluppato alternative al sistema di messaggistica SWIFT da cui alcune banche russe sono state sospese. Il commentatore londinese Alexander Mercouris fa l’interessante osservazione che uscire dallo SWIFT significa che le banche occidentali non possono tracciare le operazioni russe e cinesi.

L’analista geopolitico Pepe Escobar riassume i piani per un reset finanziario eurasiatico/cinese in un articolo intitolato “Salute all’oro russo e al Petroyuan cinese”. Lui scrive:

Ci è voluto molto tempo, ma finalmente stanno emergendoalcuni lineamenti chiave delle nuove fondamenta del mondo multipolare.

Venerdì 1 marzo, dopo una riunione in videoconferenza, l’Eurasian Economic Union (EAEU) e la Cina hanno concordato di progettare il meccanismo per un sistema monetario e finanziario internazionale indipendente. L’EAEU, composta da Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Bielorussia e Armenia, sta stabilendo accordi di libero scambio con altre nazioni eurasiatiche e si sta progressivamente interconnettendo con la Chinese Belt and Road Initiative (BRI).

A tutti gli effetti pratici, l’idea viene da Sergei Glazyev, il più importante economista indipendente della Russia.
Abbastanza diplomaticamente, Glazyev ha attribuito il concretizzarsi della sua idea alle comuni sfide e ai rischi associati al rallentamento economico globale e alle misure restrittive contro gli stati dell’EAEU e la Cina”.

Traduzione: poiché la Cina è una potenza eurasiatica tanto quanto la Russia, devono coordinare le loro strategie per aggirare il sistema unipolare degli Stati Uniti.

Il sistema eurasiatico sarà basato su “una nuova valuta internazionale”, molto probabilmente con riferimento allo yuan, calcolato come indice delle valute nazionali dei paesi partecipanti, nonché dei prezzi delle materie prime.

Il sistema eurasiatico è destinato a diventare una seria alternativa al dollaro USA, poiché l’EAEU potrebbe attrarre non solo le nazioni che hanno aderito alla BRI ma anche i principali attori della Shanghai Cooperation Organization (SCO) e dell’ASEAN. Gli attori dell’Asia occidentale, Iran, Iraq, Siria, Libano, saranno inevitabilmente interessati.

Privilegio esorbitante o onere esorbitante?

Se quel sistema avrà successo, quali saranno gli effetti sull’economia statunitense?
La ‘stratega degli investimenti’ Lynn Alden scrive, in un’analisi dettagliata intitolata “The Fraying of the US Global Currency Reserve System”, che ci sarà dolore a breve termine, ma, a lungo termine, la cosa andrà a beneficio dell’economia statunitense.

L’argomento è complicato, ma la linea di fondo è che il predominio del dollaro come valuta di riserva ha portato alla distruzione della nostra base manifatturiera e all’accumulo di un enorme debito federale. La condivisione dell’onere della valuta di riserva avrebbe l’effetto che le sanzioni stanno avendo sull’economia russa: di alimentare le industrie nazionali come farebbero dazi, consentendo la ricostruzione della base manifatturiera americana.

Altri commentatori affermano anche che essere l’unica valuta di riserva globale è più un onere esorbitante che un privilegio esorbitante. La perdita di tale status non porrebbe fine all’importanza del dollaro USA, che è troppo fortemente radicato nella finanza globale per essere rimosso, ma potrebbe significare la fine del petrodollaro come unica valuta di riserva globale e la fine delle devastanti guerre petrolifere finanziate per mantenere il suo dominio.

FONTE: https://storiasegreta.com/2022/04/10/limminente-rivoluzione-finanziaria-globale-la-russia-segue-il-copione-americano/

Lo zar russo della geoeconomia, Sergey Glazyev, introduce il nuovo sistema finanziario globale

di Pepe Escobar (Traduzione da The Cradle)

Il nuovo sistema monetario mondiale, sostenuto da una valuta digitale, sarà sostenuto da un paniere di nuove valute estere e risorse naturali. E libererà il Sud del mondo sia dal debito occidentale che dall’austerità indotta dal FMI.

Sergey Glazyev è un uomo che vive proprio nell’occhio del nostro attuale uragano geopolitico e geoeconomico. Uno degli economisti più influenti al mondo, membro dell’Accademia delle scienze russa ed ex consigliere del Cremlino dal 2012 al 2019, negli ultimi tre anni ha guidato il portafoglio super strategico di Mosca come ministro incaricato dell’integrazione e Macroeconomia dell’Unione economica dell’Eurasia (EAEU).

La recente produzione intellettuale di Glazyev è stata a dir poco trasformativa, sintetizzata dal suo saggio Sanzioni e sovranità e da un’ampia discussione sul nuovo paradigma geoeconomico emergente in un’intervista a una rivista economica russa.

In un altro dei suoi recenti saggi, Glazyev commenta come “sono cresciuto a Zaporozhye, vicino al quale sono in corso pesanti combattimenti per distruggere i nazisti ucraini, che non sono mai esistiti nella mia piccola Patria. Ho studiato in una scuola ucraina e conosco bene la letteratura e la lingua ucraina, che da un punto di vista scientifico è un dialetto russo. Non ho notato nulla di russofobo nella cultura ucraina. Nei 17 anni della mia vita a Zaporozhye, non ho mai incontrato un solo Banderista.

Glazyev è stato gentile a prendersi del tempo dal suo fitto programma per fornire risposte dettagliate a una prima serie di domande in quella che ci aspettiamo diventi una conversazione in corso, incentrata soprattutto sul Sud del mondo. Questa è la sua prima intervista con una pubblicazione straniera dall’inizio dell’Operazione Z. Mille grazie ad Alexey Subottin per la traduzione russo-inglese.

The Cradle: Sei in prima linea in uno sviluppo geoeconomico rivoluzionario: la progettazione di un nuovo sistema monetario/finanziario attraverso un’associazione tra EAEU e Cina, bypassando il dollaro USA, con una bozza che sarà presto conclusa. Potresti forse anticipare alcune delle caratteristiche di questo sistema – che non è certo un Bretton Woods III – ma sembra essere una chiara alternativa al consenso di Washington e molto vicino alle necessità del Sud del mondo?

Glazyev: In un attacco di isteria russofobica, l’élite dominante degli Stati Uniti ha giocato il suo ultimo “asso della briscola” nella guerra ibrida contro la Russia. L’aver “congelato” le riserve valutarie russe nei conti di deposito delle banche centrali occidentali, i regolatori finanziari degli Stati Uniti, dell’UE e del Regno Unito ha minato lo status del dollaro, dell’euro e della sterlina come valute di riserva globali. Questo passo ha fortemente accelerato il continuo smantellamento dell’ordine economico mondiale basato sul dollaro.

Oltre un decennio fa, i miei colleghi dell’Astana Economic Forum ed io abbiamo proposto di passare a un nuovo sistema economico globale basato su una nuova valuta commerciale sintetica basata su un indice delle valute dei paesi partecipanti. Successivamente, abbiamo proposto di espandere il paniere valutario sottostante aggiungendo una ventina di materie prime negoziate in borsa. Un’unità monetaria basata su un paniere così esteso è stata modellata matematicamente e ha dimostrato un elevato grado di resilienza e stabilità.

Più o meno nello stesso periodo, abbiamo proposto di creare un’ampia coalizione internazionale di resistenza nella guerra ibrida per il dominio globale che l’élite finanziaria e di potere degli Stati Uniti ha scatenato sui paesi che sono rimasti fuori dal suo controllo. Il mio libro The Last World War: the USA to Move and Lose , pubblicato nel 2016, ha spiegato scientificamente la natura di questa guerra in arrivo e ne ha sostenuto l’inevitabilità, una conclusione basata su leggi oggettive dello sviluppo economico a lungo termine. Basandosi sulle stesse leggi oggettive, il libro sosteneva l’inevitabilità della sconfitta del vecchio potere dominante.

Attualmente, gli Stati Uniti stanno lottando per mantenere il loro dominio, ma proprio come in precedenza la Gran Bretagna, che ha provocato due guerre mondiali ma non è stata in grado di mantenere il suo impero e la sua posizione centrale nel mondo a causa dell’obsolescenza del suo sistema economico coloniale, è destinata a fallire. Il sistema economico coloniale britannico basato sul lavoro degli schiavi è stato superato dai sistemi economici strutturalmente più efficienti degli Stati Uniti e dell’URSS. Sia gli Stati Uniti che l’URSS erano più efficienti nella gestione del capitale umano in sistemi integrati verticalmente, che dividevano il mondo nelle loro zone di influenza. Dopo la disintegrazione dell’URSS è iniziata una transizione verso un nuovo ordine economico mondiale. Questa transizione sta ora raggiungendo la sua conclusione con l’imminente disintegrazione del sistema economico globale basato sul dollaro, che ha fornito le basi del dominio globale degli Stati Uniti.

Il nuovo sistema economico convergente emerso nella RPC (Repubblica Popolare Cinese) e in India è la prossima inevitabile fase di sviluppo, combinando i vantaggi sia della pianificazione strategica centralizzata e dell’economia di mercato, sia del controllo statale dell’infrastruttura monetaria e fisica e imprenditoria. Il nuovo sistema economico ha unito vari strati delle loro società attorno all’obiettivo di aumentare il benessere comune in un modo sostanzialmente più forte delle alternative anglosassoni ed europee. Questo è il motivo principale per cui Washington non sarà in grado di vincere la guerra ibrida globale che ha iniziato. Questo è anche il motivo principale per cui l’attuale sistema finanziario globale incentrato sul dollaro sarà sostituito da uno nuovo, basato sul consenso dei paesi che aderiscono al nuovo ordine economico mondiale.

Nella prima fase della transizione, questi paesi ricorrono all’utilizzo delle loro valute nazionali e ai meccanismi di compensazione, supportati da swap bilaterali in valuta. A questo punto, la formazione dei prezzi è ancora principalmente guidata dai prezzi in varie borse, denominati in dollari. Questa fase è quasi finita: dopo che le riserve russe in dollari, euro, sterlina e yen sono state “congelate”, è improbabile che un paese sovrano continui ad accumulare riserve in queste valute. La loro sostituzione immediata sono le valute nazionali e l’oro.

La seconda fase della transizione coinvolgerà nuovi meccanismi di tariffazione che non fanno riferimento al dollaro. La formazione dei prezzi nelle valute nazionali comporta sostanziali spese generali, tuttavia, sarà ancora più interessante rispetto alla determinazione dei prezzi in valute “non ancorate” e traditrici come dollari, sterline, euro e yen. L’unico candidato valutario globale rimasto, lo yuan, non prenderà il loro posto a causa della sua inconvertibilità e del limitato accesso esterno ai mercati dei capitali cinesi. L’uso dell’oro come riferimento del prezzo è vincolato dall’inconveniente del suo utilizzo per i pagamenti.

La terza e ultima fase della transizione del nuovo ordine economico riguarderà la creazione di una nuova valuta di pagamento digitale fondata attraverso un accordo internazionale basato sui principi di trasparenza, equità, buona volontà ed efficienza. Mi aspetto che il modello di tale unità monetaria che abbiamo sviluppato svolga il suo ruolo in questa fase. Una valuta come questa può essere emessa da un pool di riserve valutarie dei paesi BRICS, a cui tutti i paesi interessati potranno aderire. Il peso di ciascuna valuta nel paniere potrebbe essere proporzionale al PIL di ciascun paese (basato sulla parità del potere d’acquisto, ad esempio), alla sua quota nel commercio internazionale, nonché alle dimensioni della popolazione e del territorio dei paesi partecipanti.

Inoltre, il paniere potrebbe contenere un indice dei prezzi delle principali materie prime negoziate in borsa: oro e altri metalli preziosi, metalli industriali chiave, idrocarburi, cereali, zucchero, nonché acqua e altre risorse naturali. Per fornire sostegno e rendere la valuta più resiliente, a tempo debito possono essere create rilevanti riserve di risorse internazionali. Questa nuova valuta verrebbe utilizzata esclusivamente per pagamenti transfrontalieri ed emessa nei paesi partecipanti sulla base di una formula predefinita. I paesi partecipanti userebbero invece le loro valute nazionali per la creazione di credito, al fine di finanziare gli investimenti nazionali e l’industria, nonché per le riserve di ricchezza sovrana. I flussi transfrontalieri in conto capitale rimarrebbero disciplinati dalle normative valutarie nazionali.

The Cradle: Michael Hudson chiede specificamente che se questo nuovo sistema consente alle nazioni del Sud del mondo di sospendere il debito in dollari e si basa sulla capacità di pagare (in valuta estera), questi prestiti possono essere legati a materie prime o, per la Cina, una partecipazione tangibile nell’infrastruttura di capitale finanziata da crediti esteri non in dollari?

Glazyev: La transizione al nuovo ordine economico mondiale sarà probabilmente accompagnata dal sistematico rifiuto di onorare gli obblighi in dollari, euro, sterline e yen. A questo proposito, non sarà diverso dall’esempio dato dai paesi emittenti queste valute che hanno ritenuto opportuno rubare riserve valutarie di Iraq, Iran, Venezuela, Afghanistan e Russia per un importo di trilioni di dollari. Dal momento che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’UE e il Giappone si sono rifiutati di onorare i loro obblighi e hanno confiscato la ricchezza di altre nazioni che era detenuta nelle loro valute, perché altri paesi dovrebbero essere obbligati a ripagarli e a pagare i loro prestiti?

In ogni caso, la partecipazione al nuovo sistema economico non sarà vincolata dagli obblighi del vecchio. I paesi del Sud del mondo possono partecipare a pieno titolo al nuovo sistema indipendentemente dai loro debiti accumulati in dollari, euro, sterline e yen. Anche se dovessero adempiere ai loro obblighi in quelle valute, ciò non avrebbe alcun effetto sul loro rating creditizio nel nuovo sistema finanziario. Allo stesso modo, la nazionalizzazione dell’industria estrattiva non provocherebbe interruzioni. Inoltre, se questi paesi riservassero una parte delle loro risorse naturali per il sostegno del nuovo sistema economico, il loro rispettivo peso nel paniere valutario della nuova unità monetaria aumenterebbe di conseguenza, fornendo a quella nazione maggiori riserve valutarie e capacità di credito. 

The Cradle: In uno dei tuoi ultimi saggi, The Economics of the Russian Victory , chiedi “una formazione accelerata di un nuovo paradigma tecnologico e la formazione di istituzioni di un nuovo ordine economico mondiale”. Tra le raccomandazioni, si propone in particolare la creazione di “un sistema di pagamento e regolamento nelle valute nazionali degli Stati membri dell’EAEU” e lo sviluppo e l’attuazione di “un sistema indipendente di regolamenti internazionali nell’EAEU, SCO e BRICS, che potrebbe eliminare la dipendenza critica della Sistema SWIFT controllato dagli USA”. È possibile prevedere una spinta congiunta concertata da parte dell’EAEU e della Cina per “vendere” il nuovo sistema ai membri della SCO, ad altri membri BRICS, ai membri dell’ASEAN e alle nazioni dell’Asia occidentale, dell’Africa e dell’America Latina? E ciò si tradurrà in una geoeconomia bipolare: l’Occidente contro il resto?

Glazyev: In effetti, questa è la direzione in cui siamo diretti. Purtroppo, le autorità monetarie russe fanno ancora parte del paradigma di Washington e rispettano le regole del sistema basato sul dollaro, anche dopo che le riserve valutarie russe sono state prese dall’Occidente. D’altra parte, le recenti sanzioni hanno spinto a un’estesa ricerca interiore tra il resto dei paesi senza blocco del dollaro. Gli “agenti di influenza” occidentali controllano ancora le banche centrali della maggior parte dei paesi, costringendole ad applicare le politiche suicide prescritte dal FMI. Tuttavia, tali politiche a questo punto sono così ovviamente contrarie agli interessi nazionali di questi paesi non occidentali che le loro autorità stanno giustamente crescendo preoccupate per la sicurezza finanziaria.

Evidenzia correttamente i ruoli potenzialmente centrali di Cina e Russia nella genesi del nuovo ordine economico mondiale. Sfortunatamente, l’attuale leadership della CBR (Banca Centrale di Russia) rimane intrappolata all’interno del cul-de-sac intellettuale del paradigma di Washington e non è in grado di diventare un partner fondatore nella creazione di un nuovo quadro economico e finanziario globale. Allo stesso tempo, la CBR doveva già affrontare la realtà e creare un sistema nazionale per la messaggistica interbancaria che non dipendesse da SWIFT, e lo ha aperto anche alle banche estere. Le linee di scambio di valute incrociate sono già state istituite con le principali nazioni partecipanti. La maggior parte delle transazioni tra gli Stati membri dell’EAEU sono già denominate in valute nazionali e la quota delle loro valute nel commercio interno sta crescendo rapidamente.

Una transizione simile sta avvenendo nel commercio con Cina, Iran e Turchia. L’India ha indicato di essere pronta a passare anche ai pagamenti in valute nazionali. Viene fatto un grande sforzo nello sviluppo di meccanismi di compensazione per i pagamenti in valuta nazionale. Parallelamente, è in corso uno sforzo per sviluppare un sistema di pagamento digitale non bancario, che sarebbe collegato all’oro e ad altre materie prime scambiate in borsa: le “stablecoin”.

Le recenti sanzioni statunitensi ed europee imposte ai canali bancari hanno causato un rapido aumento di questi sforzi. Il gruppo di paesi che lavora al nuovo sistema finanziario deve solo annunciare il completamento del quadro e la disponibilità della nuova valuta commerciale e da lì il processo di formazione del nuovo ordine finanziario mondiale accelererà ulteriormente. Il modo migliore per realizzarlo sarebbe annunciarlo alle riunioni regolari SCO o BRICS. Ci stiamo lavorando.

The Cradle: questa è stata una questione assolutamente chiave nelle discussioni di analisti indipendenti in tutto l’occidente. La Banca centrale russa stava consigliando ai produttori d’oro russi di vendere il loro oro sul mercato londinese per ottenere un prezzo più alto di quello che avrebbero pagato il governo russo o la Banca centrale? Non c’era alcuna previsione che l’imminente alternativa al dollaro USA dovesse basarsi in gran parte sull’oro? Come definiresti quello che è successo? Quanti danni pratici ha inflitto questo all’economia russa a breve ea medio termine?

Glazyev: La politica monetaria della CBR, attuata in linea con le raccomandazioni del FMI, è stata devastante per l’economia russa. I disastri combinati del “congelamento” di circa $ 400 miliardi di riserve valutarie e di oltre un trilione di dollari sottratti all’economia dagli oligarchi nelle destinazioni offshore occidentali, sono avvenuti sullo sfondo di politiche altrettanto disastrose della CBR, che includevano tassi reali eccessivamente alti combinati con un flottante gestito del tasso di cambio. Stimiamo che ciò abbia causato un sotto investimento di circa 20 trilioni di rubli e una sottoproduzione di circa 50 trilioni di rubli in beni.

Seguendo le raccomandazioni di Washington, la CBR ha smesso di acquistare oro negli ultimi due anni, costringendo di fatto i minatori d’oro nazionali ad esportare pieni volumi di produzione, che hanno aggiunto fino a 500 tonnellate di oro. In questi giorni l’errore e il danno che ha causato sono molto evidenti. Attualmente, la CBR ha ripreso gli acquisti di oro e, si spera, continuerà con solide politiche nell’interesse dell’economia nazionale invece di “mirare l’inflazione” a beneficio degli speculatori internazionali, come era avvenuto nell’ultimo decennio.

The Cradle: La Fed e la BCE non sono state consultate sul congelamento delle riserve estere russe. Si dice a New York e Francoforte che si sarebbero opposti se gli fosse stato chiesto. Ti aspettavi personalmente il congelamento? E la leadership russa se lo aspettava?

Glazyev: Il mio libro, The Last World War, che ho già menzionato, pubblicato nel lontano 2015, sosteneva che la probabilità che ciò accada alla fine è molto alta. In questa guerra ibrida, la guerra economica e la guerra informativa/cognitiva sono i principali teatri di conflitto. Su entrambi questi fronti, gli Stati Uniti e i paesi della NATO hanno una schiacciante superiorità e non avevo alcun dubbio che ne avrebbero tratto pieno vantaggio a tempo debito.

Ho discusso a lungo per la sostituzione di dollari, euro, sterline e yen nelle nostre riserve valutarie con l’oro, prodotto in abbondanza in Russia. Sfortunatamente, gli agenti di influenza occidentali che occupano ruoli chiave nelle banche centrali della maggior parte dei paesi, così come le agenzie di rating e le pubblicazioni chiave, sono riusciti a mettere a tacere le mie idee. Per fare un esempio, non ho dubbi sul fatto che alti funzionari della Fed e della BCE siano stati coinvolti nello sviluppo di sanzioni finanziarie antirusse. Queste sanzioni sono state costantemente intensificate e vengono applicate quasi istantaneamente, nonostante le ben note difficoltà con il processo decisionale burocratico nell’UE.

The Cradle: Elvira Nabiullina è stata riconfermata alla guida della Banca Centrale Russa. Cosa faresti diversamente rispetto alle sue azioni precedenti? Qual è il principale principio guida implicato nei tuoi diversi approcci?

Glazyev: La differenza tra i nostri approcci è molto semplice. Le sue politiche sono un’attuazione ortodossa delle raccomandazioni del FMI e dei dogmi del paradigma di Washington, mentre le mie raccomandazioni si basano sul metodo scientifico e sull’evidenza empirica accumulata negli ultimi cento anni nei principali paesi.

The Cradle: il partenariato strategico Russia-Cina sembra essere sempre più corazzato, come ribadiscono costantemente gli stessi presidenti Putin e Xi. Ma ci sono voci contrarie non solo in Occidente, ma anche in alcuni circoli politici russi. In questo momento storico estremamente delicato, quanto è affidabile la Cina come alleato per tutte le stagioni della Russia?

Glazyev: Il fondamento del partenariato strategico russo-cinese è il buon senso, gli interessi comuni e l’esperienza di cooperazione di centinaia di anni. L’élite dirigente statunitense ha avviato una guerra ibrida globale volta a difendere la propria posizione egemonica nel mondo, prendendo di mira la Cina come principale concorrente economico e la Russia come principale forza di contrappeso. Inizialmente, gli sforzi geopolitici statunitensi miravano a creare un conflitto tra Russia e Cina. Gli agenti dell’influenza occidentale stavano amplificando le idee xenofobe nei nostri media e bloccando qualsiasi tentativo di transizione verso i pagamenti nelle valute nazionali. Da parte cinese, agenti dell’influenza occidentale stavano spingendo il governo ad allinearsi con le richieste degli interessi statunitensi.

Tuttavia, gli interessi sovrani di Russia e Cina hanno logicamente portato alla loro crescente partnership strategica e cooperazione, al fine di affrontare le minacce comuni provenienti da Washington. La guerra tariffaria degli Stati Uniti con la Cina e la guerra delle sanzioni finanziarie con la Russia hanno convalidato queste preoccupazioni e hanno dimostrato il pericolo chiaro e presente che i nostri due paesi stanno affrontando. Interessi comuni di sopravvivenza e resistenza stanno unendo Cina e Russia, e i nostri due paesi sono economicamente in gran parte simbionti. Si integrano e aumentano i vantaggi competitivi reciproci. Questi interessi comuni persisteranno nel lungo periodo.

Il governo e il popolo cinese ricordano molto bene il ruolo dell’Unione Sovietica nella liberazione del proprio Paese dall’occupazione giapponese e nell’industrializzazione della Cina nel dopoguerra. I nostri due paesi hanno una solida base storica per un partenariato strategico e siamo destinati a collaborare strettamente nei nostri interessi comuni. Mi auguro che il partenariato strategico tra Russia e RPC, rafforzato dall’accoppiamento della One Belt One Road con l’Unione economica eurasiatica, diventi la base del progetto del Presidente Vladimir Putin del Greater Eurasian Partnership e il nucleo del nuovo ordine economico mondiale.

“La Russia sta perdendo la guerra dell’informazione?” – Un’analisi impressionante della guerra congnitiva

di Laura Ruggeri – Strategic Culture

(traduzione di Giuseppe Masala)

Il 10 marzo, quando il direttore della CIA Bill Burns si è rivolto al Senato degli Stati Uniti e ha dichiarato che “la Russia sta perdendo la guerra dell’informazione sull’Ucraina”, ha ripetuto un’affermazione che era già stata amplificata dai media angloamericani dall’inizio delle operazioni militari russe in Ucraina. Sebbene la sua affermazione sia effettivamente vera, non ci dice perché e riflette principalmente la prospettiva dell’Occidente. Come al solito la realtà è molto più complicata.

L’abilità nella “guerra dell’informazione” degli Stati Uniti non ha eguali: quando si tratta di manipolare le percezioni, produrre una realtà alternativa e conseguentemente armare le menti del pubblico, gli Stati Uniti non hanno rivali. Anche la capacità, da parte degli USA, di dispiegare strumenti di potere non militari per rafforzare la propria egemonia e attaccare qualsiasi stato intenda metterla in discussione, è innegabile. Ed è proprio per questo che alla Russia non è rimasta altra scelta che quella dell’utilizzo dello strumento militare per difendere i propri interessi vitali e la propria sicurezza nazionale.

La guerra ibrida – e la guerra dell’informazione come parte integrante di essa – si è evoluta nella dottrina standard degli Stati Uniti e della NATO, ma non ha reso la forza militare ridondante, come dimostrano le guerre per procura. Con capacità di guerra ibrida più limitate, la Russia deve invece fare affidamento sul suo esercito per influenzare l’esito di uno scontro con l’Occidente che Mosca considera esistenziale. E quando la propria esistenza come nazione è a rischio, vincere o perdere la guerra dell’informazione nel metaverso occidentale diventa piuttosto irrilevante. Vincere a casa e assicurarsi che i propri partner e alleati comprendano la posizione e la logica dietro le proprie azioni ha, inevitabilmente, la precedenza.

L’approccio della Russia alla questione ucraina è notevolmente diverso da quello dell’Occidente. Per quanto riguarda Mosca, l’Ucraina non è una pedina sulla scacchiera, ma piuttosto un membro della famiglia con cui la comunicazione è diventata impossibile a causa delle continue ingerenze straniere portate avanti attraverso delle operazioni di influenza. Secondo Andrei Ilnitsky – consigliere del Ministero della Difesa russo – l’Ucraina è il territorio in cui il mondo russo ha perso una delle battaglie strategiche della guerra cognitiva. Avendo perso questa battaglia, la Russia si sente ancora più obbligata a vincere la guerra; una guerra per riparare i danni a un paese che storicamente ha sempre fatto parte del mondo russo e per prevenire gli stessi danni in patria. È piuttosto eloquente che quella che USA-NATO chiamano una “guerra dell’informazione” viene chiamata da questo eminente stratega russo, “mental’naya voina“, cioè guerra cognitiva. Essendo principalmente soggetto passivo di operazioni di informazione/influenza, la Russia ne ha conosciuto e studiato gli effetti deleteri.

Sebbene sia troppo presto per prevedere la traiettoria del conflitto tra  Russia e Ucraina e dunque i suoi esiti politici finali, uno dei principali aspetti negativi è che l’impiego da parte degli Stati Uniti di tutti gli strumenti di guerra ibrida per istigare e alimentare questo conflitto, non ha lasciato alla Russia alcuna alternativa a quello del  ricorso al potere militare per risolverlo. Non si può vincere la battaglia per i cuori e le menti quando il proprio avversario controlla entrambi. Occorre prima ripristinare le condizioni che permetteranno di raggiungere menti e cuori e anche allora ci vorranno anni per rimarginare le ferite e annullare i condizionamenti psicologici.

Sebbene la disinformazione e l’inganno siano sempre stati parte della guerra, e le informazioni siano state a lungo utilizzate per supportare le operazioni di combattimento, nell’ambito della guerra ibrida l’informazione gioca un ruolo ancora più centrale, tanto che in Occidente il combattimento è visto principalmente attraverso essa e vaste risorse vengono assegnate per influenzare le operazioni sia in ambito online che offline. Nel 2006 il Magg. Generale degli Stati Uniti in pensione Robert H. Scales ha spiegato quella che era una nuova filosofia di combattimento che sarebbe stata in seguito adottata ufficialmente nella dottrina della NATO: “La vittoria sarà definita più in termini di acquisizione delle alture psico-culturali piuttosto che geografiche”.(1)

Nel lessico USA-NATO, informazione e influenza sono parole intercambiabili. “Le informazioni comprendono e aggregano numerosi attributi sociali, culturali, cognitivi, tecnici e fisici che agiscono e influiscono sulla conoscenza, la comprensione, le credenze, le visioni del mondo e, in definitiva, le azioni di un individuo, gruppo, sistema, comunità o organizzazione“. (2)

L’arsenale della guerra dell’informazione degli Stati Uniti non ha eguali perché controlla Internet e i suoi principali collettori (ma anche guardiani) di contenuti come Google, Facebook, YouTube, Twitter, Wikipedia… Ciò significa che gli Stati Uniti possono esercitare il controllo sulla noosfera, ovvero quel “regno della mente che abbraccia il globo” che la RAND nel 1999 presentava già come parte integrante della strategia dell’informazione americana. Per questo motivo nessun governo può ignorare il profondo impatto di Internet sull’opinione pubblica, sulla politica e sulla sovranità nazionale. Poiché né la Russia né la Cina possono battere gli Stati Uniti in un gioco in cui questi ultimi detengono tutte le carte; l’unica cosa intelligente da fare è lasciare il tavolo da gioco, che è esattamente ciò che stanno facendo entrambe le potenze, ognuna attingendo ai propri punti di forza specifici.

La “guerra dell’informazione sull’Ucraina” non è iniziata in risposta alle operazioni militari russe nel 2022, ma è in corso da molti decenni. Dal 1991 gli Stati Uniti hanno speso miliardi di dollari e l’UE decine di milioni per separare questo paese dalla Russia, per non parlare poi dei soldi spesi dalla Open Society di Soros. Nessun prezzo è stato ritenuto troppo alto a causa dell’importanza dell’Ucraina sulla scacchiera geopolitica. Le operazioni di influenza degli Stati Uniti hanno portato a due rivoluzioni colorate; prima la Rivoluzione Arancione (2004–2005) e poi l’EuroMaidan (2013–14). Dopo il sanguinoso colpo di stato del 2014, con la rimozione di qualsiasi contrappeso, l’influenza USA-NATO si è trasformata in pieno controllo e repressione violenta del dissenso. Coloro che si erano opposti a Maidan vivevano nella paura: il massacro di Odessa è stato un costante promemoria del destino che sarebbe toccato a chiunque avesse osato opporsi al nuovo regime.

La promozione delle tendenze neonaziste si accrebbe (dal 2014 NdT) parallelamente al culto del collaborazionista nazista Stepan Bandera; membri di organizzazioni terroristiche come il Battaglione Azov e altri gruppi ultranazionalisti si unirono al governo e alla Guardia nazionale ucraina. Il passato fu cancellato e la storia riscritta, i monumenti sovietici furono distrutti, i cosiddetti russofoni (i cittadini ucraini di lingua madre russa) subirono minacce e discriminazioni quotidiane, i partiti filo-russi furono banditi così come i loro organi di informazione. La russofobia è stata inculcata nei bambini a partire dall’asilo. Solo nel 2020 i progetti ultranazionalisti, come per esempio il “Corso per giovani banderisti” e il “Festival dello spirito ucraino di Banderstadt” hanno ricevuto quasi la metà di tutti i fondi stanziati dal governo ucraino per le organizzazioni di bambini e giovani.

Invece gli ucraini che vivevano nelle Repubbliche popolari separatiste di Donetsk e Lugansk non potendo essere presi di mira da operazioni di influenza sono stati presi di mira direttamente a colpi di artiglieria: gli ex compatrioti furono riformulati come nemici quasi dall’oggi al domani.

Sebbene tutti gli indicatori della qualità della vita rivelassero un netto peggioramento, ampi segmenti della popolazione vissero in uno stato permanente di dissonanza cognitiva: fu loro detto che discriminare gli LGBT è sbagliato ma discriminare chi parla russo è invece giusto. Oppure ancora che ricordare i soldati sovietici che avevano combattuto il nazismo nella seconda guerra mondiale e liberato Auschwitz è sbagliato e invece ricordare l’Olocausto è giusto. Poiché la dissonanza cognitiva è una sensazione spiacevole, le persone sono ricorse alla negazione e all’autoinganno, abbracciando così qualsiasi opinione dominante nel loro ambiente sociale al fine di avere sollievo psicologico.

Dal momento che la mentalità di un’intera popolazione non può essere modificata dall’oggi al domani, anche con un esercito di specialisti del comportamento cognitivo, l’operazione è stata realizzata in più fasi. Dapprima con la Rivoluzione Arancione  si è contribuito a promuovere l’identità nazionale ucraina; ma proprio perché questa ha fatto leva sulle differenze culturali e linguistiche esistenti è finita per essere la più divisiva a livello regionale di tutte le rivoluzioni colorate. Gli ucraini occidentali hanno dominato le proteste mentre gli ucraini orientali vi si sono ampiamente opposti. La Rivoluzione Arancione ha avuto dunque un profondo effetto sul modo in cui gli ucraini percepivano se stessi e la propria identità nazionale, ma non è riuscita comunque a recidere i legami politici, culturali, sociali ed economici tra Ucraina e Russia. La maggior parte delle persone su entrambi i lati del confine continuò a considerare i due paesi come inestricabilmente intrecciati.

Una seconda rivoluzione, Euromaidan, avrebbe però portato a termine il lavoro iniziato nel 2004. Questa volta la narrazione ha avuto un fascinazione più ampia sulla popolazione: i suoi sostenitori/realizzatori identificarono nella corruzione e nella mancanza di prospettive economiche come i focus principali capaci di incanalare e dare sfogo alle frustrazioni dei cittadini. Successivamente indicarono nella leadership dell’Ucraina e nei suoi legami con la Russia la principale causa dei problemi del Paese e infine contrapposero a questa la prospettiva dell’integrazione nell’UE come la panacea di tutti i mali.

Trasformare la Russia in un capro espiatorio per tutti i problemi sociali ed economici dell’Ucraina, alimentando così un sentimento anti-russo era esattamente ciò che una miriade di attori finanziati dagli Stati Uniti  avevano fatto sin dalla caduta dell’Unione Sovietica. L’Ucraina, come il resto dei paesi post-sovietici, pullulava di organi di informazione, ONG, educatori, gruppi della diaspora, attivisti politici, imprenditori e leader della comunità il cui status era artificialmente gonfiato dal loro accesso alle risorse straniere e alle reti internazionali.

Questi “vettori di influenza” si sono presentati come fornitori di “standard globali e migliori pratiche”, “regole democratiche” e  “sviluppo partecipativo e responsabile”, utilizzando slogan costruiti con le tecniche del marketing per fare il lavoro prima di demolizione delle pratiche esistenti e dei quadri di riferimento per poi imporre la costituzione di un  nuovo “sistema di valori”, spesso di qualità inferiore. Con il pretesto di combattere la corruzione, offrendo un percorso di modernizzazione e sviluppo, questi attori si sono radicati nella società civile ucraina, plasmandone la coscienza collettiva e demonizzando sia la Russia, sia i politici locali che le figure pubbliche che sostenevano relazioni più strette con Mosca.

Il lavoro di questi agenti di influenza è stato determinante nel demolire visioni del mondo, credenze, valori e percezioni che risalivano all’epoca sovietica, alterando così l’autocomprensione della popolazione e assicurando che le generazioni più giovani ignorassero la storia del proprio paese e abbracciassero una nuova identità immaginaria.

Ma le rivoluzioni colorate richiedono oltre al cervello anche i muscoli per rovesciare prima i governi e poi difendere il potere della nuova classe dirigente emergente. La forza bruta necessaria per intimidire e attaccare coloro che erano insensibili alle operazioni di influenza poteva essere fornita solo da elementi marginali della società che erano stati sedotti dalla retorica ultranazionalista.

Questi gruppi marginali violenti sono stati organizzati e autorizzati ad esercitare una maggiore influenza in Ucraina per poi fare proselitismo reclutando così nelle loro fila nuovi seguaci. Un’identità immaginaria romanzata è stata radicalizzata da assurde affermazioni secondo cui ucraini e russi non possono essere considerati popoli fratelli perché gli ucraini sono “slavi purosangue”, mentre i russi sono “barbari di sangue misto”. Niente era fuori dal comune: eleganti rievocazioni di liturgie naziste come fiaccolate che apparivano impressionanti sui social media; discorsi che facevano eco alla retorica xenofoba e antisemita di Hitler; il culto di Bandera e di coloro che combatterono con i nazisti contro l’esercito sovietico.

Mentre i gruppi esteri (rispetto all’Ucraina NdT) che condividevano la stessa cassetta degli attrezzi ideologica furono etichettati come gruppi estremisti e organizzazioni terroristiche appena oltre il confine, in Ucraina ricevettero consigli, sostegno finanziario e militare dalle forze armate statunitensi e dalla CIA. Allo stesso tempo, lo spin-off presentabile della CIA, il NED, distribuiva fondi, sovvenzioni, borse di studio e premi pubblicizzati sui media agli attivisti di queste campagne globaliste – politicamente corrette – che venivano mandate avanti attraverso il motto “libertà, democrazia e diritti umani“. Quest’ultima coorte dava così una verniciata di bianco ai crimini dei neonazisti. Dopotutto, se i membri di Al-Qaeda che indossavano gli elmetti bianchi in Siria divennero i beniamini dei media occidentali vincendo persino un Oscar, i neonazisti potevano facilmente essere commercializzati come difensori della democrazia.

La popolazione ucraina è stata sottoposta a questo tipo di operazioni psicologiche che anziché agire come un medicinale che cura la malattia portò alla morte del paziente. Tutto questo per fare del paese una testa di ponte da cui lanciare operazioni ostili volte ad indebolire la Russia e a creare una spaccatura tra Mosca e l’Europa. La russofobia divenne una sorta di religione di stato dove chi non la praticava doveva essere emarginato ed eventualmente escluso dal discorso pubblico. La pressione a conformarsi era così forte da compromettere il giudizio sui fatti, sulla storia e sulla realtà.

La costruzione discorsiva di un nemico richiedeva la costante demonizzazione della Russia (Mordor), dei russi (barbari eurasiatici incivili) e dei separatisti del Donbass (selvaggi, subumani).

Quando le narrazioni neonaziste e la russofobia furono normalizzate e autorizzate per plasmare sia le politiche che il discorso dominante, quando le persone furono private del pensiero critico e dalla conoscenza della propria storia reale a tal punto da accettare l’intrapresa di una guerra di otto anni contro i loro stessi connazionali, significava inequivocabilmente che le menti delle persone erano state armate.

La coscienza pubblica è stata attivamente manipolata sia a livello di significato che a livello di emozioni. La percezione selettiva e le fantasie consolatorie furono alcuni dei meccanismi psicologici che assicuravano alla popolazione di gestire lo stress di vivere in uno stato di dissonanza cognitiva in cui fatti e finzione non potevano più essere separati. Offrendo un passaggio “facile” attraverso un mondo complesso, queste narrazioni fornivano la certezza emotiva a scapito della comprensione razionale.

La decisione emotivamente soddisfacente di credere, di avere fede che veniva instillata dalla propaganda a cui erano sottoposti gli individui creava una barriera contro la quale si infrangevano le contro-argomentazioni e i  fatti scomodi. L’elezione di un attore sulla base della sua convincente interpretazione a presidente in una serie tv intitolata “Servant of the People” ha confermato la riuscita sostituzione della politica con una parodia che era solo spettacolare simulazione della stessa: non era semplicemente la sovrapposizione di illusione e realtà, ma l’autenticazione dell’illusione come più reale del reale stesso. La maggior parte degli ucraini ha votato per un partito nuovo di zecca che prende il nome dalla fiction televisiva e nasce da un’idea delle stesse persone. Un partito che ha persino utilizzato cartelloni pubblicitari realizzati per la serie tv  anche per la campagna elettorale di Zelensky.

Con lo streaming globale della serie TV di Netflix e la sua messa in onda da più di una dozzina di canali tv in Europa, vediamo la commercializzazione di Zelensky ad un pubblico straniero come un oggetto-immagine la cui realtà immediata è la sua funzione simbolica in un sistema semiotico di significanti astratti che prendono vita propria e generano una realtà virtuale parallela. Questa realtà virtuale a sua volta genera il proprio discorso.

Ad esempio, per il pubblico straniero la guerra di 8 anni nel Donbass che ha causato 14.000 morti è meno reale delle immagini estrapolate da un videogioco e spacciate per “il bombardamento di Kiev”. Questo perché la guerra nel Donbass è stata ampiamente ignorata dai media internazionali.

Le immagini delle atrocità, siano esse prese da altri contesti o fabbricate, sono diventate significanti fluttuanti che possono essere riproposti secondo le esigenze dei propagandisti, mentre le vere atrocità devono essere nascoste alla vista. Dopotutto non importa se la narrazione è vera o falsa, ciò che conta è che sia convincente.

Nell’Ucraina post-Maidan si può vedere un’anticipazione del destino che attende il resto d’Europa, quasi come se l’Ucraina non fosse stata solo un laboratorio di una rivoluzione colorata, ma anche un banco di prova per quel preciso tipo di operazioni di guerra cognitiva che stanno portando alla rapida distruzione di qualunque traccia di civiltà, logica e razionalità rimasta in Occidente.

La guerra cognitiva integra capacità informatiche, educative, psicologiche e di ingegneria sociale al fine di raggiungere i propri scopi. I social media svolgono un ruolo centrale come moltiplicatore di forza e sono un potente strumento per sfruttare le emozioni e rafforzare i pregiudizi cognitivi. Il volume e la velocità delle informazioni senza precedenti travolgono le capacità cognitive individuali e incoraggiano a “pensare velocemente” (in modo automatico ed emotivo) invece di “pensare lentamente” (razionalmente e giudiziosamente). I social media inducono anche prove sociali, in cui l’individuo imita e afferma le azioni e le credenze degli altri per adattarsi, creando così camere d’eco di conformismo e pensiero di gruppo. Dare forma alle percezioni è tutto ciò che conta; opinioni critiche, verità scomode, fatti che contraddicono la narrativa dominante possono essere cancellati con un clic dell’utente o con l’algoritmo del gestore/moderatore. La NATO utilizza forme di Intelligenza Artificiale basate sul deep learning che consentono il riconoscimento dei modelli per identificare rapidamente i luoghi in cui hanno origine i post, i messaggi e gli articoli sui social media, nonché gli argomenti in discussione, il sentment, gli identificatori linguistici, il ritmo delle pubblicazioni, i collegamenti tra gli account dei social media ecc. Tale sistema consente così il monitoraggio in tempo reale e fornisce avvisi alla NATO e ai suoi partner sul sentment dominante nei social media su un determinato argomento e qualora questo non sia favorevole possono essere intraprese azioni quali lo “shadow banning” o anche la rimozione degli account e dei contenuti valutati come problematici.

Una popolazione polarizzata e cognitivamente disorientata è un obiettivo maturo per un tipo di manipolazione emotiva nota come script di pensiero e mind boxing. Il pensiero di una persona arriva a congelarsi attorno a copioni sempre più prestabiliti. E se lo script è discutibile, è improbabile che venga modificato tramite l’argomento. Il cervello ben inscatolato è impermeabile alle informazioni che non sono conformi al copione e indifeso contro falsità o semplificazioni a cui è stato preparato a credere. Più una mente inscatolata e più è polarizzato l’ambiente politico e il dialogo pubblico. Questo danno cognitivo rende tutti gli sforzi per promuovere l’equilibrio e il compromesso poco attraenti e nei casi peggiori addirittura impossibili. La svolta totalitaria dei regimi liberali occidentali e la mentalità isolata e impermeabile all’esterno delle élite politiche occidentali sembrano confermare questo triste stato di cose.

Con il divieto di trasmissione dei mezzi di informazione russi, l’esclusione e il bullismo di chiunque cerchi di spiegare la posizione della Russia, è stato raggiunto l’equivalente della pulizia etnica del discorso pubblico nel quale le “cheerleader del pensiero dominante”  hanno un sorriso folle sul viso che non fa ben sperare.

Gli esempi di irrazionale frenesia della folla sono troppi da elencare; coloro che sono caduti vittime di questo fervore pseudo-religioso chiedono che la Russia e i russi siano cancellati. Del resto non è nemmeno necessario essere umani o vivi per diventare il bersaglio dell’isteria di massa: cani e gatti russi sono stati banditi dalle competizioni, i classici russi banditi dalle università e i prodotti russi tolti dagli scaffali.

L’implacabile manipolazione delle emozioni delle persone ha scatenato un pericoloso vortice di follia di massa. Come in Ucraina, così in Europa i cittadini sostengono le decisioni e chiedono misure contro i propri interessi, prosperità e futuro. “Resto al freddo!!” è il nuovo sfoggio di virtù tra coloro che accedono solo a informazioni approvate dagli Stati Uniti ovvero al tipo di script compatibile con un quadro di riferimento che esclude la complessità. In questo universo fittizio e parallelo, una sorta di metaverso sicuro, rassicurante e compensatorio che si è liberato dall’entropia della realtà dove l’Occidente occupa sempre il livello morale più elevato.

In generale, la copertura mediatica internazionale della guerra in Ucraina non è stata solo immaginaria ma anche completamente allineata con le narrazioni fornite dalle unità di propaganda ucraine che sono state istituite e finanziate da USAID, NED, Open Society, Pierre Omidyar Network ed European Endowment for Democracy .

Le campagne di disinformazione ucraine influenzano il giudizio sia del pubblico sia degli stessi legislatori occidentali (ci si riferisce ai legislatori dei paesi vassalli degli USA, NdT). L’8 marzo, quando il presidente ucraino Zelensky si è rivolto a distanza alla Camera dei Comuni britannica, molti membri del parlamento non avevano neanche gli auricolari per ascoltare la traduzione simultanea del suo discorso. Non importava. A loro è piaciuto lo spettacolo e hanno applaudito con entusiasmo. Nelle loro menti inscatolate, Zelensky era già stato inquadrato come “il nostro bravo ragazzo a Kiev”, e qualsiasi sceneggiatura, anche incomprensibile, sarebbe andata bene. Il 1° marzo i diplomatici dei paesi occidentali e dei loro alleati si sono ritirati durante un discorso  – in collegamento video –  del ministro degli Esteri russo Lavrov alla Conferenza delle Nazioni Unite sul disarmo a Ginevra. I cervelli in scatola sono cognitivamente incapaci di impegnarsi in discussioni con coloro che hanno punti di vista diversi, rendendo impossibile la diplomazia. Ecco perché al posto delle abilità diplomatiche vediamo gesti teatrali e acrobazie mediatiche, abiti vuoti che forniscono linee di sceneggiatura che hanno il fine di proiettare superiorità morale.

L’Occidente ha trovato rifugio in questo mondo fittizio generato dai media perché non può più risolvere i suoi problemi sistemici: invece di sviluppo e progresso vediamo regressione economica, sociale, intellettuale e politica, ansia, frustrazione, manie di grandezza e irrazionalità. L’Occidente è diventato completamente autoreferenziale.

Progetti ideologici, distopici e di ingegneria sociale come il Transumanesimo e il Grande Reset sono le uniche soluzioni che le élite occidentali possono offrire per affrontare l’inevitabile implosione di un sistema che hanno contribuito a far naufragare.

Queste “soluzioni” richiedono la soppressione del pluralismo la limitazione della libertà di informazione e di espressione, l’uso diffuso della violenza per intimidire i pensatori critici, la disinformazione e la manipolazione emotiva; in breve, la distruzione delle basi stesse della democrazia moderna, del discorso pubblico, dibattito razionale e partecipazione informata ai processi decisionali. La ciliegina sulla torta è che è cinicamente confezionato e commercializzato come una “vittoria della democrazia contro l’autoritarismo”. Per proiettare la democrazia prima dovevano ucciderla e poi sostituirla con la sua simulazione.

Ma uno spazio globale di comunicazione e informazione che non rispetta il principio del pluralismo e del rispetto reciproco produce inevitabilmente i propri becchini. Vediamo già come questo spazio globale si stia frammentando in spazi informativi fortemente difesi lungo le linee delle sfere di influenza geopolitiche. Il progetto di globalizzazione guidato dagli Stati Uniti si sta disfacendo e ciò è dovuto principalmente alla sua eccessiva ambizione.

Gli Stati Uniti potrebbero vincere la guerra dell’informazione in Occidente, ma qualsiasi vittoria nell’universo parallelo creato dai media potrebbe facilmente trasformarsi in una vittoria di Pirro quando la realtà si riaffermerà.

La storia recente ci dice che narrazioni accuratamente elaborate, disinformazione e demonizzazione dell’avversario radicalizzano e polarizzano l’opinione pubblica, ma la vittoria sul campo di battaglia dell’informazione non si traduce necessariamente in una vittoria militare o politica, come abbiamo visto in Siria e in Afghanistan.

Mentre l’Occidente collettivo si compiace del suo successo dopo l’opzione nucleare di bandire tutti i media russi dall’infosfera globale che controlla, è troppo accecato dall’arroganza per notare le inevitabili ricadute della sua mossa. Il controllo totale sulla narrazione ottienuta attraverso misure autoritarie e la repressione delle voci dissenzienti, cioè attraverso un capovolgimento di quella democrazia inclusiva dai valori universalisti che l’Occidente ipocritamente pretende di difendere e che proietta attivamente nel Sud del mondo. Nel confronto ideologico con i paesi che definisce “autoritari” l’Occidente sta perdendo il vantaggio che pretendeva di possedere.

L’ordine mondiale unipolare guidato dagli Stati Uniti sta volgendo al termine e l’Occidente sta rapidamente perdendo la sua influenza. La Russia sta prestando attenzione e in futuro potrebbe invece investire più energia nel raggiungere un pubblico non occidentale, ovvero persone che non sono così indottrinate e insensibili alla verità, ai fatti e alla ragione come le loro controparti occidentali.

Mentre all’inizio della rivoluzione dell’informazione la Cina ha adottato misure per proteggere la propria sovranità digitale, per molte ragioni la Russia ha impiegato più tempo a riconoscere il pericolo rappresentato da un sistema di comunicazione e informazione che, nonostante le iniziali pretese di essere un campo di gioco aperto e uniforme, era in realtà truccato a favore di chi lo controllava. L’iniziativa della Russia in Ucraina non è solo una risposta agli attacchi alla popolazione del Donbass e un modo per prevenire l’adesione dell’Ucraina alla NATO. Il suo obiettivo dichiarato di denazificare l’Ucraina è una risposta difensiva alle intense operazioni di guerra cognitiva che gli Stati Uniti hanno condotto sia all’interno della Russia che nei paesi vicini. L’espansione verso est della NATO non è stata semplicemente un’espansione militare, ma ha portato anche all’occupazione dello spazio psico-culturale, informativo e politico.

Dopo aver perso la battaglia strategica nella guerra cognitiva, aver così assistito alla normalizzazione della russofobia neonazista e aver realizzato che le forze ostili, sia interne che straniere, si sono radicate in Ucraina, la Russia si sente ancora più obbligata a vincere la guerra, come ha spiegato Andrei Ilnitsky in un’intervista a Zvesda.(4)

Ilnitsky ha riconosciuto che “Il pericolo principale della guerra cognitiva è che le sue conseguenze sono irreversibili e possono manifestarsi attraverso le generazioni. Le persone che parlano la nostra stessa lingua, improvvisamente sono diventate nostre nemiche“. L’erezione di monumenti a Stepan Bandera mentre quelli dei soldati sovietici venivano distrutti, non è stata solo un’intollerabile provocazione per la Russia – un paese che ha perso 26,6 milioni di persone che combattevano il nazismo nella seconda guerra mondiale – è stata anche un’espressione tangibile del tipo di cancellazione e riscrittura della storia che non si limita peraltro alla sola Ucraina.

L’attuale conflitto in Ucraina mostra che ripristinare il senso della realtà richiede un tributo pesante e sanguinoso. Purtroppo in materia di sicurezza nazionale decisioni dolorose non possono essere rinviate all’infinito.

NOTE:

  1. http://armedforcesjournal.com/clausewitz-and-world-war-iv/
  2. JP 3–0, Joint Operations, 17 January 2017, Incorporating Change 1, 22 October 2018 (jcs.mil)
  3. Ukraine’s Propaganda War: International PR Firms, DC Lobbyists and CIA Cutouts (mintpressnews.com)
  4. ?????? ?????????: «?????????? ????? ?? ??????? ??????» (zvezdaweekly.ru)

FONTE Traduzione: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-la_russia_sta_perdendo_la_guerra_dellinformazione/39602_45832/

FONTE ORIGINALE: https://laura-ruggeri.medium.com/is-russia-losing-the-information-war-79016e0ee32e


IS RUSSIA LOSING THE INFORMATION WAR?

On March 10 when CIA director Bill Burns addressed the US Senate and declared “Russia is losing the information war over Ukraine”, he repeated a claim that had already been amplified by Anglo-American media since the start of Russia’s military operations in Ukraine. Though his statement is factually true, it doesn’t tell us why and mainly reflects the West’s perspective. As usual the reality is a lot more complicated.

The US information warfare capability is unparalleled: when it comes to manipulating perceptions, producing an alternate reality and weaponizing minds, the US has no rivals. The US coercive deployment of non-military instruments of power to bolster its hegemony, and attack any state that challenges it, is also undeniable. And that’s precisely why Russia was left with no other option than the military one to defend its interests and national security.

Hybrid warfare, and information warfare as an integral part of it, evolved into standard US and NATO doctrine, but it hasn’t made military force redundant, as proxy wars demonstrate. With more limited hybrid warfare capabilities, Russia has to rely on its army to influence the outcome of a confrontation with the West that Moscow regards as an existential one. And when your existence as a nation is at risk, winning or losing the information war in the Western metaverse becomes rather irrelevant. Winning it at home and ensuring that your partners and allies understand your position and the rationale behind your actions inevitably takes precedence.

Russia’s approach to the Ukraine question is remarkably different from the West’s. As far as Russia is concerned Ukraine is not a pawn on the chessboard but rather a member of the family with whom communication has become impossible due to protracted foreign interference and influence operations. According to Andrei Ilnitsky, an advisor to the Russian Ministry of Defence, Ukraine is the territory where the Russian world lost one of the strategic battles in the cognitive war. Having lost the battle, Russia feels all the more obliged to win the war — a war to undo the damage to a country that historically has always been part of the Russian world and to prevent the same damage at home. It is rather telling that what US-NATO call an “information war” is referred to as “mental’naya voina”, that is cognitive war, by this prominent Russian strategist. Being mainly on the receiving end of information/influence operations, Russia has been studying their deleterious effects.

While it is too early to predict the trajectory of the Russia-Ukraine conflict and its political outcomes, one of the main takeaways is that the US employment of all instruments of hybrid warfare to instigate and fuel this conflict, left Russia no alternative than the recourse to military power to solve it. You can’t win the battle for hearts and minds when your opponent controls them. You first need to restore the conditions that will make it possible to reach them and even then it will take years to heal wounds, undo the psychological conditioning.

Though disinformation and deception have always been a part of warfare, and information has long been used to support combat operations, within the framework of hybrid warfare information plays a central role, so much so that in the West combat is seen as taking place primarily through it and vast resources are assigned to influence operations both online and offline. In 2006 retired US Maj. General Robert H. Scales explained a new combat philosophy that would later be enshrined in NATO’s doctrine: “Victory will be defined more in terms of capturing the psycho-cultural rather than the geographical high ground.”(1)

In the US-NATO lexicon, information and influence are interchangeable words. “Information comprises and aggregates numerous social, cultural, cognitive, technical, and physical attributes that act upon and impact knowledge, understanding, beliefs, world views, and, ultimately, actions of an individual, group, system, community, or organization.”(2)

The US information war arsenal is unmatched because it controls the Internet and its main gatekeepers of content such as Google, Facebook, YouTube, Twitter, Wikipedia… It means the US can exercise control over the noosphere, that “globe-spanning realm of the mind” that RAND in 1999 was already presenting as integral to the American information strategy. For this reason no government can ignore the profound impact of the Internet on public opinion, statecraft and national sovereignty. Because neither Russia nor China can beat the US in a game where it holds all the cards, the smart thing to do is to leave the gaming table, which is exactly what both powers are doing, each drawing on its specific strengths.

The “information war over Ukraine” didn’t start in response to Russia’s military operations in 2022. It was initially unleashed in Ukraine. Since 1991 the US spent billions of dollars, and the EU tens of millions, to tear this country apart from Russia, not to mention the money spent by Soros’ Open Society. No price was deemed too high due to the importance of Ukraine on the geopolitical chessboard. US influence operations led to two colour revolutions, the Orange Revolution (2004–05) and EuroMaidan (2013–14). After the 2014 bloody coup, with the removal of any counterweight, US-NATO influence turned into full control and violent repression of dissent: those who had opposed Maidan lived in fear — the Odessa massacre being a constant reminder of the fate that would befall anyone who dared to resist the new regime.

The promotion of Neo-Nazi tendencies intensified, together with the cult of Nazi collaborationist Stepan Bandera; members of terrorist organizations such as the Azov Battalion and other ultranationalist groups joined government and the Ukranian National Guard, the past was erased and history re-written, Soviet monuments were destroyed, Russian-speakers faced daily threats and discrimination, pro-Russian parties and information outlets were banned, Russophobia was inculcated in children starting from kindergarten. In 2020 alone ultranationalist projects, such as the “Young Banderite Course”, “Banderstadt Festival of Ukrainian Spirit”, etc. received almost half of all the funds allocated by the Ukrainian government for children’s and youth organisations.

Ukrainians who lived in the separatist People’s Republics of Donetsk and Lugansk and couldn’t be targeted by influence operations were targeted by rockets, bombs and bullets: the former compatriots had been recast as enemies almost overnight.

While all quality of life indicators revealed a marked decline, large segments of the population lived in a permanent state of cognitive dissonance: they were told that discriminating LGBT is wrong but discriminating Russian speakers is right, remembering Soviet soldiers who had fought Nazism in WW2 and liberated Auschwitz is wrong, remembering the Holocaust is right. Because cognitive dissonance is an uncomfortable feeling, people resorted to denial and self-deception, embraced whatever opinion was dominant in their social environment to seek relief.

Since the mindset of an entire population cannot be changed overnight, even with an army of cognitive behaviour specialists, the groundwork was laid in stages. The Orange Revolution helped foster Ukrainian national identity but precisely because it leveraged on existing cultural and linguistic differences it ended up being the most regionally divided of all colour revolutions: western Ukrainians dominated the protests and eastern Ukrainians largely opposed them. The Orange Revolution had a profound effect on the way Ukrainians perceived themselves and their national identity but it didn’t succeed in severing the political, cultural, social, and economic ties between Ukraine and Russia. Most people on both sides of the border continued to regard the two countries as inextricably intertwined.

A second revolution, Euromaidan, would finish the job started in 2004. This time the narrative had a wider appeal: its proponents identified corruption and lack of economic prospects as the main grievances of the population, indicated Ukraine’s leadership and its ties to Russia as the main cause of the country’s troubles and proposed integration into the EU as a cure-all solution.

Turning Russia into a scapegoat for all societal and economic problems, fuelling an anti-Russian sentiment was exactly what a myriad of US and US-funded players had been doing since the fall of the Soviet Union. Ukraine, like the rest of post-Soviet countries, was teeming with media outlets, NGOs, educators, diaspora groups, political activists, business and community leaders whose status was artificially inflated by their access to foreign resources and international networks.

These “vectors of influence” introduced themselves as purveyors of “global standards and best practices”, “democratic rules”, “participatory development and accountability”, used marketing buzzwords for their work of demolition of existing practices, frames of reference and their sostitution with new ones, often of inferior quality. Under the guise of fighting corruption, offering a path to modernization and development these players became entrenched in Ukraine’s civil society, shaped its collective consciousness and demonized both Russia, local politicians and public figures who advocated closer relations with Moscow.

The work of these agents of influence was instrumental in demolishing worldviews, beliefs, values and perceptions that dated back to Soviet times, thus altering the population’s self-understanding. It ensured that younger generations would be ignorant about their country’s history and embrace a new fictional identity.

But colour revolutions require both brain and brawn to topple governments and defend the power of the new ruling class. The brute force that was necessary to intimidate and attack those who were impervious to influence operations could only be provided by fringe elements in society who had been seduced by the ultra-nationalist rhetoric.

These violent fringe groups were organized and empowered to exercise greater influence in Ukraine and thus attract more followers. A romanticized, imaginary identity was radicalized by absurd claims that Ukrainians and Russians cannot be called brotherly nations because Ukrainians are “pure-blood Slavs”, while Russians are “mixed-blood barbarians”. Nothing was beyond the pale: sleek re-enactments of Nazi propaganda tropes like torchlight parades that looked impressive on social media, speeches that echoed Hitler’s, xenophobic and anti-Semitic rhetoric, the cult of Bandera and those who fought with the Nazis against the Soviet Army.

While foreign groups sharing the same ideological tool box were labelled extremist and terrorist organizations just across the border, in Ukraine they received advice, financial and military support by the US military and the CIA. At the same time the CIA presentable spin-off, NED, was giving out funds, grants, scholarships and media awards to their globalist, politically-correct, “freedom, democracy and human rights” country fellows. The latter cohort would whitewash the crimes of the former. After all, if members of Al-Qaeda donning white helmets in Syria became the darlings of Western media and even won an Oscar, Neo-Nazis could be marketed as defenders of democracy just as easily.

Ukraine’s population was subjected to the sort of psychological operations that would make it want more of a medicine that not only didn’t cure the disease but could kill the patient. In order to turn the country into a beachhead from which to launch hostile operations aimed at weakening Russia and creating a rift between Moscow and Europe, Russophobia had to become a sort of state religion, anyone who didn’t practise it was to be marginalized and eventually excluded from public discourse. The pressure to conform was so strong that it impaired judgement.

The discursive construction of an enemy required the constant demonization of Russia (Mordor), Russians (uncivilized Eurasian barbarians) and Donbass separatists (savages, subhumans).

When neo-Nazi narratives and Russophobia are normalized and allowed to shape both policies and dominant discourse, when people are “weaned” from critical thinking, from their own history, and wage an 8-year long war against their fellow countrymen, that’s a sign people’s minds have been weaponized.

Public consciousness was actively manipulated both at the level of meaning and at the level of emotions. Selective perception and consolatory fantasies were some of the psychological mechanisms ensuring that the population would manage the stress of living in a state of cognitive dissonance where facts and fiction could no longer be separated. By offering cheap passage through a complex world, these narratives provided emotional certainty at the cost of rational understanding.

The emotionally satisfying decision to believe, to have faith, inoculated individuals against counter-arguments and inconvenient facts. The election of an actor on the basis of his convincing performance as a president in a TV series titled “Servant of the People” confirmed the successful substitution of politics with its spectacular simulation: it wasn’t simply the blurring of illusion and reality, but the authentication of illusion as more real than the real itself. The majority of Ukrainians voted for a brand new party that was named after the TV fiction and was the brainchild of the same people. A party that even used billboards advertising the series for Zelensky’s election campaign.

With the global streaming of the TV series by Netflix and its broadcasting by more than a dozen TV channels in Europe we see the marketing of Zelensky to foreign audiences as an image-object whose immediate reality is its symbolic function in a semiotic system of abstract signifiers that take on a life of their own and generate a parallel, virtual reality. This virtual reality in turn generates its own discourse.

For instance, to foreign audiences the 8-year long war in Donbass that caused 14,000 deaths is less real than images extrapolated from a videogame and passed off as “the bombing of Kiev.” That’s because the war in Donbass has been largely ignored by international media.

Images of atrocities, whether taken from other contexts or fabricated, have become free-floating signifiers that can be repurposed according to the needs of propagandists, while real atrocities must be hidden from view. After all it doesn’t matter whether the narrative is true or false, as long as it is convincing.

In post-Maidan Ukraine one could see an anticipation of the fate that awaited the rest of Europe, almost as if Ukraine had been not only a laboratory for colour revolutions, but also a testing ground for the kind of cognitive warfare operations that are leading to the rapid destruction of whatever vestige of civility, logic and rationality is left in the West.

Cognitive warfare integrates cyber, information, education, psychological, and social engineering capabilities to achieve its ends. Social media play a central role as a force multiplier and are a powerful tool for exploiting emotions and reinforcing cognitive biases. Unprecedented information volume and velocity overwhelms individual cognitive capabilities and encourages “thinking fast” (reflexively and emotionally) as opposed to “thinking slow” (rationally and judiciously). Social media also induce social proofing, wherein the individual mimics and affirms others’ actions and beliefs to fit in, thus creating echo chambers of conformism and groupthink. Shaping perceptions is all that matters; critical opinions, inconvenient truths, facts that contradict the dominant narrative can be cancelled with a click, or by tweaking the algorithm. NATO uses machine learning and pattern recognition to quickly identify the locations in which social media posts, messages, and news articles originate, the topics under discussion, sentiment and linguistic identifiers, pacing of releases, links between social media accounts etc.

Such system allows real-time monitoring and provides alerts to NATO and its social media partners, who invariably comply with its requests to remove or ‘shadow ban’ content and accounts deemed problematic.

A polarized, cognitively disoriented population is a ripe target for a type of emotional manipulation known as thought-scripting and mind-boxing. A person’s thinking comes to congeal around increasingly set scripts. And if the script is arguable, it is unlikely to be changed through argument. The well-boxed brain is impervious to information that doesn’t conform to the script and defenceless against powerful falsehoods or simplifications that it has been primed to believe. The more boxed a mind, the more polarized the political environment and public dialogue. This cognitive damage makes all efforts to promote balance and compromise unattractive, in the worst cases even impossible. The totalitarian turn of Western liberal regimes and the insular mentality of Western political elites seem to confirm this sad state of affairs.

With the ban on Russian information outlets, the exclusion and bullying of anyone who seeks to explain Russia’s position, the equivalent of ethnic cleansing of public discourse has been achieved and its cheerleaders have a mad grin on their face that doesn’t bode well.

Examples of irrational mob frenzy are too many to list, those who have fallen victims to this pseudo-religious fervour demand that Russia and Russians be cancelled. For that matter you don’t even need to be human or alive to become a target of mass hysteria: Russian cats and dogs have been banned from competitions, Russian classics banned from universities, Russian products taken off the shelves.

The relentless manipulation of people’s emotions has unleashed a dangerous whirlwind of mass insanity. As in Ukraine, so in Europe citizens are supporting decisions and calling for measures against their own interests, prosperity and future. “I’ll freeze for Ukraine!” is the new epitome of virtue-signalling among those who access only US- approved information, the kind of script compatible with a frame of reference that excludes complexity. In this fictional, parallel universe, a sort of safe, reassuring, compensatory metaverse that has broken free from the messiness of reality, the West always occupies the moral high-ground.

By and large international media coverage of the war in Ukraine has been not only fictional but also completely aligned with narratives provided by Ukrainian propaganda units that were set up and funded by USAID, NED, Open Society, Pierre Omidyar Network, the European Endowment for Democracy et al.

Dan Cohen in an article published by Mint Press News described in detail how the system of Ukrainian strategic information works.(3) Ukraine, with the help of foreign consultants and key media partners, built an effective network of PR-media agencies that actively churn out and promote fake news. In NATO countries whoever dares to question the correctness of this information is accused of being a “Putin’s agent”, attacked and excluded from public debate. The information space is so heavily guarded that it resembles an echo-chamber.

Ukrainian disinformation campaigns affect the judgment of both Western audiences and lawmakers. On March 8 when Ukrainian President Zelensky addressed the British House of Commons remotely, many members of parliament had no earphones to listen to the simultaneous translation of his speech. It didn’t matter. They liked the show and applauded enthusiastically. In their boxed-minds Zelensky had already been framed as “our good guy in Kiev”, and any script, even an incomprehensible one, would do. On March 1 diplomats from Western countries and their allies walked out during a video link address by Russia’s Foreign Minister Lavrov at the UN Conference on Disarmament in Geneva. Boxed-brains are cognitively incapable to engage in discussions with those who hold different views, making diplomacy impossible. That’s why in lieu of diplomatic skills we see theatrics and media stunts, empty suits who deliver script lines and project moral superiority.

The West has found refuge in this media-generated make-believe world because it can no longer solve its systemic problems: instead of development and progress we see economic, social, intellectual and political regression, anxiety, frustration, delusions of grandeur and irrationality. The West has become completely self-referential.

Dystopian ideological and social-engineering projects such as Trans-humanism and the Great Reset are the only solutions Western elites can offer to address the inevitable implosion of a system they contributed to wreck.

These “solutions” require the suppression of pluralism, the curtailing of freedom of information and expression, the widespread use of violence to intimidate critical thinkers, disinformation and emotional manipulation, in short, the destruction of the very foundations of modern democracy, public discourse, rational debate and informed participation in decision-making processes. The cherry on top is that it is cynically packaged and marketed as a “victory of democracy against authoritarianism.” To project democracy first they had to kill it and then replace it with its simulation.

But a global communication and information space that doesn’t respect the principle of pluralism and mutual respect inevitably produces its own gravediggers. We already see how this global space is fragmenting into heavily defended information spaces along the lines of geopolitical spheres of influence. The US-led globalization project is unravelling and that’s mainly due to its overambition.

The US might be winning the information war in the West but any victory in the parallel universe created by the media could easily turn into a Pyrrhic one when reality reasserts itself.

Recent history tells us that carefully crafted narratives, disinformation and demonization of the opponent radicalize and polarize public opinion, but victory in the information battlefield doesn’t necessarily translate into military or political victory, as we have seen in Syria and Afghanistan.

While the collective West revels in its success after the nuclear option of banning all Russian media from the global infosphere it controls, it’s too blinded by hubris to even notice the inevitable fallout. Total control over the narrative is achieved through authoritarian measures and the repression of dissenting voices, that is a reversal of those inclusive democracy and universalist values that the West hypocritically claims to defend and is actively projecting in the Global South. In the ideological confrontation with countries it defines “authoritarian” the West is losing the edge it claimed to possess.

The unipolar, US-led world order is coming to an end and the West is fast losing its influence. Russia is paying attention and in the future it might invest more energy in reaching non-Western audiences instead, that is people who aren’t as indoctrinated and impervious to truth, facts and reason as their Western counterparts.

While at the beginning of the information revolution China took measures to protect its digital sovereignty, for many reasons it took Russia longer to recognize the danger posed by a communication and information system that despite initial claims of being an open, level playing field, was actually rigged in favour of those who controlled it.

Russia’s initiative in Ukraine is not only a response to attacks on the population of Donbass and a way to forestall Ukraine’s accession to NATO. Its avowed goal to denazify Ukraine is a defensive response to the intense cognitive war operations that the US has been conducting both inside Russia and in neighbouring countries. NATO’s eastward expansion wasn’t simply a military expansion, it led to the occupation of the psycho-cultural, information and political space as well.

After losing a strategic battle in the cognitive war, watching the normalization of Neo-Nazi Russophobia and realizing that hostile forces, both domestic and foreign, have become entrenched in Ukraine, Russia feels all the more obliged to win the war, as Andrei Ilnitsky explained in an interview to Zvesda.(4)

Ilnitsky recognized that “The main danger of cognitive warfare is that its consequences are irreversible and can manifest themselves through generations. People who speak the same language as us, suddenly became our enemies.” The erection of monuments to Stepan Bandera while those of Soviet soldiers were being destroyed, was not only an intolerable provocation for Russia — a country that lost 26.6 million people fighting Nazism in WW2 — it was also a tangible expression of the kind of erasure and rewriting of history that is not limited to Ukraine.

The current conflict in Ukraine shows that restoring a sense of reality exacts a heavy and bloody toll. Unfortunately in matters of national security painful decisions cannot be postponed indefinitely.

1. http://armedforcesjournal.com/clausewitz-and-world-war-iv/

2. JP 3–0, Joint Operations, 17 January 2017, Incorporating Change 1, 22 October 2018 (jcs.mil)

3. Ukraine’s Propaganda War: International PR Firms, DC Lobbyists and CIA Cutouts (mintpressnews.com)

4. Андрей Ильницкий: «Ментальная война за будущее России» (zvezdaweekly.ru)

Guerra Ucraina: note sul punto di vista dell’altra metà del mondo.

di Alessandro Visalli

Con 141 voti favorevoli, 5 contrari e 35 astenuti è passata all’Onu una risoluzione che condanna l’invasione russa dell’Ucraina. Hanno votato contro la Russia, la Bielorussia, la Corea del Nord, l’Eritrea e la Siria, voleva votare anche il Venezuela, ma gli è stato impedito con un cavillo. Gli astenuti, posizione molto difficile in questo contesto, sono la Cina, l’India, l’Iran, l’Iraq, il Pakistan, l’Algeria, l’Angola, l’Armenia, il Bangladesh, la Bolivia, il Burundi, la Repubblica Centro Africana, il Congo, El Salvador, il Kazakistan, il Kyrgystan, il Madagascar, il Mali, la Mongolia, il Mozambico, la Namibia, il Nicaragua, il Senegal, il Sud Africa, il Sud Sudan, il Tajikistan, l’Uganda, la Tanzania, il Vietnam, lo Zinbabwe. Quindi molti paesi asiatici, africani e sudamericani.

La risoluzione chiedeva la fine della guerra ed il ritiro delle forze di invasione.

Si sono espressi con un’astensione paesi che complessivamente comprendono oltre quattro miliardi di persone. Proviamo a vedere quali ragioni avevano.

Sulla stampa cinese. Maria Siow su South Csulina Morning Post[1] si chiede se il rifiuto della Cina e dell’India di condannare la Russia danneggerà la loro reputazione nell’Asean (che ha votato a favore della risoluzione dell’Onu con l’astensione, oltre che di Cina e India, solo di Vietnam e Laos). La posizione cinese è quindi descritta come ambivalente, dal ministero degli esteri che accusa gli Usa di aver provocato la guerra allo stesso Ministro che, tuttavia, si dichiara addolorato per il conflitto e le perdite civili.

Il China Daily[2] descrive, come tutte le altre testate, l’apertura della 13° sessione del NPC nella quale Xi ha proposto l’ampliamento del budget militare del 7,1% (la Cina spende ca 250 miliardi di dollari, gli Usa 780 e la Russia 61 miliardi, l’India 72, la Ue 378 miliardi). Quindi in un articolo di commento di Zhang Zhouxiang vengono descritte le posizioni propagandate dal New York Times[3]. Secondo le fonti di intelligence citate dal giornale americano la Cina avrebbe chiesto alla Russia di spostare la guerra a dopo le olimpiadi. Ne deriverebbe che conosceva i piani russi. Questa illazione viene respinta fermamente, ricordando come l’intelligence occidentale avesse dato pessima prova nella guerra irachena. L’intensificazione della crisi è, invece, interamente attribuita alla continua espansione della Nato verso Est e quindi le “politiche aggressive degli Stati Uniti”. Secondo il motto cinese per il quale “un nodo può essere sciolto solo dalla persona che lo ha fatto” è tempo quindi che gli Usa assumano la propria responsabilità.

Una linea che è ripresa da un durissimo articolo di Lui Ruo “Dove ancora l’America vuole portare il fuoco?” nel quotidiano Beijing Ribao[4], che è il quotidiano organo ufficiale del Partito Comunista di Pechino. lo spunto viene dalla visita di Mike Pompeo a Taiwan nella quale l’ex esponente dell’amministrazione Usa ha dichiarato che dovrebbe essere riconosciuta la regione cinese come stato autonomo. Inoltre viene ricordato il passaggio del cacciatorpediniere USS Johnson nello stretto. Ovviamente la cosa è inscritta nel quadro della ricerca dei democratici di acquisire consensi in vista delle elezioni di medio termine, ma anche della costante “intenzione di creare controversie e disastri” della potenza americana. Gli Stati Uniti sono, infatti, “il più grande esportatore di disastri”; dal 1945 al 2001 dei 248 conflitti armati in 153 regioni ben 201 sono stati avviati dagli Stati Uniti, dalla fine della guerra fredda in 80 casi sono state condotte operazioni armate all’estero e più di 800.000 persone sono morte a causa di ciò (di queste 335.000 erano civili). Le guerre hanno causato 21 milioni di emigrati. Nell’articolo si continua dichiarando che gli iniziatori del conflitto tra Russia e Ucraina sono ancora gli Usa, a causa della persistente espansione verso Est della Nato, promossa dal complesso militare-industriale. Espansione che “ha minato l’architettura ed il pensiero della sicurezza europea”.

In Asia Times[5] David Goldman afferma invece che la strategia della Russia per distruggere l’esercito ucraino procede secondo i piani[6], avvolgendo l’esercito nemico in una serie di sacche (come fecero nella grande offensiva durante la seconda guerra mondiale). D’altra parte dalla stampa indiana si ricava che gli Stati Uniti stanno lanciando una campagna “in grande scala” per reclutare piloti militari privati e da Francia e Germania, oltre che dal Regno Unito, la Danimarca, la Lettonia, Polonia e Croazia sono in arrivo mercenari o combattenti in Ucraina[7]. Il premier Modi sta coordinando in questo momento incontri di alto livello per assumere una posizione e sono in corso l’evacuazione dei cittadini indiani.

Nello stesso giornale l’astensione dell’India dal voto del Consiglio di Sicurezza è dichiarata “coerente con il fermo sostegno di Nuova Dehli al suo alleato di lunga data”[8]. Alleato dal quale l’India acquista il 60% delle proprie armi.

In “The Indian Express” un interessante articolo[9] sulle prospettive di accordo tra Russia e Ucraina cita l’opinione di Gustav Gressel dell’ECFR e di Marcel Röthig, Capo dell’ufficio della Fondazione Ebert a Kiev. Quest’ultimo sostiene che si potrebbe arrivare ad una Ucraina federale, con autonomia per il Donetrsk e Luhansk, o alla fine alla diretta cessione a Mosca delle tre aree (Crimea inclusa). Infine una neutralità garantita internazionalmente. Ma segnala correttamente che un compromesso troppo doloroso per l’Ucraina potrebbe portare ad un esito simile a quello che il Trattato di Versailles portò in Germania (ovvero essere la causa di radicalizzazione delle forze nazionaliste, e alla crescita di un nuovo focolare di nazismo in Europa).

Sulla stampa pakistana viene riportata[10] la risposta del governo alle minacce americane seguite al volto all’Onu. Il Pakistan ha dichiarato in risposta di “sostenere un cessate il fuoco e negoziati”, precisando che non ha aderito alla risoluzione per conservare uno spazio diplomatico tra le due parti. Del resto nella regione dell’Asia meridionale solo il Nepal ha votato a favore. L’articolo prosegue dichiarando che la nazione “vede la Cina come il suo più stretto alleato” e, come per il Bangladesh, la percezione della “forte posizione filo-russa della Cina” (come scrivono) ha influenzato la decisione. Per quanto riguarda l’India si tratterebbe (ma su questo anche la stampa cinese sembra concorde) piuttosto di una indecisione tra il vecchio alleato, la Russia, e il nuovo partner strategico (in chiave anticinese). Munir Akram, ambasciatore pakistano alle Nazioni Unite ha spiegato del resto l’astensione in quanto la mozione tralasciava alcuni punti chiave. Precisamente che la Russia era legittimamente preoccupata per l’espansione Nato ai suoi confini, ed era quindi “in un certo senso unilaterale”. Il Pakistan “vuole un approccio equilibrato e ritiene che questa controversia debba essere risolta attraverso negoziati”. Continuando ha confermato di condannare sempre le morti di civili, siano esse in Ucraina, nel Kashmir o in Afganistan, ma che “c’è molta propaganda e notizie false”.

Nell’articolo di fondo del 21 febbraio, “Costruisci vivamente una comunità futura con un futuro condiviso per l’umanità[11], non firmato e dunque posizione del Partito, viene richiamata la dichiarazione di Xi Jinping per la quale “La comunità con un futuro condiviso per l’umanità, come suggerisce il nome, è che il futuro e il destino di ogni nazione e paese sono strettamente legati. La grande famiglia armoniosa ha trasformato il desiderio di una vita migliore di persone provenienti da tutto il mondo nella realtà”. Ora, il concetto di “grande famiglia armoniosa” è uno dei concetti chiave della cultura cinese e dovremo tornarci brevemente. Nell’articolo viene declinato l’universalismo nella visione cinese, per il quale l’umanità ha un “destino condiviso”, cosa che implica che un mondo universalmente sicuro discende dalla condivisione della sicurezza di tutti, secondo lo slogan: “tu sei al sicuro, io sono al sicuro”. Xi Jinping ha sottolineato durante le conferenze dei giochi olimpici: “L’umanità è un tutto e la terra è una patria. Di fronte alle sfide comuni, nessuno o nessun paese può sopravvivere da solo e l’unica via d’uscita per l’umanità è aiutarsi a vicenda e vivere in armonia”. Una “Simbiosi” che ha tre livelli: realizzazione di sé, realizzazione reciproca e realizzazione del mondo.

Ciò significa anche che costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità è una pratica contemporanea di “comunità di persone libere”. Sapendo che i gruppi umani sono collegati e che l’associazione di uomini liberi rappresentata da Marx è un concetto concepito al di là dell’alienazione dell’uomo nell’era dell’economia industriale. 

La posizione cinese potrà divenire più chiara forse lunedì 7 marzo, quando, alle 15.00, nella Quinta Sessione del 13° Congresso Nazionale del Popolo (una delle più importanti assemblee consultive periodiche del complesso sistema di governo cinese) il Ministro degli Esteri Wang Yi discuterà con la stampa cinese ed estera della “Politica estera e delle relazioni della Cina”.

Intanto alcuni spunti possono essere desunti sia dal concetto cinese di Tianxia, sul quale torniamo alla fine, sia dalla lettura di due documenti recenti: una dichiarazione del Ministro Wang del 26 febbraio, e il protocollo firmato tra Russia e Cina in occasione delle recenti olimpiadi invernali.

Il Ministro Wang ha dichiarato[12] che la posizione si articola in cinque punti:

  • In primo luogo, la Cina sostiene fermamente il rispetto e la salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti gli Stati, attenendosi con serietà agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite. La posizione della Cina è coerente, chiara e si applica anche alla questione dell’Ucraina.

Commento: il primo punto non arruola automaticamente la Cina nella guerra di invasione russa, che all’epoca aveva contorni ancora meno definiti, individuando come linea rossa l’integrità territoriale (cfr. Dombass? Taiwan, che, ricordo, è rivendicato dai cinesi come proprio territorio?). In altre parole, con le armi non si spostano i confini.

  • In secondo luogo, la Cina sostiene il concetto di sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile. La Cina ritiene che la sicurezza di un Paese non possa venire a scapito di quella degli altri e che la sicurezza regionale non possa essere garantita rafforzando e persino espandendo i blocchi militari. Inoltre, le ragionevoli preoccupazioni di sicurezza di tutti gli Stati dovrebbero essere rispettate. Dopo le cinque occasioni consecutive di espansione verso est dell’Organizzazione del Trattato Nord Atlantico, le richieste legittime della Russia in merito alla sicurezza dovrebbero essere considerate seriamente e risolte in modo adeguato.

Commento: questo è un punto molto denso di teoria ed in linea con la tradizionale linea cinese, la sicurezza non è di uno, è un bene di tutti, quindi è ‘comune, globale, cooperativa e sostenibile’, ogni parola conta. Non è sicurezza quella della Nato che ritiene di essere sicura se sviluppa una soverchiante capacità di minaccia verso un vicino subalterno. Espandendo, appunto, senza limiti il proprio blocco militare. Senza rispettare le ‘ragionevoli preoccupazioni di sicurezza’ di tutti. Quindi cinque e successive espansioni della Nato verso Est determinano ‘legittime richieste di sicurezza’ da parte della Russia.

  • In terzo luogo, la Cina ha seguito l’evoluzione della questione ucraina e la situazione attuale è qualcosa che il Paese asiatico non vuole vedere. È assolutamente indispensabile che tutte le parti esercitino la necessaria moderazione per evitare che la situazione in Ucraina possa peggiorare o addirittura finire fuori controllo. La sicurezza delle vite e delle proprietà della gente comune dovrebbe essere efficacemente salvaguardata, e in particolare, devono essere evitate crisi umanitarie su larga scala.

Commento: la Cina, in quanto grande potenza emergente non ha alcun interesse a veder precipitare il mondo nella guerra indiscriminata (che non potrebbe evitare di coinvolgerla, arrestando il suo sviluppo) prima che il percorso di crescita si compia. A giungere ad un redde rationem prima che si compia sono, casomai, interessati altri (è sempre stata una delle linee difese da parte dell’establishment Usa, fino ad ora minoritaria). La paura che tutto finisca ‘fuori controllo’ (ovvero che tutto finisca) è depositata qui.

  • In quarto luogo, la parte cinese sostiene e incoraggia tutti gli sforzi diplomatici che portano alla soluzione pacifica della crisi ucraina e il Paese asiatico accoglie con favore i colloqui diretti e i negoziati tra la Russia e l’Ucraina, da svolgersi il più presto possibile. La questione ucraina si è evoluta in un complesso contesto storico. L’Ucraina dovrebbe essere un ponte di comunicazione tra l’Est e l’Ovest, invece di essere il fronte di scontro tra grandi Paesi. La Cina sostiene anche l’Europa e la Russia nei propri sforzi per tenere un dialogo su un piano di parità sulla questione della sicurezza europea e alla fine formare un meccanismo di sicurezza europeo equilibrato, efficace e sostenibile.

Commento: deriva dal primo e soprattutto dal secondo punto che la Cina chiede un accordo. L’accordo non potrà che essere, giunti a questo punto della cosa, globale e terrà a battesimo (se eviteremo il peggio) il nuovo mondo multipolare. Ovvero, abbastanza inevitabilmente dato l’atteggiamento americano e nostro, terrà a battesimo la nuova guerra fredda che farà da transizione tra il mondo unipolare occidentale e il mondo futuro. Sarà il caso di ricordare che la guerra fredda è stata tale perché esisteva un sottostante accordo di civiltà che fu probabilmente stipulato al termine della Guerra di Corea. Più specificamente la dottrina cinese individua due poli (‘Est e Ovest’), iscrivendo implicitamente sé stessa e la Russia (ma anche Iran, Pakistan e probabilmente India, per quanto ciò sia iperdifficile) in un campo. Inoltre individua come soluzione la sicurezza europea come problema comune sia della Russia sia della Ue e soci, evidentemente senza gli Usa. Auspica, in altre parole, la dissoluzione della Nato. Sarebbe la cosa giusta (se non avessimo 60.000 soldati occupanti permanentemente sul suolo europeo dal 1945).

  • In quinto luogo, la Cina ritiene che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe svolgere un ruolo costruttivo nella risoluzione della questione ucraina e che la pace e la stabilità regionali, così come la sicurezza di tutti i Paesi, dovrebbero essere messe al primo posto. Le azioni intraprese dal Consiglio di Sicurezza dovrebbero quindi ridurre la tensione, piuttosto che gettare benzina sul fuoco, e dovrebbero aiutare a far avanzare la soluzione della questione attraverso mezzi diplomatici, piuttosto che aggravare ulteriormente la questione. La Cina è sempre contraria a citare intenzionalmente il Capitolo VII nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza per autorizzare l’uso della forza e delle sanzioni”.

Commento: contro la tradizione di utilizzare l’Onu come proprio utile servitore (salvo ignorarlo quando non si allinea) degli Usa, la Cina individua quindi negli organismi internazionali (nei quali, se la IIWW effettivamente terminasse potrebbe essere molto ben rappresentata insieme ai suoi alleati) il punto di equilibrio decisivo della transizione egemonica di potenza in corso.

Insomma,

  • La Cina aderisce alla via della pace, dello sviluppo ed è impegnata a costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità. Il Paese asiatico continuerà a respingere fermamente tutte le egemonie e i poteri forti, a salvaguardare fermamente i diritti, gli interessi legittimi e legali degli Stati in via di sviluppo, specialmente di quelli di piccole e medie dimensioni.

Invece la Dichiarazione Congiunta del 4 febbraio[13] i due paesi, Russia e Cina, recita così:

Dichiarazione congiunta della Repubblica popolare cinese e della Federazione russa sulle relazioni internazionali e lo sviluppo sostenibile globale nella nuova era

Su invito del presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping, il presidente Vladimir Putin della Federazione Russa visiterà la Cina il 4 febbraio 2022. I due capi di stato hanno tenuto colloqui a Pechino e hanno partecipato alla cerimonia di apertura delle 24 Olimpiadi invernali.

La Repubblica popolare cinese e la Federazione russa (di seguito denominate le “Parti”) dichiarano quanto segue:

Attualmente, il mondo sta attraversando grandi cambiamenti e la società umana è entrata in una nuova era di grande sviluppo e grande cambiamento. La multipolarizzazione mondiale, la globalizzazione economica, l’informatizzazione sociale e la diversificazione culturale hanno continuato a svilupparsi, il sistema di governance globale e l’ordine internazionale hanno continuato a cambiare, l’interconnessione e l’interdipendenza dei paesi sono state notevolmente approfondite, la distribuzione del potere internazionale è tesa da ristrutturare, e le preoccupazioni della comunità internazionale per la pace e L’appello per uno sviluppo sostenibile è ancora più forte. Allo stesso tempo, l’epidemia di COVID-19 continua a diffondersi in tutto il mondo, la situazione della sicurezza internazionale e regionale sta diventando sempre più complessa e le minacce e le sfide globali sono in aumento. Alcune forze internazionali continuano a perseguire ostinatamente l’unilateralismo, a ricorrere alla politica di potere, a interferire negli affari interni di altri paesi, a ledere i diritti e gli interessi legittimi di altri paesi, a creare contraddizioni, differenze e scontri e ad ostacolare lo sviluppo e il progresso della società umana . La comunità internazionale non lo accetterà mai.

Le due parti invitano tutti i paesi a rafforzare il dialogo, rafforzare la fiducia reciproca, creare consenso, salvaguardare i valori comuni di pace, sviluppo, equità, giustizia, democrazia e libertà per tutta l’umanità e rispettare i diritti delle persone di tutti i paesi a scegliere autonomamente i propri percorsi di sviluppo e la sovranità e la sicurezza di tutti i paesi Sviluppare interessi, difendere il sistema internazionale con al centro le Nazioni Unite e l’ordine internazionale basato sul diritto internazionale, praticare un vero multilateralismo in cui le Nazioni Unite e la Sicurezza delle Nazioni Unite Il Consiglio svolge un ruolo centrale di coordinamento, promuove la democratizzazione delle relazioni internazionali e realizza lo sviluppo della pace, della stabilità e della sostenibilità nel mondo.

uno

Le due parti hanno convenuto che la democrazia è il valore comune di tutta l’umanità, non il brevetto di pochi paesi.Promuovere e salvaguardare la democrazia è la causa comune della comunità internazionale.

Le due parti credono che la democrazia sia un modo per i cittadini di partecipare alla gestione dei propri affari e mira a migliorare il benessere delle persone e realizzare il dominio delle persone sul paese. La democrazia dovrebbe essere un intero processo e orientato verso tutte le persone, riflettere gli interessi e la volontà di tutte le persone, proteggere i diritti delle persone, soddisfare i bisogni delle persone e salvaguardare gli interessi delle persone. La pratica delle istituzioni democratiche non è rigida e dovrebbe tenere conto dei sistemi socio-politici e delle caratteristiche storiche, tradizionali e culturali dei diversi paesi. Le persone di tutti i paesi hanno il diritto di scegliere le forme ei metodi di pratica democratica che si adattano alle loro condizioni nazionali. Se un paese è democratico o meno può essere giudicato solo dalla sua gente.

Le due parti hanno sottolineato che Cina e Russia, in quanto potenze mondiali con lunghe tradizioni storiche e culturali, hanno profonde tradizioni democratiche radicate nell’esperienza di sviluppo del millennio e sono ampiamente sostenute dal loro stesso popolo, riflettendo i bisogni e gli interessi dei loro cittadini. Cina e Russia hanno assicurato che il loro popolo abbia il diritto di partecipare alla gestione dello stato e degli affari sociali attraverso vari canali e forme in conformità con la legge. Le persone dei due paesi hanno piena fiducia in se stessi sulla strada e rispettano i sistemi democratici e le tradizioni degli altri paesi.

Le due parti hanno sottolineato che i principi democratici dovrebbero riflettersi non solo nella governance interna ma anche nella governance globale. Alcuni paesi tentano di tracciare linee ideologiche, costringere altri paesi ad accettare gli “standard democratici” di questi paesi e monopolizzare il diritto di definire la democrazia mettendo insieme vari piccoli gruppi e alleanze “situazionali”. Questo è in realtà un calpestare la democrazia e il spirito di democrazia e tradimento dei veri valori democratici. Tale ricerca dell’egemonia rappresenta una seria minaccia alla pace e alla stabilità regionale e globale e danneggia la stabilità dell’ordine internazionale.

Le due parti credono fermamente che la difesa della democrazia e dei diritti umani non debba essere usata come strumento per esercitare pressioni su altri paesi. Le due parti si oppongono all’abuso dei valori democratici da parte di qualsiasi paese, all’ingerenza negli affari interni dei paesi sovrani con il pretesto della salvaguardia della democrazia e dei diritti umani e alla provocazione della divisione e del confronto mondiale. Le due parti hanno invitato la comunità internazionale a rispettare la diversità delle culture e delle civiltà ei diritti all’autodeterminazione dei popoli di paesi diversi. Le due parti sono disposte a collaborare con tutti i paesi disponibili per promuovere la vera democrazia.

Le due parti hanno sottolineato che la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti umani hanno stabilito obiettivi elevati e principi di base per la causa globale dei diritti umani, che dovrebbero essere seguiti e praticati da tutti i paesi. Allo stesso tempo, ogni Paese ha diverse condizioni nazionali, e ci sono differenze nella storia, nella cultura, nel sistema sociale e nel livello di sviluppo economico e sociale.È necessario aderire alla combinazione dell’universalità dei diritti umani e delle condizioni reali di vari paesi e proteggere i diritti umani in base alle loro condizioni nazionali e alle esigenze delle persone. La promozione e la protezione dei diritti umani è la causa comune della comunità internazionale e tutti i paesi dovrebbero prestare uguale attenzione e promuovere sistematicamente vari tipi di diritti umani. La cooperazione internazionale in materia di diritti umani dovrebbe essere discussa da tutti i paesi sulla base di un dialogo paritario. Tutti i paesi dovrebbero godere dello stesso diritto allo sviluppo. Tutti i paesi dovrebbero svolgere la cooperazione e la cooperazione in materia di diritti umani sulla base dell’uguaglianza e del rispetto reciproco e rafforzare la costruzione del sistema internazionale dei diritti umani.

due

Le due parti credono che la pace, lo sviluppo e la cooperazione siano la corrente principale dell’odierno sistema internazionale. Lo sviluppo è la chiave per raggiungere il benessere delle persone. La continua diffusione dell’epidemia di COVID-19 ha portato gravi sfide all’attuazione globale dell’Agenda per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite 2030. È fondamentale migliorare il partenariato globale per lo sviluppo e spingere lo sviluppo globale verso una nuova fase di equilibrio, coordinamento e inclusività .

Le due parti promuoveranno attivamente la cooperazione tra la costruzione congiunta della “Cintura e della strada” e l’Unione economica eurasiatica e approfondiranno la cooperazione pratica tra la Cina e l’Unione economica eurasiatica in vari campi. Migliorare il livello di connettività nelle regioni Asia-Pacifico ed Eurasiatica. Le due parti sono disposte a continuare a promuovere lo sviluppo parallelo e coordinato della costruzione congiunta della “Belt and Road” e del “Greater Eurasian Partnership”, promuovere lo sviluppo delle organizzazioni regionali e il processo di integrazione economica bilaterale e multilaterale, e a beneficio delle persone di tutti i paesi del continente eurasiatico.

Le due parti hanno convenuto di approfondire ulteriormente la cooperazione pragmatica nello sviluppo sostenibile dell’Artico.

Le due parti rafforzeranno la cooperazione nei meccanismi multilaterali come le Nazioni Unite, promuoveranno la comunità internazionale a porre lo sviluppo in una posizione importante nel coordinamento delle politiche macro globali, inviteranno i paesi sviluppati ad adempiere seriamente ai loro obblighi APS, forniranno ai paesi in via di sviluppo maggiori risorse, e risolvere problemi di sviluppo tra paesi e all’interno dei paesi, squilibri e altre questioni e promuovere lo sviluppo globale e la cooperazione internazionale allo sviluppo. La parte russa ha ribadito la sua volontà di continuare a svolgere un lavoro rilevante sulla promozione dell’iniziativa di sviluppo globale proposta dalla parte cinese, inclusa la partecipazione alle attività del “Gruppo di amici dell’iniziativa di sviluppo globale” sulla piattaforma delle Nazioni Unite. Entrambe le parti invitano la comunità internazionale a concentrarsi sulla riduzione della povertà, la sicurezza alimentare, l’antiepidemia e i vaccini, il finanziamento dello sviluppo, il cambiamento climatico, lo sviluppo verde e sostenibile, l’industrializzazione, l’economia digitale, la connettività, ecc. e ad intraprendere azioni pratiche per accelerare il attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.

Le due parti chiedono alla comunità internazionale di creare un ambiente aperto, equo, giusto e non discriminatorio per lo sviluppo scientifico e tecnologico, accelerare la trasformazione delle conquiste scientifiche e tecnologiche in vere forze produttive e sfruttare un nuovo slancio per la crescita economica.

Le due parti chiedono ai paesi di rafforzare la cooperazione nel campo del trasporto sostenibile, svolgere attivamente lo sviluppo delle capacità di trasporto e lo scambio di conoscenze, compresi i trasporti intelligenti, il trasporto sostenibile, lo sviluppo e il funzionamento delle vie navigabili artiche, ecc., Per aiutare la ripresa globale dopo l’epidemia .

Le due parti hanno adottato misure forti per affrontare il cambiamento climatico e hanno dato importanti contributi. Le due parti hanno commemorato congiuntamente il 30° anniversario della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, hanno riaffermato la loro adesione agli obiettivi, ai principi e alle disposizioni della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e del suo Accordo di Parigi, in particolare il principio delle responsabilità comuni ma differenziate , e si è impegnata a promuovere congiuntamente la “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” e il relativo accordo di Parigi. L’accordo di Parigi è pienamente ed efficacemente attuato. Le due parti adempiranno ai rispettivi impegni e si aspettano che i paesi sviluppati attuino seriamente i 100 miliardi di dollari annuali di sostegno finanziario per il clima ai paesi in via di sviluppo. Le due parti si oppongono all’istituzione di nuove barriere commerciali internazionali sulla base della lotta al cambiamento climatico.

Le due parti promuovono fermamente la cooperazione internazionale e gli scambi sulla biodiversità, partecipano attivamente al processo di governance globale della biodiversità e promuovono congiuntamente lo sviluppo coordinato dell’uomo e della natura e la trasformazione verde e contribuiscono allo sviluppo sostenibile globale.

I capi di stato di Cina e Russia hanno affermato la fruttuosa cooperazione bilaterale e multilaterale tra le due parti in risposta alla pandemia globale di COVID-19 e salvaguardando la vita e la salute delle persone dei due paesi e del mondo. Le due parti continueranno a rafforzare la cooperazione nello sviluppo e nella produzione di vaccini e nuovi farmaci contro il coronavirus e ad approfondire la cooperazione nei settori della salute pubblica e della medicina moderna. Le due parti rafforzeranno il coordinamento e l’allineamento delle misure di prevenzione delle epidemie per fornire una forte garanzia per la salute, la sicurezza e gli scambi ordinati di personale tra i due paesi. Le due parti hanno commentato positivamente il lavoro svolto dai dipartimenti e dalle località competenti dei due paesi per garantire la prevenzione dell’epidemia nelle aree di confine e il funzionamento stabile dei porti, istituendo un meccanismo congiunto di prevenzione e controllo nelle aree di confine, coordinando la promozione di prevenzione e controllo delle epidemie, condivisione delle informazioni e costruzione di infrastrutture nei porti frontalieri e miglioramento continuo dell’efficienza delle spedizioni portuali.

Le due parti hanno sottolineato che rintracciare l’origine del nuovo coronavirus è una questione scientifica, che dovrebbe essere svolta in collaborazione con scienziati di tutto il mondo sulla base di una prospettiva globale, e opporsi alla politicizzazione della questione della ricerca dell’origine. La Russia accoglie favorevolmente la ricerca congiunta sulla tracciabilità condotta da Cina e OMS e sostiene il rapporto di ricerca sulla tracciabilità congiunta Cina-OMS. Entrambe le parti chiedono alla comunità internazionale di mantenere congiuntamente la natura scientifica e la serietà della ricerca sulla tracciabilità.

La Russia sostiene la Cina nell’ospitare con successo le Olimpiadi e le Paralimpiadi invernali di Pechino 2022.

Le due parti hanno parlato molto del livello di cooperazione tra i due paesi nello sport e nei Giochi Olimpici e sono disposte a promuovere ulteriormente lo sviluppo di una cooperazione pertinente.

tre

Le due parti hanno espresso profonda preoccupazione per le gravi sfide che devono affrontare la situazione della sicurezza internazionale e hanno creduto che le persone di tutti i paesi condividano un destino comune e che nessun paese può e non deve raggiungere la propria sicurezza staccandosi dalla sicurezza mondiale e a spese della sicurezza di altri paesi. La comunità internazionale dovrebbe partecipare attivamente alla governance della sicurezza globale per ottenere una sicurezza comune, globale, cooperativa e sostenibile.

Le due parti hanno ribadito di sostenere fermamente gli interessi fondamentali reciproci, la sovranità nazionale e l’integrità territoriale e si oppongono alle interferenze esterne negli affari interni dei due paesi.

La parte russa ha ribadito che si attiene al principio della Cina unica, riconosce che Taiwan è una parte inalienabile del territorio cinese e si oppone a qualsiasi forma di “indipendenza di Taiwan”.

Cina e Russia si oppongono alle forze esterne che minano la sicurezza e la stabilità delle aree circostanti comuni dei due paesi, si oppongono a forze esterne che interferiscono negli affari interni dei paesi sovrani con qualsiasi pretesto e si oppongono alle “rivoluzioni colorate” e rafforzeranno la cooperazione nei suddetti aree citate.

Le due parti hanno condannato il terrorismo in tutte le sue forme, esortato la comunità internazionale a istituire un fronte unito globale antiterrorismo incentrato sulle Nazioni Unite e rafforzato il coordinamento politico multilaterale e la cooperazione costruttiva nel campo dell’antiterrorismo. Si oppone alla politicizzazione e alla strumentalizzazione delle questioni antiterrorismo e all’attuazione di “doppi standard” e condanna l’uso di organizzazioni terroristiche ed estremiste e l’interferenza negli affari interni di altri paesi in nome della lotta al terrorismo internazionale e all’estremismo per raggiungere obiettivi geopolitici .

Le due parti ritengono che i singoli paesi, alleanze o alleanze politico-militari cerchino la superiorità militare unilaterale diretta o indiretta, danneggino la sicurezza di altri paesi attraverso la concorrenza sleale e altri mezzi, intensifichino la concorrenza geopolitica, esagerino la rivalità e il confronto, minano gravemente l’ordine di sicurezza internazionale , e minano la stabilità strategica globale. Le due parti si oppongono alla continua espansione della NATO e chiedono alla NATO di abbandonare l’ideologia della Guerra Fredda, rispettare la sovranità, la sicurezza, gli interessi e la diversità delle civiltà, della storia e della cultura di altri paesi e considerare lo sviluppo pacifico di altri paesi in modo obiettivo ed equo. Le due parti si oppongono all’instaurazione di un sistema di alleanze chiuse nella regione Asia-Pacifico e alla creazione di un campo di confronto, e sono molto vigili sull’impatto negativo della “strategia indo-pacifica” promossa dagli Stati Uniti sulla pace e la stabilità della regione. La Cina e la Russia si sono sempre impegnate a costruire un sistema di sicurezza nella regione dell’Asia-Pacifico che sia equo, aperto, inclusivo e non mirato ai paesi terzi, e mantenga pace, stabilità e prosperità.

Le due parti hanno accolto con favore la pubblicazione della Dichiarazione congiunta dei leader dei cinque Stati dotati di armi nucleari sulla prevenzione della guerra nucleare e sull’evitare una corsa agli armamenti e hanno affermato che tutti gli Stati dotati di armi nucleari dovrebbero abbandonare la mentalità della guerra fredda e il gioco a somma zero, ridurre il ruolo delle armi nucleari nelle politiche di sicurezza nazionale e ritirarsi Le armi nucleari dispiegate all’estero non consentono lo sviluppo illimitato del sistema antimissilistico globale, riducendo efficacemente il rischio di guerra nucleare e qualsiasi conflitto militare tra paesi con forze nucleari militari .

Le due parti hanno ribadito che il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari è la pietra angolare del sistema internazionale di disarmo e non proliferazione nucleare, una parte importante del sistema di sicurezza internazionale del dopoguerra, e il suo ruolo nella promozione della pace e dello sviluppo nel mondo è insostituibile. La comunità internazionale dovrebbe promuovere i tre pilastri del trattato in modo equilibrato e mantenere congiuntamente l’autorità, l’efficacia e l’universalità del trattato.

Le due parti hanno espresso seria preoccupazione per l’istituzione del “Partenariato trilaterale per la sicurezza” (AUKUS) tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia, in particolare per la cooperazione nei settori della stabilità strategica come i sottomarini a propulsione nucleare, aggravando il pericolo di una corsa agli armamenti regionale e ponendo un serio rischio di proliferazione nucleare. Le due parti condannano fermamente atti simili ed esortano gli stati membri dell’AUKUS ad adempiere rigorosamente ai loro obblighi per prevenire la proliferazione nucleare e missilistica e mantenere la pace, la stabilità e lo sviluppo regionali.

Le due parti hanno espresso seria preoccupazione per il previsto scarico nell’oceano da parte del Giappone di acqua radioattivamente inquinata dall’incidente della centrale nucleare di Fukushima e il suo potenziale impatto ambientale, sottolineando che il Giappone deve consultarsi pienamente con i paesi vicini e le altre parti interessate e le istituzioni internazionali pertinenti, e condurre dimostrazione aperta, trasparente, scientifica, Smaltire correttamente l’acqua contaminata radioattivamente in modo responsabile in conformità con il diritto internazionale.

Le due parti ritengono che dopo che gli Stati Uniti si sono ritirati dal Trattato INF, hanno accelerato lo sviluppo di missili terrestri a medio e corto raggio e hanno cercato di dispiegarli e fornirli ai loro alleati nelle regioni Asia-Pacifico ed europee , intensificando la tensione e la sfiducia, aumentando i rischi per la sicurezza internazionale e regionale e indebolendo la non proliferazione internazionale e il sistema di controllo degli armamenti mina la stabilità strategica globale. Le due parti esortano gli Stati Uniti a rispondere attivamente all’iniziativa della Russia e ad abbandonare i piani per dispiegare missili terrestri a medio e corto raggio nell’Asia-Pacifico e in Europa. Le due parti manterranno la comunicazione e rafforzeranno il coordinamento al riguardo.

La Cina comprende e sostiene le proposte avanzate dalla Russia per costruire una garanzia di sicurezza a lungo termine legalmente vincolante per l’Europa.

Le due parti hanno sottolineato che il ritiro degli Stati Uniti da una serie di importanti accordi internazionali nel campo del controllo degli armamenti ha avuto un enorme impatto negativo sulla sicurezza e stabilità internazionale e regionale. Entrambe le parti hanno espresso preoccupazione per il progresso degli Stati Uniti nel loro programma antimissilistico globale e il dispiegamento di sistemi antimissilistici in tutto il mondo, rafforzando al contempo le loro armi non nucleari ad alta precisione in grado di condurre missioni strategiche come attacchi preventivi. Le due parti hanno sottolineato l’importanza degli usi pacifici dello spazio extraatmosferico, hanno sostenuto fermamente il ruolo centrale del Comitato delle Nazioni Unite per gli usi pacifici dello spazio extraatmosferico nella promozione della cooperazione internazionale nello spazio extraatmosferico, nel mantenimento e nello sviluppo del diritto internazionale nel campo dello spazio extraatmosferico , e il controllo delle attività nello spazio extraatmosferico, e continuerà a discutere dello spazio extraatmosferico Rafforzare la cooperazione su questioni di interesse reciproco, come la sostenibilità a lungo termine delle attività spaziali e lo sviluppo e l’utilizzo delle risorse spaziali. Le due parti si oppongono ai tentativi di alcuni paesi di trasformare lo spazio esterno in un territorio di scontro militare, ribadiscono che faranno ogni sforzo per prevenire l’armamento e la corsa agli armamenti nello spazio esterno, si oppongono ad attività rilevanti volte a cercare la superiorità militare nello spazio esterno e condurre operazioni nello spazio extraatmosferico e ribadire che sulla base del progetto di Trattato sulla prevenzione del posizionamento di armi nello spazio extraatmosferico, l’uso o la minaccia dell’uso della forza su oggetti dello spazio extraatmosferico, Cina e Russia avvieranno negoziati il ​​prima possibile concludere un documento multilaterale giuridicamente vincolante per fornire una garanzia fondamentale e affidabile per prevenire una corsa agli armamenti e l’armamento nello spazio.

Cina e Russia sottolineano che le iniziative/impegni politici internazionali in materia di trasparenza e misure di rafforzamento della fiducia, compreso il “nessun primo dispiegamento di armi nello spazio esterno”, contribuiscono all’obiettivo di prevenire una corsa agli armamenti nello spazio esterno, ma tali misure sono solo complementari alla regolamentazione misure per le attività nello spazio extraatmosferico e non dovrebbero sostituire un meccanismo giuridicamente vincolante efficace.

Le due parti hanno riaffermato che la Convenzione sulle armi biologiche è un pilastro vitale della pace e della sicurezza internazionali e sono determinate a mantenere l’autorità e l’efficacia della Convenzione.

Le due parti riaffermano che la Convenzione dovrebbe essere pienamente rispettata e ulteriormente rafforzata, compresa l’istituzionalizzazione della Convenzione, il rafforzamento del meccanismo della Convenzione, la conclusione di un protocollo giuridicamente vincolante che includa un efficace meccanismo di verifica e la risoluzione delle questioni relative all’attuazione della Convenzione attraverso una regolare consultazione e cooperazione per qualsiasi problema.

Le due parti hanno sottolineato che le attività di militarizzazione biologica svolte dagli Stati Uniti e dai loro alleati in patria e all’estero hanno sollevato serie preoccupazioni e interrogativi da parte della comunità internazionale sulla sua conformità. Le attività in questione rappresentano una seria minaccia per la sicurezza nazionale di Cina e Russia e danneggiano anche la sicurezza delle regioni interessate. Le due parti esortano gli Stati Uniti ei loro alleati a chiarire le proprie attività di militarizzazione biologica in patria e all’estero in modo aperto, trasparente e responsabile e a sostenere la ripresa dei negoziati su un protocollo di verifica giuridicamente vincolante alla Convenzione sulle armi biologiche.

Le due parti hanno riaffermato il loro impegno per l’obiettivo di un mondo libero dalle armi chimiche e hanno invitato tutte le parti della Convenzione sulle armi chimiche a sostenere congiuntamente l’autorità e l’efficacia della Convenzione. La Cina e la Russia sono profondamente preoccupate per la politicizzazione dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche e invitano gli Stati parti a rafforzare la solidarietà e la cooperazione e a mantenere la tradizione del consenso. Cina e Russia esortano gli Stati Uniti ad accelerare la distruzione delle scorte di armi chimiche come unico Stato parte che non ha completato la distruzione di armi chimiche.

Le due parti hanno sottolineato che l’attuazione degli obblighi di non proliferazione dovrebbe essere bilanciata con la salvaguardia dei diritti e degli interessi legittimi dei paesi nella cooperazione internazionale nell’uso pacifico di tecnologie, materiali e attrezzature avanzati. Le due parti hanno sottolineato che la risoluzione su “Promuovere l’uso pacifico della cooperazione internazionale nel campo della sicurezza internazionale” proposta dalla parte cinese e proposta congiuntamente dalla parte russa è stata adottata dalla 76a Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Entrambe le parti attribuiscono grande importanza alla questione della governance dell’IA. Le due parti sono disposte a rafforzare gli scambi e i dialoghi su questioni di intelligenza artificiale.

Le due parti hanno ribadito che approfondiranno la cooperazione nel campo della sicurezza internazionale dell’informazione e promuoveranno la creazione di un ambiente aperto, sicuro, sostenibile e accessibile per le tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Le due parti hanno sottolineato che i principi di non uso della forza, rispetto della sovranità nazionale e dei diritti e delle libertà fondamentali dell’uomo e della non interferenza negli affari interni stabiliti nella Carta delle Nazioni Unite si applicano allo spazio dell’informazione, hanno riaffermato il ruolo chiave dell’ONU nel rispondere alle minacce alla sicurezza internazionale dell’informazione e ha sostenuto le Nazioni Unite nella formulazione di nuove politiche in questo settore.codice di condotta nazionale.

Le due parti accolgono con favore lo svolgimento di negoziati globali nel campo della sicurezza dell’informazione internazionale nel quadro di un meccanismo unificato, sostengono il lavoro del gruppo di lavoro aperto delle Nazioni Unite sulla sicurezza dell’informazione per il periodo 2021-2025 e sono disposte ad esprimere posizioni comuni all’interno il gruppo di lavoro. Le due parti ritengono che la comunità internazionale dovrebbe lavorare insieme per formulare un nuovo e responsabile codice di condotta nazionale nel cyberspazio dell’informazione, compreso un documento legale internazionale universale con forza legale che regoli le attività di vari paesi nel campo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione . Le due parti ritengono che la Global Data Security Initiative proposta dalla Cina e sostenuta in linea di principio dalla Russia fornisca una base per il gruppo di lavoro per discutere e formulare contromisure per la sicurezza dei dati e altre minacce internazionali alla sicurezza delle informazioni.

Le due parti hanno ribadito il loro sostegno alle Risoluzioni 74/247 e 75/282 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, al lavoro del Comitato intergovernativo di esperti ad hoc, alla promozione della negoziazione di una convenzione internazionale contro l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione a fini criminali nel quadro delle Nazioni Unite e ha sostenuto che tutte le parti partecipino in modo costruttivo ai negoziati per garantire che una convenzione globale autorevole e universale possa essere raggiunta il prima possibile in conformità con la risoluzione 75/282 dell’UNGA e presentata alla 78a sessione dell’UNGA . Cina e Russia hanno presentato congiuntamente il progetto di convenzione come base per i relativi negoziati.

Le due parti sostengono l’istituzione di un sistema internazionale di governance di Internet. Credono che tutti i paesi abbiano uguali diritti alla governance di Internet e che i paesi sovrani abbiano il diritto di controllare e proteggere la propria sicurezza della rete. Qualsiasi tentativo di limitare la sovranità della rete nazionale è inaccettabile , e l’Unione internazionale delle telecomunicazioni dovrebbe essere incoraggiata a risolvere le questioni rilevanti. svolgere un ruolo più attivo.

Le due parti approfondiranno la cooperazione bilaterale nel campo della sicurezza internazionale dell’informazione sulla base dell’accordo tra il governo della Repubblica popolare cinese e il governo della Federazione russa sulla cooperazione nel campo della garanzia della sicurezza internazionale dell’informazione (firmato a maggio 8, 2015) programma di cooperazione in questo campo.

quattro

Le due parti hanno sottolineato che Cina e Russia, in quanto maggiori potenze mondiali e membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sosterranno la responsabilità e la moralità, salvaguarderanno fermamente il sistema internazionale in cui l’ONU svolge un ruolo centrale di coordinamento negli affari internazionali e con fermezza sostenere i principi del diritto internazionale, compresi gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite.Lavoreremo insieme per costruire un mondo più prospero, stabile, equo e giusto e costruire un nuovo tipo di relazioni internazionali.

La parte russa ha parlato positivamente del concetto cinese di costruire una comunità con un futuro condiviso per l’umanità, che aiuterà a rafforzare la solidarietà della comunità internazionale e ad affrontare insieme le sfide comuni. La Cina parla positivamente degli sforzi della Russia per costruire un sistema di relazioni internazionali equo e multipolare.

Le due parti hanno difeso fermamente la vittoria della seconda guerra mondiale e l’ordine internazionale del dopoguerra, hanno salvaguardato risolutamente l’autorità delle Nazioni Unite e l’equità e la giustizia internazionali e si sono opposte ai tentativi di negare, distorcere e manomettere la storia della seconda guerra mondiale.

Per evitare che si ripetesse la tragedia della guerra mondiale, le due parti condannarono risolutamente gli aggressori fascisti e militaristi ei loro complici a sottrarsi alle colpe storiche e calunniare i paesi vincitori.

Le due parti hanno sostenuto e promosso la costruzione di un nuovo tipo di relazione tra i principali paesi caratterizzati da rispetto reciproco, convivenza pacifica e cooperazione vantaggiosa per tutti, e hanno sottolineato che il nuovo tipo di relazione tra Cina e Russia va oltre il modello di alleanza politico-militare durante la Guerra Fredda. Non c’è limite all’amicizia tra i due paesi, non c’è uno spazio ristretto per la cooperazione.Il rafforzamento della cooperazione strategica non è rivolto a un paese terzo, né è influenzato dai cambiamenti del paese terzo e della situazione internazionale.

Le due parti hanno ribadito che la comunità internazionale dovrebbe essere unita piuttosto che divisa e dovrebbe cooperare piuttosto che confrontarsi. Le due parti si oppongono al ritorno delle relazioni internazionali nell’era del confronto tra le grandi potenze e la legge della giungla. Contrastare i tentativi di sostituire accordi e meccanismi generalmente accettati conformi al diritto internazionale con regole di “piccola cerchia” formulate da singoli paesi e gruppi di paesi, opporsi all’uso di soluzioni evasive che non hanno raggiunto un consenso per risolvere problemi internazionali, contrastare la politica di potere, il bullismo , e sanzioni unilaterali e “giurisdizione a braccio lungo”, che si oppone all’abuso dei controlli sulle esportazioni e sostiene e facilita il commercio conforme all’OMC.

Le due parti hanno ribadito che rafforzeranno il coordinamento della politica estera, praticheranno un autentico multilateralismo, rafforzeranno la cooperazione all’interno dei meccanismi multilaterali, salvaguarderanno gli interessi comuni, manterranno l’equilibrio del potere internazionale e regionale e lavoreranno insieme per migliorare la governance globale.

Le due parti sostengono e mantengono il sistema commerciale multilaterale con al centro l’OMC, partecipano attivamente alla riforma dell’OMC e si oppongono all’unilateralismo e al protezionismo. Le due parti rafforzeranno il dialogo, la cooperazione e il coordinamento delle posizioni su questioni economiche e commerciali di interesse comune, contribuiranno a garantire il funzionamento stabile ea lungo termine delle catene industriali e di approvvigionamento globali e regionali e promuoveranno l’istituzione di un sistema più aperto, inclusivo, sistema di regole economiche e commerciali internazionali trasparente e non discriminatorio.

Le due parti sostengono il G20 per svolgere il ruolo di forum principale per la cooperazione economica internazionale e un’importante piattaforma per la risposta alle crisi, e promuovono congiuntamente il G20 per portare avanti lo spirito di solidarietà e cooperazione nella lotta internazionale contro l’epidemia, la ripresa dell’economia mondiale, la promozione dello sviluppo inclusivo e sostenibile e il miglioramento di un ambiente globale equo e ragionevole Giocheremo un ruolo guida nel sistema di governance economica e in altri aspetti e lavoreremo insieme per affrontare le sfide globali.

Le due parti sostengono i paesi BRICS per approfondire la loro partnership strategica, espandere la cooperazione nelle tre direzioni principali di sicurezza politica, economia, commercio e finanza e scambi interpersonali e culturali, promuovere la cooperazione nelle innovazioni scientifiche e tecnologiche come quelle pubbliche salute, economia digitale e intelligenza artificiale e migliorare il livello di cooperazione internazionale BRICS. Le due parti sono impegnate nel modello “BRICS+” e nel Dialogo BRICS come meccanismo di dialogo efficace con i paesi in via di sviluppo ei paesi dei mercati emergenti, i meccanismi e le organizzazioni di integrazione regionale.

La parte russa sosterrà pienamente la parte cinese nel suo lavoro come presidenza BRICS nel 2022 e promuoverà congiuntamente la 14a riunione dei leader BRICS per ottenere risultati fruttuosi.

Le due parti rafforzeranno e rafforzeranno ulteriormente il ruolo dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai e promuoveranno la costruzione di un modello mondiale multipolare basato su norme riconosciute di diritto internazionale, multilateralismo, uguaglianza, comune, indivisibile, globale, cooperativo e sostenibile sicurezza.

Le due parti ritengono che sia fondamentale attuare il consenso sul miglioramento della risposta degli Stati membri della SCO alle sfide e alle minacce alla sicurezza e, a tal fine, entrambe le parti sostengono l’espansione delle funzioni dell’agenzia regionale antiterrorismo della SCO.

Le due parti promuoveranno il miglioramento e il potenziamento della cooperazione economica tra gli Stati membri della SCO, continueranno a rafforzare la cooperazione tra gli Stati membri in aree di interesse comune come il commercio, l’industria, i trasporti, l’energia, la finanza, gli investimenti, l’agricoltura, le dogane, telecomunicazioni, innovazione, ecc. Risparmio, risparmio energetico, applicazione della tecnologia verde.

Le due parti hanno sottolineato che lo “Shanghai Cooperation Organization Member States Intergovernmental Cooperation Agreement on Safeguarding International Information Security” (firmato il 16 giugno 2009) e la cooperazione nell’ambito del SCO Member States International Information Security Expert Group hanno ottenuto risultati fruttuosi Il “Piano di cooperazione 2022-2023 per gli Stati membri della SCO per salvaguardare la sicurezza dell’informazione internazionale” adottato dal Consiglio dei capi di Stato degli Stati membri della SCO a Dushanbe il 17.

Le due parti ritengono che l’importanza della cooperazione interpersonale e culturale per lo sviluppo della SCO sia in costante aumento. Le due parti approfondiranno ulteriormente la cooperazione in materia di cultura, istruzione, scienza e tecnologia, salute, protezione ambientale, turismo, scambi di personale e sport tra gli Stati membri della SCO e miglioreranno la comprensione reciproca tra le persone degli Stati membri.

Le due parti continueranno a consolidare il ruolo dell’APEC come principale piattaforma di dialogo economico multilaterale nella regione, rafforzeranno la collaborazione nell’attuazione dell’APEC Putrajaya Vision 2040 e costruiranno aree regionali libere, aperte, eque, non discriminatorie, trasparenti e prevedibili. commercio Ambiente di investimento, concentrandosi sul rafforzamento della risposta alla nuova epidemia di polmonite coronarica, sulla promozione della ripresa economica, sulla promozione della trasformazione digitale in vari campi, sul rilancio dell’economia delle aree remote e sul sostegno dell’APEC e di altre organizzazioni multilaterali regionali per svolgere la cooperazione nelle aree di cui sopra .

Le due parti continueranno a portare avanti la cooperazione nell’ambito del meccanismo Cina-Russia-India e rafforzeranno la cooperazione in piattaforme come il vertice dell’Asia orientale, il forum regionale dell’ASEAN e l’incontro dei ministri della difesa dell’ASEAN Plus. Cina e Russia sostengono la centralità dell’ASEAN nella cooperazione dell’Asia orientale, continuano a rafforzare il coordinamento per approfondire la cooperazione con l’ASEAN, promuovono congiuntamente la cooperazione in materia di salute pubblica, sviluppo sostenibile, antiterrorismo e lotta ai crimini transnazionali e rafforzano il ruolo dell’ASEAN come componente chiave della architettura.

4 febbraio 2022 a Pechino

Si tratta di una dichiarazione molto lunga, che non nomina la parola “alleanza”, ma ci va vicino. In essa viene dichiarata con una formula tipicamente cinese la necessità di plasmare un mondo multipolare e cita i due nodi rispettivamente cruciali dell’espansione della Nato e della richiesta indipendenza di Taiwan, sostenendo le posizioni rispettive. Taiwan è parte della Cina “inalienabile” e la Nato non deve espandersi ancora. La dichiarazione non fa capire che la Cina fosse al corrente dell’imminente invasione.

Altri elementi:

  • impegno ad aumentare l’interscambio di 250 miliardi all’anno (oggi è 140, traduzione: triplica),
  • promozione delle valute nazionali (traduzione: il gas ed il petrolio russo non saranno più pagati in dollari),
  • cooperazione tecnico-militare,
  • interoperabilità informatica,
  • potenziamento della vendita di gas e petrolio (10 miliardi di mc, traduzione: meno per noi, anche se poco)
  • rivendicazione del multilateralismo e del principio di autodeterminazione dei popoli,
  • censura ai tentativi di ideologizzare le relazioni internazionali, di stabilire standard e doppi standard e di imporli con la forza, delle ‘rivoluzioni colorate’,
  • invito a dismettere arsenali chimici e biologici (diretto agli Usa per esplicita menzione),
  • impegno al sostegno reciproco.

Sostegno che al momento è solo diplomatico, in quanto l’invasione russa è fortemente estranea alle tradizioni diplomatiche dell’impero di mezzo e imbarazzante per il complesso quadro d’area nel quale la Cina si muove.

Nel concetto cinese di Tianxia (la “via del cielo”) è presente quel che Azzarà in un suo recente libro[14] chiama universalismo concreto e dialettica dell’inclusione. Contro la tradizione del razionalismo occidentale, che pensa a partire dal principio individuale e finisce per divenire copertura di interessi di parte, geopolitici o altro, seguendo una falsa generalizzazione autocontraddittoria (ovvero non realmente universalizzabile, se non piegando e non riconoscendo l’altro) per l’impostazione cinese la razionalità è realmente tale se porta ad una situazione collettiva accettata senza coercizione. Una ‘razionalità collettiva’ che non può essere definita ex ante, ma solo a seguito di un processo concreto di confronto. Processo dal quale emerge il piano cooperativo. Una “razionalità relazionale”, come propone di chiamarla Azzarà[15], che non produce necessariamente e strutturalmente amici e nemici. Per il Tianxia, al contrario, ogni fenomeno produce necessariamente una ‘vita in comune’ e rappresenta una ‘totalità’. Questo è una componente del concetto di “armonia” che è al centro dell’approccio diplomatico cinese.

Il sistema mondiale è di tutti in questo senso, 大道之行也天下為公, “quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti”, un verso del testo confuciano “I riti”, ripreso da Qing Kang Youwei e dal Sun Yat-sen nell’espressione “Tian xia wei gong”. Come ogni concetto sintetico ha una dimensione utopica (sin dalla sua formazione nella tarda epoca Qing, ma anche di orientamento.

Del resto la radice di tale diverso atteggiamento è molto profonda, come mostra Yuk Hui nel suo “Cosmotecnica”[16] il tema al cuore della filosofia cinese non è l’’essere’, quanto il ‘vivente’. Ovvero, nel confucianesimo come nel daoismo, la possibilità di condurre una vita morale e buona. La vita è soggetta a causalità reciproca e l’universo è in essa sempre pensato come una totalità di relazioni. Nel confucianesimo, racconta il filosofo cinese, “il Dao è riconosciuto come coerenza tra l’ordine cosmologico e quello morale, e tale coerenza è chiamata zi ran, spesso tradotto con ‘natura’”[17]. ‘Natura’ nel cinese moderno significa piante, fiumi, etc. ma anche attuare e comportarsi in armonia con il sé e senza pretesa, “lasciare che le cose siano come sono”. Cosmo ed essere umano sono sempre connessi, se pure mediati da esseri tecnici (Qi). Nella cultura cinese l’odine cosmologico non può essere ‘perfezionato’ dalla techné, perché è sempre anche un ordine morale.

Ne segue che la verità non può derivare dalla violenza, ma solo dall’armonia. Incarnando l’armonia.

Quindi la relazione tra umani è pensata a partire dalla risonanza, anziché come nel pensiero greco sulla guerra (polemos) e il conflitto (eris). Nel daoismo il principio del governo sarà wu wei zhi zhi, “governare senza intervenire”, ovvero lasciare che le cose siano, si sviluppino, diventino se stesse e raggiungano il proprio potenziale.

Avremmo da imparare, se sapessimo essere con l’altro.

FONTE: https://tempofertile.blogspot.com/2022/03/guerra-ucraina-note-sul-punto-di-vista.html

Note

[1] – https://www.scmp.com/

[2] – http://www.chinadaily.com.cn/

[3] – https://www.nytimes.com/

[4] – https://news.bjd.com.cn//2022/03/05/10050663.shtml

[5] – https://asiatimes.com/

[6] – https://asiatimes.com/2022/02/russias-strategy-to-destroy-ukraine-army-going-to-plan/

[7] – https://timesofindia.indiatimes.com/india/data/russia-ukraine-history

[8] – https://timesofindia.indiatimes.com/india/six-times-when-the-soviet-veto-came-to-indias-rescue/articleshow/89941338.cms

[9] – https://indianexpress.com/article/world/ukraine-russia-war-what-could-be-a-way-out-7802307/

[10] – https://www.dawn.com/news/1678353/us-warns-pakistan-of-ukraine-war-consequences

[11] – https://news.bjd.com.cn//2022/02/21/10044979.shtml

[12] – https://www.ansa.it/amp/sito/notizie/mondo/dalla_cina/2022/02/26/cina-wang-yi-elabora-posizione-sullucraina_c588f530-bc74-44a8-a89d-4637eea4c122.html?fbclid=IwAR2ppmNzWfUqTJUE5zpqj4wGFsdcoGKIr20MyTPktnpHbTDlIVsKMevLfok

[13] – Che devo riprendere da questo link non essendo più disponibili i siti russi:

https://observatoriocrisis.com/2022/02/06/desempaquetando-la-declaracion-conjunta-china-rusa/?fbclid=IwAR3tadzZ0rJFXhsIq95hdypqf7wrA1nl0lb1A3ZcF3Wf6dZnJsZDm43f2Nw ;

questa è la versione cinese: http://www.gov.cn/xinwen/2022-02/04/content_5672025.htm

[14] – Stefano G. Azzarà, “Il virus dell’occidente”, Mimesis 2020.[15] – Ivi, p. 108[16] – Yuk Hui, “Cosmotecnica. La questione della tecnologia in Cina”, Nero 2021.[17] – Ivi, p.65.

ILAN PAPPE’- “LE QUATTRO LEZIONI DALL’UCRAINA: I DOPPI STANDARD OCCIDENTALI”

USA Today [terzo quotidiano più venduto negli USA, ndtr.] ha informato che una foto diventata virale di un grattacielo colpito da un bombardamento russo in Ucraina è risultata essere di un grattacielo demolito nella Striscia di Gaza dall’aviazione israeliana nel maggio 2021. Pochi giorni prima il ministero degli Esteri ucraino si è lamentato con l’ambasciatore israeliano a Kiev che “ci state trattando come Gaza”. Era furioso che Israele non avesse condannato l’invasione russa e fosse interessato esclusivamente a portare via i cittadini israeliani dallo Stato (Haaretz, 17 febbraio 2022). Si è trattato di un misto di riferimenti all’evacuazione da parte dell’Ucraina di mogli ucraine sposate con palestinesi dalla Striscia di Gaza nel maggio 2021 e un ricordo a Israele del pieno appoggio del presidente ucraino all’attacco israeliano contro la Striscia di Gaza di quel mese (tornerò a quell’appoggio verso la fine di questo articolo).

In effetti quando si valuta l’attuale crisi in Ucraina gli attacchi israeliani contro Gaza dovrebbero essere citati e presi in considerazione. Non è un caso che alcune foto vengano confuse: non ci sono molti grattacieli che siano stati abbattuti in Ucraina, ma ce ne sono parecchi che sono stati distrutti nella Striscia di Gaza. Tuttavia quando si prende in considerazione la crisi ucraina in un contesto più ampio non emerge solo l’ipocrisia riguardo alla Palestina. È il complessivo doppio standard dell’Occidente che dovrebbe essere analizzato, senza rimanere neppure per un istante indifferenti alle notizie e alle immagini che ci giungono dalla zona di guerra in Ucraina: bambini traumatizzati, flussi di rifugiati, bellezze architettoniche distrutte dai bombardamenti e il pericolo incombente che ciò sia solo l’inizio di una catastrofe umanitaria nel cuore dell’Europa.

Nel contempo quanti di noi hanno sperimentato, informato e raccontato le catastrofi umanitarie in Palestina non possono ignorare l’ipocrisia dell’Occidente, e possiamo evidenziarlo senza sminuire per un solo momento la nostra solidarietà umana ed empatia con le vittime di ogni guerra.

Lo dobbiamo fare in quanto la disonestà etica che è implicita negli scopi ingannevoli stabiliti dalle élite politiche e dai media occidentali li porterà ancora una volta a nascondere il loro razzismo e la loro impunità in quanto continuerà a garantire l’immunità a Israele e alla sua oppressione dei palestinesi. Ho individuato quattro affermazioni false che fino ad ora sono al centro dell’impegno delle élite occidentali con la crisi ucraina e le ho strutturate come quattro lezioni.

Prima lezione: i rifugiati bianchi sono benvenuti, gli altri molto meno

L’inedita decisione collettiva dell’UE di aprire le sue frontiere ai rifugiati ucraini, seguita da una politica più prudente della Gran Bretagna, non può passare inosservata rispetto alla chiusura della maggior parte degli ingressi in Europa ai rifugiati che arrivano dal mondo arabo e dall’Africa dal 2015. La priorità chiaramente razzista che distingue in base al colore, alla religione e all’etnia tra chi cerca di salvarsi la vita è aberrante, ma è improbabile che cambi molto rapidamente. Alcuni dirigenti europei non si vergognano neppure di esprimere pubblicamente il proprio razzismo, come ha fatto il primo ministro bulgaro Kiril Petkov:

“Questi (i rifugiati ucraini) non sono i rifugiati a cui siamo abituati…questa gente è europea. Queste persone sono intelligenti, sono istruite… Non è l’ondata di rifugiati a cui siamo abituati, persone della cui identità non siamo sicuri, senza un passato chiaro, che potrebbero persino essere stati dei terroristi…”

Non è solo. I mezzi di comunicazione occidentali parlano tutto il tempo del “nostro tipo di rifugiati”, e questo razzismo si esprime chiaramente ai valichi di confine tra l’Ucraina e i suoi vicini europei. Questo atteggiamento razzista, con sfumature chiaramente islamofobe, non cambierà, dato che i dirigenti europei stanno ancora negando il tessuto multietnico e multiculturale delle società in tutto il continente. Una realtà umana creata da anni di colonialismo e imperialismo europei che gli attuali governi europei negano e ignorano e, nel contempo, questi governi perseguono politiche migratorie basate sullo stesso razzismo che permeava il colonialismo e l’imperialismo del passato.

Seconda lezione: puoi invadere l’Iraq ma non l’Ucraina

La mancanza di volontà dei media occidentali di contestualizzare la decisione russa di invadere all’interno di una più ampia, e ovvia, analisi di come nel 2003 siano cambiate le regole del gioco internazionale è veramente sconcertante. È difficile trovare un’analisi che evidenzi il fatto che gli USA e la Gran Bretagna violarono le leggi internazionali contro la sovranità di uno Stato quando i loro eserciti, con una coalizione di Paesi occidentali, invasero l’Afghanistan e l’Iraq. Occupare un intero Paese per scopi politici non è stato inventato in questo secolo da Vladimir Putin, è stato inaugurato dall’Occidente come uno strumento giustificato di politica.

Terza lezione: a volte il neonazismo può essere accettabile

L’analisi riguardo all’Ucraina non evidenzia neppure alcuni dei validi argomenti di Putin, che non giustificano affatto l’invasione, ma che richiedono la nostra attenzione persino durante l’invasione. Fino all’attuale crisi i mezzi di comunicazione progressisti occidentali, come The Nation, the Guardian, the Washington Post, ecc., ci hanno messi in guardia dal crescente potere dei gruppi neonazisti in Ucraina che potrebbe incidere sul futuro dell’Europa, e non solo. Gli stessi mezzi di informazione oggi ignorano l’importanza del neonazismo in Ucraina.

Il 22 febbraio 2019 The Nation informava:

“Oggi crescenti notizie sulla violenza di estrema destra, dell’ultranazionalismo e dell’erosione delle libertà fondamentali stanno smentendo l’iniziale euforia dell’Occidente. Ci sono pogrom neonazisti contro i rom, crescenti aggressioni contro femministe e gruppi LGBT, censura di libri e glorificazione sponsorizzata dallo Stato di collaboratori del nazismo.”

Due anni prima il Washington Post (15 giugno 2017) aveva avvertito, in modo molto perspicace, che uno scontro dell’Ucraina con la Russia non avrebbe dovuto portarci a dimenticare il potere del neonazismo in Ucraina:

“Mentre la lotta dell’Ucraina contro i separatisti appoggiati dalla Russia continua, Kiev affronta un’altra minaccia a lungo termine alla sua sovranità: potenti gruppi ultranazionalisti di estrema destra. Queste organizzazioni non si vergognano di utilizzare la violenza per raggiungere i propri obiettivi, che sono sicuramente in contrasto con la tollerante democrazia di tipo occidentale che Kiev cerca apparentemente di diventare.”

Tuttavia oggi il Washington Post adotta un atteggiamento sprezzante e definisce una descrizione simile come un’“accusa falsa”:

“In Ucraina agiscono una serie di gruppi nazionalisti paramilitari, come il movimento Azov e il Settore di Destra, che abbracciano un’ideologia neonazista. Benché di spicco, sembrano avere scarse adesioni. Solo un partito di estrema destra, Svoboda, è rappresentato nel parlamento ucraino, e ha solo un deputato.”

I precedenti avvertimenti di un mezzo di comunicazione come The Hill (9 novembre 2017), il principale sito indipendente di notizie degli USA, sono dimenticate:

“In effetti ci sono formazioni neonaziste in Ucraina. Ciò è stato massicciamente confermato da quasi tutti i principali mezzi di informazione occidentali. Il fatto che alcuni analisti possano smentirlo come propaganda diffusa da Mosca è profondamente inquietante, soprattutto alla luce dell’attuale incremento di neonazisti e suprematisti bianchi in tutto il pianeta.”

Quarta lezione: colpire grattacieli è un crimine di guerra solo in Europa

Foto acquisita da ANSA su Twitter e rilanciata da RAI e molti network internazionali

Non solo la dirigenza ucraina ha rapporti con questi gruppi e milizie neonazisti, è anche filo-israeliano in modo preoccupante e imbarazzante. Uno dei primi atti del presidente Volodymyr Zelensky è stato il ritiro dell’Ucraina dalla Commissione delle Nazioni Unite sull’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese, l’unico tribunale internazionale a garantire che la Nakba non venga negata o dimenticata.

L’iniziativa è stata del presidente ucraino. Egli non ha dimostrato alcuna solidarietà nei confronti delle sofferenze dei rifugiati palestinesi, né li ha considerati vittime di crimini. Nella sua intervista dopo l’ultimo barbaro bombardamento israeliano della Striscia di Gaza nel maggio 2021 ha affermato che l’unica tragedia a Gaza è stata quella patita dagli israeliani. Se è così, allora sono solo i russi che soffrono in Ucraina.

Ma Zelensky non è solo. Quando si tratta della Palestina l’ipocrisia raggiunge livelli mai visti. Un grattacielo vuoto colpito in Ucraina ha dominato le notizie e provocato profonde analisi su brutalità umana, Putin e disumanità. Ovviamente questi bombardamenti devono essere condannati, ma risulta che quelli tra i leader del mondo che guidano la condanna rimasero in silenzio quando Israele rase al suolo la città di Jenin nel 2000, il quartiere di Al-Dahaya a Beirut nel 2006 e la città di Gaza negli ultimi 15 anni in un’ondata di brutalità dietro l’altra.

Non è stata discussa, per non dire imposta, alcuna sanzione di qualunque tipo contro Israele per i suoi crimini di guerra dal 1948 in poi. Di fatto nella stragrande maggioranza dei Paesi occidentali che oggi stanno guidando le sanzioni contro la Russia persino menzionare la possibilità di imporre sanzioni contro Israele è illegale e considerato antisemita.

Persino quando è giustamente espressa la sincera solidarietà umana dell’Occidente nei confronti dell’Ucraina non possiamo ignorare questo contesto razzista ed eurocentrico. La massiccia solidarietà dell’Occidente è riservata a chi voglia unirsi al suo blocco e alla sua sfera di influenza. Questa empatia ufficiale non appare affatto quando violenze simili, e peggiori, sono dirette contro non-europei in generale, e verso i palestinesi in particolare.

Ci possiamo orientare come persone di coscienza tra le nostre risposte alle calamità e la nostra responsabilità per evidenziare l’ipocrisia che in molti modi ha aperto la strada a queste catastrofi. Legittimare a livello internazionale l’invasione di Paesi sovrani e consentire la continua colonizzazione e oppressione di altri, come la Palestina e il suo popolo, porterà in futuro a ulteriori tragedie come quella dell’Ucraina, e ovunque sul nostro pianeta.

– Ilan Pappé è docente all’università di Exeter. È stato in precedenza professore associato all’università di Haifa. È autore di La pulizia etnica della Palestina [Fazi, 2008], The Modern Middle East [Il moderno Medio Oriente], Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli [Einaudi, 2014] e Ten Myths about Israel [Dieci miti su Israele]. Pappé è considerato uno dei “nuovi storici” israeliani che, da quando all’inizio degli anni ’80 sono stati resi pubblici documenti ufficiali britannici e israeliani sull’argomento, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha concesso questo articolo a The Palestine Chronicle.

(traduzione dall’inglese di Amedeo Rossi)

Pino Cabras su guerra, energia, transizione, informazione, controllo sociale (VIDEO-intervista)

Intervista di Max Civili a Pino Cabras, deputato ex M5Stelle, attualmente gruppo Misto Alternativa, sulle implicazioni della guerra in corso e dell’interventismo italiano e dei paesi occidentali.

Intervista a Pino Cabras del 4 marzo 2022

Russia/Ukraina: La pace si raggiunge con più autonomia UE e bloccando l’allargamento della Nato.

Ciò che è avvenuto e sta avvenendo in Ukraina può essere letto come segue; ma una premessa necessaria riguarda i principi e i riferimenti al diritto internazionale, ai quali è sempre bene riferirsi e che nessuno dei contendenti ha mai rispettato da decenni a questa parte, tanto meno i “civili” europei.

Non lo si è rispettato a partire dalla precedente guerra in Europa, quella in Jugoslavia, paese che è stato bombardato senza alcun ritegno né rimorso dalla Nato, con la partecipazione decisiva del Governo D’Alema, forse varato all’uopo, con ministro della Difesa Sergio Mattarella; con la partecipazione attiva e decisiva del Vaticano di Papa Wojtyla, della Germania e di tutto il resto, inaugurando la tragica stagione dei nazionalismi etnici e religiosi secondo uno schema già sperimentato nel mondo post coloniale in Africa dalle multinazionali americane e europee e proseguito con la creazione e il sostegno all’islamismo wahhabita prima in Afghanistan in funzione anti-sovietica, successivamente nei territori palestinesi occupati da Israele, nel confitto Irak-Iran tra sunniti e sciiti e nella successiva aggressione all’Irak, in Algeria, in Egitto, nel Caucaso, in Libia, in Siria.

Non lo si è rispettato neanche più recentemente con il riconoscimento Usa dell’annessione del grande Sahara occidentale da parte del Marocco e con le assurdità del Kosovo o del Montenegro, di nuovo nei Balcani.

Il principio dell’autodeterminazione da una parte e dell’integrità territoriale degli stati, dall’altra, sono stati usati e vengono usati a piacimento e senza alcuno scrupolo logico o morale. Di volta in volta il quinto potere mass-mediatico è tenuto a cancellare la memoria storica delle masse e a innestarvi il principio di diritto più utile al momento.

Questa è il letamaio, dal punto di vista dei principi, che abbiamo di fronte e rispetto a questa situazione bisognerebbe tener presente che la narrazione con cui ognuno ha a che fare nei rispettivi paesi è intrisa di propaganda, ipocrisie e falsità storiche.

Venendo al presente: sono più di sette anni che la Russia chiede di applicare gli accordi di Minsk seguiti alle vicende di Piazza Maidan e allo spostamento dell’asse di riferimento internazionale dell’Ukraina. Lo ha continuato a chiedere fino alle più recenti settimane. Nel frattempo i morti sul confine delle due repubbliche russofone sono state circa 22 mila e i profughi verso est centinaia di migliaia. L’accordo prevedeva una autonomia delle due repubbliche entro i confini ucraini analoga a quella di cui gode, in Italia, la provincia dell’Alto Adige. L’esercito ucraino ha continuato a presidiare quel confine con bombardamenti che in questi ultimi mesi di crisi, anziché ridursi si sono intensificati.

Parallelamente la richiesta di adesione alla Nato da parte dell’Ukraina e l’arrivo di armamenti sofisticati da Gran Bretagna e Usa hanno messo sotto ulteriore pressione la Russia, già da anni allarmata dall’avanzamento della Nato fino ai suoi confini, contrariamente a quanto 30 anni prima promesso dai vertici Usa all’atto della riunificazione tedesca.

La vicenda è più che calda da quando la Russia ha rioccupato la Crimea (essenzialmente per non perdere la sua base navale sul Mar Nero) e da allora i segnali di rischio di grave deterioramento delle relazioni tra Russia e occidente erano evidentissimi.

Cosa hanno fatto, in questo frattempo, la Nato e l’Europa rispetto a queste preoccupanti evidenze?

La Nato ha proseguito nella sua strategia di accerchiamento della Russia. L’Europa ha tentato di proseguire su una via di cooperazione economica avviata da tempo (il proseguimento della visione di Willy Brandt in epoca sovietica) ma è stata bloccata proprio nel 2014 con la rivolta colorata di Piazza Maidan e il sovvertimento del governo ukraino di allora: in quegli anni l’allora vicepresidente USA, Biden, piazzò al vertice della compagnia di gas dell’Ukraina (che controllava il gasdotto centrale proveniente dalla Russia che arrivava in Europa), il proprio figlio, Richard Hunter Biden.

Quanto ai rapporti russo-tedeschi, nel board della Gazprom (Consorzio per il gasdotto North Stream) già sedeva, l’ex cancelliere socialdemocratico tedesco, Gerhard Schröder. Gasdotto che era ed è tutto un programma: transazione diretta di energia, senza passare per Ukraina e altri paesi centro europei che, all’occorrenza, possono chiudere il rubinetto o pretendere maggiori royalties per i diritti di passaggio, cosa che l’Ukraina ha fatto con continuità programmatica.

Il North Stream è in nuce la possibilità di una cooperazione diretta EU-Russia, cioè l’aborrito scenario di cooperazione euro-asiatica che il segretario di stato Usa Brezinsky, tra gli ultimi a tornare sulla materia, definì come la cosa più pericolosa che potesse accadere per gli interessi globali USA.

L’ingresso, sotto la presidenza Obama, del giovane Richard Biden ai vertici della compagni ukraina, con annessa parallela rivoluzione colorata che ha annoverato diversi sostenitori anche italiani in missione a Kiev davanti a platee in buona parte composte di neo-nazisti locali, era la risposta americana a questa possibilità da evitare ad ogni costo. Gli eventi politici ukraini sono in perfetta sintonia con questi passaggi.

La tenzone inter-imperialistica tra potenze prevalentemente militari e finanziarie (Usa, Uk) contro potenze prevalentemente produttrici di manufatti industriali (Cina, sud est asiatico ed Europa) arriva al dunque: ciò che i primi debbono evitare è che si consolidi un asse cooperativo dei secondi tra loro e con i produttori di fonti di energia e di commodities (prodotti agricoli, risorse naturali di base, minerali, ecc.) senza passare per il dazio imposto dai detentori dei servizi di transazione, fisici o virtuali, che su questi servizi operano un drenaggio fondamentale alla loro perpetuazione.

Gli interessi tra questi modelli di capitalismo sono così divaricati e divaricanti che anche fenomeni politici come la Brexit e il resuscitare di obsolete compagini, come il Commonwealth, sono in buona parte ad essi riconducibili: gli interessi inglesi sono sensibilmente opposti a quelli dell’Europa continentale. Canada e Australia, due economie profondamente estrattive, sono storicamente legati a quelli angloamericani; la Russia che da questo punto di vista somiglia loro, è geograficamente e storicamente un paese euro-continentale.

Gli anglosassoni, nel rischio di un consolidamento di un asse euro-asiatico, debbono privilegiare le loro relazioni con i paesi est-europei minori ex satelliti dell’Unione Sovietica, per impedirne la realizzazione. Lo strumento soft (e utilmente ambivalente) di questa politica è stata l’adesione alla EU, ma quello vero che dà effettive garanzie è l’adesione alla Nato.

La subalternità euro-continentale agli Usa e l’incapacità di costruire una pratica di reale coesione interna europea, di cui abbiamo visto gli esiti anche con la tragica crisi greca e con quella italiana del 2011-2013, hanno costituito le altre variabili della questione: il mercantilismo tedesco, l’opportunismo francese, da questo punto di vista hanno delle grandi responsabilità. Purtroppo, la logica imperialistica non si applica solo ai primi della classe, ma anche ai secondi, come ha mostrato anche la tragica vicenda libica, da cui, però tutti gli attori iniziali di quella vicenda sono usciti sostanzialmente sconfitti. In modo analogo è andata in Siria.

Ora, ascoltare i proclami occidentali e il richiamo agli accordi di Minsk dalle potenze di second’ordine contro l’aggressione russa all’Ukraina, in pieno accordo con anglosassoni e vertici Nato, è abbastanza impressionante: significa che al momento non vi è alcuna chance di autonomia europea e che la sudditanza al complesso militare-finanziario, o la loro compenetrazione, è fortissima. Gli spazi di manovra limitati. Oltre questi spazi, un intero orizzonte, pieno di incognite, dovrebbe essere ridisegnato.

La Russia, come qualcuno ha detto, si gioca una partita temeraria, ma evidentemente anche loro percepiscono che, alla fine, il potere e la pressione militare è ciò che conta, almeno nel limitato spazio geografico e storico di sua pertinenza. E che, dal loro punto di vista, non vi sono alternative praticabili all’ordine globale e geo-strategico imposto dalla superpotenza atlantica.

Ma sottostante al confronto Nato-Russia, c’è quello tra Usa e nucleo storico Eu (Francia, Germania, Italia, ecc.), e la prospettiva di una sua maggiore, relativa, autonomia; per certi versi esso è molto più significativo, come probabilmente mostreranno gli effetti delle sanzioni e/o gli eventi prossimi venturi.

Anche per tutto ciò, le poche (e non è casuale) manifestazioni per la pace che si annunciano dovrebbero contemplare nel loro programma almeno il richiamo al consolidamento di un’Europa, certamente contro la guerra, ma anche di cooperazione verso est e verso sud. L’autonomia europea può darsi sono in questo quadro. E ciò è possibile solo a condizione di provare ad emanciparsi dalla Nato, o – eresia – di scioglierla. Mentre un obiettivo minimo alla portata di qualsiasi suo componente, ivi compresa l’Italia, è quello di opporsi al suo ulteriore allargamento. Negare quest’ultima possibilità, al netto di principi rivoltabili come calzini, vuol dire cercare la guerra, non la pace.

(Rodolfo Ricci)

La guerra senza combattere: Intervista con Joseph Tritto, presidente della World Academy of BioMedical Sciences and Technologies

Narrative #12 by Franco Fracassi – Prof. Joseph Tritto La guerra senza combattere Le notevoli rivelazioni del professor Joseph Tritto, presidente del World Academy of BioMedical Technologies. Una cascata di notizie sul virus, la sua genesi, sul laboratorio gemello di Wuhan e molto altro ancora, da parte di chi conosce profondamente l’elite mondiale degli scienziati e le dinamiche che li coinvolgono. Un ospite che si vorrebbe non smettesse mai di raccontare. Anzi, se volete lasciare delle domande lo invitiamo un´altra volta e gliele facciamo .

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Sta cambiando la narrazione sul covid?

L’ultima settimana è stata veramente ricca di notizie e di “inversioni a U” in materia di Covid e di gestione pandemica, al punto che possiamo ipotizzare che sia in corso un decisivo cambio di rotta nella narrazione mainstream. Vediamo di passare in rassegna le notizie principali:

di Thomas Fazi

– La notizia principale è senza dubbio la netta presa di posizione sia dell’OMS che dell’EMA contro i booster, ovverosia contro la politica dei richiami vaccinali ravvicinati permanenti. L’OMS ha dichiarato che è ormai evidente che i vaccini esistenti hanno un bassissimo impatto sulla prevenzione dell’infezione e della trasmissione, soprattutto nei confronti di Omicron, e che «andrebbero sviluppati vaccini contro il Covid-19 che abbiano un alto impatto sulla prevenzione dell’infezione e della trasmissione oltre che sulla prevenzione di malattie severe e morte». Fino a quel momento, secondo l’OMS, non ha senso continuare ad effettuare richiami con i vaccini esistenti. «Una strategia di vaccinazione basata su richiami ripetuti» dei vaccini attuali «non appare né appropriata né sostenibile», ha concluso l’OMS¹.

– Sull’incapacità del vaccino di fermare la trasmissione, da segnalare l’ennesimo studio, apparso su “The Lancet”, che conferma che «l’impatto della vaccinazione sulla trasmissione delle varianti circolanti di SARS-CoV-2 non risulta essere significativamente diverso dall’impatto tra le persone non vaccinate». Una cosa che già si sa da tempo ma repetita iuvant².

– Sempre su questo punto, interessante la netta presa di posizione di Crisanti, secondo cui: «Come misura per bloccare la trasmissione i non vaccinati hanno un contributo marginale, la maggior parte dei casi, di questi 120.000 magari o di più, sono i vaccinati, sono loro che contribuiscono in maniera elevata a diffondere il virus. Per me c’è stato un corto circuito di comunicazione da parte del governo che ha sbagliato, è pur vero che i non vaccinati si ammalano e occupano posti in terapia intensiva, ma non sono loro la maggiore causa di trasmissione del virus, bensì i vaccinati»³.

– Sulla stessa linea dell’OMS, come si diceva, l’EMA, il cui capo della strategia vaccinale, Marco Cavaleri, ha dichiarato: «Sta emergendo una discussione sulla possibilità di somministrare una seconda dose booster con gli stessi vaccini attualmente in uso: non sono ancora stati generati dati a sostegno di questo approccio. Se l’uso dei richiami potrebbe essere considerato parte di un piano di emergenza, vaccinazioni ripetute a brevi intervalli non rappresenterebbero una strategia sostenibile a lungo termine. Non possiamo continuare con booster ogni 3-4 mesi»⁴.

– Sempre su questo tema abbiamo anche l’interessante dichiarazione di Sergio Abrignani, membro del Comitato Tecnico Scientifico (CTS), secondo cui un regime di vaccinazione ravvicinata permanente potrebbe addirittura avere effetti negativi in termini di immunizzazione: «Se si vaccina ogni 2-3 mesi per stimolare continuamente la risposta “effettrice”, dopo un po’ potrebbe ottenersi l’effetto contrario. Il sistema immunitario si potrebbe “anergizzare”. Si rischia l’effetto paradossale di “paralizzare” la risposta immunitaria»⁵.

– In controtendenza Pfizer (strano, eh?), che ha invece ha ribadito la sua opinione del tutto disinteressata secondo cui la variante Omicron necessaria rende necessaria quanto prima anche la quarta dose di vaccino (in seguito alla quale, è lecito supporre, si “renderà necessaria” la quinta dose e poi la sesta, e così via)⁶.

– L’altra notizia della settimana, poi, è la legittimazione, a livello di discorso mainstream, di quello che certi “cospirazionisti” dicono fin dal primo giorno: ovverosia che il numero dei ricoverati e dei decessi Covid è falsato dal fatto che, fin dall’inizio della pandemia, viene registrato come paziente/decesso Covid chiunque risulti positivo al momento dell’ospedalizzazione e/o del decesso, a prescindere dal reale motivo dell’ospedalizzazione e/o del decesso. Attenzione: qui non stiamo parlando del dibattito, piuttosto sterile, se una persona con patologie pregresse che muore perché il virus ha esacerbato le patologie in questione sia da considerarsi un morto per o con Covid. Qualcuno che avrebbe verosimilmente vissuto più a lungo nel caso in cui non avesse contratto il virus è da considerarsi un morto per Covid, per quanto mi riguarda (al netto della necessità di fare corretta informazione sulle fasce di età di età e sulle categorie che rischiano veramente dal Covid). No, qui stiamo parlando di una persona che entra in ospedale con una gamba rotta o che muore perché cade dal decimo piano di un palazzo e che viene classificato come paziente/decesso Covid solo perché positivo al momento dell’ingresso in ospedale o della morte. Cosa nota fin dall’inizio ma che non si poteva dire fino all’altro giorno, quando la Federazione Italiana Aziende Sanitarie e Ospedaliere (FIASO) ha sganciato la bomba, ammettendo che «un numero significativo di pazienti che arrivano in ospedale per altre malattie (traumi, tumori, scompensi cardiocircolatori) all’atto del ricovero, che prevede il tampone, vengono diagnosticati come casi positivi asintomatici e questo aumenta la pressione nelle aree Covid delle strutture sanitarie»⁷. Sempre la FIASO ha poi specificato che addirittura più del 30 per cento dei “pazienti Covid” non manifestano segni clinici, radiografici e laboratoristici di interessamento polmonare: ovverosia sono stati ricoverati non per il virus ma con il virus⁸. La diagnosi da infezione da SARS-CoV-2 è dunque occasionale.

– Una volta che questa verità di pulcinella è diventata di dominio pubblico e non più negabile, le virostar più intelligenti si sono affrettate a riposizionarsi. Tra questi anche Bassetti, solitamente in prima fila nell’alimentare la psicosi da Covid, che ha dichiarato: «Nei nostri reparti siamo ben oltre il 35 per cento di ricoverati che con il Covid-19 non c’entrano nulla. Non hanno della malattia nessun sintomo, ma solo la positività al tampone per l’ingresso in ospedale. Anzi, dirò di più, questo avviene anche nella registrazione dei decessi: se il paziente entra in ospedale per tutt’altro, ma è positivo e muore, viene automaticamente registrato sul modulo come decesso Covid. Sono numeri assolutamente falsati»⁹. È piuttosto curioso che Bassetti se ne accorga solo ora ma meglio tardi che mai, come si suol dire.

– Si arriva poi al caso della Lombardia, che ha addirittura dichiarato che da venerdì 14 comincerà a distinguere ufficialmente tra pazienti ammessi per e con Covid. In una nota, ha specificato che: «Si definisce affetto da malattia Covid solo il soggetto che positivo al test antigenico o molecolare presenti sintomatologia e diagnostica compatibile con la malattia Covid. I ricoverati per altra patologia che si positivizzino al Covid, ma senza sintomi di malattia Covid, attualmente devono essere isolati secondo le vigenti norme, ma non dovrebbero essere conteggiati come malati Covid»¹⁰.

– Sorprende che ci si siano voluti due anni per riconoscere un fatto così ovvio. Considerando che ogni giorno in Italia muoiono all’incirca 2.000 persone, è normale che una parte di questi risulti anche positiva. Il vero dato per capire l’impatto (diretto o indiretto) del Covid sui tassi di mortalità è quella della mortalità in eccesso rispetto agli anni pre-pandemia. Da questo punto di vista, al momento, per fortuna, la mortalità in Italia risulta essere più o meno in linea con quella del 2019, come si può verificare sul sito di EUROMOMO¹¹.

– Questo è senz’altro merito della protezione dalla malattia grave offerta dal vaccino nelle fasce di età e nelle categorie a rischio, ma anche della progressiva endemizzazione e “influenzizzazione” del Covid. Particolarmente interessante la dichiarazione del premier spagnolo Pedro Sanchez, che ha reso nota l’intenzione della Spagna di cominciare a trattare il Covid come una «normale influenza» , rinunciando a tracciare e confinare chiunque risulti positivo al test ma monitorando la situazione controllando alcune zone a campione. Dato lo scarto che ormai si sta scavando tra numero di contagi e numero di morti per Covid, secondo Sanchez ci sono le condizioni per passare da un quadro di «pandemia» a uno di «malattia endemica» come è appunto l’influenza stagionale¹².

– Anche su questo punto si è subito accodato Bassetti, sempre attento a come tira il vento, che ha dichiarato che la nuova variante è più contagiosa ma causa meno ricoveri ordinari e in terapia intensiva, non solo per chi ha due dosi e booster, anche per chi non ne ha nessuna. In entrambi i casi, ha detto, siamo davanti a «una sorta di forma influenzale, un raffreddore». Ci sono due quadri, ha spiegato Bassetti, «con la Delta che nel vaccinato doppia dose o tripla dose causa una forma influenzale e di raffreddore rinforzato, e la Omicron sembra fare lo stesso nel non vaccinato»¹³.

– Infine, una pillola di ottimismo dall’estero, che però dà il senso del baratro politico e culturale in cui sia sprofondato il nostro paese. Ecco la comunicazione del governo giapponese ai propri cittadini in materia di vaccinazione anti-Covid: «Anche se incoraggiamo tutti i cittadini a ricevere la vaccinazione Covid-19, essa non è obbligatoria o forzata. La vaccinazione sarà eseguita solo con il consenso della persona da vaccinare dopo le informazioni fornite. Si prega di farsi vaccinare per decisione propria, comprendendo sia l’efficacia nella prevenzione delle malattia che il rischio di effetti collaterali. Nessuna vaccinazione sarà effettuata senza consenso. Per favore, non costringete nessuno sul vostro posto di lavoro o coloro che vi circondano ad essere vaccinati, e non discriminate coloro che non sono stati vaccinati»¹⁴. Che dire? Esistono ancora dei paesi in cui la civiltà è sopravvissuta alla pandemia.

– Alla luce di tutto questo, cosa fa il governo italiano? Cambia narrazione? Chiede scusa ai propri cittadini per il colossale fallimento della sua gestione pandemica? Figurarsi: continua ad inasprire le regole. È di questi giorni, infatti, la notizia di persone non vaccinate che non riescono a lasciare le isole per raggiungere la terraferma per curarsi o di persone che non riescono a tornare a casa sulle isole perché sprovviste di green pass¹⁵. Infine, un’altra previsione “cospirazionista” che rischia di divenire realtà. Come riporta il “Corriere della Sera”, dall’1 febbraio i non vaccinati rischiano di perdere il reddito di cittadinanza a meno che non si vaccinino o non si sottopongano a tamponi regolari. Dall’articolo in questione: «Chi percepisce il reddito di cittadinanza è obbligato a frequentare i Centri per l’impiego. Pena la decadenza del diritto all’assegno. Ma per entrare nei CPI bisogna esibire il green pass. Dunque, di fatto, i percettori del reddito di cittadinanza che non si sono vaccinati si vedranno negare il sostegno, a meno che non facciano un tampone»¹⁶.

Per oggi dal Draghistan è tutto. Per fortuna il resto del mondo sembra andare in una direzione diversa dalla nostra.


Note
¹ https://www.ansa.it/…/loms-servono-vaccini-nuovi-non….
² https://www.thelancet.com/…/PIIS1473-3099(21…/fulltext.
³ https://www.notizie.com/…/esclusiva-crisanti-non-sono…/.
https://www.agi.it/…/ema-avverte-non-possiamo…/.
https://www.corriere.it/…/contro-covid-serviranno….
https://www.corrieredellosport.it/…/_tre_dosi_non….
https://www.fiaso.it/…/Monitoraggio-ospedali-sentinella….
https://www.ansa.it/…/fiaso-34-positivi-ricoverati-non….
https://www.quotidiano.net/…/morti-covid-italia….
¹⁰ https://www.quotidianopiemontese.it/…/DEFINIZIONE….
¹¹ https://www.euromomo.eu/graphs-and-maps.
¹² https://www.corriere.it/…/spagna-vuole-trattare-covid….
¹³ https://www.iltempo.it/…/variante-omicron-matteo…/.
¹⁴ https://www.mhlw.go.jp/stf/covid-19/vaccine.html….
¹⁵ https://ildiariometropolitano.it/…/52042-lipari-le….
¹⁶ https://www.corriere.it/…/reddito-cittadinanza-green….

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/22045-thomas-fazi-sta-cambiando-la-narrazione-sul-covid.html

L’avvento della meritocrazia

di Giorgio De Girolamo

“Il ritmo del progresso sociale dipende dal grado in cui il potere si accoppia all’intelligenza”. È su questo dogma che si fonda la costruzione della società meritocratica perfetta, che Michael Young, dal lontano 1958, proiettato in un immaginario e distopico 2033, dipinge ai nostri occhi. Con questo saggio, dal titolo “L’avvento della meritocrazia” (anche se più esaustivo degli scopi dell’autore è l’originale: “The Rise of Meritocracy 1870-2033: An Essay on Education and Equality”), Young, sociologo britannico e dirigente del partito laburista nel secondo dopoguerra (fino al 1950), introduce nel linguaggio politico e mediatico una parola tanto longeva quanto pericolosa.

Ma cosa intendeva davvero Young per “meritocrazia“? È un concetto assimilabile a quello oggi sovente rievocato?

La meritocrazia di Young

La meritocrazia di Young è una classe, e non una casta, al potere. La classe dei meritevoli coincide con la classe dei più intelligenti e dei più capaci.

Il merito, quindi, si misura sulla combinazione fra intelligenza e sforzo. Infatti “il genio pigro non è un genio”. Al centro dell’analisi di Young emerge la preminenza del sistema educativo. La costruzione della meritocrazia parte proprio dalle aule di scuola, dal realizzato sforzo di vincere il tentativo egualitario della scuola unica proposta nel secondo dopoguerra, quell’astratto quanto pernicioso anelito a tenere insieme gli intelligenti con gli stupidi.

La divisione nei percorsi di istruzione deve perpetuarsi come una necessità: solo che sarà fondata sul principio dell’uguaglianza delle opportunità. Saranno i più dotati a frequentare le scuole migliori e a essere protetti dalle distrazioni, lavoro compreso, che potrebbero inficiarne la piena maturazione intellettiva e culturale. L’obiettivo di questo sforzo è quello di mantenere e rinforzare la competitività dell’Inghilterra, nella sfida continua al primato scientifico e produttivo. È a tal fine che la meritocrazia, per non perdere metri preziosi, dovrà anticipare sempre più il momento della selezione.

Grazie al progresso scientifico, tra qualche decennio si riuscirà ad anticipare fino alla prima infanzia la misurazione del QI, ministro della saeva fortuna, con un risibile margine di errore. Anni dopo si potrà compiere questa misurazione perfino prima della nascita, basandosi sulle doti degli ascendenti del nascituro. Sulla base del verdetto di questo obiettivo, freddo e inoppugnabile valore numerico, la sorte di ogni uomo è decisa per sempre.

L’abisso tra le classi

Ma occorre fare un passo indietro e riflettere sulla differenza cruciale che intercorre fra la divisione in classi di questa società e quella vigente nelle età precedenti. Questo grande scarto deriva dal differente criterio di legittimazione morale, di cui in ogni società i detentori del potere e i possessori di ricchezza hanno bisogno, per affermare e proteggere all’invidia dei dominati la propria fortuna, riuscendo a “governare con l’illimitata sicurezza che costituisce la fonte segreta del carisma”.

Nell’epoca feudale tale principio era in gran parte rappresentato dal sangue. Nell’epoca capitalistica la ricchezza trovava in sé stessa giustificazione. Ma l’ingiustizia di tale criterio, la sua scarsa e quasi assente dote di obiettività, era evidente alla gran parte dei dominati delle classi inferiori. Tra loro, all’epoca della pre-meritocratica società capitalistica, si celavano quegli intelletti superiori, che seppur repressi, erano in grado di guidare i propri simili e di far sorgere in loro, la coscienza di appartenere ad una classe ingiustamente oppressa.

Nella società meritocratica, invece, sempre grazie a una puntuale misurazione del QI, tali menti vengono strappate dalle classi inferiori e istruite nel sistema educativo riservato ai migliori. Le classi inferiori perdono le proprie trascinanti guide. Il titolo dei dominanti delle età pre-meritocratiche (prima sangue, poi ricchezza acquisita o ereditata) era inoltre tanto debole da far pronunciare al celebre ciompo dipinto da Machiavelli che non

sbigottisca quella antichità del sangue che ei ci rimproverano. Perché tutti gli uomini avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti ad un modo. Spogliateci tutti ignudi, voi ci vedrete simili; rivestite noi delle vesti loro, ed eglino delle nostre, noi senza dubbio nobili, ed eglino ignobili parranno perché solo la povertà e la ricchezza ci disagguagliano” (Niccolò Machiavelli, Istorie Fiorentine, Firenze: Sansoni Editore, 1962, pp. 311-313).

Tutto cambia con l’avvento della meritocrazia. Tra la classe superiore, quella degli intelligenti, e l’inferiore degli scarsamente dotati, si apre un incolmabile abisso. Non sono più “solo la povertà e la ricchezza” a dividere i dominanti dai dominati. Questi ultimi non potranno ribattere, di fronte al potere dei meritevoli, che il loro diritto si fonda su un privilegio di nascita o su una fortunata accumulazione di ricchezze. Essi sono l’élite perché sono i più intelligenti della Nazione.

Quali argomenti restano allora alla classe inferiore per mettere in discussione la divisione fra classi? Quale significato può avere l’uguaglianza, una volta che tutti i geni stiano nelle élite, e tutti gli stupidi tra i lavoratori?

I dominanti allora acquisiranno più forza e sicurezza di sé dal fondare il proprio dominio sul merito e non più sulla fragile e discutibile ereditarietà. I dominati annegheranno invece nel pozzo della sfiducia in sé stessi:

“Non devono forse ammettere di avere una posizione inferiore non, come nel passato, perché gli venivano negate le possibilità, ma perché sono inferiori? Per la prima volta nella storia umana l’uomo inferiore non ha a portata di mano alcun sostegno per il suo amor proprio” (Young, L’avvento della meritocrazia, p. 124).

Soccorreranno, ad evitare lo sfaldamento (che sarebbe un vulnus per lo sviluppo della Nazione) delle forze materiali di una classe ormai priva di ogni ideologia, strumenti ideati per tenerla in vita: le distrazioni di massa; le aspirazioni a che i figli siano più intelligenti dei genitori e si elevino fino alla meritocrazia;, il mito dello sport volto a evitare le menomazioni che essa potrebbe causare a sé stessa per la frustrazione della sconfitta.

Ogni cosa si trasforma. Il parlamento viene reso un organo puramente formale, incapace di comprendere la complessità socio-economica di ogni scelta politica, accessibile solo ai governanti istruiti delle classi superiori. Solo “quando sorgono problemi semplici” si lascia “alla camera dei Comuni la possibilità di dar sfogo alle sue opinioni”. I sindacati, privati dei propri leader e della forza di rivendicare diritti per le classi inferiori perdono ogni rilievo sociale. La tecnocrazia sembra avere il controllo di una pace sociale apparentemente inscalfibile. Ma le minacce del populismo per Young sono alle porte. Il sociologo immaginario, voce narrante dal futuro 2033 delle trasformazioni intercorse nel cinquantennio 1980-2030, resta ucciso nelle proteste populiste di Peterloo.

Gli editori riportano, ancora nella fantasia del racconto, che non hanno potuto neppure sottoporgli le bozze del libro per le ultime correzioni.

La finta meritocrazia

Forse dovremmo trarre anche noi insegnamento da una distopia che si è fatta utopia. Young voleva metterci in guardia dalla tirannia, non violenta, autoritaria e dispotica come in London, Orwell od Huxley, ma fondata su un largo consenso: quello del generale pregiudizio che il merito sia un criterio idoneo a fondare una società diseguale. Che la diseguaglianza dovuta al merito sia un’efficiente configurazione sociale (si vedano, nelle varie traduzioni: Jack London, Il tallone di ferro; George Orwell, 1984; Aldous Huxley, Il mondo nuovo).

La nostra è una situazione peggiore. Come osserva, fra molti, Michael Sandel, in un suo recente e noto saggio, siamo lontani dalla meritocrazia di Young (Michael J. Sandel, La tirannia del merito, Milano: Feltrinelli Editore, 2021). La nostra, direbbe il sociologo inglese, si riduce al nepotismo. Il principio ereditario è ancora vigente. I college americani, sia pubblici che privati e di élite, non promuovono la mobilità sociale (Sandel, La tirannia del merito, pp.169-171).

Nota: Si noti che i 1800 college analizzati, hanno permesso al solo 2 per cento dei propri studenti di salire dal quintile inferiore al quintile superiore della scala di reddito. Questo perché la maggior parte di essi sono già benestanti. È come se i college fossero, nota l’autore, ascensori a cui la maggior parte delle persone accede dall’attico.

Lo stesso possiamo dire anche per il nostro sistema di istruzione media e universitaria. Gli https://www.censis.it/formazione/universit%C3%A0-sono-aumentati- gli-iscritti-ma-non-abbastanza-colmare-il-gap-con-l%E2%80%99europa”>ultimi dati disponibili indicano infatti che gli italiani di 30-44 anni laureati e con genitori non in possesso di un titolo di studio corrispondente sono solo il 13,9%, a fronte di una media Ocse del 32,3%. [7] I figli “stupidi” di una buona famiglia sono costantemente promossi più in alto dei figli “intelligenti” delle classi inferiori. Guadagneranno di più è saranno chiamati i meritevoli.

Nota: Chi scrive ha virgolettato l’attribuzione di intelligenza e stupidità perchè lo ritiene un criterio idoneo soltanto a legittimare una disuguaglianza per (de)merito. Ciò non toglie rilievo all’ingiustizia di veder promossi in alto troppi beneficiati per nascita.

Uno scenario di così profonda disuguaglianza pre-meritocratica (dovuta cioè a una gravissima disuguaglianza di opportunità) viene inserito in una narrazione dominante secondo cui sia i vincitori che i vinti della nostra società meriterebbero la posizione che occupano. Si hanno quindi effetti simili a quelli della meritocrazia (tecnocrazia, distruzione dei corpi intermedi, umiliazione dei non istruiti) senza vivere affatto in una società meritocratica.

Questo rende la nostra finta meritocrazia, e la sconfinata “hybris” delle sue élite, una società molto più trasformabile di quanto immaginino le classi dominanti. Dopo aver letto Young, sappiamo che basta una scintilla per reinnescare il conflitto sociale. Basta far sentire gli oppressi uguali ai propri padroni. Così che

“succede che gli schiavi si conoscono, si riconoscono / Magari poi riconoscendosi / Succede che gli schiavi si organizzano / E se si contano allora vincono” (Silvestri Daniele, Kunta Kinte, 2004).

E “l’intelligenza complessiva”, un’astrazione in cui continuiamo a credere, forse un giorno potrà prevalere sul quoziente intellettivo nel fondare una società di eguali.


Riferimenti
Young, Michael, L’avvento della meritocrazia, Roma/Ivrea: Edizioni di Comunità, 2015
Machiavelli, Niccolò, Istorie Fiorentine, Firenze: Sansoni Editore, 1962, pp. 311-313
Sandel, Michael J., La tirannia del merito, Milano: Feltrinelli Editore, 2021

FONTE: https://www.kriticaeconomica.com/

Un freddo inverno, anzi freddissimo

di Tonino D’Orazio

Non si può non partire dai cambiamenti energetico-geopolitici mondiali. Mettiamo tra parentesi per un momento le questioni ecologiche. Rimaniamo in una panoramica dei modelli di transizione energetica, volti ad accelerare la quarta rivoluzione industriale (4RI) o impedire ad alcuni paesi di accedervi, (il 6G), l’intelligenza artificiale (AI), la robotica e l’Internet degli oggetti.

E’ essenziale reperire il materiale necessario per questa quarta rivoluzione. Da un punto di vista geopolitico, il modello energetico globale e la transizione dipendono dai materiali necessari per realizzare turbine eoliche, pannelli solari e batterie. Così come altri materiali essenziali per lo sviluppo dei settori geo-strategici: aerospaziale, sicurezza informatica, industria farmaceutica e alimentare. Futuri settori ad alto consumo di energia. Prodotti attuali e futuri tutti a alto consumo di energia.

Di fronte a questa realtà, nessuno può essere sicuro della fine dell’era dell’approvvigionamento di petrolio, gas e carbone e confermare la sua sostituzione con nuove fonti di energia, compresa l’energia atomica, in 10-20 o addirittura 30 anni, nel 2050. Lo scenario del cambiamento energetico rimane estremamente complesso e soprattutto politico.

Un primo scenario geopolitico di cambiamento energetico è il rigido inverno annunciato in Europa, che tra l’altro sembra contraddire il discorso sul riscaldamento globale. Il ritornnelo del carbone in Europa mostra che il fotovoltaico e l’eolico sono insufficienti a soddisfare la ripresa industriale post-pandemia e la domanda interna è sempre in crescita. Esaminiamo lo scenario energetico europeo. Le tariffe dei consumi interni nell’Unione Europea sono esplose a causa della strategia (sbagliata) di migrare rapidamente verso l’energia pulita senza un forte supporto ma allo stesso tempo di interrompere il contratto ventennale con la Russia con Nord Stream 2.

Trump si era vantato di rifornire l’Europa con la sua produzione e di sostituire il gas di Putin; ha cercato di chiudere il gasdotto Nord Stream 2, ma quando era già finito. L’Algeria e il Marocco sono sul piede di guerra; l’Algeria ha deciso di chiudere il transito del gas verso Spagna e Portogallo che attraversa il Marocco.

Biden in una controffensiva all’accordo di libero scambio UE-Cina, (il cambiamento geopolitico europeo più importante dalla seconda guerra mondiale), interrompe temporaneamente l’accordo, dicendo che è in competizione con Xi Jinping per l’egemonia mondiale. Quindi veto. L’UE ubbidisce e congela il trattato di investimento con la Cina, cioè il proprio (e nostro) futuro.

Mentre l’Europa non riesce a definire il suo spazio geopolitico, l’inverno sta arrivando. I meteorologi prevedono un inverno freddo e il prezzo del gas naturale in Europa ha iniziato a salire il mese scorso e questa settimana nel continente si è visto un aumento senza precedenti del 60% dei prezzi.

Si presenta uno scenario inimmaginabile parallelamente alla mobilitazione ambientale contro i gas serra: il ritorno della domanda di carbone russo, che è stato respinto dall’Europa solo pochi mesi fa e diventa ora vitale. Le compagnie elettriche europee hanno un disperato bisogno di più carbone, carbone bituminoso, antracite (carbon fossile) e lignite. Ma la Russia, il terzo esportatore mondiale di questi carburanti, rivolge principalmente le vendite ai principali acquirenti in Asia. La Russia ha tagliato da anni le esportazioni di carbone verso l’Europa visto che l’Unione Europea andava chiudendo le centrali elettriche a carbone. Stati membri dell’UE come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria stanno costruendo nuove centrali nucleari.

Storicamente paesi che bruciano carbone, sostengono che il nucleare li renderà più verdi e puliti. Circa 87 eurodeputati sono d’accordo. In una lettera di recente, hanno detto alla Commissione che vogliono più nucleare e che l’energia nucleare debba essere considerata “sostenibile” nel sistema di etichettatura degli investimenti verdi europei. Una decisione è attesa entro la fine dell’anno. Poi “ce lo chiederà l’Europa”. Per “salvaguardare la transizione ecologica”, l’Italia punta al gas (TAP), la Francia al nucleare, la Germania al carbone, (beh sì, il loro sistema rinnovabile copre solo il 20% della produzione elettrica).

Il secondo scenario è la Cina, la fabbrica del mondo. Il presidente Xi Jinping sta riducendo il consumo di energia, innescato dalla forte domanda post-pandemia, mentre la catena di approvvigionamento globale sta facendo pressioni affinché metta da parte gli impegni di decarbonizzazione, di ridurre la propria produzione di aut-put strategici e di fornire prodotti tecnologici di base. Scenario energetico cinese che ha dunque forti impatti sugli approvvigionamenti strategici.

La strategia di Xi Jinping è quella di imporre alle grandi aziende occidentali che operano in Cina quote di approvvigionamento energetico. La domanda occidentale di forniture e materiali strategici viene quindi regolata in base alla pianificazione del consumo energetico. L’obiettivo è garantire che la Cina non si autoinquini rispondendo alla domanda di Europa e Stati Uniti. L’approvvigionamento energetico della Cina è garantito per decenni dagli accordi commerciali di Russia e Iran.

Come terzo scenario possiamo prendere l’esempio del Libano. La carenza di carburante e benzina ha comportato l’interruzione della produzione di elettricità. Il disastro in Medio Oriente è causato dalla prolungata azione militare statunitense, con la partecipazione di Israele e dei suoi alleati europei. Il modello di dominio energetico che ha dominato il XX secolo è finito. Il petrolio adesso è un input, se non un’arma, geostrategico-politica, quindi non più soltanto una merce. Il blackout in Libano deriva dal sostegno dell’Iran a Hezbollah proibito dalle sanzioni Usa-Nato-Israele. Se non hanno capito la bomba sul porto di Beiruth se lo ricorderanno, e anche gli affossamenti di tankers (che passa sotto silenzio stampa) in atto e rappresaglie nel Mediterraneo orientale da quasi due anni. Il supporto per diesel e benzina è la strategia (anche cinese) per operare sulla rotta Iran-Iraq-Siria-Libano.

Emarginato dai gasdotti Israele fa sapere, sempre a modo suo, che non ci sta. Ma in quell’area si tratta solo di petrolio mentre l’atomica prosegue la sua strada in Iran per la stupidità di Trump, ma anche dei vassalli europei. L’Africa, dove c’è il petrolio e anche altrove, dove ci sono le necessarie terre rare, è già domata e asservita.

In questo terzo scenario di guerra di accaparramento e furto si trova anche tutta l’America latina orientale, dove il dannato petrolio continua ad essere “ambito” con qualsiasi mezzo. E sappiamo tutti cosa vuol dire nel “cortile” degli yankees, come altrove.

“Eretico Futuro: Per una storia di una sinistra che verrà”- Un libro di Valentino Filippetti

E’ stato presentato ieri a Roma, il libro di Valentino Filippetti “Eretico Futuro, per una storia della sinistra che verrà”. Proponiamo di seguito la prefazione al volume, di Gianfranco Nappi, la premessa dell’autore e l’indice del libro che può essere acquistato on line al seguente link: https://www.bordeauxedizioni.it/prodotto/eretico-futuro/

Prefazione, di Gianfranco Nappi

Debbo un ringraziamento a Valentino Filippetti. In primo luogo per il quadro che emerge da questa “raccolta di materiali” che attraversano un tempo lungo, dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso a oggi, e attraversano anche, esistenzialmente, il cammino stesso del progressivo fallimento di tutte le diverse risposte che dalla fine dell’89 sono state date alla crisi della sinistra.

La cosa che emerge intanto è la voglia del curatore-autore di non fermarsi nella ricerca, di andare sempre avanti, nei modi e nelle forme in cui le circostanze e i processi hanno consentito di farlo; di provare a non smettere di cercare.

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Ecco, Valentino è un “cercatore permanente”, curioso e aperto al nuovo.

E qui c’è il secondo tratto di questa sua esperienza: ovunque collocato, in qualunque partito o movimento attraversato, Valentino ha provato sempre a far incontrare le ragioni della sinistra e del suo farsi con le contraddizioni più forti e nuove aperte nel cammino della società e del suo sviluppo: non l’assunzione del “nuovo” come terreno di subalternità ma come, invece, ineludibile e prioritaria sfida per qualunque pensiero che voglia continuare a dirsi “critico”, che non faccia risalire all’89 una sorta di fine della storia e di impossibilità per nuove e grandi narrazioni e, dunque, all’introiezione della realtà data come immodificabile con il suo capitalismo contemporaneo (finanziario; o delle piattaforme; o cognitivo; o della sorveglianza; o a buon mercato… per come lo si voglia definire), diventato “Ragione del Mondo” per dirla con due acuti studiosi francesi.

Mi viene subito qui da dire, guardando a due delle più grandi sfide aperte in questo tumultuoso e incerto tempo nostro, pandemia e cambiamenti climatici: come ti ci misuri senza il coraggio di una grande e nuova visione di insieme?

Senza nutrire il tuo agire di un nuovo senso?

È vero esattamente il contrario di quel che si dice oggi e che si è detto come segno prevalente della deriva della sinistra: e cioè, se vuoi attraversare questo tempo da attore e non da spettatore passivo, è di un nuovo orizzonte di senso che hai bisogno.

A una nuova visione critica, capace di nutrirsi anche di nuove forme del proprio agire sociale e politico capaci di rompere ogni centralismo burocratico e di assumere come costitutivo proprio il valore straordinario delle differenze, delle diversità, sono dischiuse oggi possibilità, sembra un paradosso, che mai prima d’ora si presentavano come possibili.

Nella sua traiettoria di sviluppo il capitalismo della rete ha “dovuto” mettere in contatto individui ed esperienze, su scala globale: questo era necessario per sussumere, tendenzialmente, tutte le vite in un meccanismo di estrazione di valore ma, per fare questo, esso ha dovuto abbattere barriere prima inimmaginabili, ha dovuto sollecitare l’intelligenza e la cultura di ogni singolo individuo e deve pagare lo scotto che individui posti in relazione tra di loro maturino nuovi bisogni e nuove esigenze di socialità.

Immaginare un individuo cooperante (per dirla con il saggio di Valentino e Alessandro Genovesi), o l’affermarsi di un lavoro operoso (sempre qui Sergio Bellucci).

Qui c’è la contraddizione che in uno degli ultimi contributi di Valentino viene descritta in modo netto: «Il paradosso fondamentale dei nostri tempi è che proprio la forza dirompente della modernità – il capitalismo – sta diventando la forza che trattiene».

Classico terreno marxiano di analisi questo: lo sviluppo delle forze produttive ha raggiunto un punto tale che negli attuali assetti dei rapporti di produzione, esse non riescono più ad espandersi e, per farlo, si richiede che appunto quei rapporti di produzione vengano messi in discussione.

Le possibilità di affrontare e risolvere problemi antichi dell’umanità; di mettere a frutto le innovazioni e la inusitata capacità di calcolo per costruire società più giuste; per programmare e pianificare le scelte della società in modo partecipato e oculato; per assicurare universalmente la salute; per immaginare una idea dello sviluppo che smetta di divorare il Pianeta e la sua vita ecco, queste possibilità non sono mai state tanto ampie quanto oggi.

Ma per affermarsi richiedono appunto che si forzino limiti e vincoli attuali della gabbia mercantile.

E del resto, a ben vedere, sia sul piano di tante esperienze di movimento come su quello dell’organizzazione della vita sociale, come nel campo dell’autoproduzione o del consumo critico così come in quello del volontariato e dell’esperienza del “dono” o in quello di nuclei di studio, di approfondimento, di diffusione di saperi e conoscenze interconnessi, le esperienze sottratte al dominio mercantile sono tante e in crescita.

Ma mentre matura tutto questo poi non ritrovi una sinistra capace di agire su questa grande contraddizione, di far diventare una nuova visione pratica quotidiana capace di costruire nuovi livelli di senso comune e di protagonismo diffuso nella società.

Il tema è globale ovviamente, come globale è la sfida.

Ma senza costruire risposte nuove a questa contraddizione politica e sociale al tempo stesso, è immaginabile certo 9che dalla crisi attuale del capitalismo, dal suo punto limite raggiunto, si esca con esiti generalmente regressivi.

E anche qui da Valentino viene una domanda centrale, urgente oggi più di ieri, in un altro degli articoli recenti qui ripubblicati: “ciò che manca è l’organizzazione di una risposta politica adeguata che vada a toccare il punto più alto dello sviluppo della nostra società”.

Qui si aprirebbe tutto un altro discorso, parte non di questo lavoro e di sicuro non di questa introduzione.

E qui siamo al nostro de te fabula narratur e ho qui un ultimo motivo per ringraziare Valentino.

Questo lavoro di “raccolta di materiali” mi ha spinto a ripercorrere quell’itinerario politico e umano che lui ci propone e che in larga misura, almeno fino al 2000, ho condiviso.

Non è che avessimo visto giusto su tutto o avessimo elaborato soluzioni organiche ai problemi sul tappeto.

Certo è che avevamo lavorato su una delle frontiere più avanzate per ogni ipotesi di politica di trasformazione, avevamo individuato per questa via alcuni nodi di fondo che imponevano/consentivano uno scarto, una rottura di analisi e di scelte per cogliere i cambiamenti e per far vivere una tensione critica innovata.

Abbiamo provato a coltivare una attitudine oltreché ad elaborare proposte – di analisi, programmatiche o legislative – con una densità che davvero impressiona.

L’attitudine è quella di non rinunciare a osare e a cercare un punto di vista autonomo e critico.

Forse dalla crisi della sinistra, in tutte le varianti politiche organizzate che essa è venuta assumendo, si potrà uscire prima e meglio proprio se si saprà coltivare attitudini simili.

E questo è un dato della nostra esperienza che rimane.


Premessa

Da dove viene la sconfitta del movimento operaio

di Valentino Filippetti

Spesso ci chiediamo dove la sinistra abbia sbagliato o quanto meno quando abbia perso i contatti con la realtà.

Ma forse dovremmo chiederci perché la destra sia arrivata prima a capire e ad interpretare quello che stava succedendo.

Ovvero le questioni della conoscenza, della classe dirigente, delle esperienze.

Nella mia navigazione ci sono stati alcuni incontri con persone e pubblicazioni che hanno contribuito a maturare una visione della società e dell’impegno politico profondamente diversi da quelli vissuti in gioventù. Sicuramente l’esperienza più proficua è stata con il gruppo che si formò attorno al Dipartimento comunicazione di Rifondazione comunista del quale facevano parte Gianfranco Nappi, Roberto Di Matteo, Michele Mezza (con i quali la collaborazione continuò nei Comunisti unitari in MediaEvo e NetWork).

La prima citazione riguarda i lavori dell’Ufficio di Ricerca Scientifica e di Sviluppo del Governo degli Stati Uniti d’America diretto da Vannuvar Bush che operò a metà degli anni Quaranta del secolo scorso.

A mio avviso lì si gettarono le basi che hanno permesso agli Americani di vincere la sfida che si stava profilando alla fine della seconda guerra mondiale con il nuovo protagonista della scena mondiale: l’Unione Sovietica.

Questo gruppo di intellettuali e tecnici capì che si doveva trovare una soluzione alla forza del movimento operaio.

Una forza che contava perché era parte fondamentale della produzione industriale di stampo taylorista e grazie al movimento socialista era diventata potenza.

Quaranta anni di studi e ricerche che hanno creato le premesse per rendere inoffensivo politicamente il ruolo dei lavoratori della grande industria.

Qui pubblichiamo una lettera di Vannuvar al presidente Roosevelt che segnala l’avvio di questo lavoro.

L’epilogo di questa vicenda ce la racconta un’intervista di Michele Mezza a Nikolaj Ivanovič Ryžkov, Primo Ministro dell’URSS dal 1985 al 1987. Ryžkov racconta che Andropov appena nominato Segretario Generale del PCUS riunisce nel 1982 un gruppo di giovani dirigenti sovietici (Ryžkov,

Licaciev, Aliev, Agambengyan, e Gorbaciov) e gli racconta che nel 1975 aveva fatto un rapporto a Breznev dicendo che in America “aveva preso avvio un nuovo modello di sviluppo economico basato su una forte automazione delle attività cognitive, grazie alla diffusione del computer individuale”.

Andropov guardando il calendario fece notare che erano passati sette anni e che quindi ormai la battaglia era persa. Si trattava di trasformare la sconfitta in una ritirata strategica.

Come sappiamo non fu una ritirata ma vero e proprio rompete le righe.

La rottura dei vecchi equilibri unita alla forza delle nuove tecnologie ci ha dato un mondo “globalizzato” dove è cresciuto a dismisura il peso e l’influenza di pochi gruppi economici e di potere che hanno abbandonato qualsiasi cautela e riserva pur di ottenere quello che volevano, fino ad organizzare colpi di Stato e alimentare guerre in tutto il pianeta.

Questo processo ha avuto un’accelerazione enorme dalla rivoluzione informatica e digitale.

Abbiamo conosciuto cosi la globalizzazione, animata e sostenuta dall’idea che tutti potevano fare tutto: viaggiare, arricchirsi, dominare la natura e alterare la vita stessa.

La sinistra in gran parte è stata risucchiata in questo gorgo o ha risposto con un armamentario ideologico e pratiche politiche ormai superate.

Le poche occasioni in cui si sono squarciate le nubi come con il convegno di Rinascita del 1962 sulle Nuove Tendenze del Capitalismo, o dalle esplosioni del 1977 o al G8 di Genova sono state censurate o represse.

Altro incontro importante è quello con Christian Marazzi un economista che con il suo al posto dei calzini è tra i primi a metà degli anni Settanta a cogliere il cambiamento profondo in atto.

Con Sergio Bellucci ho scoperto la portata del digitale e soprattutto come è cambiato il lavoro nella situazione attuale. Il suo concetto di lavoro implicito ha introdotto un approccio completamente diverso creando le premesse per uscire dalle secche in cui è arenato il movimento sindacale.

E per finire un intervento di Luca Cangeni che immagina un nuovo blocco politico militare come emerge dal documento Asymetric Competition: A Strategy for China & Tecnology Actionable Isights for American Leadership.

Questi “incontri” sono avvenuti mentre mi sono trovato a lavorare in diversi partiti di sinistra o centro sinistra, da Rifondazione comunista ai Comunisti Unitari, dai Democratici di Sinistra al Pd e per finire a Patria e Costituzione.

Pubblico documenti e incontri a cui ho partecipato direttamente e che per me hanno rappresentato una serie di occasioni mancate.

Non si può dire che nessuno avesse capito cosa stava accadendo, come cambiava la società e la politica. Le due vicende più eclatanti sono state l’abbandono di Bertinotti e del Manifesto del progetto di tv digitale e satellitare per realizzare il quale fu costituita la società Compagnia Multimediale spa e la liquidazione dell’associazione Tematica e Telematica dei Ds NETWORK che nei contenuti e nel modo di funzionare anticipava di venti anni il fenomeno Cinque Stelle.

Proprio oggi che siamo a un tornante decisivo dove avanza una transizione e il vecchio potere è messo in discussione, ma senza che si delinei il nuovo ponte di comando, può essere utile ripercorrere queste esperienze.


Indice del libro:

Prefazione di Gianfranco Nappi

Premessa: Da dove viene la sconfitta del movimento operaio, di Valentino Filippetti

Le letture

Lettera di Vannuvar a Roosevelt

Intervista di Mezza a Ryzkov

Le azioni del linguaggio, di Christian Marazzi

Digitale e lavoro: taylorismo digitale, lavoro implicito e lavoro operoso, di Sergio Bellucci

Un blocco imperialista digitale? di Luca Cangemi

Gli scritti

Il futuro non va inseguito, va immaginato. di Valentino Filippetti

Una “rete sociale”. di Valentino Filippetti

L’individuo cooperante. di Alessandro Genovesi e Valentino Filippetti

Il futuro del lavoro nel tempo della metrica giapponese, di Valentino Filippetti

Pecunia viro, no vir Pecunia, di Valentino Filippetti

Il mondo in transizione, di Valentino Filippetti

Le esperienze

Partito della Rifondazione comunista

Per stare “in linea” con il partito

Festa Nazionale di Liberazione sulla informazione e sulla comunicazione

Un progetto per i mezzi di comunicazione di massa del Prc

BBS per un giorno

No Fun BBS

Sulle spalle di Gulliver

1° Conferenza Nazionale sulle Comunicazioni Multimediali

Apocalypse Now?

CMM Compagnia Multimediale

Comunisti Unitari

Comunicato stampa

La Rete Democratica

La sinistra nella rete, di Pietro Ingrao

MediAterraneo

Media Evo

Democratici di Sinistra

Più megabit per tutti

Innovazione, di Cesare Massarenti

Quelli di NetWork e le loro proposte per una nuova sinistra, di Valentino Filippetti

Più sapere per tutti, di Valentino Filippetti

Il “netWork” di approfondimento sulla “internet-economy”, di Valentino Filippetti

Nasce l’Osservatorio per l’innovazione

Il futuro non va inseguito, va progettato

Il contratto c’è, ma non per tutti

Analisi delle realtà e delle tendenze dell’informazione regionale digitale

Partito democratico

Un Sincronizzatore Comunicativo per il Partito Duttile, di Valentino Filippetti

All’Eremito Digital De Tox, di Valentino Filippetti

iOlive, un’app per scoprire l’olio, di Valentino Filippetti

Da Radio Galena a Fab Lab Radio, di Valentino Filippetti

X10 Pathology per l’analisi del sangue, di Valentino Filippetti

Showroom 2.0: la concessionaria del futuro, di Valentino Filippetti

L’innovativa app per il corteo storico di Orvieto, di Valentino Filippetti

OLO sbanca con il crowdfunding, di Valentino Filippetti

Vetrya debutta in borsa a Milano. un caso di scuola per la collaborazione pubblico-privato.

To Be srl, alla velocità della luce, di Valentino Filippetti

Social FabLab

Acceleriamo il futuro

Istituto Istruzione superiore e Scientifico tecnico

Eretico Futuro

Eretici nel segno dello sviluppo

Creatività produttiva e pensiero digitale: Orvieto è la capitale, di Davide Pompei

XVII Congresso Nazionale Lega delle Autonomie

Transizione possibile

Patria e Costituzione

Assemblea Nazionale di Patria e Costituzione – 2019

Assemblea Nazionale di Patria e Costituzione – 2020, intervento di Valentino Filippetti

II Edizione della scuola estiva di formazione politica. Seminario II “Il nuovo disordine globale”

Ali Umbria propone il webinar “Immuni, un’App di cittadinanza”, di Andrea Crisanti e Michele Mezza

Le occasioni perdute

Soviet e diffidenza. La retrotopia malattia digitale della sinistra, di Michele Mezza

L’occasione perduta dell’associazione NetWork, di Valentino Filippetti

Il tempo di Galileo Galilei

Il tempo di Alì Rashid

Per una carta della civiltà e del benessere tecnologico, di Valentino Filippetti

Il libro è acquistabile on line al link: https://www.bordeauxedizioni.it/prodotto/eretico-futuro/

Trump, Fort Detrick e il Covid 19: Il colpevole silenzio degli Stati Uniti sulla vera origine del coronavirus

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

Tutta una serie di variegate informazioni e di fatti concreti, combinati strettamente tra loro a partire da alcune clamorose anomalie, provano e attestano oltre ogni dubbio che:

1. Il coronavirus ha iniziato a contagiare e devastare il mondo trovando il suo luogo di origine e di propagazione nella base militare e nel laboratorio batteriologico di Fort Detrick, collocato nello stato del Maryland degli Stati Uniti, fin dal luglio del 2019 e quindi più di tre mesi in anticipo rispetto ai casi riportati a Wuhan e in Cina;

2. Il governo Trump, gli apparati statali americani e l’amministrazione Biden in carica dal gennaio del 2021, hanno via via cercato, coscientemente e costantemente, di coprire e nascondere tale gravissimo evento di contaminazione durante il periodo compreso tra il luglio del 2019 e il presente, ossia per due lunghi e sanguinosi anni: una menzogna permanente e perfettamente consapevole di Washington che ha direttamente causato e prodotto il dilagare della paurosa strage di più di tre milioni di esseri umani, insanguinando dall’estate del 2019 quasi tutto il nostro pianeta e provocando circa 600.000 vittime innocenti nella stessa America.

Fin dal 1943 e senza soluzione di continuità uno dei principali siti militari statunitensi per la guerra batteriologica, Fort Detrick, registrò al suo interno una prima e innegabile “fuga” verso il mondo esterno del batterio che causa l’antrace (una gravissima infezione, con sintomi molto simili a quelli creati dalla polmonite) già il 18 settembre 2001, ossia solo una settimana dopo gli attentati dell’11 settembre.1

Dopo questo pessimo precedente, è sicuro e attestato senza ombra di dubbio persino da un articolo dell’insospettabile NewYorkTimesdel 5 agosto 2019 che durante la seconda metà di luglio del 2019 l’attività di ricerca batteriologica di Fort Detrick venne chiusa: quest’ultima serrò dunque i battenti nel luglio del 2019 in modo improvviso, rimanendo non operativa per molti mesi e riavviando completamente la sua attività solo a fine marzo 2020.2

Al di là delle spiegazioni ufficiali del Pentagono rispetto a tale prolungata serrata, relative a un problema delle acque reflue, si registra dunque un’anomalia made in USA, allo stesso tempo clamorosa e incontrovertibile, fuori discussione e inattaccabile: ma qual era la vera ragione della singolare, eclatante e improvvisa chiusura delle ricerche batteriologiche a Fort Detrick?

Un’embrionale risposta venne fornita quasi subito da un lucido articolo dell’insospettabile e anticomunista quotidiano inglese Indipendent, il quale già il 6 agosto del 2019 notò che

«al principale laboratorio di guerra batteriologica dell‘America era allora stato ordinato di interrompere tutte le ricerche sui più letali virus e agenti patogeni per il timore che le scorie tossiche potessero uscire dalla struttura. Sin dall’inizio della Guerra Fredda, Fort Detrick in Maryland è stato l’epicentro della ricerca di armi batteriologiche dell’Esercito USA. Il mese scorso [ossia il luglio 2019, ndr] il Centro per il Controllo e la Prevenzione di malattie (l’organismo governativo di salute pubblica) ha privato il laboratorio della sua licenza per gestire “agenti patogeni selezionati” altamente riservati che includono ebola, vaiolo e antrace. L’inusuale mossa è seguita ad una ispezione del CDC a Fort Detrick che ha scoperto gravi problemi nelle nuove procedure utilizzate per decontaminare gli scarti liquidi. Per anni la struttura ha fatto uso di un impianto di sterilizzazione a vapore per trattare l’acqua contaminata, ma lo scorso anno, in seguito a una tempesta che ha allagato e distrutto il macchinario, Fort Detrick ha iniziato a utilizzare un sistema chimico di decontaminazione. Nonostante ciò, gli ispettori del CDC hanno trovato che le nuove procedure non erano sufficienti e che entrambi i guasti meccanici fossero causa di perdite e che i ricercatori avrebbero fallito a seguire propriamente il regolamento. Come risultato l’organizzazione ha mandato un provvedimento di sospensione ordinando a Fort Detrick di sospendere tutte le ricerche sugli agenti selezionati».3

Il mistero della sostanziale chiusura della base di Fort Detrick è stato in ogni caso risolto in modo indiscutibile da una seconda e sicura anomalia, sempre avvenuta in terra statunitense e verificatasi guarda caso a ridosso della serrata estiva della base militare del Maryland: ossia la “misteriosa” epidemia di polmonite acuta che colpì gli Stati Uniti, a partire proprio dal luglio del 2019. Su Internet si poteva tranquillamente leggere, fin dall’inizio di settembre del 2019, pertanto almeno due mesi prima dei primordi dell’epidemia di coronavirus a Wuhan e in Cina, tutta una serie di articoli e notizie eclatanti come quelle che seguono e che riguardavano proprio l’America:

«Da quest’estate [del 2019, ndr] oltre 200 persone, perlopiù giovani, sono finite in ospedale in queste condizioni. Agli esami i polmoni appaiono come colpiti da un‘infezione molto aggressiva di cui i dottori non conoscono la causa. Gli Stati Uniti registrano altre due vittime (il totale sale così a tre) di una ancora misteriosa patologia polmonare legata allo svapo. Il secondo decesso – riferisce il New York Times – è avvenuto a luglio, un mese prima della persona che ha perso la vita in Illinois per lo stesso problema. Ma solo giovedì Ann Thomas, funzionario per la sanità dell‘Oregon e pediatra, ha reso nota la notizia. Thomas non ha voluto rivelare né il nome, né l‘età e il sesso della vittima, ma ha assicurato che la morte è stata causata dalla crisi respiratoria innescata dalla patologia legata allo svapo. “Appena arrivata in ospedale, la persona è stata ricoverata e attaccata al respiratore”. Dopo qualche settimana, i dottori hanno costatato che l‘infezione polmonare era arrivata a livelli irreversibili. La vittima aveva acquistato un prodotto per le sigarette elettroniche in un marjuana shop. Il terzo decesso è stato confermato in data 5 settembre dai funzionari sanitari dell’Indiana. Si tratta di “una persona di età superiore ai 18 anni”, ha dichiarato il Dipartimento della Salute dello Stato in una nota. Nello Stato, in particolare, sono in esame 30 casi di gravi lesioni polmonari legate allo svapo [l’inalazione tramite sigarette elettroniche, ndr]. Da quest’estate oltre 200 persone, perlopiù giovani, sono finite in ospedale in queste condizioni. Tutti sono svapatori. Vengono ricoverati per fiato corto, crisi respiratoria, diarrea, vertigini, vomito. Agli esami tomografici i polmoni appaiono come colpiti da un‘infezione molto aggressiva di cui i dottori non conoscono la causa».4

Dopo aver notato di sfuggita come agli inizi di settembre del 2019 proprio il Maryland, ossia lo stato federale nel quale è collocato Fort Detrick, stesse valutando se prendere delle misure per frenare l’uso delle peraltro inoffensive (in assenza di Covid-19) sigarette elettroniche, ritenute allora la causa della misteriosa “polmonite” iniziata negli USA nell’estate del 2019, va sottolineato che i sintomi della suddetta epidemia che colpì allora l’America, in concomitanza con la quasi simultanea chiusura della “biologica” Fort Detrick, furono identici alla malattia che in seguito venne identificata, e non certo da Washington, come coronavirus: del resto lo stesso Robert Redfield, in qualità di direttore del centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie, in seguito e all’inizio del 2020 ammise parzialmente che alcuni casi di Covid-19 si erano verificati all’interno degli Stati Uniti già nel corso del 2019, ma vennero diagnosticati come “influenza”, come riferì anche il giornale TheGuardian.5

Dopo la chiusura di Fort Detrick a fine luglio del 2019 e l’epidemia misteriosa di “polmonite” nella stessa estate, emerse comunque una terza singolarità in terra statunitense sempre in quel periodo: infatti le autorità governative e sanitarie del paese per alcuni mesi attribuirono, in modo illogico, le morti per le strane polmoniti che si stavano verificando negli Stati Uniti nell’estate del 2019 all’innocuo e ormai decennale consumo di sigarette elettroniche (innocuo, ovviamente, in assenza di coronavirus), creando una colossale e governativa fake news. Si trattò di un’assurdità incredibile visto che per dodici anni, dal lontano 2007, le sigarette elettroniche erano state utilizzate su larga scala da milioni e milioni di cittadini degli Stati Uniti: durante i lunghi mesi che separano il 2007 dal luglio del 2019 tale consumo non ha creato alcun problema sanitario serio, né soprattutto polmoniti gravi, mentre risultava chiaro che il presunto effetto nocivo delle sigarette elettroniche era, in modo incredibile, limitato e circoscritto solo agli USA e non coinvolgeva in alcun modo il resto del mondo, dove pure il fumo elettrico era diffuso da un decennio. Fin dal settembre del 2019 alcuni studi medici hanno mano a mano dimostrato l’assenza di qualunque collegamento diretto tra “svapare”, cioè inalare da sigarette elettroniche, e le “polmoniti” del 2019: ma se il governo Trump e le autorità statunitensi non parlarono in alcun modo di quello che era successo a Fort Detrick, viceversa esse fino all’ottobre 2019 lasciarono tranquillamente che per alcuni mesi si propagassero le false informazioni sull’inesistente legame tra la nuova e “misteriosa” (misteriosa, ma non certo a Fort Detrick) malattia polmonare e le sigarette elettroniche.6

Siamo in presenza di fatti eclatanti e innegabili, che a questo punto vanno collegati con un’ennesima anomalia avente per oggetto questa volta il mistero dei giochi militari di Wuhan: a tal proposito l’insospettabile, filoamericano e anticomunista quotidiano Il Messaggero ha pubblicato nel 2020 un articolo intitolato Primi casiai giochimondialimilitari diWuhan2019:

«Vuoi vedere che il coronavirus era nell‟aria di Wuhan già in ottobre, un mese in anticipo rispetto al primo caso ufficiale riscontrato sul suolo cinese e datato 17 novembre? Verso questa possibile conclusione potrebbero condurre alcune testimonianze di atleti recatasi nella località cinese, per prendere parte ai Giochi Mondiali militari, i quali sia in Cina sia al ritorno in patria hanno manifestato i sintomi di quella malattia, che alcuni mesi dopo, avrebbe scombussolato il mondo intero. Alla rassegna degli sportivi in divisa, celebratasi nel capoluogo della provincia di Hubei dal 18 al 27 ottobre, hanno preso parte 10mila atleti provenienti da un centinaio di paesi. Tra di loro c‘erano anche due pentatleti francesi, Valentin Belaud e Elodie Clouvel, che al quotidiano l‟Equipe, hanno raccontato di essersi ammalati ed essere stati costretti a saltare gli allenamenti in Cina, accusando problemi mai avuti in precedenza. In più la coppia, nel momento in cui ha comunicato il problema allo staff medico, ha appreso che anche altri membri della delegazione transalpina si erano ammalati. Pure sul fronte italiano, i racconti degli azzurri presenti in Cina condurrebbero alla stessa conclusione. Tra gli altri lo spadista Matteo Tagliariol, olimpionico a Pechino 2008, che a Wuhan ha gareggiato nella prova a squadre insieme a Paolo Pizzo e Lorenzo Buzzi, ha ricordato di essere stato malato per diversi giorni, soffrendo soprattutto di una fastidiosissima tosse, e che nel centro medico del villaggio le aspirine erano esaurite, a causa dell‘elevato numero di malati. Poi al rientro in Italia, il 37enne Tagliariol ha avuto la febbre e dopo la sua guarigione si sono ammalati pure la compagna, la fiorettista Martina Batini, e il figlio di due anni. “Ai mondiali militari di Wuhan ci siamo ammalati tutti, 6 su 6 nell’appartamento e moltissimi anche di altre delegazioni. Tanto che al presidio medico avevano quasi finito le scorte di medicine”, ha detto Tagliariol».7

Sappiamo con assoluta certezza che i giochi militari mondiali di Wuhan, collegati ovviamente con l’arrivo in Cina di migliaia di militari occidentali e di centinaia di atleti USA, non avvennero nel giugno 2019, ma a partire dal 18 ottobre 2019: dunque a tre mesi di distanza e circa cento giorni dopo i primi casi negli Stati Uniti, verificatisi a partire dal luglio 2019, e tra l’altro sessanta giorni dopo i primi casi di coronavirus a Milano e in Lombardia. Vista la presenza innegabile del Covid-19 negli USA già durante l’estate del 2019, quindi, furono gli atleti statunitensi a esportare involontariamente il coronavirus in Cina a Wuhan, non il contrario, senza comunque che il governo degli Stati Uniti avvertisse in alcun modo le autorità cinesi dell’epidemia di “polmonite” in corso nella nazione americana. Di fronte a questo quadro risulta perfettamente chiaro perché i ricercatori dell’autorevole Organizzazione Mondiale della Sanità, un ente dell’ONU, al termine di una serie di ispezioni effettuate all’inizio del 2021 a Wuhan, abbiano definito chiaramente e senza mezzi termini “altamente improbabile” che il coronavirus sia fuoriuscito dal laboratorio di ricerche di Wuhan.8

La quinta anomalia ha per oggetto la particolare, inquietante e maligna “simulazione di scenario” pubblicato nell’ottobre del 2019 dal John Hopkins Center for Health Security assieme ad altre due organizzazioni statunitensi, relativa allo scoppio di una pandemia di “coronavirus immaginario”, originatasi in un ipotetico allevamento di maiali del Brasile: una simulazione a tavolino che stranamente si stava già trasformando in realtà, in terra statunitense.

«Eric Toner è uno scienziato americano del John Hopkins Center for Health Security, e a ottobre scorso aveva simulato una pandemia di coronavirus. Tre mesi fa, infatti, il centro di ricerca di New York ha condotto un esperimento insieme al World Economic Forum e la Bill and Melinda Gates Foundation, per dimostrare l‘importanza della partnership tra istituzioni pubbliche e enti privati nel far fronte a pandemie globali. Lo studio ha simulato una pandemia di coronavirus immaginario originato negli allevamenti di suini del Brasile e un‘espansione in quasi tutti i Paesi del mondo nell‘arco di 6 mesi. Secondo l‘impressionante simulazione, nell‘arco di 18 mesi 65 milioni di persone sarebbero morte. Come ha precisato il John Hopkins Center, l‘esperimento e i risultati relativi al numero di vittime non corrispondevano in nessun modo a previsione, ma a una semplice simulazione».9

Questa “semplice simulazione” venne pubblicata guarda caso nell’ottobre del 2019: ossia proprio dopo che negli USA era stata chiusa da circa tre mesi la base militare di Fort Detrick, dopo lo scoppio dell’epidemia di polmoniti e dopo l’allarme per il presunto effetto nocivo delle innocue sigarette elettroniche in terra americana. Un’ultima anomalia, che rafforza ancora di più la “teoria Fort Detrick”, ha per oggetto invece l’enorme numero di vittime purtroppo avvenute sempre negli Stati Uniti a causa dell‘“influenza” che colpì il paese dal novembre 2019 (quando a Wuhan stavano iniziando solo i primi sporadici casi…) fino al febbraio 2020, determinando la cifra impressionante di quasi ventimila morti.

Non a caso già nel febbraio 2020, in modo responsabile e onesto,

«il Prof. Edward Livingston ed i suoi colleghi, in questa infografica pubblicata il 26 Febbraio su JAMA, sottolineano come, sebbene vi sia una grande attenzione all‟epidemia della malattia di coronavirus 2019 (COVID-19), tuttavia questa condizione costituisce un problema rilevante in un‟area della Cina e sembra avere ramificazioni cliniche limitate al di fuori di quella regione. Sta di fatto che gli Stati Uniti stanno vivendo una grave stagione influenzale che ha già provocato più di 16.000 morti. L‘infografica pubblicata su JAMA mette a confronto i tassi di incidenza e mortalità per le 2 malattie virali delle vie respiratorie. Nel periodo sino al 24 Febbraio 2020, negli Stati Uniti, relativamente al COVID- 19, sono stati registrati 14 casi diagnosticati dal sistema sanitario statunitense, 39 casi tra i cittadini statunitensi rimpatriati. Non sono stati segnalati morti, né pazienti critici e non ci sono evidenze di trasmissione, negli Stati Uniti, in una ampia comunità. Analizzando parallelamente i dati sull‘influenza, negli Stati Uniti, al 15 Febbraio 2020, i CDC stimano che si siano ammalate almeno 29 milioni di persone, che siano state effettuate almeno 13 milioni di visite mediche, almeno 280.000 ospedalizzazioni e che i morti siano stati almeno 16.000, da sottolineare le 105 morti pediatriche correlate all‘influenza. Pertanto gli Autori ritengono che, sulla base di questi dati, da un punto di vista della sanità pubblica le persone dovrebbero focalizzare la loro attenzione sull‘influenza ed adottare le misure preventive che includono, nel caso dell‘influenza, anche la possibilità del vaccino, oltre a quelle più volte ricordate per tutti i virus respiratori».10

Ma non si trattava certo solo di “influenza”, come ha dimostrato la prima “pistola fumante” in questo particolare intrigo e giallo di portata planetaria: si tratta della scrupolosa attività dell’insospettabile Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che ha attestato e dimostrato nell’ottobre del 2020 come il coronavirus fosse senza alcun dubbio presente in Lombardia e alcune altre regioni di Italia fin dal settembre del 2019, ossia almeno due mesi prima dell’inizio dell’epidemia a Wuhan e in Cina.

«Il virus SarsCov2 circolava in Italia già a settembre 2019, dunque ben prima di quanto si è pensato finora. La conferma arriva da uno studio dell’Istituto dei tumori di Milano e dell’università di Siena, che ha come primo firmatario il direttore scientifico Giovanni Apolone, pubblicato sulla rivista Tumori Journal. Analizzando i campioni di 959 persone, tutte asintomatiche, che avevano partecipato agli screening per il tumore al polmone tra settembre 2019 e marzo 2020, l’11,6% (111 su 959) di queste persone aveva gli anticorpi al coronavirus, di cui il 14% già a settembre, il 30% nella seconda settimana di febbraio 2020, e il maggior numero (53,2%) in Lombardia».11

Si tratta di una notizia clamorosa, oltre che indiscutibile e sicura: essa dimostra che l’allora “misteriosa” epidemia polmonare, sviluppatasi negli Stati Uniti dal luglio del 2019, si era estesa sicuramente dall’America all’Italia trasferendosi di luogo e nazione all’interno del mondo occidentale, e non certo in quello asiatico…

A questo punto va fatta emergere una seconda superprova: uno studio accurato dell’insospettabile ente statunitense denominato “Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie” (CDC), pubblicato purtroppo molto in ritardo (solo alla fine del 2020), ha rilevato come ben 39 campioni di sangue, presi tra il 13 e il 16 dicembre del 2019 in California, Oregon e Washington, fossero risultati positivi agli anticorpi del coronavirus: dimostrando quindi in modo indiscutibile che la quarantina di persone coinvolte era stata infettata dal Covid-19 già nelle settimane precedenti allo scoppio su vasta scala dell’epidemia di Wuhan.12

Si può inoltre congiungere tale elemento indiscutibile a una terza e formidabile superprova, che fa luce definitivamente sul caso in oggetto. Infatti ormai è sicura l’identità del “paziente zero”, anzi dei numerosi pazienti zero del Covid di natura civile: gli sfortunati pensionati di una casa di riposo di Green Spring, in Virginia e nella contea di Fairfax, collocata per loro sfortuna vicino a Fort Belvoir, un ospedale destinato ai militari statunitensi che assiste anche i ricoverandi in arrivo da Fort Detrick.13

La sera dell’11 luglio del 2019, infatti, più di tre mesi prima dei giochi militari di Wuhan, l’insospettabile e anticomunista rete televisiva “ABC” raccontò che in quei giorni, almeno quattro mesi prima dei casi iniziali a Wuhan,

«“[…] una malattia mortale in Virginia ha portato due morti e dozzine di residenti infettati di una malattia respiratoria qui nella comunità di pensionamento di Green Spring. Negli ultimi 11 giorni, 54 persone si sono ammalate con sintomi che vanno da una brutta tosse alla polmonite, senza indizi chiave su come sia scoppiata la malattia improvvisa”. Passano due giorni e la strana epidemia compare anche in un‟altra casa di riposo li vicino. È sempre il tg [statunitense dell’ABC, ndr] a raccontarlo: “Un misterioso virus respiratorio ha colpito una seconda casa di riposo nella contea di Fairfax”. L‟unica cosa chiara al momento è che, due giorni dopo la seconda epidemia a poche decine di miglia di distanza, con un ordine del Cdc, il laboratorio di sicurezza biologica livello 4 di Usamriid, a Fort Detrick nel Maryland, viene chiuso per un incidente di biocontenimento. È sempre il tg a raccontare le paure degli abitanti di quella zona: “Gli abitanti che vivono vicino a Fort Detrick vogliono sapere perché il laboratorio top di Army Germ, uno dei più noti, è stato chiuso così velocemente”».

Era ed è tuttora un’ottima domanda, un eccellente interrogativo.

«A Fort Detrick infatti gli scienziati Usa gestiscono alcuni degli agenti biologici più sensibili e conducono ricerche mediche all‘interno di esso. Ricerche anche su cellule virali molto pericolose, come Ebola e Antrace. […] E allora non possiamo che porci una domanda: c‘è forse una correlazione tra la fuga di biocontenimento di Fort Detrick e le epidemie anomale dentro le due case di riposo di Green Spring? È sufficiente osservare la mappa per vedere che vicinissima alle due case di riposo c‘è Fort Belvoir, un ospedale per i militari che tra gli altri assiste anche quelli di Fort Detrick. Ma come sarebbe arrivato il contagio da Fort Belvoir alle due case di riposo? Il fatto è che proprio questo ospedale assiste anche i veterani di guerra delle forze armate americane, che vivono anche dentro le due case di riposo. Vi mostriamo alcune immagini, nelle quali si vedono i marines festeggiare nella casa di riposo di Burke i numerosi veterani della seconda guerra mondiale per l‘anniversario di fondazione del loro corpo. Può dunque esistere un filo che lega l‘incidente di biocontenimento di Fort Detrick, l‘ospedale militare di Fort Belvoir e le case di riposo in cui si manifesta l‘anomala epidemia di luglio?»14

Tra l’altro proprio il sito della contea virginiana di Fairfax, in data 26 luglio 2019, sottolineò che ben 63 residenti della casa di riposo di Green Spring erano stati sottoposti in loco a «numerosiesami», ma anche dopo di essi «nessun specifico agente patogeno era stato identificato come causadell‟epidemia».15 Se si considerano le altre due “pistole fumanti” e le sopracitate anomalie (le “pericolosissime” sigarette elettroniche made in USA, ecc.), il “filo” che lega Fort Detrick e il Covid è indiscutibile.

Tiriamo le conclusioni.

Tutti i fatti riportati escludono, in modo sicuro e categorico, che l’epidemia di coronavirus si sia sviluppata a partire dalla Cina e da Wuhan, dalla fine di ottobre del 2019; essa invece era virulenta e attiva in Virginia e negli Stati Uniti fin dal luglio del 2019, quindi almeno tre mesi prima dell’inizio della pandemia in Cina.

Come andarono realmente le cose, per la genesi della tragedia del Covid?

Fase uno: verso la fine di giugno del 2019 e a Fort Detrick, si verifica una contaminazione di personale militare statunitense attraverso il coronavirus contenuto nei laboratori della base.

Fase due: una parte del personale infettato viene portato all’ospedale militare di Fort Belvoir, in Virginia.

Fase tre: attorno al 4 luglio 2019, festa nazionale degli USA, involontariamente alcuni marines di Fort Belvoir contagiati dal Covid-19 portano e distribuiscono a piene mani la malattia nella casa di riposo di Green Spring, oltre che in giro per il Maryland e la Virginia.

Fase quattro: dopo un’incubazione di una settimana, scoppia purtroppo una prima epidemia nella casa di riposo di Green Spring con i suoi 263 residenti: due muoiono, i primi caduti dei futuri tre milioni di morti per la pandemia di coronavirus, mentre il Covid-19 raggiunge con la sua marcia mortale un’altra casa di riposo vicino a Green Spring.

Fase cinque: dopo alcuni giorni il Pentagono inizia a preoccuparsi, ordinando la chiusura di tutte le attività di ricerca batteriologica a Fort Detrick, a metà luglio.

Fase sei: dalla metà di luglio all’inizio di ottobre del 2019 l’epidemia via via si espande sia negli Stati Uniti che all’estero, arrivando sicuramente a Milano e in Lombardia all’inizio di settembre del 2019, come provato dall’Istituto dei Tumori di Milano.

Fase sette: le olimpiadi militari mondiali di Wuhan. A tal proposito l’insospettabile e anticomunista sito intitolato Le Iene ha riportato che

«le autorità cinesi hanno più volte sostenuto che l‘epidemia sarebbe arrivata a Wuhan con i militari dell‘esercito americano che partecipavano alle gare del “World Military Games 2019”, in programma dal 12 al 28 ottobre. Noi ovviamente non lo sappiamo, ma dal periodico delle forze armate americane scopriamo che alcuni militari di Fort Belvoir hanno partecipato a quei Giochi. Tra questi il sergente di prima classe Maatje Benassi e il capitano dell’esercito Justine Stremick, che serve come medico di medicina di emergenza dell’esercito a Fort Belvoir in Virginia. Quindi almeno due atleti dell‟ospedale militare situato vicino alle case di riposo dove c‟è stata l‟epidemia sospetta di luglio sarebbero andati a Wuhan per le olimpiadi di ottobre 2019».16

La “fase otto”, che seguì l’inizio di novembre del 2019 e che arriva fino a oggi, risulta purtroppo fin troppo ben conosciuta a livello mondiale…

Le conseguenze della tesi in oggetto dimostrata da numerosi fatti testardi sono fin troppo chiare. Chiediamo innanzitutto all’Organizzazione Mondiale della Sanità, ente dell’ONU che del resto ha già effettuato un’ispezione accurata a Wuhan in Cina verso l’inizio del 2021, di compiere celermente un’analoga e altrettanto approfondita inchiesta anche rispetto a Fort Detrick, all’ospedale militare di Fort Belvoir e alla casa di riposo di Green Spring in Virginia, al fine di far luce finalmente sulla reale origine dell’epidemia di coronavirus a partire dall’estate del 2019. Al mondo serve verità, non menzogne a stelle e strisce.

Può sembrare strano ma anche la precedente e famigerata epidemia di “spagnola”, una gravissima forma di influenza che uccise come minimo cinquanta milioni di persone tra il 1918 e il 1920, non nacque e non si sviluppò certo in Spagna, ma viceversa negli Stati Uniti e in Kansas all’inizio del 1918. Non solo: la cosiddetta epidemia “spagnola” inizialmente venne alla luce e si propagò da una base militare statunitense, anche se quella volta non si trattò di Fort Detrick bensì di Fort Reiley, collocato per l’appunto nel Kansas. Anche in quel caso le menzogne furono molte.

È stato notato, in modo lucido e veritiero, che «ogni epidemia ha la sua infodemia, un alone tossico di panzane e disinformazione. Sentite cosa scriveva il quotidiano americano The Washington Times il 6 ottobre 1918: “Anzitutto bisogna dire che il termine ‘influenza spagnola’ è chiaramente un errore, e che il nome dovrebbe essere ‘influenza tedesca’, perché l‘indagine prova che la malattia ha avuto inizio nelle trincee germaniche. Dopodiché ha compiuto un giro dell‘intero mondo civilizzato, nel corso del quale è esplosa con particolare virulenza in Spagna, a causa di certe condizioni locali”. Sono i giorni di picco dell‘infezione che farà 50, forse 100 milioni di morti in tutto il mondo, un numero cinque o dieci volte superiore alle vittime della Grande Guerra che sta per finire, e l‘anonimo articolista ha ragione a dire che la Spagna non c‘entra. Ma è altrettanto ingiusto buttare la croce addosso agli odiati crucchi. I primi casi, in primavera, non si sono registrati nelle trincee del Kaiser, ma proprio in America, per l‘esattezza a Fort Riley nel Kansas, in un campo militare di quasi centomila metri quadri, dove più di mille reclute sono rimaste contagiate. Da quando, nell‟aprile del 1917, gli Stati Uniti sono scesi in guerra, il loro esercito è salito di colpo da 190 mila uomini a più di due milioni. E in maggioranza sono ragazzi alle prime armi, come il soldatino Charlot di Shoulder Arms. Molti di loro vengono da zone rurali dove vivevano in stretto contatto con polli o maiali: niente di più facile che il virus sia arrivato da lì, e che abbia fatto il salto dagli animali all‘uomo proprio in qualche fattoria del Kansas. Non influenza spagnola, dunque, e nemmeno tedesca: semmai americana. Ma non contento di dare in pasto al pubblico questa fake news, il Washington Times ne lancia anche un‘altra, e ben più colossale: “Che i germi dell‘influenza siano stati segretamente disseminati in questo Paese da sommergibili tedeschi è un‘accusa difficile da provare, ma i loro attacchi coi gas contro gli equipaggi dei nostri fari e navi-faro sono validi indizi contro di loro”. L‘epidemia, insomma, non ha nulla di naturale. All‘origine di tutto ci sarebbe un complotto criminale, la guerra biologica ordita dai servizi segreti di Guglielmo II ai danni degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. È curioso che a propagare questa bufala sia una testata con lo stesso nome (The Washington Times) di quella che un secolo dopo, allo scoppio del Coronavirus Covid-19, ha messo in giro la leggenda del microrganismo ingegnerizzato uscito da un laboratorio militare di Wuhan. Ieri gli elmetti chiodati, oggi gli untori cinesi. Nel 1918 non c‘erano Facebook e Whatsapp, e neppure il TgCom24 di Paolo Liguori, pronto a dare per certa la notizia, “confermata da fonte attendibilissima”. In compenso c‘era un conflitto mondiale, quel mostruoso mattatoio che abbiamo visto nel film di Sam Mendes, una corsa forsennata all‟annientamento reciproco dove tutto sembra ammesso, compreso il cloro per gasare le trincee opposte, ma anche una macchina dell‘odio che fabbrica a ciclo continuo le dicerie più assurde, ingigantite dalla cappa di censura sui mezzi di informazione. Un mese prima dell‘articolo sul Washington Times era stata un‟autorità come il colonnello Philip Doane, responsabile della sezione sanitaria della marina mercantile Usa, ad accreditare le tesi cospirazioniste: “Sarebbe molto facile per uno di questi agenti del Kaiser rilasciare germi dell‟influenza in un teatro o in qualche altro posto dove si radunano grandi assembramenti di persone. I tedeschi hanno iniziato le epidemie in Europa, e non c‘è motivo per cui debbano essere particolarmente gentili con l‘America”». 17

A volte la storia si ripete e a una vecchia tragedia se ne aggiunge una nuova, anche se accompagnata da menzogne abbastanza simili a quelle di un secolo fa.

* * * *

PETIZIONE ALL’OMS PER INDAGARE SULL’ORIGINE DEL CORONAVIRUS

Aderisci anche tu firmando la petizione su Change.org

Petizione popolare per chiedere all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di aprire un’indagine su Fort Detrick (USA) riguardo l’origine del coronavirus.

Alla luce della ricostruzione complessiva svolta nell’articolo Trump, Fort Detrick e il Covid-19. Ilcolpevolesilenzio degliStati Unitisulla vera originedel coronavirus;

viste le informazioni ormai acquisite su un’epidemia di polmonite verificatasi all’inizio di luglio 2019 in una casa di riposo di Green Spring, Virginia (USA);

vista l’anomala chiusura dei laboratori batteriologici di Fort Detrick (USA), proprio nella seconda metà di luglio del 2019 e durata per alcuni mesi;

visto il ritrovamento del coronavirus in Italia, in Lombardia e in altre regioni, fin dall’inizio di settembre del 2019, ossia almeno due mesi prima della genesi dell’epidemia di Covid-19 a Wuhan in Cina;

visto il ritrovamento innegabile del coronavirus anche in un centinaio di cittadini statunitensi già all’inizio di dicembre del 2019;

chiediamo all’Organizzazione Mondiale della Sanità di compiere un’accurata indagine, come quella del resto già avviata a Wuhan all’inizio del 2021, riguardo a Fort Detrick, all’ospedale militare di Fort Belvoir e alla casa di riposo Green Spring, con l’obiettivo di appurare se il coronavirus possa essere stato originato nel territorio degli Stati Uniti d’America.

Aderisci anche tu firmando la petizione su Change.org

Primi Firmatari

Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli, studiosi di politica internazionale, estensori dell’articolo Trump, Fort Detrick e il Covid-19. Il colpevole silenzio degli Stati Uniti sulla veraoriginedel coronavirus

Nunzia Augeri, saggista, Milano

Laura Baldelli, docente di Letteratura e Storia, Ancona

Alessandro Belfiore, Comitato No Guerra NO Nato

Maurizio Belligoni, già Direttore Generale Agenzia Sanitaria Regione Marche; primario di psichiatra

Fulvio Bellini, ricercatore politico, Milano

Ascanio Bernardeschi, redazione del giornale comunista on-line “LaCittàFutura

Giambattista Cadoppi, saggista, specialista di politica internazionale

Domenico Carofiglio, operaio, attivista FIOM Wirlphool Fabriano

Bruno Casati, Presidente Centro Culturale “Concetto Marchesi” di Milano

Luigi Cavalli, regista cinematografico (ultimo film, 2019, “Mon cochon et moi”, protagonista Gerard Depardieu)

Geraldina Colotti, giornalista, corrispondente in Europa di Resumen LatinoAmericano

Marcello Concialdi, docente ed editore, Torino

Luigi Curcetti, Esecutivo Regionale Marche Unità Sindacale di Base (USB)

Manlio Dinucci, geografo e saggista

Salvatore Distefano, docente di Filosofia e storico del movimento operaio, Catania

Lorenzo Fascì, avvocato, Reggio Calabria;

Salvatore Fedele, chirurgo e già responsabile dipartimento Emergenze ospedale Acqui Terme, Alessandria

Carlo Formenti, giornalista e saggista, già caporedattore di “Alfabeta” e ricercatore presso l’Università di Lecce

Federico Fioranelli, docente di Economia e Diritto

Rolando Giai-Levra, direttore di “Gramsci Oggi”

Fosco Giannini, già Senatore della Repubblica, direttore di “Cumpanis”

Alberto Lombardo, professore ordinario di Statistica Università di Palermo e direttore de “La Riscossa”

Mario Marcucci, docente a contratto di Tecnica Farmaceutica all’Università “La Sapienza di Roma”; già primario di Farmacia

Vladimiro Merlin, delegato RSU FLC- CGIL; già Consigliere Comunale Milano

Alfredo Novarini, già amministratore del P.C.I; membro del Centro Culturale Concetto Marchesi.

Alessandro Pascale, insegnante, saggista e direttore di Storiauniversale.it

Fabio Pasquinelli, avvocato, Osimo (Ancona)

Marco Pondrelli, direttore di “Marx21”

Giorgio Racchicini, docente di Letteratura e Storia, Fermo

Nicola Romana, docente di Diritto Dip. Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche all’Università di Palermo

Onofrio Romano, professore associato di sociologia generale all’Università di Bari

Marino Severini, “voce” e chitarra de La Gang;

Alberto Sgalla, docente di Diritto e scrittore;

Luca Stocchi, Presidente Centro Culturale “Cumpanis” Genova

Alessandro Testa, musicista e studioso di estetica musicale

Roberto Vallepiano, scrittore

Fabrizio Verde, direttore de “L’AntiDiplomatico”

Alessandro Visalli, architetto e dottore di ricerca in pianificazione territoriale, esperto scienze del territorio e ambiente

Alessandro Volponi, docente di filosofia, Fermo

Aderisci anche tu firmando la petizione su Change.org

FONTI:

Home

https://sinistrainrete.info/societa/20586-daniele-burgio-massimo-leoni-e-roberto-sidoli-trump-fort-detrick-e-il-covid-19.html?auid=58710

Franco Fracassi: “I misteri di Wuhan”

Il laboratorio militare di Fort Detrick nel Maryland e quello di Wuhan in Cina avevano programmi paralleli, e lavoravano praticamente in simbiosi su esperimenti GOF (guadagno di funzione dei virus). Inoltre, il laboratorio di Wuhan è finanziato ufficialmente dal Pentagono e dal Dipartimento di Stato USA. Il collegamento di tutto ciò è Anthony Fauci. Queste sono solo alcune delle “sorprese” che vi aspettano in questa intervista a Franco Fracassi.

FONTE: https://www.luogocomune.net/21-medicina-salute/5778-franco-fracassi-i-misteri-di-wuhan

DOPO COVID-19

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