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Libertà di espressione e censura mediatica

di Marco Consolo

Lo scorso 2 maggio, Nasser Abu Baker, Presidente del Sindacato dei Giornalisti della Palestina, ha ricevuto a Santiago del Cile il “Premio Mondiale della libertà di Stampa” dell’UNESCO (l’Agenzia dell’ONU), intitolato a Guillermo Cano. A nome di tutti-e i-le giornalisti-e palestinesi, Abu Baker ha ricordato le più di 135 vittime tra i-le colleghi-e che documentavano il genocidio israeliano a Gaza.

L’immediata rappresaglia mediatica israeliana è stata la chiusura di Al Jazeera ed il furto delle sue apparecchiature. Per i più smemorati, nel 2021, con un bombardamento, Israele aveva raso al suolo il grattacielo sede di Al Jazeera e dell’ Associated Press a Gaza.

Argentina e Telesur

In America Latina, la capa del Comando Sud degli Stati Uniti, la sorridente generale Laura Richardson, nella sua recente visita in Argentina aveva puntato il dito sui canali TV di Russia Today e di TeleSUR. La loro “colpa” è quella di avere un diverso punto di vista sul declinante strapotere USA nella regione.  Detto (ordinato) e fatto. Il 3 maggio, in Argentina, il “fedele scudiero” neo-sionista Milei ha oscurato il segnale di TeleSUR, nella griglia della Televisione Digitale Aperta. Poche settimane fa, il presidente Milei aveva già chiuso TELAM, la storica agenzia pubblica di notizie.

Nel 2018, il governo degli Stati Uniti ha silenziato diversi media, come il canale turco TRT World, quello russo Russia Today America, due canali cinesi CGTN1 e CGTN2, un canale sudcoreano Arirang, e poi Africa Today, France 24, TeleSUR, la tedesca Deutsche Welle,  in quanto “agenti stranieri”. Più recentemente il governo statunitense ha chiuso Press TV e sta dando l’assalto alla cinese TikTok (con 170 milioni di utenti negli States), mentre la “democratica” Unione Europea ha da tempo oscurato il segnale di Russia Today.

Per non rimanere indietro, la piattaforma X di Elon Musk ha censurato l’iraniana Hispan TV ed altri media “scomodi”.

E nell’Italia del governo neo-fascista, la RAI si è trasformata in “Tele Meloni”, umiliando il servizio pubblico, chi ci lavora e i-le cittadini-e.

Censura mediatica, democrazia e libertà di espressione

Il veto dei canali russi in Occidente o la costrizione a riferire su temi sensibili come il conflitto in Ucraina, il massacro in corso a Gaza, la pandemia del COVID-19 o la corruzione, hanno evidenziato il modo in cui i “latifondi mediatici” cercano di censurare e manipolare, mentre pretendono dare lezioni al mondo sui diritti e le libertà.

In nome del genocidio e della guerra, del turbo-liberismo e delle “magnifiche sorti” del capitalismo, censurano la tanto declamata libertà di espressione. Hanno paura di voci fuori dal coro, tra le altre quella dello stesso Papa, evidentemente non abbastanza “arruolato”. Nella battaglia mediatica per conquistare i cuori e le menti, la voce del padrone, “il pensiero unico del Ministero della Verità” non ammette controcanto, solo i cori ipocriti e stonati dei suoi sostenitori.

Nel mondo al rovescio, avanza la censura mediatica in nome della “democrazia” e della “libertà di espressione”.

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/liberta-di-espressione-e-censura-mediatica/

IO CELEBRO IL 9 MAGGIO, QUANDO I SOVIETICI SCONFISSERO I NAZISTI

Oggi, nella sede dell’ambasciata russa di Roma, Moni Ovadia ha celebreto la vittoria dell’Armata Rossa sui nazifascisti. Questo un brano del suo intervento.

“Il 9 maggio 1945 dovrebbe essere considerata come una delle più importanti e cruciali date di tutto il Novecento e anche dell’intera storia umana. Quel giorno memorabile le forze dell’Armata Rossa e delle brigate partigiane sovietiche sconfissero definitivamente i criminali eserciti nazifascisti sul vasto fronte orientale.
Senza la straordinaria resistenza sovietica, l’esercito tedesco avrebbe potuto dilagare a Est, impadronirsi delle più preziose materie prime e sconfiggere gli alleati anglo-franco-americani. La Germania nazista era vicina alla realizzazione della bomba atomica e disponeva di una scienza missilistica di almeno 15 anni più avanzata di quella dei suoi nemici.
Verosimilmente l’Europa sarebbe diventata un campo di morte, una terra disseminata di campi di sterminio, di camere a gas e forni crematori, non un solo ebreo sarebbe sopravvissuto, i popoli slavi avrebbero conosciuto una nuova schiavitù.
Per contrastare questo incubo, i popoli sovietici hanno sacrificato 27 milioni di vite, di cui 12 milioni russe, hanno patito distruzioni e sofferenze inenarrabili e hanno affrontato una guerra il cui scopo era lo sterminio totale, questo era l’intento dichiarato di Adolf Hitler, soggiogare i popoli slavi, sterminare il popolo russo.

L’eroismo dei combattenti dell’Armata Rossa e dei cittadini sovietici sfida le più iperboliche narrazioni di epopee eroiche. Si pensi a Stalingrado e se è possibile ancora di più a Leningrado, assediata per tre anni.
Nella Venezia del Nord la resistenza dei cittadini oltre che dei combattenti fu sovrumana.
In questa grandiosa città gli abitanti e chi li guidava riuscirono a concepire l’inaudito, edificarono una strada, la famosa “Via della Vita”, sul lago ghiacciato Ladoga per portare rifornimenti alla città martoriata.
In seguito, a guerra non ancora terminata, appena morto Roosevelt, Henry Truman, nuovo presidente Usa individuò nell’Unione Sovietica il nemico ideale del dopoguerra.
Gli apparati di propaganda del governo, del Pentagono e dei servizi segreti statunitensi approntarono un infernale campagna di propaganda basata su una miscela tossica di russofobia e anticomunismo isterico per rappresentare l’Urss come il regno del male. Alcune istituzioni, create espressamente, seminavano le menzogne più infami.

L’Europa comunitaria progressivamente sintonizzandosi sulla temperie stelle e strisce ha finito con l’allinearsi alla stessa propaganda, sulla spinta di governi fascistoidi di alcuni paesi dell’Europa dell’Est, fino alla perversione di apparentare comunismo e nazismo con l’intenzione di criminalizzare la Federazione Russa.

Tutto ciò ha portato a ignorare artatamente la ricorrenza del 9 di maggio, a gettare l’oblio sul sacrificio di 27 milioni di cittadini russi e sovietici.

E’ nostra intenzione riparare a questa vergogna per restituire onore e giustizia a quegli straordinari esseri umani a cui ogni cittadino europeo e non solo deve imperitura gratitudine.

Oggi, nella sede dell’ambasciata russa di Roma, Moni Ovadia ha celebreto la vittoria dell’Armata Rossa sui nazifascisti. Questo un brano del suo intervento.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 9 maggio 2024


Una parte del discorso di Putin in occasione della commemorazione da Mosca

https://www.la7.it/omnibus/video/ucraina-le-parole-di-vladimir-putin-nessuno-puo-minacciarci-ma-le-nostre-forze-nucleari-sempre-in-09-05-2024-541241

Nuova Patto di stabilità EU: “Serve una vera Liberazione, contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari”

di MARCO BERSANI

«L’ Europa è preoccupata? Se vinciamo noi è finita la pacchia!». Così urlava Giorgia Meloni all’ultimo comizio elettorale del settembre 2022. Siamo nell’aprile 2024, Meloni ha vinto e l’Unione Europea ha approvato il “nuovo” patto di stabilità dopo la sospensione triennale post pandemia.
Guardando le misure introdotte, si può dire che Meloni avesse ragione dal punto di vista letterale, ma avendo invertito soggetti attivi e soggetti passivi dell’affermazione.

Perché la pacchia -peraltro mai pervenuta dalle parti delle fasce deboli e medie della popolazione- è davvero finita e ritorna in grande stile la gabbia del debito e delle politiche di austerità.

Cosa prevede infatti il nuovo patto di stabilità? Intanto ripropone i numeri magici (60% rapporto debito/Pil e 3% rapporto deficit/Pil) i cui stessi ideatori dichiararono a più riprese di averli letteralmente inventati senza alcuna base scientifica. Su come raggiungerli e sulle procedure d’infrazione nel caso di mancato risultato, i mass media e le elite politiche si sbracciano per dire che c’è un allentamento rispetto alle misure previste in passato. Ma il focus è ancora una volta sbagliato.

Vediamo i dettagli. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil, i Paesi con un debito tra il 60% e il 90% del Pil dovranno ridurlo dello 0,5% ogni anno, mentre i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil (è il caso dell’Italia) dovranno ridurlo dell’1% annuo. Se è vero che il patto di stabilità precedente prevedeva un rientro del 5% all’anno, è altrettanto vero che prima tutti i Paesi erano consapevoli della totale impossibilità di un rientro così drastico, mentre ora il risultato è esigibile e quindi con conseguenze reali in termini di impatto economico e sociale. Per quanto riguarda il deficit, le nuove misure sono drasticamente peggiorative, perché, pur mantenendo il 3% come tetto non soggetto a procedura d’infrazione, spinge i Paesi ad arrivare all’1,5%, in modo da avere una più cogente stabilità finanziaria che consenta di affrontare eventi straordinari (vedi pandemia) senza mai superare il mitico 3%.

E come si raggiunge questo risultato? Con un miglioramento del saldo primario strutturale (entrate maggiori delle uscite) del 0,4% annuo del Pil nel caso di un percorso di aggiustamento di quattro anni o del 0,25% annuo del Pil nel caso il percorso sia di sette anni. Come riporta uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato sui calcoli del centro studi Bruegel (https://www.etuc.org/en/pressrelease/100bn-cuts-next-year-under-council-aust erity-plan), si tratta per l’Italia di tagli al bilancio di 25,4 mld/anno (percorso quadriennale) o di 13,5 mld/anno (percorso settennale). E se il buongiorno si vede dal mattino, segniamoci la data del 19 giugno (post-elezioni) perché sarà allora che si aprirà la prima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il deficit eccessivo registrato nel 2023.

Non di soli numeri si parla nel “nuovo” patto di stabilità, bensì anche di democrazia. Già perché l’altra novità è che per i Paesi con debito alto sarà direttamente Bruxelles “a indicare la traiettoria di riferimento della spesa primaria netta”, ovvero a decidere quanti soldi andranno alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica, mentre un occhio di riguardo nei conteggi sarà riservato per tutti gli investimenti che riguardano il bilancio della Difesa e le spese militari.

Torna la gabbia, dunque, e la ridicola astensione al voto da parte della maggioranza di governo di destra, così come quella del Pd, hanno il sapore della foglia di fico pre-elettorale.

Oggi più che mai serve una vera Liberazione: contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari.

FONTE: Il Manifesto del 27 Aprile 2024

La lunga notte della Repubblica

di Domenico Gallo

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006.

La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni.

Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017).

Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”

(Intervento al convegno del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che si è tenuto il 23 aprile a Roma. Un estratto è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano del 24 aprile con il titolo: Una tempesta perfetta contro la Costituzione)    

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/la-lunga-notte-della-repubblica/

LE RICETTE FALLITE DEI 7 NANI E I DUE PESI SU IRAN E ISRAELE

di Elena Basile

Sembra un film distopico. I leader dei Sette Paesi, che un tempo erano i più sviluppati del mondo e oggi costituiscono una minoranza arroccata alla propria potenza militare e in declino economico, diffondono sui media la loro fotografia in una giornata di sole con lo sfondo dei Faraglioni di Capri. E noi abbiamo l’impressione che il genere umano sia ostaggio di politiche deliranti, senza veri scopi strategici, terribilmente dannose per i cittadini occidentali in quanto causano povertà, disparità sociale, recessione, distruzione dell’industria e della transizione verde, negazione dello stato sociale, guerra e rischio di conflitto nucleare.

Si sono riuniti per confermare la strategia che per due anni è risultata perdente: armare l’Ucraina per condurre la Russia a una “pace giusta”. Giusta per chi?
Per Zelensky o per le popolazioni russofone? Giusta per noi occidentali o per i russi? Che significa pace giusta? La pace è stata storicamente il risultato della diplomazia che ha dovuto necessariamente tenere in conto gli opposti interessi in gioco e le forze in campo. Era giusto considerare la Russia il perdente della Guerra fredda?
No, era una constatazione di fatto. Dal 1989 al 2007 Mosca ha dovuto ingoiare le prepotenze occidentali, inclusi i bombardamenti su Belgrado e due allargamenti della Nato. Poi ha rialzato la testa, notando che il mondo cominciava a cambiare e gli emergenti si organizzavano intorno alla Cina. Si è opposta al colpo di Stato ucraino di piazza Maidan e ha conservato le basi di Sebastopoli sul mar Nero annettendo la Crimea. Erano giusti il colpo di Stato a Kiev e la reazione russa di annettere la Crimea senza spargimenti di sangue?

La giustizia nelle relazioni internazionali è una categoria discutibile. Il diritto internazionale dal 1989 in poi, per non andare troppo indietro negli anni, è stato violato ripetutamente dagli Stati Uniti, da Israele e dall’Occidente con le guerre “umanitarie” (Bel grado, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). Come ricorda Piergiorgio Odifreddi, dal 1991 si contano 250 interventi militari Usa al di fuori dei loro confini. In tutto il mondo abbiamo 800 basi militari Usa (la Cina ne ha una sola a Gibuti). In Italia ve ne sono 35, anche nucleari. Come possono i politici delle democrazie europee balbettare parole senza senso che poco hanno a che vedere con la storia e con la realtà? Si creano categorie morali funzionali ai nostri interessi. L’opinione pubblica introietta luoghi comuni che distorcono le vere dinamiche internazionali.

Al G7, su proposta di Ursula von der Leyen – presidente della Commissione che dovrebbe incarnare il pilastro comunitario, la base dei sogni dei federalisti europei – si avallano nuove sanzioni all’Iran, colpevole dopo due attacchi terroristici con centinaia di morti e la violazione israeliana della loro rappresentanza diplomatica, di reagire simbolicamente, concordemente con la Cia, senza provocare morti. I difensori della democrazia liberale e dei diritti umani non impongono alcuna sanzione a Israele che, oltre a violare il diritto internazionale e umanitario, a rendersi colpevole di crimini di guerra a Gaza e in Cisgiordania, con l’attentato all’ambasciata iraniana di Damasco, ha confermato di avere un governo terrorista. Il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, artefice dell’attacco alla Libia, ha avuto la sfrontatezza di affermare che la risposta senza danni e morti di Teheran era sproporzionata rispetto all’attacco all’ambasciata iraniana in Siria con numerose vittime. Mai la classe dirigente è sembrata così lontana dal senso comune, dalla morale comune, come oggi.

Due italiani, Mario Draghi ed Enrico Letta – e dovremmo pure esserne fieri – hanno stilato vecchie proposte in nuovi documenti sul mercato comune, sugli investimenti nei beni comuni, sul debito comune, sulla politica industriale europea, sulla crescita di ricerca e sviluppo, sull’Europa della difesa. Un parziale scimmiottamento di quanto Mario Monti aveva già scritto e i “riformisti” dell’Europa hanno ripetuto per anni senza che nulla mutasse. Ma oggi la dissonanza è più grave. Essi hanno sbagliato previsioni sulla fine della guerra in Ucraina, sono complici del massacro dei diciottenni ucraini e della crisi economica europea, della fine di una voce in grado di proteggere le finalità europee in ambito Nato. A riprova che non esiste la responsabilità per le proprie azioni e i propri sbagli, ritornano sul palco per venderci il sogno di un’Europa unita, indipendente, in grado di investire nei beni comuni, nella sua industria, nella sua ricerca, nella sua difesa.
Già: la difesa in un quadro di autonomia strategica dagli Usa o come braccio armato degli interessi di oltreoceano? Domande ignorate da Tajani e dagli altri esponenti di una Ue che ha sdoganato il mostro fascio-nazista affinché, una volta al potere, si allinei ai voleri delle oligarchie.

FONTE: Il Fatto Quotidiano, 20 Aprile 2024

Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.
C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota aut o m at i c o ” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata .
Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen.

La concorrenza fra le due persone è finta. A chi legga il discorso dell’ex presidente del Consiglio, tutto verrà in mente tranne che un pensatore e un protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione , dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.
Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa“. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).
Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 20 Aprile 2024

L’aziendalizzazione delle politiche di gestione del Servizio Idrico Integrato: il caso del Basso Valdarno

Il caso del Basso Valdarno dove Acque Spa, società a capitale pubblico-privato, gestisce il servizio con logiche manageriali tese alla massimizzazione dei profitti

di Andrea Vento

Il progressivo affermarsi delle politiche neoliberiste durante gli anni ’90 del XX secolo ha comportato per il nostro Paese, non solo una massiccia campagna di privatizzazione di aziende pubbliche strategiche (energetiche, bancarie, siderurgiche, meccaniche, telefoniche ecc..) ma ha anche determinato un graduale passaggio della fornitura di fondamentali servizi per la cittadinanza come rifiuti e acqua da una gestione pubblica al servizio della collettività, ad una caratterizzata da criteri manageriali con finalità di profitto. Questa profonda trasformazione ha praticamente accomunato, , le tre tipologie di società che in quegli anni avevano assunto la gestione del servizio idrico integrato nei neo costituiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in tutto il territorio nazionale1.

La gestione del servizio riguarda le infrastrutture: la proprietà dei beni costituenti la dotazione del Servizio Idrico appartiene allo Stato, alle Province e ai Comuni. Il gestore ne dispone per concessione gratuita e ne usufruisce del possesso.

Il comune può gestire il Servizio Idrico direttamente (in economia) oppure decidere di affidarlo, secondo quanto previsto dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi del settembre 2014, per cui il Servizio idrico Integrato può essere assegnato in gestione attraverso:

• concessione a soggetti privati che abbiano vinto una gara di appalto;

• affidamento a società mista pubblico privato (con progressiva imposizione del gestore unico per ogni ATO, scelto tra coloro che già gestiscono il servizio del 25% della popolazione (art. 7 comma 1 lettera d e lettera i dello Sblocca Italia) vale a dire le grandi aziende e le multiutilities, anche appositamente create;

• affidamento a società per azioni a completo capitale pubblico partecipate dai comuni e/o da enti e società pubbliche locali;

• affidamento in house alla propria società a capitale interamente pubblico.

Ne consegue che il Servizio Idrico in Italia può essere gestito da società interamente pubbliche, da società private o da società miste pubblico/privato. La popolazione italiana nel 2018 risultava servita per:

• il 53% da società totalmente pubbliche;

• il 32% a maggioranza / controllo pubblici;

• il 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio (cosiddetta «gestione in economia»);

• il 2% da società interamente privata;

• l’1% è da società miste a maggioranza privata2.

Soprattutto al Centro Italia, e in Toscana in particolare, il modello societario prescelto per la gestione è risultato quello delle società a capitale misto pubblico-privato ma con management espresso dalla parte privata, tramite affidamento diretto della gestione da parte dell’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (AATO), l’Autorità Idrica Toscana3. Ciò, nonostante il primo referendum sul tema della acqua del giugno 2011 prevedesse, si legge sul sito del Ministero dell’Interno, “L’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali ad operatori privati”4. In sostanza lo schiacciante esito favorevole del 95%, espresso dal 55% degli aventi diritto al voto, che ha imposto il ritorno della gestione del servizio idrico integrato in mano pubblica e con criteri a beneficio della collettività è rimasto in pratica inapplicato, salvo alcune rare eccezione di amministratori locali virtuosi che hanno proceduto in tale direzione. Come nel caso della Giunta De Magistris a Napoli tramite la creazione di Acqua Bene Comune, sorta nel 2013 dalla trasformazione di ARIN, Spa totalmente partecipata dal comune di Napoli, in Azienda Speciale comunale5.

Ed appurato che il secondo quesito referendario relativo alla determinazione delle tariffe del servizio idrico integrato, anch’esso approvato con percentuali analoghe, contemplasse “L’abrogazione parziale delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, il cui importo prevede anche la remunerazione del capitale investito dal gestore”, vale a dire una rendita finanziaria garantita pari al 7% del capitale investito, benefit che non ha in pratica eguali in altri comparti, si sarebbe dovuto procedere alla sottrazione della determinazione delle tariffe dalle logiche del mercato e del profitto, a prescindere dalle tipologie di società che forniscono il servizio.

Il caso dell’Ato Toscana 2 del Basso Valdarno

Dalla nostra analisi relativa alle trasformazioni subite, dalla fine del secolo scorso, dal servizio idrico integrato (SII) del Basso Valdarno, emerge come a seguito del parziale processo di privatizzazione e soprattutto di passaggio alla gestione manageriale, siano stati introdotti profondi cambiamenti rivelatisi particolarmente penalizzanti per gli utenti. Infatti, da un servizio erogato con basse tariffe direttamente dalle amministrazioni comunali, la prima trasformazione è avvenuta con la creazione di società municipalizzate, vale adire Società per azioni controllate interamente dai Comuni. Per poi procedere al successivo passaggio in direzione della radicale trasformazione della finalità gestionali, con la creazione della società a capitale misto pubblico-privato e l’assegnazione diretta del servizio a partire dal 1 gennaio 2002, senza gara di appalto ad Acque Spa.

Acque Spa: cenni storici e composizione societaria

Acque Spa è una società a capitale misto pubblico-privato alla quale, dall’inizio del 2002, l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale ha affidato in forma esclusiva la gestione del servizio idrico integrato di 55 comuni del Basso Valdarno (ATO Toscana 2) distribuiti su 5 province, Pisa, Firenze, Pistoia, Lucca e Siena, ai quali da allora fornisce i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione ad una popolazione che attualmente ammonta a circa 800.000 persone.

La società monopolista sorse il 17 dicembre 2001 dalla concentrazione di cinque società pubbliche operanti su di un vasto territorio che dall’entroterra della Toscana settentrionale arriva fino alla costa tirrenica: Gea di Pisa, Publiservizi di Empoli (Fi), Cerbaie di Pontedera (Pi), Coad di Pescia (Pt) e Acqapur di Capannori (Lu), prevedendo l’ingresso nel capitale sociale di soggetti privati con una importante quota di minoranza. In linea con gli impegni stabiliti dalla convenzione di affidamento del servizio, Acque Spa nel 2003 ha espletato, a suo dire, una gara ad evidenza pubblica a livello europeo per la selezione di un partner privato, che si è conclusa con l’aggiudicazione del 45% del capitale sociale da parte di Abab SpA. Società, con sede a Roma in piazzale Ostiense 2, costituita appositamente in data 21 dicembre 2003 da Acea S.p.A., Ondeo Services Società Anonima di diritto francese (ora Suez Environnement S.A.), Monte dei Paschi di Siena S.p.A., SILM Società Italiana per Lavori Marittimi S.p.A., Ondeo Degremont S.p.A. (ora Degremont S.p.A.) e dal Consorzio Toscano Costruzioni C.T.C. s.c.a.r.l. e, come si apprende dalla visura camerale6, avente per “oggetto l’assunzione e la gestione della partecipazione di minoranza di Acque Spa”.

Carta 1: il territorio dell’ATO Toscana 2 del Basso Valdarno

Il capitale sociale di Abab spa, che nel 2024 ammonta ad 8 milioni di euro, dopo varie modifiche registrate negli anni, attualmente, secondo il sito ufficiale di Acque Spa7, risulta controllato da Acea Spa, Suez Italia Spa, Vianini Lavori Spa e CTC Società Cooperativa.

Senza lasciarsi fuorviare dalla poetica denominazione di Abab spa, acronimo di “Acque blu basso Valdarno”, la società ha come classificazione della propria attività economica (Ateco) “Attività delle società di partecipazione” vale a dire rappresenta una holding, una società che controlla il capitale sociale di altre imprese, ed i cui attuali soci meritano di essere brevemente inquadrati per facilitarne la comprensione delle linee strategiche aziendali.

Acea, acronimo di “Azienda comunale energia e ambiente”, è l’ex municipalizzata del comune di Roma che “nel corso del tempo è cresciuta sino a diventare una multiutility di riferimento del panorama italiano”8 con partecipazioni azionarie in molte ex aziende pubbliche locali di servizi e dal 2000 operante anche all’estero. Divenuta di fatto una multinazionale, attualmente opera nella fornitura di servizi legati ad acqua, gas, rifiuti, energia e mobilità sostenibile, e risulta la prima azienda del settore a livello italiano9.

Suez Italia Spa è la divisione italiana di Suez Environnement, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti, dietro Veolia Environnement, entrambe società a controllo francese.

In origine la società Suez era una compagnia franco-belga nata nel 1997 dalla fusione della Compagnia del Canale di Suez (Belgio) e della Lyonnaise des Eaux (Francia) che si è fusa per incorporazione con Gaz de France (energia) nel 2008, dando vita al gruppo GDF Suez, divenuto poi Engie nel 2015. Contestualmente alla fondazione di GDF Suez nel 2008, le attività di Suez nel settore idrico sono state cedute ad una nuova società che ha preso appunto denominazione di Suez Environnement, controllata al 35% da Engie

Vianini Lavori Spa è invece una società del gruppo Caltagirone fondata a Roma nel 1908, che opera nei settori dell’ingegneria civile e nell’industria dei manufatti in cemento ed ha numerose partecipazioni in aziende italiane ed estere, in vari comparti. Nonostante il suo core business sia nell’ingegneria, nell’edilizia e nelle opere infrastrutturali, ha ampliato il suo raggio di azione in altri settori ritenuti redditizi, come quello della gestione del ciclo delle acque.

Il Consorzio Toscano Cooperative – C.T.C è una società cooperativa nata a Firenze nel 1980, attiva, come da codice Ateco, nella “Costruzione di edifici residenziali e non residenziali”10, e nonostante si legga nella presentazione11 che “Il consorzio è retto e disciplinato dai principi di mutualità senza fini di speculazione privata”, continua a mantenere una proficua quota del capitale di Abab dalla sua fondazione che, in qualità di Spa che rappresenta una forma societaria che per peculiarità proprie persegue la massimizzazione dei profitti12.

La parte pubblica pur controllando il 55% del capitale di Acque Spa, ha una partecipazione suddivisa fra varie società e enti locali: Cerbaie Spa il 16,26%, Acquapur Spa il 5,04%, Gea Servizi Spa il 12,27%, il comune di Chiesina Uzzanese lo 0,31%, quello di Crespina – Lorenzana lo 0,25% e Alia Servizi Ambientali Spa il 19,31% (grafico 1). Quest’ultima, prima multiutility toscana dei servizi pubblici locali, opera nei settori ambiente, ciclo idrico integrato ed energia, ed è stata fondata il 26 gennaio 2023 dalla fusione per incorporazione da parte di Alia Servizi Ambientali Spa di tre società pubbliche della Toscana Centro-Settentrionale: Publiservizi Spa, Consiag Spa e Acqua Toscana Spa.

La nuova società multiservizi risulta al momento partecipata da 66 comuni tra l’Empolese – Val d’Elsa e le province di Firenze, Prato e Pistoia, con le quote ripartite tra i principali Comuni nella seguente modalità: Firenze (37,1%), Prato (18,1%), Pistoia (5,54%), Empoli (3,4%) mentre altri comuni toscani detengono il rimanente 35,9%. Tuttavia sin dalla sua fondazione la nuova multiutility è risultata accompagnata da un programma di apertura al capitale privato e di quotazione in borsa sul modello di Acea13, come puntualmente esposto dal suo Amministratore delegato Alberto Irace, non casualmente amministratore delegato di Acea in carica dal 2014, al termine del quale la parte privata entrerà nella società fino ad una quota massima del 49%, tramite un aumento di capitale sociale14, che non è difficile immaginare possa riguardare anche Acea stessa.

Emerge il paradosso che una multiutility a totale capitale pubblico sia affidata nella conduzione strategica all’Amministratore delegato della principale società nazionale del settore, nota per i suoi criteri di gestione all’insegna della remunerazione degli azionisti, sollevando quindi non infondate perplessità sulla compatibilità con la tutela dell’utenza e della risorsa idrica che dovrebbero essere i principi cardine dell’interesse colletivo.

Grafico 1: la composizione del capitale sociale di Acque Spa

Il management di Acque Spa

Pur controllando la parte pubblica nel suo insieme il 55% del capitale sociale di Acque Spa, la componente privata, in virtù del rappresentare il socio di maggioranza relativa col 45%, riesce ad esprimere il management dell’azienda e a dettarne le linee gestionali. Dall’ultimo rinnovo del Consiglio di amministrazione di fine 2023 è uscita infatti la riconferma ad Amministratore delegato di Fabio Trolese, manager espressione di Acea, già in carica dal 2020, mentre la parte pubblica continua a mantenere cariche prevalentemente di rappresentanza e di controllo come la Presidenza, assegnata all’ex sindaco di Pontedera (Pi) Simone Millozzi, e la vicepresidenza, attribuita ad Antonio Bertolucci, già consigliere comunale e assessore al Comune di Capannori (Lu)15 e da tempo membro del Cda della stessa azienda.

I compensi percepiti dai membri del Consiglio di amministrazioni risultano molto elevati e, in genere, superiori rispetto a quelle di società analoghe, tant’è che il Presidente riceve un compenso lordo di 72.000 euro, il Vicepresidente 26.000 euro, l’Amministratore delegato 67.000 euro e i consiglieri, tre per parte pubblica e altrettanti per quella privata, 21.000 euro ciascuno. Per un totale annuo del 2023 pari a 291.000 euro.

Per avere un termine di paragone con una società toscana che presta lo stesso servizio fra le province di Arezzo e di Siena e dalla analoga struttura a capitale misto pubblico (53,84%) – privato (46,16%), come Nuova Acque Spa, il Presidente viene remunerato con 32.536 lordi e i restanti otto Consiglieri, dei quali uno adempie al ruolo di Amministratore delegato e altro quello di Vicepresidente, solamente 4.648 euro lordi, con l’aggiunta di un gettone di presenza per ogni Consiglio d’amministrazione di 300 euro16.

Tabella 1: comparazione compensi lordi in euro del Cda di Acque Spa e di Nuova Acque Spa.

CaricheCompensi Cda Acque Spa in euroCompensi Cda Nuova Acque Spa in euro
Presidente72.00032.536
Vicepresidente26.0004.648
Amministratore delegato67.0004.648
Consiglieri (n° 6)21.0004.648
Totale compensi lordi Cda291.000101.720
Gettone di presenza riunioni CdaNon previsto300

Compensi indubbiamente eccessivi per una azienda senza particolari rischi di impresa che agisce ad affidamento diretto in regime di monopolio, fornendo un bene primario indispensabile per l’esistenza umana e del quale ne impone le condizioni tariffarie in modo unilaterale finendo per appesantire l’entità delle bollette a carico della cittadinanza.

L’impennata delle tariffe e la rimodulazione degli scaglioni di consumo

Al fine di quantificare l’impatto dell’aumento dei costi della fornitura idrica integrata sulle casse delle famiglie abbiamo effettuato uno studio sull’entità sia delle tariffe che delle fasce di consumo fissate dai 2 gestori che si sono succeduti nel corso degli ultimi 25 anni nei comuni del Basso val d’Arno. Nella tabella 1 riportiamo inizialmente le tariffe applicate, per la sola fornitura idrica, nell’anno 2001 dalla società Gea Spa, a completo controllo pubblico, e, successivamente, quelle di Acque Spa, società mista pubblico-privato, fra il 2002 e il 2013, mentre nella penultima riga troviamo gli esorbitanti aumenti percentuali intercorsi fra il 2001 e il 2013. Nell’ultima, invece, sono riportati gli incrementi registrati fra il 2011 e il 2013, vale a dire nel periodo successivo all’effettuazione dei Referendum del giugno 2011, i cui risultati disponevano, oltre al ritorno del servizio in mano pubblica, anche l’eliminazione della remunerazione del capitale investito.

Il passaggio, fra il 2001 e il 2002, della gestione dalla società pubblica Gea Spa, costituita il 15 giugno 1995 mediante trasformazione dell’allora Consorzio Azienda Servizi Ambientali Area Pisana, ad Acque Spa ha comportato in un solo anno un aumento di 3 volte della Tariffa agevolata sino ad 80 mc di consumo e di 5,5 volte della quota fissa, mentre la Tariffa base è quasi raddoppiata e l’Eccedenza 1 aumentata “solo” del 50%, con l’Eccedenza 2 che invece beneficia di una diminuzione della tariffa. Una dinamica tariffaria non solo in rapida ascesa ma anche estremamente penalizzante per le basse fasce di consumo, come i pensionati, i nuclei familiari poco numerosi e in genere chi consuma poca acqua (tab.2).

Allargando l’arco temporale del raffronto rileviamo come fra il 2001 e il 2013, ultimo anno di uniformità delle fasce di consumo, la Tariffa agevolata sia aumentata vertiginosamente del 615%, mentre le altre in misura sensibilmente minore, con la quota fissa addirittura del 1.280%. Una politica tariffaria chiaramente orientata non solo all’incremento dei profitti, con ricadute negative sull’intero panorama degli utenti ma che infierisce sulle fasce sociali più deboli come i pensionati che, consumando in genere poca acqua, hanno visto lievitare in modo insostenibile sia il costo della fornitura idrica sia quello della quota fissa che colpisce trasversalmente tutti gli utenti a prescindere dal consumo e dal reddito.

Rileviamo infine come Acque Spa e i sindaci dell’ATO 2 conniventi con tali politiche, non solo non hanno proceduto all’attuazione degli esiti dei due referendum sull’acqua del 2011, ma hanno continuato incurantemente ad aumentare le tariffe, tant’è che nei due anni successivi le varie fasce di consumo e la quota fissa sono aumentati fra l’11 e il 13%. Con buona pace della cancellazione del 7% di rendita finanziaria sul capitale investito, procedimento che poteva essere attuato anche senza il ritorno della gestione del servizio idrico totalmente in mano pubblica.

Tabella 2: tariffe della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 (residenti) fra 2001 e 2013



Tariffe in euro della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 periodo 2001-2013
PeriodoGestoreTariffa agevolata al mc (0-80)Tariffa base al mc (81-200)Tariffa I eccedenza al mc (201-300)Tariffa II eccedenza al mc (oltre 300)Quota fissa annua
2001GEA Spa0,1560,3750,6251,2512,784
2002Acque Spa0,5140,6860,9321,11915,493
2009Acque Spa0,8671,1571,5731,88826,395
2011Acque Spa0,9841,3131,7842,14129,891
2013Acque Spa1,1161,4892,0242,42838,44

Aumento 2001-2013
615,38%297,06%223,84%94,08%1.280,74%

Aumento 2011-2013
11.34%13,40%11,34%11,34%12,87%

Dal 2014 Acque Spa ha attuato una rimodulazione delle fasce di consumo con una drastica riduzione da 80 a 30 mc di quella soggetta a Tariffa agevolata, accompagnata da ulteriori aumenti generalizzati delle tariffe negli anni successivi (tab. 3), diabolico combinato disposto che ha impattato negativamente sulla quasi totalità degli utenti.

Tuttavia, restringendo la fascia di consumi a Tariffa agevolata a soli 30 mc/annui, maggiori penalizzazioni vengono subite dalle famiglie con uno o due compenti, alle quali viene applicata in prevalenza la Tariffa base. Ugualmente subiscono marcati aumenti le utenze con i consumi più frequenti, vale a dire le famiglie di 3-4 persone che consumano in media fra 100 e 200 mc annui e che passano da una tariffa di 2,429 euro/mc del 2013 a 3,613 nel 2017 (tab 3).

Il malcontento generato da una politica tariffaria di tale aggressività costringe nel 2018 Acque Spa ad innalzare la fascia di consumo a Tariffa agevolata a 55 mc.

Tabella 3: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2017



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche 1 anno 2017
Tariffe

Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 30 mc0,2260,2340,9161,376
Base da 30 a 90 mc1,7360,2340,9162,886
I eccedenza da 90 a 200 mc2,4630,2340,9163,613
II eccedenza oltre 200 mc3,4610,2340,9164,611
Quota fissa56,35

Tabella 4: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2020



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2020


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,9420,2540,9942,190
Base da 56 a 135 mc1,8850,2540,9943,133
Eccedenza oltre 135 mc3,0450,2540,9944,293
Quota fissa61,17

Tabella 5: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2023



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2023


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,6360,7901,2532,679
Base da 56 a 135 mc1,2720,7901,2533,315
Eccedenza oltre 135 mc2,9350,7901,2534,978
Quota fissa60,21

Dall’analisi della dinamica tariffaria e dai criteri di rimodulazione delle fasce di consumo, risulta quindi palese che la strategia aziendale attuata dal management di Acque Spa si ispiri alla massimizzazione del profitto, con entrambe tese a penalizzare le utenze con consumi più bassi, come i pensionati e i nuclei mono o bi-personali, e coloro che cercano di attuare comportamenti virtuosi orientati alla riduzione dell’utilizzo della risorsa idrica.

Anche per questo riteniamo necessario che la tematica del rispetto della volontà popolare espressa tramite le consultazioni del giugno 2021 sia portata, soprattutto dai movimenti e dai partiti che sostennero il Sì ai due referendum, al centro dei programmi delle imminenti elezioni europee e amministrative di molti comuni italiani. Un messaggio di coerenza che sicuramente contribuirebbe a riavvicinare gli elettori, sempre più disinnamorati da questa politica, ai seggi.

Andrea Vento – 9 aprile 2024

Comitato comunale per l’Acqua pubblica di San Giuliano Terme (Pisa)

NOTE:

1 Gli ATO Acqua sono stati originariamente istituiti dalla Legge del 5 gennaio 1994 n. 36 “Disposizioni in materie di risorse idriche” che ha riorganizzato i servizi idrici aggregando sotto un’unica autorità (L’autorità di Ambito) i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, ivi comprese le relative tariffe.

2 Rapporto Servizio idrico in Italia del marzo 2019, realizzato da Utilitalia la federazione che riunisce 450 aziende di servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’energia elettrica e del gas operanti in Italia.

3 https://www.autoritaidrica.toscana.it/it/page/ait

4 Per i testi e gli esiti elettorali dei referendum dell’12 e 13 giugno 2011: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/altri_speciali_2/referendum_2011/index.html

5 https://www.abc.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=113

6 https://www.ufficiocamerale.it/2460/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa

https://atoka.io/public/it/azienda/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa/1ab8f6f855d1

7 https://cittadinoinformato.it/acque_spa/?doing_wp_cron=1711984551.6514940261840820312500

8 https://www.gruppo.acea.it/conoscere-acea/nostra-storia

9 http://europeanwater.org/it/azioni/focus-per-paese-e-citta/710-acqua-privata-frosinone-e-provincia-si-ribellano-revocato-il-contratto-con-acea

10 https://registroaziende.it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa-firenze

11 https://atoka.io/public/it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa/270196460d42

12 La gestione deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci. https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_per_azioni_(ordinamento_italiano)

13https://www.ilsole24ore.com/art/pronta-varo-multiutility-toscana-l-obiettivo-e-borsa-AEzqHKWB

https://www.arezzonotizie.it/attualita/corte-conti-no-quotazione-borsa-multiutility.html

https://www.utilitalia.it/notizia/dbe68738-6095-4d3d-8dfc-6c28ab59d9e9

14 Irace (Ad multiutility Toscana): l’obiettivo è la quotazione nell’aprile 2024

https://www.milanofinanza.it/news/irace-ad-multiutility-toscana-obiettivo-e-quotazione-aprile-2024-202302101958398899?refresh_cens

15 https://www.acque.net/wp-content/uploads/cv_bertolucci_antonio.pdf

16 https://nuoveacque.it/chi-siamo/#

GAZA – Il Cessate il fuoco non è un optional: è un obbligo!

il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco “per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”. Le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamenti su Gaza e facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari

di Domenico Gallo

Il 25 marzo dopo 170 giorni, durante i quali Israele ha messo a ferro e a fuoco la Striscia di Gaza provocando sofferenze inenarrabili alla sua sfortunata popolazione, finalmente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco“per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”, così come il ritorno in libertà immediato e senza condizioni degli ostaggi e un maggiore accesso degli aiuti umanitari a Gaza.

“Non c’è un momento da perdere – ha scritto la Segretaria Generale di Amnesty International Agnés Callamard- le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamentisu Gazafacilitare l’ingresso degli aiutiumanitari.

Israele, Hamas e gli altri gruppi armati devono operare perché il cessate il fuoco duri. Gli ostaggi civili devono tornare immediatamente in libertà. Tutti i palestinesi arbitrariamente detenuti in Israele, compresi i civili arrestati a Gaza, devono essere a loro volta scarcerati”.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono immediatamente esecutive e vincolanti per tutti gli Stati, eccetto – evidentemente – Israele, che non accetta alcun vincolo fondato sulle regole del diritto. Infatti, Netanyahu non ha battuto ciglio ed ha celebrato le prime 24 ore di “cessate il fuoco” con bombardamenti che hanno provocato 76 morti e nei giorni successivi ha continuato come se niente fosse.

Israele, non ha avuto alcuna remora a continuare l’attacco agli ospedali ed a portare nuovamente la morte all’interno dell’Ospedale Al Shifa di Gaza City.

L’esercito israeliano, infatti, ha comunicato (il 28 marzo) di aver ucciso 200 persone in una settimana di operazioni dentro e attorno all’Ospedale.

Ovviamente si trattava di “terroristi”, anche se medici, pazienti, personale sanitario o giornalisti: il fatto stesso che siano stati uccisi è la prova regina della loro qualità di terroristi.

Malgrado i moniti dei suoi stessi alleati, Israele sta continuando i preparativi per l’assalto finale a Rafah, l’ultima città a confine con l’Egitto, dove sono concentrati 1.500.000 palestinesi sfollati dal centro e dal nord di Gaza.

Il rigetto dell’ordine di cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza ed il rifiuto -nei fatti- di adempiere alle misure dettate dalla Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennai, ribadite con l’ordinanza emessa il 28 marzo, pongono lo Stato di Israele in una condizione veramente singolare nell’ordinamento internazionale. Si tratta dello Stato che realizza (e rivendica) la massima ribellione possibile alle regole che governano la vita della Comunità Internazionale, uno Stato fuorilegge, nel senso letterale del termine.

Eppure tutta la comunità degli Stati occidentali, si è mobilitata per “punire” la Russia, nell’adempimento di un imperativo indiscutibile, quello che Stoltenberg/Stranamore, ha definito: “un mondo fondato sulle regole.”

Che fine fa quest’imperativo del “mondo fondato sulle regole”, che giustifica la guerra da remoto che stiamo conducendo contro la Russia col sangue degli ucraini, di fronte all’aperta ribellione di Israele alle regole fondanti della Comunità internazionale che interdicono la violenza brutale ed il genocidio.?

Se Israele non si sente vincolato al rispetto del diritto internazionale, avendo sperimentato almeno 56 anni di violazione delle regole del diritto internazionale, specialmente il diritto umanitario, senza conseguenza alcuna, sono gli altri Stati che devono agire adottando delle misure adeguate, ai sensi del Cap. VII della Carta dell’ONU, per convincere/costringere Netanyahu a rispettare le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e i provvedimenti della Corte internazionale di Giustizia che ha ordinato ad Israele di smettere di uccidere le persone protette e di far soffrire la fame al gruppo etnico palestinese, a rischio di genocidio.

L’Unione europea ha adottato una caterva di sanzioni a danno della Russia per sanzionare la “violazione delle regole”. Ricordiamo sommessamente che in un documento del Parlamento Europeo (29/2/2024) si rinfaccia alla Russia di aver provocato la morte di 520 minori ucraini: il fatto che Israele, in soli cinque mesi di guerra abbia causato la morte di 13.000 minori a Gaza, non ha provocato alcun turbamento nelle bronzee facce dei leader politici italiani ed europei, mentre un silenzio di tomba è caduto di fronte all’aperta ribellione di Israele all’ordine di cessate il fuoco.

Si tratta di uno scandalo che non può essere tollerato oltre.

E’ questo il momento di agire, l’Unione Europea, e tutti i suoi Stati membri devono deliberare delle misure urgenti volte a far valere l’obbligo di cessare il fuoco. Per quanto riguarda l’Italia, la fornitura di armi ad Israele (per 2,1 milioni dall’inizio del conflitto) ed il definanziamento dell’UNRWA ci rendono complici delle stragi compiute dall’esercito israeliano e dello strangolamento della popolazione di Gaza attraverso la privazione dei beni essenziali per la vita.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/il-cessate-il-fuoco-non-e-un-optional-e-un-obbligo/

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta.

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta. Alla faccia di lavoratori, agricoltori e cittadini

di Monica Di Sisto

Nemmeno la cornice iper-futuristica di Abou Dhabi è riuscita a restituire al commercio internazionale una direzione condivisa da parte dei diversi capitalismi che si contendono lo scacchiere globale. Una riunione tempestosa, la 13esima ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), prolungata di quasi due giorni pieni alla ricerca di un consenso mai raggiunto, e conclusa con un “ci vediamo nel quartier generale di Ginevra e ne riparliamo”.

Mentre il cambiamento climatico riduce la portata del canale di Panama e il passaggio delle navi-cargo fino al 40% e la guerra in Medio Oriente ne blocca fino al 60%, i dossier più urgenti sono rimasti tutti aperti sui tavoli dei negoziati: dallo stop ai sussidi sulla pesca da parte dei grandi Paesi esportatori, che devasta la biodiversità e schiaccia la pesca territoriale, alla facilitazione dei beni e servizi ambientali; da una soluzione permanente per consentire ai Paesi in via di sviluppo di gestire stock alimentari pubblici per calmierare i prezzi interni, a co-regolare (e tassare) il commercio digitale.

I 164 Paesi della Wto si sono spaccati lungo le faglie della nuova guerra fredda in corso: da un lato gli Stati Uniti, determinati a difendere il proprio mercato interno e il livello attuale di sussidi e di competitività delle sue grandi imprese tecnologiche e digitali, anche continuando a indebolire l’organo di risoluzione delle dispute commerciali globali azzoppato da Trump. Dall’altro la Cina, che pur continuando ad aderire alla Wto sta costruendo un proprio sistema commerciale, con accordi regionali e bilaterali con quasi trenta Paesi, che rappresentano quasi il 40% delle sue esportazioni.

“I paesi ricchi possono giocare al gioco dei sussidi – è stata l’amara costatazione della direttrice generale della Wto, Ngozi Okonjo-Iweala – i paesi più poveri non possono permetterselo”. E infatti Sudafrica e India hanno giocato il ruolo di catalizzatori dello scontento “da sud”: il primo sul tema dei brevetti, il secondo su quello dell’agricoltura. E il banco è saltato.

Chi è mancata al tavolo delle decisioni che contano è stata, come accade da tempo, l’Unione europea: paralizzata tra retorica democratica e pratica liberista, mentre le aziende piccole e medie del settore agroalimentare invadevano di trattori le strade delle nostre città, l’Ue si è affrettata a portare all’approvazione del Parlamento europeo tre nuovi trattati di liberalizzazione commerciale con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya, che sicuramente non allevieranno la pressione competitiva sulla produzione primaria nazionale e comunitaria.

L’Italia, in questa cornice, ha saputo tuttavia battere tutti i record di scarsa lungimiranza e incoerenza. Il governo considerato più sovranista nella storia della Repubblica sta infatti provando a far ratificare dal Parlamento l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada (Ceta), che proprio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva definito “una porcata contro i bisogni dei popoli”, annunciando che FdI si sarebbe battuto in Italia contro la ratifica. “Chi vota il Ceta – aveva aggiunto Meloni – fa un favore alle grandi produzioni, e sputa in faccia agli italiani che si sono rifiutati di mettere schifezze nei loro prodotti”.

Noi siamo rimasti della stessa opinione, e personalmente, nel corso dell’audizione che ho svolto per la mia associazione presso la commissione Affari esteri della Camera con Movimento Consumatori e Cgil, ho ricordato al presidente, Giulio Tremonti di avergli passato il microfono su un palco di protesta contro la ratifica, avviata a quel tempo dal governo Gentiloni, dal quale lui ci aveva spiegato la sua contrarietà e i motivi per i quali facevamo bene a opporci.

In una condizione di commercio globale in assoluta ritirata, e di fronte a un’esigenza di proteggere la capacità d’acquisto di cittadini e consumatori, alimentare la concorrenza sleale da parte di Paesi che non hanno il nostro sistema regolatorio, e la guerra al ribasso tra grandi imprese che si gioca sui diritti di lavoratori e natura, non può che premere ancora di più sui nostri salari e sulla nostra speranza di futuro. Un gioco al massacro che dobbiamo essere sempre più in grado di leggere e contrastare.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-06-2024/3119-mentre-il-wto-si-impantana-la-sovranista-meloni-rilancia-il-ceta-alla-faccia-di-lavoratori-agricoltori-e-cittadini-di-monica-di-sisto

«L’Europa si sta suicidando»: il 24 marzo 1999 le bombe Nato nell’ex Jugoslavia

di Marinella Correggia

Il ricordo. Sono passati 25 anni da una guerra che, con l’Italia in prima fila, ha fatto segnare molti terribili primati: la prima combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri.

«L’Europa si sta suicidando»: a Belgrado, sotto un terso cielo primaverile offeso dalle bombe, un medico commentava così, parlando a un gruppo di pacifisti italiani, le «operazioni aeree nella Repubblica federale di Jugoslavia» (secondo il comunicato ufficiale della Nato), avviate la sera del 24 marzo 1999. Decisivo il supporto dell’Italia che offre tutto, aerei, basi, propaganda. E pazienza per la Costituzione. Nessun mandato da parte del Consiglio di sicurezza Onu. Sabotati in precedenza i tentativi di accordo, nemmeno discusse le proposte serbe (autonomia per il Kosovo e presenza dei militari dell’Osce a tutela); e certo Belgrado non poteva accettare la proposta di un’occupazione a tempo indeterminato da parte delle truppe Nato di tutto il territorio jugoslavo.

IN QUEI GIORNI A BELGRADO e in altre città sotto attacco, la delegazione italiana si può dire fortunata. All’arrivo scende dal pullman e bussa all’hotel Jugoslavia. Tutte le stanze sono libere ma troppo costose per le tasche autogestite. Si finisce in un albergo più economico, nel quartiere Zemun. E la mattina seguente, il portiere comunica: «L’hotel Jugoslavia è stato bombardato stanotte». Qualche giorno dopo, la visita a Novi Sad avviene in un raro giorno di calma, fra un attacco e l’altro. La «guerra umanitaria» invoca la necessità di salvare i kosovari (in realtà ogni conflitto a fuoco fra le due parti passa strumentalmente per «pulizia etnica», inoltre il grosso degli incidenti si verifica dopo l’inizio dei bombardamenti Nato). Ma le bombe cadono anche su obiettivi di infrastrutture civili. Colpiti indistintamente serbi, profughi serbi di Croazia, rom, profughi serbi kosovari, profughi serbi di Bosnia e anche profughi albanesi del Kosovo, morti a metà aprile sul treno che percorreva un ponte centrato dalla Nato. I 78 giorni di Allied Force avrebbero provocato, a seconda delle fonti, fra i 500 e i 2.500 morti civili, oltre a migliaia di feriti.

SEGNI DI RESISTENZA come le proteste degli abitanti di Belgrado e Novi Sad con il famoso cartello Target, o la porta sbarrata del McDonald’s, si mescolano alle macerie dei ponti e della fabbrica Zastava a Kragujevac, alle notizie sui giornalisti e tecnici della televisione uccisi, sull’ambasciata cinese bombardata, all’allarme sanitario per l’attacco agli impianti petrolchimici di Pancevo, alle denunce sull’uso di bombe a grappolo e dell’uranio impoverito nei proiettili anticarro. Il seguito post-bellico vedrà il moltiplicarsi di malattie oncologiche a causa dell’uso di uranio impoverito in quei mesi di attacco.

NELL’HOTEL DI ZEMUN, i pacifisti incontrano Vesna, Neboish e il loro figlio Stephan di sette anni. Sfollati da Sarajevo, vivono lì da anni. Il letto dove dormono in tre, i quaderni di scuola, il fornellino dove frigge la frittatina palacinka, «se non c’era la guerra te la facevo più buona, con le noci», i fagotti da profughi, le foto della loro casa e di un antico, unico viaggio (a Venezia), la chitarra e la Bhagavad Gita di Neboish. Vesna si dichiara «jugoslava, io sono ancora jugoslava». Neboish, mobilitato durante la guerra in Bosnia, si è ritrovato invalido, una pensione di 50 marchi. Si arrangia lei, commerciando in biancheria, «ma adesso, temendo una lunga guerra, tutti risparmiano». Il senso di ospitalità e la voglia di amicizia supera la barriera delle lingue. Amare considerazioni: «Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti e altri sfollati; porta anche odio. Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada – così si dice da noi». Tornare a Sarajevo? «No, la nostra casa è abitata da altri. Spero nella pace qui, un giorno». Sulle bombe, Vesna sdrammatizza: «Non c’è morte senza destino. Ma certo il cielo sembra esserci nemico. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Devo chiedere il risarcimento danni psicologici alla Nato!».

RISARCIMENTI? A distanza di decenni, nessuna causa è andata in porto. La Nato è un’anguilla. Anni fa, in un dibattito pubblico, Carla del Ponte (procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia) a domanda rispondeva: «Noi come tribunale abbiamo aperto un caso contro gli statunitensi per aver ucciso dei civili sapendo che erano tali; ma poi se non si arriva a fare l’inchiesta perché la Nato non dà accesso alla documentazione, se nessuna capitale europea collabora, come si fa? Abbiamo dovuto abbandonare per mancanza di prove».

UNA SERIE DI TRISTI PRIMATI, questo è stata l’Allied Force Nato del 1999. Li elencava Luciana Castellina nell’inserto del manifesto in ricordo dei 20 anni: la prima guerra combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che veniva stracciato l’accordo di Helsinki sull’intangibilità dei confini statuali; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri in prima fila. Concludeva Luciana Castellina: «A 20 anni di distanza le macerie della Jugoslavia, una delle più significative nazioni emerse dalla Resistenza nel 1945, uno Stato al quale dobbiamo quello straordinario schieramento internazionale che fu chiamato “Movimento dei non allineati”, sono tutte lì: nessuno degli Stati emersi dallo smembramento fa bella figura di sé». A Belgrado i 25 anni dall’aggressione sono celebrati in questi giorni con un convegno internazionale.

FONTE: https://ilmanifesto.it/leuropa-si-sta-suicidando-il-24-marzo-1999-le-bombe-nato-nellex-jugoslavia

Organizzare la battaglia contro il progetto di sconvolgimento del quadro istituzionale

Sintesi dell’introduzione di Alfiero Grandi al consiglio direttivo del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, del 15/3/2024

“Nell’ultimo consiglio direttivo, dicembre 2023, avevamo messo al centro 2 temi di fondo: Autonomia regionale differenziata e elezione diretta del Presidente del Consiglio su cui il Governo ha presentato in prima persona proposte di legge e sta gestendo direttamente anche le modifiche. Consapevoli che argomenti universali come questi debbono essere oggetto di una formidabile campagna di informazione e di orientamento – tanto più se dovessero evolvere come auspichiamo, soprattutto nel caso del cosiddetto “premierato”, verso consultazioni referendarie che sono l’ultima possibilità per bloccarne l’entrata in vigore – abbiamo indicato nella Via Maestra la sede politica necessaria per affrontare queste sfide.
Per questo abbiamo scritto insieme a Libertà e Giustizia e al Presidente di Salviamo la Costituzione una richiesta a La Via Maestra di affrontare questi temi, cosa che è avvenuta il 3 febbraio 2024 e ha trovato una prima sostanziale condivisione della centralità di questi temi, a cui giustamente sono stati intrecciati altri temi di enorme valore come ad esempio la precarietà, gli incidenti sul lavoro, gli appalti senza regole.

Il 2 marzo scorso una nuova assemblea nazionale de La Via Maestra ha non solo confermato l’orientamento di costruire a livello territoriale dei coordinamenti locali, facendo perno sulla diffusione organizzativa della Cgil ma ha approvato una sintesi conclusiva chiara che indica anche l’uso dei referendum sia nella materia costituzionale (elezione diretta del Presidente del Consiglio) che su Autonomia differenziata e temi sociali di fondo, senza trascurare strumenti diversi come leggi di iniziativa popolare, petizioni e altre iniziative per porre la questione dell’emergenza sanitaria, del rinnovo dei contratti di lavoro, tanto più indispensabile a fronte dell’erosione del potere d’acquisto e dei diritti dei lavoratori.

Noi che abbiamo dall’inizio ritenuto la Via Maestra la sede più opportuna per affrontare battaglie di grande impegno politico e sociale abbiamo anche posto il problema di allargare ulteriormente l’area dei soggetti impegnati e per questo abbiamo chiesto un incontro con la Uil nazionale e proveremo a organizzare iniziative verso i giovani, verso i quali c’è un lavoro ancora insufficiente.

Occorre avere la dimensione politica dello scontro che si prepara, perché se si arriverà ai referendum occorrerà cercare di vincerli, De Coubertin non basta. Per reggere un impegno come questo occorre un movimento che si estende e dura nel tempo perché la destra farà di tutto per assestare i suoi colpi nei momenti a lei più convenienti e oggi non è del tutto chiaro cosa intende fare nei prossimi mesi.

Per di più è in corso un’iniziativa cosiddetta bipartisan che anziché avere al centro i pericoli che rappresentano le iniziative del governo sembra più rivolta a cercare di bloccare il referendum costituzionale, cioè il diritto dei cittadini di esprimersi sulle modifiche della Costituzione, considerato evidentemente il vero avversario.

Dovrebbe essere l’iniziativa del governo sotto accusa ma al contrario è il referendum, cioè il diritto delle elettrici e degli elettori di pronunciarsi e decidere. Questa iniziativa cosiddetta bipartisan per ora è esplicitamente rinviata a dopo le elezioni europee.

Deve essere chiaro che qualunque sia l’intenzione vera del governo il referendum costituzionale può essere evitato solo se una parte dell’opposizione accetta di andare in soccorso della destra e questo per chi dichiara di volere chiarezza e trasparenza sarebbe il massimo del trasformismo politico, da cui non può venire nulla di buono.

A nostro avviso questa iniziativa non fa altro che confermare che c’è ancora molto da fare per informare, chiarire, mobilitare. Siamo convinti che la posta in gioco è enorme. Le destre hanno ottenuto il 44 % dei voti nel 2022, conquistando il 59 % dei deputati e dei senatori, con un premio di maggioranza del 15 %, un’enormità. Questa esagerata maggioranza parlamentare viene oggi usata come una clava per portare avanti un patto scellerato nella maggioranza fondato su due leggi di iniziativa del governo: elezione diretta del Presidente del Consiglio e Autonomia differenziata.

Se andassero in porto gli effetti sarebbero uno sconvolgimento della nostra Costituzione antifascista e della nostra democrazia fondata sul ruolo del parlamento e su un equilibrio tra i poteri dello stato e il loro reciproco controllo.

Democrazia non si riduce a votare ogni 5 anni ma è una complessa e continua dialettica politica e sociale e rispetto dei diritti a partire da quello di manifestare, contraddetto a Pisa nei giorni scorsi.

Occorre preparare e organizzare un movimento all’altezza di una sfida di fondo che riguarda la democrazia e la Costituzione e quindi puntando a vincere i referendum, quando ci saranno, in particolare quello costituzionale.

Per questo occorre coordinare le forze in campo, mobilitare le energie più diverse e perfino distanti, sapendo che un movimento ampio e variegato ha bisogno anche di consapevolezza che si lavora per un obiettivo di fondo comune, superando concorrenzialità inutili e distinguo.

Sul premierato. Non si capisce perché mai settori dell’opposizione dovrebbero entrare in una logica di trattativa (subalterna) in presenza di un ddl del Governo, le cui modifiche sono gestite da emendamenti del governo, senza alcuna possibilità di mettere in discussione la linea di fondo di questa proposta. Del resto è – purtroppo – lo stesso metodo usato da Renzi che portò al referendum del 2016.

L’asse della proposta del governo è un Presidente del Consiglio eletto direttamente, che taglia di netto i poteri del Presidente della Repubblica e riduce il parlamento alla subalternità, anche perché se si ribella, e cade il governo, si torna a votare, quindi vivrebbe sotto un ricatto permanente. E’ una proposta presentata fingendo di cambiare poco, ma in realtà scassa l’assetto fondamentale della nostra Repubblica, tagliando in modo sostanziale i poteri del Presidente della Repubblica, oggi indispensabile figura di garanzia ed equilibrio, e stabilendo un rapporto con il parlamento del tipo “simul stabunt simul cadent”, con il corollario di un’elezione maggioritaria di fedeli di chi viene eletto Presidente del Consiglio, una sorta di guardia del pretorio.

Alla proposta di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, avviando la costruzione di una sorta di capocrazia, occorre contrapporre l’elezione diretta di tutti i deputati e senatori da parte delle elettrici e degli elettori, anziché farli scegliere dall’alto, dai capi, sulla base della loro fedeltà. E’ incredibile che sia chi è capo del partito, della formazione politica europea e presidente del Consiglio che dica sfrontatamente che propone agli elettori di scegliere il Presidente del Consiglio, contrapponendo i vertici dei partiti agli elettori come se lei non fosse segretaria del maggior partito. 

E’ poi curioso che la maggioranza stia lavorando alacremente per aumentare in ogni occasione i poteri della Presidenza del Consiglio, evidentemente in vista di questa modifica della Costituzione.

Con questa modifica la Costituzione del 1948 verrebbe stravolta, cambierebbe il suo impianto democratico ed antifascista e l’Italia si avvierebbe verso una nuova Costituzione e una nuova Repubblica. Del resto la destra al governo sta cercando una nuova legittimazione che la affranchi da domande scomode sul suo rapporto con il passato. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, in futuro con queste modifiche La Russa potrebbe essere il successore di Mattarella e non è uno scherzo.

Costruiamo informazione, orientamento, costruiamo un No di massa e prepariamoci al referendum costituzionale, se in parlamento non si riuscirà a fermare questo provvedimento.

L’altro corno è l’Autonomia regionale differenziata. Rivendico il ruolo importante della nostra proposta di legge di iniziativa popolare per modificare gli articoli 116 e 117 della Costituzione per interrompere in modo netto la possibilità di una interpretazione del titolo V a cui dichiara di agganciarsi la proposta Calderoli. Quando siamo partiti abbiamo avuto resistenze e critiche ma poi grazie al sostegno dei sindacati scuola siamo arrivati a 106.000 firme e la proposta è stata presentata al Senato e grazie ad un regolamento più aperto alle lip abbiamo ottenuto di incardinarlo in commissione e poi di portarlo in aula. Certo la maggioranza lo ha messo in discussione dopo l’approvazione al Senato del ddl Calderoli, ma il suo contributo è stato di fare riflettere tutta l’opposizione, anche quella che non riusciva a fare i conti con formulazioni del titolo V approvato nel 2001 dal centro sinistra. Quando è stata discussa la nostra Lip ormai tutta l’opposizione aveva compreso che solo liberandosi da eredità del passato era possibile opporsi con nettezza al ddl Calderoli, che ad ogni piè sospinto dichiara di volere attuare la Costituzione. Noi abbiamo sempre sostenuto che in realtà non è così ma anche se fosse basta cambiare alcuni punti del titolo V per correggere la situazione.

Ora il testo sull’ A. D. è alla Camera e sono in corso molte audizioni che come già al Senato confermano le peggiori preoccupazioni sul ddl Calderoli. Sta crescendo nel Mezzogiorno la consapevolezza delle conseguenze di questa proposta, con il rischio concreto che la secessione dei ricchi non sia solo uno slogan. Occorre insistere, ma bisogna porsi l’obiettivo di spiegare anche al Nord come è stato fatto già in alcune realtà che la frantumazione del nostro paese e dei diritti dei cittadini è un danno per tutti e prelude alla privatizzazione dei servizi che rispondono a diritti fondamentali  come sanità, scuola, lavoro,ecc. L’obiettivo è fermare l’approvazione della proposta Calderoli, o almeno ritardarla compreso un rinvio al Senato se si riuscirà ad introdurre modifiche. Se l’A.D. dovesse diventare legge ci sarà ancora tanto da fare, Villone si è esercitato con altre proposte importanti, dai ricorsi delle Regioni alla Corte costituzionale a consultazioni popolari che potrebbero promuovere direttamente i comuni che hanno questa previsione nello statuto per allargare il dissenso sull’A. D.. Naturalmente continuando a fare crescere la mobilitazione e le iniziative.

A nostro avviso se dei parlamentari ripresenteranno alla Camera la lip potranno usarla per arricchire le motivazioni e le occasioni di contrasto al ddl Calderoli.

Quando i tempi dei provvedimenti si allungano non è semplice mantenere la mobilitazione in modo continuativo, ma dobbiamo proseguire con impegno e fantasia.

In particolare consideriamo possibile tentare anche la strada del referendum abrogativo del ddl Calderoli che con una furbata è stato connesso alla legge di bilancio ma è in realtà un provvedimento che non c’entra con la spesa, infatti non prevede un intervento a favore delle regioni più deboli e recita più volte che non ci saranno aumenti di spesa, quindi c’è lo spazio per sostenere che un referendum abrogativo è possibile anche prima che intervengano i decreti attuativi.

Premierato e Autonomia regionale differenziata pongono il problema generale che occorre recuperare errori del passato che hanno portato a sottovalutare il ruolo strategico della Costituzione e il valore dell’assetto democratico che essa prevede.

Oggi va rilanciata l’attuazione e la difesa della Costituzione e questo va fatto come ha deciso la Via Maestra, mettendo in collegamento temi sociali e sostanza della democrazia, unificando le iniziative referendarie quando è possibile.

Con questo indirizzo organizzeremo un appuntamento il 23 aprile pomeriggio nella sala Capitolare del Senato, che verrà trasmessa in diretta dalla Tv del Senato, con l’obiettivo di fare sentire forte e chiara la contrarietà a queste proposte e insieme per contribuire a rilanciare un grande movimento sulle questioni di fondo della democrazia in Italia. Non ci rassegniamo al declino della partecipazione, vogliamo contribuire a dimostrare che si può rilanciare il protagonismo dei cittadini.

Infine sulla legge elettorale. Certo, è necessaria una nuova legge elettorale fondata su proporzionale ed elezione diretta dei parlamentari da parte di elettrici ed elettori, ma dobbiamo riconoscere che tuttora ci sono pareri diversi anche dentro l’opposizione, che peraltro ha perso l’occasione che ha avuto prima della vittoria delle destre per cambiare una legge sbagliata ed erratica come il rosatellum. Il maggioritario resiste malgrado le evidenze contrarie anche in una parte dell’opposizione e c’è ancora molto lavoro da fare per superare le difficoltà attuali. Oggi è difficile immaginare di affrontare con un referendum abrogativo il superamento del rosatellum e la discussione sui quesiti mi sembra francamente prematura, tanto più che si rischia di dividere lo schieramento unitario che occorre costruire e rafforzare sulla Costituzione e l’Autonomia differenziata.

Certo occorre evitare di tornare a votare con il rosatellum ma prima occorre fermare l’attacco alla Costituzione e nel frattempo costruire un orientamento che oggi non ha abbastanza forza per affrontare una prova difficile. Non tutto si può affrontare per via referendaria, ci sono altri strumenti da usare, al limite in vista di questo obiettivo, per fare crescere la consapevolezza sull’esigenza di arrivare ad una nuova legge elettorale. Ci sono oggi posizioni interessanti con cui confrontarsi per fare crescere la consapevolezza.

La nostra organizzazione è a rete, non ha sovraordinati, e ovviamente c’è piena libertà di assumere iniziative ma dobbiamo avere la consapevolezza che il coordinamento oggi non avrebbe la forza e le risorse umane e materiali, nemmeno volendo, per andare nella direzione di un referendum abrogativo sulla legge elettorale.
Non manca la convinzione che il problema della legge elettorale è fondamentale per contrastare l’astensionismo ma occorre perseguire l’obiettivo con consapevolezza delle risorse e delle energie disponibili.  

(Alfiero Grandi)

L’Europa sconfitta cerca l’unità nella guerra

Foto di Mediamodifier da Pixabay

di Piero Bevilacqua  (storico e saggista)

L’Unione Europea deve fronteggiare, in questo momento, le due più gravi sconfitte storiche subite da quando esiste. Due disfatte in parte intrecciate e che si condizionano a vicenda.

La prima è in conseguenza dello scacco inflitto dalla Russia alla Nato in Ucraina, la seconda si racchiude nel bilancio fallimentare delle politiche economiche ordoliberistiche su cui l’Unione è nata, che continuano a ispirare la condotta degli Stati membri.

Negli ultimi due anni quasi tutti i governi europei si sono messi a servizio degli USA e della Nato per sostenere la cosiddetta resistenza ucraina contro l’invasione russa. Hanno inviato armi e sostegni di vario genere, imposto sanzioni con cui danneggiavano anche le proprie economie, e sottratto risorse economiche alle proprie attività produttive e al welfare.

L’Europa, poi, ha continuato e addirittura rafforzato il proprio impegno a favore delle operazioni della Nato, anche quando la vera ragione di quella guerra è apparsa pienamente manifesta: sconfiggere la Russia, disgregare il corpo composito della Federazione, con i suoi 24 Stati e circa 200 etnie, effettuare un cambio di regime, poter controllare quell’immenso Paese senza dover rischiare un conflitto atomico, per poi aprire la partita definitiva con la Cina.

Ora l’esito di due anni di guerra – da cui la Russia emerge militarmente vittoriosa, rafforzata sotto il profilo economico, rinsaldata sia nel suo gruppo dirigente sia nel collante nazionalistico che rende coesa la popolazione (vistasi minacciare di invasione da tutto l’Occidente) – mette a nudo l’errore strategico compiuto dai Paesi UE al carro della Nato e conferma, in modo drammatico, la pochezza della politica estera dell’Unione Europa.

Sul piano economico il gigante UE, arrivato a 28 Stati prima della Brexit, che aspirava a risultati straordinari di sviluppo, oggi mostra un non diverso bilancio fallimentare. Anche solo utilizzando il parzialissimo indicatore del Prodotto interno lordo (PIL) vediamo che la sua crescita è stata volatile e modesta, non oltre il 3% a partire dal 2000, con fasi di forte ristagno dal 2008 al 2012, e con marcati squilibri al suo interno. Se la Germania con la sua sleale politica commerciale si è notevolmente rafforzata, l’Italia, com’è noto, è stata trascinata in un conclamato declino. Naturalmente l’economia non si esaurisce nel solo andamento numerico di un indicatore astratto, essa è metafisica senza la società. E, dovremmo aggiungere, senza l’ambiente e il calcolo dei danni a esso inflitto. Qui, però, non c’è spazio per affrontare il tema.

La società europea ha assistito, negli ultimi 30 anni, a fenomeni devastanti: il declassamento del ceto medio, base storica della sua stabilità sociale; la crescita lacerante delle disuguaglianze a livello di ceti sociali e di territori; l’esplosione del precariato e la ricomparsa del lavoro povero, come agli inizi della rivoluzione industriale. Nelle campagne è rinato il lavoro schiavile o semi schiavile. Un esercito di dannati, immigrati dai più diversi Paesi, che consente i prezzi relativamente bassi dei generi alimentari e i profitti dei giganti dell’agrobusiness e delle catene di distribuzione. Le temperature in costante ascesa e il caos climatico accrescono poi, di anno in anno, i danni agli habitat del territorio continentale (incendi, alluvioni, eccetera).

Queste due evidenti sconfitte, la seconda manifesta ormai da tempo, hanno un evidente impatto di impopolarità sulle élites dirigenti che hanno governato sin qui il vecchio Continente.

E i partiti da essi rappresentati (la CDU tedesca, il PD, il PPE spagnolo, i vari partiti francesi, dal 2017 con En Marche di Macron, eccetera) hanno visto rafforzata la loro politica moderata anche con il convergere sulle loro posizioni di gran parte dei partiti socialisti e sedicenti di sinistra (su tutti la SPD tedesca).

Grazie alla crescente evanescenza politico-ideologica dei socialisti negli ultimi anni, il Parlamento UE ha trovato delle forme davvero sinistre di unità. Quando ad esempio ha ratificato, con aperta disonestà intellettuale, l’equiparazione del comunismo al nazismo; allorché ha votato l’appoggio militare all’Ucraina e quando si è opposto al cessate il fuoco a Gaza. Una indistinzione di posizioni che fa di queste élites un corpo unico su cui, assai facilmente, si sta sollevando da tempo un vasto fronte oppositivo tanto della società civile che delle forze politiche, che a ragione lo individuano come il responsabile unico dei fallimenti di cui ragioniamo.

Quali sono queste forze, qual è la loro cultura, qual è il loro indirizzo politico, quali le loro prospettive? Non è facile in un breve articolo (ammesso che ne possieda la competenza) dare un’idea, sia pure sommaria. Quel che si può dire con una certa sicurezza è che, in altre condizioni storiche, una élite che ha così clamorosamente fallito su tutti i piani presi in considerazione sarebbe stata tolta rapidamente di scena, forse anche in forme violente.

Quel che sta accadendo mostra i segni di un altro scenario: l’avanzata a tutto campo delle formazioni di destra e di estrema destra. Formazioni con cui, molto probabilmente, i partiti responsabili di 25 anni di politica UE si accorderanno per una strategia dagli esiti ancora incerti. Esiti sicuramente nefasti per le condizioni sociali dell’Europa e per i suoi progetti progressisti: in primis le politiche dell’immigrazione e i programmi ambientalisti del Green New Deal. La drammatica frantumazione dei partiti e partitini della sinistra, ancora impegnati a lacerarsi, incapaci di comprendere che una qualunque forma compromissoria di unità varrebbe mille volte più di qualunque intransigente purezza programmatica, mostra in largo anticipo che la più grave crisi dell’Europa dalla Seconda guerra mondiale non avrà, al momento, uno sbocco progressista e di avanzamento della democrazia.

E’ necessario, perciò, interrogarsi, nella ristretta economia di queste note, su quali possono essere le linee di azione delle forze politiche che vorranno contrastare lo scenario emergente dalle elezioni europee del 6 giugno 2024. Ricordiamo che la sconfitta in Ucraina diventa il pretesto per una politica di riarmo generale del vecchio Continente. Il 10 febbraio 2024 il Consiglio e il Parlamento europeo hanno approvato il nuovo Patto di stabilità che prevede l’aumento delle spese militari di tutti gli Stati membri, come programma obbligatorio soggetto a sanzioni. La Germania, il Paese origine e agente di due guerre mondiali, progetta un riarmo atomico. La SPD, capeggiata da Olaf Scholz, un nano politico che si è fatto umiliare dagli USA, e ha trascinato la Germania nella più grave crisi economica degli ultimi decenni, fa ritornare il suo partito ai fasti dei crediti di guerra del 1914, varati per finanziare l’esercito destinato al massacro del primo conflitto mondiale.

Credo – anche se i governi sono divisi su questa strategia – che la conversione al bellicismo nasconda intenzioni e finalità non dette. Intanto, è una forma propagandistica di riscatto di fronte all’umiliazione anche tecnologico militare subita in Ucraina. È probabilmente un avvio – camuffato, per non impensierire troppo le amministrazioni USA – di una politica di difesa europea indipendente dalla Nato. L’incombenza della ipotetica rielezione di Donald Trump alla presidenza degli USA, del resto pare renderlo necessario. Tuttavia, come già osserviamo, queste élites – sinora divise, incapaci di una politica estera comune, assolutamente prive di senso morale e mancanti di visione generale – cercheranno la loro unità e il consenso presso l’opinione pubblica continentale trasformando l’immaginario collettivo con una campagna informativa, senza precedenti, di retoriche belliciste. In Italia si sta facendo già nella pubblicità televisiva, nelle scuole, nel confronto politico corrente, eccetera.

Credo che questa nuovo atteggiamento militaresco, nefasto e pericoloso offra, tuttavia, una grandissima occasione di ricomposizione nel Continente del fronte progressista. Una sinistra popolare, liberata dai settarismi novecenteschi, può ovviamente trovare largo consenso di massa denunciando l’assurdo di una crescente spesa per la guerra a fronte del disinvestimento nella sanità, nella scuola, eccetera. Tutto l’arcipelago dei movimenti ambientalisti può essere coinvolto in un ampio fronte pacifista, al fine di denunciare i governi che costruiscono mezzi di annientamento degli uomini e di distruzione della natura, sottraendo risorse agli impegni per fronteggiare gli squilibri ambientali e il riscaldamento climatico.

Infine, ricordiamo un’altra potenzialità politica che la drammatica virata militarista dell’UE offre. È noto che si tenterà di costruire non solo una difesa europea, che sarebbe accettabile, ma anche un esercito europeo. Ebbene, una volta tanto, anche la sinistra potrà mettere in campo, nel discorso pubblico, l’arma potente della paura. Potrà denunciare che alle nuove generazioni, a cui è stata tolta la stabilità del lavoro, a cui viene messa in forse la speranza di poter vivere in un pianeta abitabile, viene ora prospettata la minaccia dell’arruolamento militare, l’avvenire fosco di una nuova guerra in territorio europeo. Noi possiamo dunque urlare alle famiglie del Continente che le attuali élites della UE preparano ai propri figli, dopo tante promesse di magnifiche e progressive sorti, un avvenire di morte in trincea.

Foto di Mediamodifier da Pixabay

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

Riarmo italiano, chi ci guadagna

di Gianni Alioti

Leonardo, la maggiore impresa militare italiana con oltre il 70% del settore, è ormai una multinazionale integrata alle compagnie Usa, dedita all’export (75% dei ricavi), al centro di complessi reticoli azionari. Fa affari d’oro, ma detiene una quota relativamente bassa dell’occupazione manifatturiera italiana.

“Bei tempi per gli azionisti e i manager dell’industria militare” o meglio “Good times for the Military-Industrial Complex”, si può dire, parafrasando John Adam Tooze. In realtà lo storico inglese, professore alla Columbia University e direttore dell’European Institute, Adam Tooze, ha scritto nel dicembre 2023 sulla sua Chartbook newsletter, una frase ben peggiore:”Good times for the merchants of death“, commentando i dati del Financial Times sull’aumento del portafoglio ordini delle aziende del settore e della loro crescita in Borsa. E in effetti gli ordinativi di armamenti, munizioni e nuovi sistemi ad uso militare sono ai massimi storici. 

Una recente analisi del Financial Times su 15 gruppi multinazionali che producono per il settore militare, tra cui i maggiori appaltatori statunitensi – la britannica BAE Systems, l’italiana Leonardo e la sudcoreana Hanwha Aerospace – ha rilevato che alla fine del 2022 – l’ultimo per il quale sono disponibili dati sull’intero anno – il loro portafoglio ordini complessivo era 777,6 miliardi di dollari, ben più nutrito rispetto ai 701,2 miliardi di dollari di soli due anni prima. 

La crescita degli ordini e dei profitti per le aziende del settore, dovuti all’aumento esponenziale delle spese militari nel mondo, hanno gonfiato le quotazioni di Borsa. Fatto 100 il valore azionario al 15 settembre 2021 di Leonardo, questo è cresciuto al 15 dicembre 2023 del 210 per cento. Nello stesso periodo il valore azionario di BAE Systems, Thales e Lockheed Martin è cresciuto, rispettivamente del 193, 180 e 132 per cento1. “Bei tempi per gli azionisti e i manager dell’industria militare”, appunto.

Se questo è il contesto nel quale si trova a operare l’industria militare italiana, lo scopo di questo articolo è delinearne il profilo e la dimensione, soffermandoci solo sulle due maggiori imprese.

La prima cosa che balza agli occhi è, infatti, il grado di concentrazione del fatturato dell’industria militare in poche aziende e la posizione dominante di Leonardo (ex Finmeccanica) in campo aeronautico, elettronico e degli armamenti terrestri, e di Fincantieri nella costruzione navale. Si tratta di due grandi imprese multinazionali (13° e 46° posto nella classifica SIPRI delle prime 100 aziende per fatturato militare) in cui lo Stato ha mantenuto una quota di controllo. I loro ricavi nelle produzioni militari (2022) raggiungono i 15,3 miliardi di dollari Usa, pari al 12% del giro d’affari del settore in Europa e a circa il 2,6% di quello mondiale. In Italia, concentrano insieme intorno all’80% del fatturato dell’industria militare. Una parte importante di questo fatturato è realizzato all’estero: per Leonardo in Usa, Regno Unito, Polonia e Israele, per Fincantieri in Usa2

Il lavoro più sistematico di mappatura e documentazione su questo universo è stato realizzato da The Weapon Watch, Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei 3 con sede a Genova, che ha prodotto l’«Atlante delle aziende in Italia operanti nel settore aerospazio e difesa». 

Incrociando le 874 aziende censite nell’Atlante con i dati della “Relazione annuale al Parlamento ai sensi della Legge 185 del 1990”, The Weapon Watch ha identificato 212 imprese che, negli ultimi sei anni, hanno avuto l’autorizzazione a esportare armamenti. Queste rappresentano il “primo livello” del complesso militare-industriale italiano. Il fatturato complessivo di queste 212 aziende è stato negli ultimi tre anni rispettivamente di 22,5 miliardi di euro nel 2019, di 20,1 miliardi nel 2020 e di 22,9 miliardi nel 2021. Complessivamente il numero degli occupati in Italia è di 77-78 mila unità (oltre 40 mila nel militare).

Al vertice del complesso militare italiano, oltre Leonardo e Fincantieri, troviamo per fatturato militare e per valore delle autorizzazioni all’export4 le seguenti aziende: Avio Aero5, Thales Alenia Space Italia6, Avio Space Propulsion7, MBDA Italia8, Iveco Defence Vehicles9, ELT Elettronica10, Rheinmetall11, Fabbrica d’Armi Pietro Beretta. Sommate insieme, queste prime 10 aziende concentrano intorno al 90% del fatturato complessivo in campo militare. La posizione dominante di Leonardoè confermata dalla sua partecipazione nell’azionariato e nei CdA di quattro di queste aziende (Thales Alenia Space, Avio Space, MBDA e ELT) e in joint-venture con altre due (Orizzonte Sistemi Navali con Fincantieri e Iveco-Oto Melara con Iveco DV).

Altre informazioni sull’industria militare in Italia provengono dalla Federazione aziende Italiane per l’aero-spazio, la difesa e la sicurezza – AIAD collegata a Confindustria, che associa 180 imprese.

Il Centro Studi AIAD in collaborazione con Prometeia12 ha pubblicato un rapporto con i dati del settore, presentato nel febbraio 2023 dal presidente di AIAD13 in un intervento alla Commissione Esteri e Difesa del Senato. Nel 2021 l’ammontare totale dei ricavi nell’industria aerospaziale e della difesa risultava, intorno ai 16,5 miliardi di euro, di cui il 58% in ambito militare (9,6 miliardi di euro pari allo 0,5% del PIL) e il restante 42% sui mercati civili. L’AIAD stima un’occupazione diretta totale nel settore di quasi 52 mila. In campo militare corrisponde a una stima intorno ai 30 mila occupati diretti, pari allo 0,8% dell’occupazione nell’industria manifatturiera in Italia. 


Leonardo

Nata dall’accorpamento realizzato in Finmeccanica tra gli anni Novanta e gli anni Duemila della maggior parte dell’industria militare italiana – a partire dalle molte aziende a partecipazione statale14, Leonardo negli ultimi vent’anni è cresciuta nel militare espandendosi sul piano internazionale con acquisizioni e investimenti esteri15. Nel 2022 il gruppo ha acquisito il 25,1% delle azioni della tedesca Hendsoldt 16, al 51° posto della classifica SIPRI delle 100 maggiori imprese militari, con oltre 1,7 miliardi di dollari di fatturato, quasi tutti in campo militare. Nello stesso anno, attraverso la controllata statunitense Leonardo DRS ha rilevato il controllo del 100% dell’azienda israeliana Rada Electronic Industries. 

Leonardo a livello globale ha 51.391 occupati (2022) distribuiti il 63% in Italia, il 15% nel Regno Unito, il 14% negli Usa, lo 0,5% in Israele e il 2,5% nel resto del mondo. 32.327

ll gruppo è attualmente organizzato su otto aree di attività: elettronica, elicotteri, aerei, cyber & security, spazio, droni, aero-strutture, automazione. Ha una posizione di forza internazionale nel comparto elicotteri e nell’elettronica per la difesa; mentre in campo aeronautico opera principalmente come sub-fornitore di primo livello per i grandi produttori di aerei militari degli Stati Uniti. Il gruppo è ancora attivo nella produzione di armamenti navali e terrestri (ex-Oto Melara e consorzio con Iveco DV) e nel comparto navale subacqueo (ex-Wass). 

In campo terrestre Leonardo ha firmato, recentemente, un accordo di cooperazione europea con il gruppo franco-tedescoKNDS per la progettazione e produzione di un nuovo carro armato, e per la costruzione e la manutenzione dei nuovi Leopard 2 tedeschi, incluso l’inserimento di strumentazioni elettroniche made in Italy

In campo aeronautico Leonardo e il governo italiano, ancora una volta uscendo dal perimetro dei programmi europei 17, hanno deciso di partecipare al programma Tempest- in sigla Gcap – per un caccia di sesta generazione, lanciato dalla britannica BAE Systems. Al programma, al quale avevano aderito Leonardo e la svedese Saab, nel dicembre 2023 si è unita anche la giapponese Mitsubishi Heavy Industries.

Il principale azionista è il ministero dell’Economia e Finanze (30,2%), che detiene una “golden share” data l’importanza strategica della società, ma un ruolo sempre più decisivo nella sua gestione lo giocano i fondi istituzionali, che per il 53% sono nord-americani e inglesi. Tra questi investitori istituzionali più figurano diversi colossi americani della finanza: Dimensional Fund Advisors LP, The Vanguard Group, Norges BankInvestment, T. Rowe Price International Ltd Management, Goldman Sachs Asset Management, BlackRock Fund Advisors, Goldman Sachs Asset Management International e DNCA Finance SA. 

In Italia Leonardo controlla oltre il 70% delle produzioni militari e le esportazioni (intorno al 75%) rappresentano la parte più importante dei suoi ricavi. La componente militare rappresenta ormai l’83% del fatturato dell’azienda. Tale strategia ha avuto effetti fortemente negativi sull’occupazione. La Figura 1 mostra che negli ultimi 15 anni il gruppo Leonardo ha registrato un calo del numero totale degli occupati in Italia del 24% e una perdita secca del 17% di posti di lavoro nel comparto aeronautico. 

Figura 1

Loccupazione in Leonardo in Italia dal 2007 al 2022

Sul totale degli occupati, nel periodo considerato, hanno inciso soprattutto le dismissioni dall’ex-Finmeccanica di Ansaldo Energia e del comparto dei trasporti metro-ferroviari ceduto ai giapponesi di Hitachi, non compensate dalle nuove acquisizioni 18. Mentre nel settore aeronautico, il cui perimetro societario è rimasto invariato, si sono persi oltre duemila posti di lavoro. Ciò si è verificato nonostante Leonardo stia partecipando alla produzione dei nuovi caccia F35, un programma che era stato approvato da Camera e Senato con illusorie promesse del governo e dell’Aeronautica militare italiana di creazione di nuovi 10 mila posti di lavoro. In realtà si tratta di acquisizioni dagli Stati Uniti con limitati effetti sulle produzioni italiane.

Nel complesso, Leonardo si presenta come una multinazionale militare (con il controllo dello Stato italiano), subordinata in molti campi alle strategie tecnologiche e produttive delle grandi imprese Usa, che si è allontanata dai progetti di co-produzioni europee, che opera sulla base di logiche finanziarie e che ha largamente abbandonato le possibilità di sviluppare produzioni civili. Un esempio di strategia d’impresa che punta a guadagni di breve periodo anziché allo sviluppo di tecnologie e mercati diversificati, e di cattiva politica industriale da parte dei governi italiani di questi anni.


Fincantieri

Fincantieri ha mantenuto la continuità con la storica azienda a partecipazione statale con il controllo dei maggiori cantieri navali del Paese. È la maggiore impresa occidentale di costruzioni navali, ha una forte attività nelle navi da crociera, ma negli ultimi due anni ha aumentato la quota di produzioni di navi da guerra dal 20 al 36% del fatturato totale, con 2.820 milioni di dollari di fatturato militare nel 2022, arrivando al 46° posto nella classifica SIPRI delle 100 maggiori imprese militari. 

Fincantieri ha oltre 20 mila addetti nel mondo, di cui 10.445 in Italia (52%) e 9.640 all’estero, occupati in 20 cantieri navali, di cui 9 in Italia, 5 in Norvegia, 2 in Romania, 2 in Usa, 1 in Brasile e 1 in Vietnam. 

Leader nelle navi da crociera, Fincantieriproduce anche piattaforme offshore, navi posa cavi, traghetti veloci e grandi yacht, oltre alle diverse tipologie di navi militari: portaerei, cacciatorpediniere, fregate, corvette, pattugliatori, navi anfibie, unità di supporto logistico, navi multi-ruolo e da ricerca, navi speciali, sommergibili. Nel settore militare Fincantieri gestisce (con il 51% delle azioni) insieme a Leonardo (49%) l’azienda italiana “Orizzonte Sistemi Navali”, con sede a Genova.

Nel 2023 Fincantieri ha acquisito nuovi ordini per 5,5 miliardi di euro, di cui 4 si riferiscono alla cantieristica navale (militare e crociere) e 1,5 all’offshore e alle navi posa-cavi. Il portafoglio d’ordini totale ha raggiunto i 22 miliardi (+23% rispetto al 2022). L’utile lordo del gruppo è in aumento del 60% rispetto al 2022. 

Nel febbraio del 2024 la Fincantieri e il gruppo Edge (Emirati Arabi Uniti) hanno dato vita a una joint venture per la produzione di navi militari. Nella joint venture, che avrà sede ad Abu Dhabi, la Edge deterrà il controllo con il 51% mentre alla Fincantieri è affidata la direzione gestionale.

Un settore in espansione internazionale è quello delle attività subacquee e, in questo ambito, Fincantieri è parte con Leonardo del polo nazionale guidato dalla Marina Militare Italiana a Spezia. Il settore della subacquea non significa solo sommergibili, ma anche esplorazione dei fondali e monitoraggio-sicurezza dei cavidotti e delle infrastrutture energetiche e di telecomunicazione sottomarine. Questo spiega la recente acquisizione della Remazel Engineering, un’azienda ingegneristica con esperienza nei gasdotti e oleodotti sottomarini.

Il capitale sociale di Fincantieri è detenuto per il 71,32% da Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Il restante 28,61% è mercato azionario indistinto e solo lo 0,07% sono azioni proprie di Fincantieri.

La struttura occupazionale della cantieristica si è trasformata nell’ultimo decennio con un grandissimo utilizzo di imprese di subfornitura e subappalto impegnate all’interno dei grandi cantieri per attività specifiche. Accanto ai 10.445 dipendenti diretti di Fincantieri, ci sono 28.240 occupati nelle ditte di appalto (indiretti di primo livello) e altri 22.585 occupati nelle moltissime ditte di subappalto (per un totale di 61.270 persone). Tali imprese si sono sviluppate sulla base delle spinte verso una continua riduzione dei costi di produzione, e sono caratterizzate da una larghissima presenza di lavoratori immigrati, spesso con bassi salari e condizioni di lavoro e di vita particolarmente disagiate.


Conclusioni

Nel complesso, l’industria militare italiana, con un’occupazione stimata dall’AIAD in poco più di 30 mila addetti nelle produzioni militari (oltre 40 mila secondo l’Atlante di The Weapon Watch), ha un rilievo modesto nel sistema manifatturiero del Paese. Le due maggiori imprese – Leonardo e Fincantieri, a controllo pubblico – sono diventate, negli ultimi 20 anni, multinazionali con una ragguardevole presenza estera e, specie Leonardo, con un forte orientamento finanziario. 

Sul piano tecnologico e produttivo, l’industria militare italiana ha assunto con Leonardo un ruolo di integrazione subalterna nelle strategie degli Stati Uniti e ha largamente abbandonato la strada delle co-produzioni europee. Numerose imprese sono diventate filiali di multinazionali straniere, integrate nei loro sistemi produttivi sul mercato delle commesse militari italiane. Le esportazioni di armi sono una componente rilevante delle produzioni realizzate in Italia. 

Con queste caratteristiche, l’attuale aumento della spesa per acquisto di armamenti in Italia e in Europa può offrire un relativo allargamento delle commesse e del portafoglio ordini, ma è difficile immaginare una crescita significativa (e autonoma) dell’industria militare italiana nelle tecnologie aeronautiche, elettroniche, navali e spaziali più avanzate. In questi ambiti le principali acquisizioni di armamenti e nuovi sistemi d’arma da parte delle Forze Armate italiane, continueranno a essere caratterizzate – com’è avvenuto per i caccia F35 – da importazioni di prodotti finiti e/o componenti strategici dagli Usa e/o dai principali paesi europei (Francia, Germania e Regno Unito) con cui sono in corso accordi tecnologici e produttivi.

Le scelte di politica industriale dei passati governi e le strategie produttive di Leonardo e degli altri protagonisti del settore hanno portato a più alte quotazioni di Borsa e a maggiori dividendi per gli azionisti, ma fanno delle produzioni militari un “cattivo affare” per l’economia e l’occupazione in Italia. In Italia come in Europa, un allargamento del “complesso militare industriale” non fa che alimentare il riarmo e i rischi di estensione dei conflitti. 

Al contrario, lo sviluppo di produzioni civili, con strategie di diversificazione e riconversione, potrebbe consentire una maggior espansione delle capacità tecnologiche e dell’innovazione della nostra industria, con ricadute positive sia in termini di produttività e qualità sull’insieme del sistema economico e manifatturiero, sia con un aumento di investimenti destinati alla messa in sicurezza del territorio e del patrimonio artistico e culturale, al miglioramento del sistema sanitario ed educativo, alla transizione ecologica e digitale. 


NOTE:

1 Philippe Leymarie, La guerra in Ucraina alimenta la corsa agli armamenti, Le Monde Diplomatique il manifesto gennaio 2024

2 Nelle attività civili il gruppo è presente anche in Norvegia, Romania, Brasile e Vietnam.

3 https://www.weaponwatch.net/chi-siamo/

4 Nel 2022 le prime 5 aziende per valore complessivo di autorizzazioni all’export sono state: Leonardo con 1.802,3 milioni di euro, Iveco Defence Vehicles con 593,3 milioni, MBDA Italia con 304,8 milioni, Elettronica con 167,1 milioni e Avio Aero (GE Aerospace) con 140,2 milioni.

5 Motori e sistemi di propulsione aeronautici, di proprietà dell’americana GE Aerospace.

6 Settore aerospaziale, controllata dalla francese Thales con una partecipazione di Leonardo.

7 Propellenti per settore spaziale, partecipata da Leonardo.

8 Missili ed elettronica per sistemi missilistici, controllata da Airbus, BAE Systems e Leonardo.

9 Veicoli blindati, divisione di Iveco Group controllato dal gruppo finanziario Exor della famiglia Agnelli.

10Specializzata in guerre elettroniche è partecipata da Leonardo.

11 Il gruppo tedesco Rheinmentall, leader europeo negli armamenti terrestri e nel munizionamento, è presente con Rheinmetall Italia (ex-Contraves) e con RWM Italia.

12 Azienda di consulenza e ricerca economica con sede a Milano.

13 Intervento Presidente AIAD – Ing. Giuseppe Cossiga, Commissione Esteri e Difesa Senato, Roma 14 Febbraio 2023

14 Nel 1994 Finmeccanica acquisisce le aziende della difesa dell’EFIM: Agusta (elicotteri), Breda Meccanica Bresciana (artiglieria navale e terrestre), Breda Costruzioni Ferroviarie (treni), Officine Galileo (sistemi elettro-ottici), OTO Melara (armamenti terrestri e navali), SMA (radar navali e terrestri), BredaMenarinibus (autobus). Nel 1995 acquisisce da FIAT la Whitehead (produzioni siluri), che fondendosi con Alenia-Elsag Sistemi Navali dà vita alla Wass. Con l’apporto delle nuove società, si concentra oltre il 70% dell’industria nazionale a produzione militare in Finmeccanica, che controlla già il gruppo Alenia operativo nei comparti dell’aerospazio e dell’elettronica per la difesa. Questo processo di concentrazione in Italia in campo militare si rafforza negli anni successivi con le ulteriori acquisizioni di Aermacchi, Ote e la divisione della Marconi Italiana operante nei sistemi di difesa. Contemporaneamente inizia il processo di dismissioni in campo civile con la vendita in ordine cronologico di EsaOte Biomedica, di Elsag Bailey Process Automation (leader mondiale nell’automazione industriale) e delle controllate nella robotica e automazione di fabbrica, di ST Microelettronics e degli asset inerenti l’energia eolica.

15 Il primo mattone del processo di internazionalizzazione di Leonardo (allora Finmeccanica) è la nascita nel 2000 del consorzio Agusta-Westland in campo elicotteristico con il gruppo britannico GKN. Nel 2004 acquisisce il 100% di AgustaWestland e nel 2005 gli asset britannici di BAE Systems nell’avionica e comunicazioni. Il Regno Unito diventa il secondo mercato domestico del gruppo. Nel 2008 Finmeccanica acquisisce la statunitense DRS Technologies attiva nell’elettronica per la difesa. Gli Stati Uniti diventano il terzo mercato domestico. Nel 2009 è la volta dell’azienda polacca produttrice di elicotteri e aerostrutture, ad essere acquisita. La Polonia, quindi, diventa per Leonardo il quarto mercato domestico. 

16 Il gruppo Hensoldt, con un fatturato nel 2022 di 1.795 milioni di dollari ha un’occupazione di 6.500 persone a livello mondiale, di cui 4.700 in Germania. Nel dicembre 2023 ha acquisito la tedesca ESG Elektroniksystem- und Logistik, che impiega 1.380 persone in Germania, Olanda e Stati Uniti con un fatturato di circa 330 milioni di euro.

17 La francese Dassault Aviation e la società europea Airbus (Francia, Germania, Spagna) svilupperanno congiuntamente, in alternativa al Tempest, il progetto FCAS – Future Combat Air System.

18 Leonardo (ex-Finmeccanica), nel periodo considerato, ha effettuato le seguenti acquisizioni e dismissioni, modificando in Italia il perimetro industriale e l’occupazione del Gruppo. Acquisizioni: Datamat (2007), Sistemi Dinamici (2016), Vitrociset (2018), Alea (2021). Dismissioni: Ansaldo Energia (2013), Ansaldo Breda, Ansaldo Sts, Breda Menarini bus (2014), Electron Italia (2017).

FONTE: https://sbilanciamoci.info/riarmo-italiano-chi-ci-guadagna/

Unione Europea: flussi migratori interni e fabbisogno strutturale di lavoro

In uno scenario tendenziale, nei prossimi trenta anni  tutti gli stati membri della UE avranno un fabbisogno di lavoratori stranieri che per la UE sarà pari a 117 milioni. Gli stati che offrono condizioni lavorative migliori attrarranno lavoratori anche dagli altri stati membri, un fenomeno già evidente per il nostro paese. Ciò provocherà inevitabilmente un pari aumento del nostro fabbisogno di lavoratori extracomunitari. Michele Bruni suggerisce quindi che per ridurre il fabbisogno di lavoratori stranieri le prime misure da adottare dovrebbero mirare a migliorare  le condizioni salariali e lavorative del nostro paese. 

di Michele Bruni

Di quanti lavoratori avrà bisogno l’Unione Europea nel prossimo trentennio?

Nei prossimi trenta anni i 27 paesi UE saranno tutti caratterizzati da una carenza strutturale di manodopera che genererà inevitabilmente flussi migratori ad essa proporzionali. Possiamo stimare il fabbisogno di lavoratori stranieri come la somma  di due componenti, una componente demografica ed una componente economica. La prima è  dovuta al calo della popolazione in età lavorativa (PEL), la seconda  alla variazione del livello occupazionale. Queste due componenti  possono essere stimate  in maniera approssimata:

1) La prima come il numero di persone necessarie per mantenere inalterato il livello della popolazione in età lavorativa (PEL) e quindi l’offerta di lavoro, supponendo che il loro tasso  di attività totale sia almeno uguale a quello della popolazione autoctona.

2) La seconda come il  numero di persone necessarie per coprire i posti di lavoro aggiuntivi creati nell’intervallo considerato, ipotizzando che il loro tasso di attività sia dell’80%.

I flussi migratori attivati dalla carenza strutturale di lavoro risulteranno pertanto maggiori del numero di posti di lavoro che le forze di lavoro locali non potranno ricoprire in quanto le precedenti ipotesi ipotizzano, credo realisticamente, che essi siano accompagnati da una percentuale del 25, 30 % di famigliari.

Ricordo anche che i posti aggiuntivi sono stati stimati assumendo che il numero degli occupati vari al tasso medio annuo registrato nel periodo 2002-2022.

La Tabella 1 riporta i risultati delle stime per la UE,  per i 5 stati membri più popolosi e per gli altri 22 presi congiuntamente. Nei prossimi 30 anni la PEL della UE diminuirà di 63,5 milioni e, in uno scenario tendenziale, il fabbisogno economico dovrebbe essere di 53,8 milioni. Ciò porta ad un fabbisogno complessivo di circa 117 milioni di immigrati.

Il fabbisogno totale dei 5 grandi paesi è pari al 71% del fabbisogno UE con la Germania che pesa per quasi un quarto (22,4%), la Spagna per il 14,5 e gli altri tre per valori compresi tra il 12,1% dell’Italia e il 10,9% della Polonia, e la Francia in una posizione intermedia (11,6%).

Il ruolo delle due componenti varia notevolmente da paese a paese. Se a livello UE la componente demografica pesa per il 54,1% e nei piccoli paesi per il 58,2%, nei cinque grandi paesi il suo peso è massimo in Italia dove tocca 81,1% e minimo in Francia dove spiega solo il 30,6%. In Germania e in Polonia le due componenti hanno quasi lo stesso peso, mentre i valori della Spagna sono in linea con la media europea. Si noti che un peso prevalente della componente demografica rende più problematico risolvere il problema della carenza strutturale di lavoro, in quanto richiede necessariamente un aumento della fecondità, cosa non solo difficilissima da realizzare, ma i cui primi effetti sul mercato del lavoro si possono avvertire non prima di 20-25 anni.


Se la UE rappresenta un formidabile attrattore per i giovani di paesi con un eccesso strutturale di lavoro, è altresì evidente che i singoli paesi dell’Unione possono attrarre anche i giovani di paesi membri nei quali esistano eccessi relativi di offerta dovuti, come in Italia, alla presenza di una domanda di lavoro insufficiente per certe professioni o che comunque si esplica con condizioni non competitive a livello europeo. Tali flussi lasciano immutato il fabbisogno dell’Unione, ma modificano quello dei singoli paesi.

I dati sulle iscrizioni e le cancellazioni utilizzati dall’Istat per valutare i flussi migratori da e per l’Italia stimano per il decennio 2012-2021 un saldo migratorio dei cittadini italiani negativo, e pari ad una media annua di 58.000 unità. Sempre secondo la stessa fonte, i giovani andati all’estero sono in possesso di un titolo di studio medio per il 31% e di almeno la laurea per il 23%.

Vi sono tuttavia forti evidenze che il numero di italiani espatriati nell’ultimo decennio sia stato molto più elevato. Un progetto ISTAT, basato su un utilizzo integrato dei dati amministrativi per individuare quella parte delle iscrizioni e cancellazioni “per altri motivi” che potrebbero essere considerate come movimenti migratori con l’estero2, giunge ad una stima del saldo migratorio negativo medio annuo di 72,000 persone per il periodo 2012-2020. Ancora più drastiche le conclusioni raggiunte da un recente studio della Fondazione Nord Est2. Incrociando i dati dell’ISTAT con quelli degli uffici statistici degli altri paesi dell’UE, lo studio giunge alla conclusione che gli espatri di giovani tra i 20 ed i 34 anni sarebbero stati tre volte quelli stimati dall’ISTAT3.

Le informazioni disponibili non sono sufficienti per formulare proiezioni affidabili del saldo migratorio verso gli altri paesi della UE per il prossimo trentennio. Tuttavia, esse giustificano l’ipotesi di un saldo migratorio negativo medio annuo con il resto della UE di 50.000 giovani, il che comporterebbe una crescita del nostro fabbisogno demografico di 1,5 milioni nel prossimo trentennio.

In sostanza, in un contesto nel quale tutti i paesi della UE saranno caratterizzati da una massiccia carenza strutturale di lavoro, sarà inevitabile che i giovani dei paesi nei quali stipendi e condizioni di lavoro non sono competitivi, vengano attratti dai paesi che offrono condizioni di gran lunga migliori, provocando così un aumento della carenza strutturale di lavoro extracomunitario dei loro paesi.

Sembrerebbe quindi ragionevole che il governo italiano, prima di cercare di aiutare in maniera del tutto velleitaria i paesi africani a casa loro, aiutasse l’Italia a casa sua con misure volte ad aumentare la produttività e sperabilmente i salari, oggi tra i più bassi d’Europa, così da ridurre il nostro fabbisogno di immigrati.


Note

1 Tucci E., L’emigrazione dall’Italia attraverso l’integrazione e l’analisi di rilevazioni statistiche e fonti ufficiali, Tesi di dottorato, Roma (2019); Di Fraia G., Tucci E., Tomeo V., Basevi M., Corsetti G., Licari F., Simone M., Bonifazi C., Strozza S., Una misura delle emigrazioni italiane attraverso l’integrazione e l’analisi di dati amministrativi, (2022); Enrico Tucci, Corrado Bonifazi e Gennaro Di Fraia, Una nuova misura delle migrazioni italiane, Neodemos, 21 Marzo 2023.

2 Latmiral L., Paolazzi L., Rosa B, Lies, Damned Lies, and Statistics: un’indagine per comprendere le reali dimensioni della diaspora dei giovani italiani, Fondazione Nord Est, ottobre 2023

3 Le cause della sottostima sarebbero da individuare nelle diverse motivazioni che i giovani hanno nel cancellarsi in Italia ed iscriversi all’estero.

FONTE: https://www.neodemos.info/2024/02/16/unione-europea-flussi-migratori-interni-e-fabbisogno-strutturale-di-lavoro/


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L’Euro, il Lavoro, la Sinistra

Euro.

di Massimo D’Antoni

L’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.

Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».

Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice

Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi. Nel corso degli anni Ottanta l’obiettivo di controllo dell’inflazione aveva finito per prevalere sulla lotta alla disoccupazione. Hahn, studioso di equilibrio economico generale, tutt’altro che un eterodosso su piano scientifico e di orientamento politico liberale, arrivava ad affermare in quell’intervista che «il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice».

C’era una volta il PCI

Consapevolezza del fatto che tra irrigidimento del cambio e piena occupazione ci fosse un potenziale conflitto aveva del resto mostrato il PCI quando, nel 1978, si era opposto all’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo. Durante la discussione alla Camera, l’allora on. Napolitano aveva evidenziato come l’adesione allo SME, in presenza di una “tendenza” della lira a svalutarsi rispetto al marco tedesco, avrebbe determinato la necessità di adottare politiche restrittive: «il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita».

Un quindicennio dopo, agli inizi degli anni Novanta, la posizione delle forze politiche, anche quelle di sinistra, è ben diversa. Nel frattempo molte cose sono del resto cambiate, sul piano politico economico e culturale. Il decennio segnato dall’egemonia reaganiana e thatcheriana ha segnato profondamente gli orientamenti di politica economica in tutti i paesi. Il vecchio modello di crescita, caratterizzato dall’aumento dei consumi di massa trainato dalla crescita dei salari è ormai un ricordo, lo si è sostituito con l’invito ad arricchirsi, a sfruttare le opportunità offerte dallo sviluppo dei mercati finanziari, dalla mobilità dei capitali. La crescita delle diseguaglianze non è percepita come un problema, ma semmai come un ostacolo al perseguimento dell’efficienza e all’ampiamento dei margini di profitto. Di questo nuovo modello, che incoraggia l’indebitamento privato, si vedrà l’esito con la crisi finanziaria del 2007.

Poi venne Maastricht, la moneta senza Stato

È in questo contesto culturale che viene definita l’architettura dell’Unione europea e vengono disegnate le istituzioni che porteranno all’Unione monetaria e all’adozione dell’euro. Il Trattato di Maastricht è figlio di quest’epoca e si vede.

Alla Banca centrale europea, concepita sul modello della Bundesbank. viene assegnato un mandato limitato al perseguimento della stabilità dei prezzi. Una differenza non marginale rispetto alla “cugina” americana, visto che alla Federal Reserve persegue l’obiettivo di controllo dell’inflazione congiuntamente a quello di massimizzare l’occupazione. Un mandato definito in modo così ristretto è del resto una logica conseguenza del fatto che la BCE viene costituita come istituzione sovranazionale, in assenza di una vera controparte politica dotata di un’autonoma capacità fiscale. L’euro nasce come esperimento di “moneta senza Stato”.

Si può ben argomentare che la natura tecnica della BCE sia in realtà una finzione. All’interno del direttorio il peso politico degli stati conta eccome e del resto non potrebbe essere altrimenti, essendo del tutto fantasiosa l’idea di una politica monetaria che non abbia, per l’appunto, un carattere fortemente politico. La vernice “tecnica” che si dà all’istituzione di Francoforte ha semmai l’effetto di renderne l’indirizzo politico meno trasparente, funzione di rapporti di forza che riflettono il grado di “ricattabilità” dei paesi in funzione della loro esposizione alle pressioni dei mercati finanziari. Nella intervista già citata, Frank Hahn aveva affermato che è «difficile pensare a una istituzione politicamente più destabilizzante» di una Banca centrale europea in assenza di un governo federale.

L’imperativo della mobilità dei capitali

Nel sottolineare questi aspetti non vorremmo dare l’impressione che l’impianto del Trattato di Maastricht e della moneta unica sia stato definito nella totale inconsapevolezza dei protagonisti dell’epoca. Le scelte di quegli anni arrivarono dopo quasi due decenni di tentativi di trovare una nuova definizione dei rapporti tra valute dopo la fine del sistema di Bretton Woods. Nell’ambito di tale sistema la stabilità dei cambi veniva assicurata dalle limitazioni dei movimenti dei capitali e della possibilità di aggiustamenti concordati del cambio in presenza di squilibri fondamentali tra le economie. Vent’anni dopo il problema era ulteriormente complicato dalla progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata nel corso degli anni Ottanta e fissata come uno dei cardini, una delle “quattro libertà” che segnavano il passaggio dalla Comunità economica all’Unione europea. È noto come fissità del cambio, mobilità dei capitali e conduzione di un’autonoma politica monetaria rappresentino una “triade impossibile”: delle tre, almeno una deve essere necessariamente abbandonata. Dopo la difficile esperienza del Sistema monetario europeo, culminata per il nostro paese con l’uscita forzata dopo la svalutazione traumatica del settembre 1992, sembrò che la soluzione fosse quella di rilanciare: la moneta unica avrebbe escluso la possibilità di ripetere tale esperienza rendendo il cambio immodificabile e avrebbe consentito di recuperare una relativa capacità di gestione della politica monetaria a livello sovranazionale. La verità è che si era affermata la convinzione, di impronta monetarista, che le politiche di stabilizzazione macroeconomica dovessero avere un ruolo ben più limitato di quanto indicato dall’impianto teorico keynesiano. Anche per questo sembrò che il prezzo da pagare, la rinuncia all’utilizzo della leva monetaria, fosse modesto.

Venne scartata l’alternativa del cambio flessibile. Si diceva che un cambio flessibile avrebbe comportato ostacoli al commercio intracomunitario, ma nessun economista internazionale darebbe credito a un’argomentazione del genere. È invece chiaro che il cambio flessibile avrebbe ostacolato la mobilità dei capitali, che evidentemente non si voleva in alcun modo sacrificare.

Il modello tedesco e la cura degli squilibri a colpi di austerità

Il modus operandi della BCE era ispirato, lo abbiamo detto, a quello della Bundesbank, con il suo orientamento “conservatore” e una nozione estrema di indipendenza dalla politica (indipendenza che, come abbiamo detto, non esclude che le scelte della banca centrale avessero una rilevante dimensione politica). La storia monetaria della Germania federale racconta l’utilizzo della leva monetaria come strumento di contenimento delle richieste sindacali, e quindi della competitività attraverso il contenimento dei costi, nonché di promozione di una moneta forte in grado di attrarre capitali da impiegare nel finanziamento del commercio estero.

La creazione dell’euro nei fatti era coerente con l’estensione all’intera area del “modello tedesco”, di un’economia orientata all’export, che non esita a contenere la domanda interna per mantenere un avanzo di parte corrente.  Anche da questo punto di vista l’unione si presentava come una sfida alla ragione economica. Il compianto Marcello De Cecco, che pure non ha mai ritenuto che vi fossero alternative all’adesione all’euro, sottolineava un poco “invidiabile” primato storico della zona euro: «è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla.»

La speranza, o l’illusione, di coloro che vedevano nell’unione monetaria un’occasione per attuare, liberati dal vincolo della difesa della valuta, politiche espansive e favorevoli alla crescita, doveva scontrarsi con la realtà dei rapporti di forza interni all’UE. Come è stato reso evidente dalla risposta alla crisi dei debiti sovrani, nell’Europa dell’euro ha sempre prevalso l’idea che gli squilibri andassero curati a colpi di austerità e che il problema fossero l’eccesso di indebitamento e la crescita della spesa pubblica.

Vincolo esterno, scelte impopolari e prive di sostegno democratico

Ma non è nostra intenzione caricare di eccessive responsabilità la Germania. Il tema del rapporto tra Europa e lavoro ha molto a che vedere anche con il modo in cui l’appartenenza all’Unione è stata interpretata dalla classe politica nazionale. L’idea del «vincolo esterno» capace di far apparire come necessarie scelte impopolari e prive di sostegno democratico è stata oggetto di numerose analisi.

In un saggio scritto insieme a Lucio Baccaro [Baccaro e D’Antoni, 2022] abbiamo provato a capire in che misura l’utilizzo del vincolo europeo possa essere alla base della stagnazione economica italiana a partire da metà anni Novanta. La nostra tesi è che il vincolo sia stato utilizzato per «forzare» un insieme di riforme di impronta neoliberale che, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbero dovuto realizzare la modernizzazione economica del Paese, liberando il sistema dai vincoli di natura ideologica (incarnati dalle tradizioni “popolari” cattolica e comunista) e istituzionale che frenavano un pieno dispiegamento delle forze della concorrenza.

Nello studio prendiamo in esame l’utilizzo del vincolo esterno dal punto di vista delle politiche di bilancio, di quelle industriali e delle politiche del lavoro, mostrando come in ciascuno di questi ambiti gli effetti siano stati ben diversi, probabilmente di segno contrario, rispetto a quanto preventivato. L’analisi può arrivare a giustificare la conclusione che sarebbe stato meglio ritardare o addirittura evitare l’ingresso del Paese nella moneta unica.

La progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro

Con riferimento specifico al mercato del lavoro, ovvero l’aspetto che più da vicino rileva per questo intervento, l’adesione alla moneta unica ha favorito e giustificato la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, iniziata con le «riforme Treu» a fine anni Novanta, e proseguita fino alla riforma dell’art. 18 attuata dal governo Renzi, passando per il progressivo allentamento dei vincoli all’utilizzo dei contratti temporanei da parte dei governi Berlusconi. L’effetto della riduzione delle garanzie a tutela del lavoro è stato quello di aumentare l’incidenza di forme precarie di occupazione. L’adozione del vincolo esterno del cambio super-fisso ha costretto alla rimozione del «vincolo interno» del mercato del lavoro, consentendo la creazione di lavori a basso costo e bassa tutela. Ciò ha consentito a molte imprese di sopravvivere in una situazione di perdita di competitività, ma ha anche scoraggiato gli investimenti per la creazione di lavoro qualificato. In una situazione di elevata sostituibilità del lavoratore e accorciamento dell’orizzonte temporale dell’impiego in una stessa impresa, né impresa né lavoratore hanno incentivo a investire in capitale umano. La modesta dinamica della produttività osservata dall’adozione dell’euro in poi nel nostro Paese trova qui una spiegazione ben più convincente rispetto ad altre interpretazioni che puntano il dito sulla mancanza di meritocrazia o altri mali antichi del nostro Paese.

I peccati di ingenuità della sinistra

Il nostro sommario richiamo ad aspetti che sono ormai noti nel dibattito lascia aperti diversi interrogativi. Alcuni relativi al passato. Perché la sinistra ha aderito in modo così acritico a un processo di integrazione attuato con modalità che indebolivano la sua base sociale di riferimento? Perché il mondo culturale e accademico progressista non ha saputo mettere insieme elementi e conclusioni consolidate nell’analisi economica, così da evidenziare per lo meno sui rischi cui si stava andando incontro? Naturalmente, la dimensione economica è solo un aspetto della questione. L’ampio consenso con il quale sono stati accolti i passaggi che hanno portato prima al mercato comune, poi alla comunità economica e infine all’unione economica e monetaria, sono stati giustificati, in particolare a sinistra, con l’idea che il governo dei processi di globalizzazione e la protezione dalle turbolenze dei mercati finanziari e valutari rendessero necessaria una dimensione adeguata, ben superiore a quella degli stati nazionali. Ora vediamo più chiaramente che anche da questo punto di vista si è peccato, quanto meno, di ingenuità: lungi dal rappresentare una protezione, l’Unione europea è diventata in molte occasioni veicolo di quelle stesse forze dalle quali avrebbe dovuto fornire protezione.

L’illusione di «correggere» con una «vera» unione politica e fiscale

Una seconda e più fondamentale domanda riguarda le prospettive. Quali sono gli spazi per attenuare i vincoli descritti e tornare a proporre politiche favorevoli al lavoro e in grado di limitare l’erosione dei sistemi di welfare? Una risposta a questa domanda appare particolarmente difficile. Se da un lato è irrealistico immaginare di tornare indietro, smantellando l’architettura creata in questi trent’anni, dall’altro appare ugualmente velleitaria la prospettiva di chi immagina di «correggere» tale architettura completandola con una vera unione politica e fiscale. Per tale obiettivo mancano infatti le condizioni minime. Ingredienti base sarebbero sul piano fiscale un meccanismo di trasferimento e redistribuzione comunitario analogo a quello di un vero stato federale, sul piano politico un cambiamento istituzionale radicale, che sostituisca l’approccio intergovernativo con forme di partecipazione politica e democratica a livello di Unione che non si vedono all’orizzonte. Non basterebbe infatti un’operazione di ingegneria istituzionale, sarebbe necessario creare un vero «demos» europeo. Qualcosa che appare tano meno probabile quanto più l’unione si allarga per includere paesi distanti culturalmente e per collocazione geo-politica.

Il nodo della collocazione geopolitica

Se non è possibile andare né avanti né indietro, in termini pragmatici ciò che si può fare è cercare di conquistare, nel contesto presente, quanto più spazio è possibile per la difesa delle ragioni del lavoro e della giustizia sociale. In questo senso, comprendere la natura dei vincoli e dei processi che li hanno generati può essere un passo importante per non farsi trovare impreparati e non ripetere in futuro gli stessi errori. Del resto, la situazione è ben lungi dall’essere immobile. Non ci sembra azzardato affermare che le dinamiche puramente economiche hanno oggi meno rilevanza che nel passato prossimo e sembrano invece piegarsi alla logica di trasformazioni di altra natura. Prima fra tutte il ridisegno dei rapporti internazionali, con la probabile fine del modello unipolare che ha caratterizzato il periodo successivo all’implosione del blocco sovietico. Da questo punto di vista, una capacità di lettura della realtà che non si limiti alle categorie economiche ma le integri con una conoscenza interdisciplinare, che tenga adeguatamente conto della dimensione geo-politica, appare quanto mai urgente.

FONTE: https://fuoricollana.it/leuro-il-lavoro-la-sinistra/

Maccartismo in salsa europea

Coloro che dissentono dalla verità ufficiale del Parlamento Europeo che ha identificato la Russia come il nemico da combattere, sono le quinte colonne del nemico, che bisogna smascherare e mettere a tacere.

di Domenico Gallo

Il termine “maccartismo” deriva dal nome del senatore repubblicano del Wisconsin Joseph McCarthy che diresse, negli anni 50 del secolo scorso, la principale Commissione del Senato USA per la repressione delle “attività antiamericane”. L’attività della Commissione consisteva in quella che fu definita la “caccia alle streghe”. La guerra fredda generò, sul piano internazionale una forte contrapposizione fra blocchi militari che si fronteggiarono in Europa in una guerra simulata intorno ad un confine percepito come una “cortina di ferro”. Sul versante interno la guerra fu combattuta identificando come nemici gli attivisti del partito comunista, i funzionari pubblici, gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, sospettati di simpatie comuniste o, semplicemente, antifascisti. Professare idee non conformi alla narrazione ideologica ufficiale, o essere semplicemente sospettati di averle, comportava ogni genere di discriminazione o di esclusione dalla vita sociale. Il film Il prestanome   di Woody Allen (1976) rievocò in modo magistrale la condizione dell’industria culturale nel periodo del maccartismo, quando centinaia di attori, registi e sceneggiatori, sospettati di idee sovversive, furono iscritti nella cosiddetta lista nera in seguito alle indagini della Commissione per le attività antiamericane, perdendo ogni possibilità di continuare a lavorare.

Adesso che lo spirito e la cultura della guerra fredda è ritornato in auge, attraverso la guerra calda combattuta contro la Russia sulla pelle della popolazione ucraina, ci tocca assistere anche al ritorno del maccartismo. Incredibilmente il Parlamento Europeo, che dovrebbe essere la culla dei diritti di libertà, faticosamente conquistati dai popoli europei, ha resuscitato il maccartismo, calpestando i principi solennemente sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalle tradizioni costituzionali comuni ai suoi Stati membri. Lo ha fatto con una Risoluzione approvata l’8 febbraio 2024 avente ad oggetto l’ingerenza russa nei processi democratici europei. Il leit motiv della Risoluzione è lo stesso posto a fondamento del maccartismo: c’è uno Stato nemico (la Russia) i cui “agenti di influenza prendono attivamente di mira tutti i settori della vita pubblica, in particolare la cultura, la memoria storica, i media e le comunità religiose, nonché i politici e le loro famiglie” diffondendo la manipolazione delle informazioni. Vi sono esponenti politici che, prezzolati o meno, assumono posizioni filorusse, volte ad alleviare le sanzioni e l’isolamento internazionale della Russia, col rischio di influenzare i Governi e lo stesso Parlamento europeo. Coloro che dissentono dalla verità ufficiale del Parlamento Europeo che ha identificato la Russia, (già qualificata Stato sponsor del terrorismo), come il nemico contro il quale bisogna prepararsi a combattere, sono le quinte colonne del nemico, che bisogna smascherare e mettere a tacere.  Per combattere meglio la disinformazione e la minaccia di ingerenze straniere, la Risoluzione raccomanda “una più stretta cooperazione con la NATO”. Dunque le c.d. “attività antiamericane” che ossessionavano il sen. MacCarty che ritornano in salsa europea e spingono il Parlamento Europeo a dichiarare che l’ingerenza russa, attraverso le quinte colonne europee “non deve restare impunita”.

La Risoluzione infine: “sottolinea il ruolo chiave del giornalismo investigativo nel rivelare i tentativi di ingerenza straniera e attività occulte”, evidentemente apprezzando quei giornali che, anche in Italia hanno costruito le liste di proscrizione dei filoputiniani, mentre si dimentica di Julen Assange, che rischia la condanna a morte nelle carceri americane per aver rivelato i crimini di guerra dello zio Sam.

Si dice che le tragedie storiche quando si ripetono si trasformano in farsa; anche in questo caso il maccartismo in salsa europea ha il sapore di una farsa, soprattutto perché in Europa la caccia alle streghe è un po’ più difficile da attuare a causa dei vincoli fastidiosi del diritto. Tuttavia la farsa può trasformarsi in tragedia poiché la delegittimazione politica di ogni pensiero critico può favorire l’avverarsi della profezia nera della guerra inevitabile con la Russia, rilanciata, da ultimo, dall’Ammiraglio olandese Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO. Bauer il 18 gennaio ha dichiarato: “Vivere in pace non è un dato di fatto. Ed è per questo che ci stiamo preparando per un conflitto con la Russia”, che potrebbe scoppiare entro “i prossimi 20 anni”. Dobbiamo evitare che la previsione dell’Ammiraglio Bauer diventi una profezia che si autoavvera. Durante le fasi più acute della Guerra Fredda, nessun leader politico o militare si era mai azzardato a dichiarare inevitabile la guerra totale con l’URSS, che infatti è stata evitata. Forse sarebbe il caso di rassegnarsi un po’ di meno alla guerra e prepararsi alla pace, valorizzando il naturale istinto di sopravvivenza del genere umano.

(articolo pubblicato sul Fatto Qutidiano del 16 febbraio 2024 con il titolo: Il maccartismo europeo sogna 20 anni di guerra)

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/02/maccartismo-in-salsa-europea/

LEGGI ANCHE: https://cambiailmondo.org/2024/02/19/la-ridicola-isteria-russofoba-del-parlamento-europeo/

Il neocolonialismo del premier Meloni

di Monica Di Sisto

Il “Piano Mattei” tra pomposa propaganda e misera realtà.

“Signora presidente del Consiglio, sul piano Mattei avremmo auspicato di essere consultati”. Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, ha aperto con queste parole il proprio intervento al Vertice Italia-Africa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha promosso sotto i propri diretti auspici con ministri e capi di Stato del continente africano.

Faki, dopo aver ascoltato le proposte della presidente del Consiglio culminate nel cosiddetto “Piano Mattei”, di cui molto si parla ma che non è dato conoscere nemmeno al Parlamento italiano come documento ufficiale comprensivo di progetti e cifre specifiche, ha precisato che “l’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione. È necessario passare dalle parole ai fatti, non ci accontentiamo di promesse che poi non sono mantenute”.

“Per me i partiti politici sono come i taxi: li prendo perché mi conducano dove voglio, io pago la corsa e scendo”: è una delle frasi più celebri che si attribuiscono a Enrico Mattei, dirigente pubblico fondatore di imprese (all’epoca di Stato) come Eni, Saipem e Agip Gas. E a chi scrive la presidenza Meloni sembra l’ennesimo taxi di passaggio che alcune imprese e gruppi di interessi italiani e transnazionali – noti e meno noti – prenderanno, addebitando la corsa al contribuente col pretesto di un viaggio in Africa che non è certo sarà nemmeno raggiunta. Quindi il presidente Faki fa bene ad essere un po’ preoccupato. E noi con lui.

I fondi che finanzieranno il cosiddetto Piano Mattei ammontano a cinque miliardi e mezzo di euro, ma non sono “soldi freschi” ma già promessi: una parte consistente, circa tre miliardi di euro, vengono dal Fondo italiano per il clima, la restante parte dal bilancio, esiguo, degli interventi di Cooperazione allo sviluppo. A mezzo stampa stiamo apprendendo, per voce degli assegnatari dei progetti, che serviranno a coltivare semi oleosi per i biocarburanti, a insegnare agli africani a fare i mercatini contadini come li facciamo in Italia, a costruire impianti con cui liberare i cereali dalle tossine, e poi infrastrutture energetiche con cui l’Europa potrà continuare a estrarre energia dalla sponda sud del Mediterraneo. Ci sono alcune nostre imprese che sistemeranno delle scuole, altre che pianteranno dei pannelli.

Siamo comunque sempre nel regno selle dichiarazioni e delle ipotesi, perché alle associazioni italiane che fanno progetti di cooperazione lo Stato chiede, per somme anche piccolissime, progetti dettagliati, preventivi, bilanci e accurate descrizioni degli interventi con tanto di numero di beneficiari, previsioni di ricadute e lettere di istituzioni e organizzazioni dei Paesi interessati che garantiscano la necessità e bontà delle proposte. Ai promotori dei progetti del Piano Mattei, niente: non un bando, non una gara, nessun percorso trasparente e verificabile da parte del cittadino-contribuente. Se non ne sappiamo nulla noi, figuriamoci il presidente Faki.

Uno dei primi incidenti diplomatici dell’attuale presidente del Consiglio è stato quello di scambiare un comico-imitatore proprio per il presidente Faki, e di essere registrata mentre pensava di tessere importanti relazioni diplomatiche. Ora siamo noi cittadini ad ascoltare l’imitazione un po’ pomposa, ma decisamente rabberciata, di un vero piano di cooperazione internazionale. E poco importa che la presidente conservatrice della Commissione europea, Ursula von der Leyen, accompagnata dall’altrettanto conservatrice presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, si siano precipitate a lodare il “Piano che non c’è”. In campagna elettorale, lo sappiamo, ogni imitazione vale.

Ma è il franco richiamo del chadiano Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana – “Quello vero”, come ha detto Giorgia Meloni, non quello imitato dai due comici russi nella finta telefonata a Palazzo Chigi – a richiamare alla realtà.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-03-2024/3058-il-neocolonialismo-del-premier-meloni-di-monica-di-sisto

Ebrei e israeliani sull’orlo di una separazione. Il “caso” di Torino.

di Moni Ovadia

Lo spunto per questa riflessione, l’incipit di un articolo sulL’ ebraismo di Philip Roth pubblicato sull’ultimo numero del settimanale statunitense The Nation a firma di Eric Alterman.

Queste le sue parole: «I media hanno avuto recentemente un risveglio riguardo ad un fenomeno spesso argomento di discussione sulle pagine di questa rivista: che la cultura ebraica americana mainstream e la cultura israeliana mainstream sono nel corso di una separazione permanente dei loro cammini…Una recente indagine promossa da un comitato ebraico-americano, secondo quanto riportato da William Galstone sul Wall Street Journal, dice che Israele è uno stato rosso (repubblicano) e l’ebraismo americano è uno stato blu (democratico). Loro odiano Obama e amano Trump; noi il contrario. Loro vogliono mantenere i loro insediamenti e occupare il West Bank per sempre, si fotta la democrazia; noi siamo ancora democratici. Loro non sono per nulla disturbati dagli orrori di ciò che avviene a Gaza; noi ne siamo turbati. Loro permettono a Rabbini fondamentalisti di dire chi possono sposare, chi può essere sepolto e dove e persino chi è e chi non è un vero ebreo. Noi chiamiamo tutto ciò una porcheria!».

Mi scuso per questa lunga citazione ma la ritengo necessaria per il lettore italiano che è tendenzialmente disinformato su ciò che si muove nel mondo ebraico e in particolare nella più grande comunità ebraica della diaspora riguardo alla realtà israeliana, al netto della retorica e della propaganda sionista e soi- disant «filo-semita».

È bene ricordare almeno che il sostegno delle organizzazioni sioniste e pro governo israeliano a Trump, fingono artatamente di ignorare che il tycoon repubblicano è stato votato da nazisti, suprematisti bianchi, razzisti e antisemiti a vario titolo.

Ma per riportare la questione al piccolo e rigido microcosmo delle principali istituzioni ebraiche del nostro paese, esse perseguono con miope accanimento la trasformazione dell’ebraismo italiano organizzato in legazioni diplomatiche del governo di Bibi Netanyahu.

I dirigenti delle nostre comunità probabilmente ricevono ordini precisi e li eseguono con zelo.

Il primo «comandamento» da seguire è: Il governo e l’esercito di Israele hanno sempre ragione.

Il secondo è: gli israeliani sono sempre vittime anche se muoiono i palestinesi.

Terzo chi difende i diritti autentici del popolo palestinese è un agente di Hamas.

Quarto, chi denuncia ingiustizie, sadismi, stillicidi perversi contro i civili palestinesi è un antisemita e così via.

Per servire in modo non rischioso lo scopo di assolvere sempre e comunque il governo israeliano c’è la tecnica del silenzio omertoso o quello di contrastare ogni iniziativa di confronto sul tema dei diritti violati del popolo palestinese da parte dei militari o dei coloni israeliani.

E, nel caso che qualche associazione o qualche gruppo riesca egualmente ad organizzare incontri e confronti sul tema, la immancabile reazione delle comunità ebraiche è quella di intervenire sulla stampa o sui media criminalizzando gli organizzatori.

Il lettore si domandi se ha mai visto affrontare il tema della ultracinquantennale occupazione e colonizzazione israeliana della Palestina in uno dei principali talk show politici? Impossibile.

In questo quadro si inserisce il recentissimo episodio accaduto a Torino dove il consiglio comunale del capoluogo piemontese ha approvato un ordine del giorno in cui si esprime una condanna nei confronti dell’uso spropositato della forza da parte di Israele contro manifestanti disarmati di Gaza che legittimamente manifestavano contro la sciagurata decisione presa da parte del governo Trump in accordo con il plaudente Netanyahu di spostare l’ambasciata Usa a Gerusalemme, in violazione delle risoluzioni dell’Onu.

L’ordine del giorno chiedeva anche di chiamare Israele alle sue responsabilità verso i civili come potenza occupante.

Subito si è levata la canea della Comunità ebraica torinese al grido di «antisemiti» e di «offesa agli ebrei».

Di questo si occupano invece di prendere coscienza della catastrofe incombente sull’ebraismo e sui suoi valori.

FONTE: https://ilmanifesto.it/il-caso-di-torino-ebrei-e-israeliani-sullorlo-di-una-separazione

Ormai il re è nudo. Bce: “la recessione resta uno scenario possibile” – (Economia di guerra oggi, parte VII)

di Andrea Vento (*)

I nefasti effetti delle politiche Ue connesse alla guerra in Ucraina: a 21 mesi dai primi provvedimenti ai danni della Russia, seguiti dalla rinuncia al gas di Mosca e dal rialzo dei tassi finalizzati alla riduzione dell’inflazione, l’economia europea, contrariamente a quella Usa, dopo aver subito un marcato rallentamento, ora intravede lo spettro della recessione.

Già da un anno a questa parte1, le analisi del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati avevano evidenziato l’emergere di effetti negativi sulle economie europee a seguito degli sviluppi dell’escalation della guerra in Ucraina successivi al 24 febbraio 2022. Ripercussioni principalmente riconducibili alla frattura geoeconomica creata nell’est europeo dall’Occidente tramite le varie tranche di sanzioni, il piano REPowerEu e il sabotaggio dei gasdotti North Stream 1 e 2, oltre alle inevitabili contromisure di Mosca.

L’aumento del costo del gas iniziato, sotto l’azione della speculazione finanziaria, nella tarda primavera del 2021, e decollato a livelli record nel corso del 20222, si è riflesso sul costo dell’energia per imprese e famiglie e, a cascata, su tutti i beni di consumo, determinando, dopo anni di quiescenza, una rapida impennata inflazionistica. Il generalizzato aumento dei prezzi al consumo ha negativamente impattato sul potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni, mettendo in crisi bilanci familiari e domanda interna.

I successivi interventi della Bce, in ottemperanza ai dettami della dottrina economica ortodossa, sono stati caratterizzati da 10 rialzi consecutivi del tasso di riferimento, in 15 mesi, salito da zero di inizio luglio 2022 al 4,5% del 20 settembre 2023, soglia oltre la quale la presidente Christine Lagarde al momento non sembra intenzionata a procedere (grafico 1).

Grafico 1: i 10 rialzi del tasso di riferimento della Bce da inizio luglio 2022 al settembre 2023. Fonte Bce

La stretta monetaria in questione, attuata con l’obiettivo di contenere il rialzo dei prezzi tramite il raffreddamento dell’economia, è riuscita, in effetti, nell’arco di un semestre, dopo aver toccato il suo apice nel novembre 2022,3 a far ripiegare verso il basso la curva dell’inflazione, tuttavia rivelandosi medicina amara. Infatti, l’aumento del costo del denaro per famiglie (prestiti al consumo e mutui) e imprese (investimenti produttivi ), sommato alla flessione dei consumi causata dalla riduzione dei salari reali (salari nominali al netto dell’inflazione) ha inevitabilmente generato una contrazione della domanda aggregata (consumi privati e investimenti produttivi ) sfociata, come previsto anche dai vari Outlook del Fmi, in un marcato rallentamento economico (tab. 1).

Tabella 1: previsioni e dati definitivi in % anni 2022, 2023 e 2024 degli Word Economic Outlook Fmi

Tipologia di datiPrevisioni 2022Definitivo 2022Previsioni 2023Previsioni 2023Previsioni 2023Previsioni 2023Previsioni 2024
Economic Outlook Fmi emesso a:Aprile 2022Luglio 2023Gennaio 2023Aprile 2023Luglio 2023Ottobre 2023Ottobre 2023
Economia mondiale3,63,52,92,83,03,02.9
Russia-8,5-2,10,30,71,52,21,1
Stati Uniti3,72,11,41,61,82,11,5
Germania2,11,80,1-0,1-0,3-0,50,9
Italia2,33,70,60,71,10,70,9
Cina4,43,05,25,25,25,04,2
India8,27,26,15,76,16,36,3

A completamento del poco confortante quadro è significativo aggiungere, nello specifico per il nostro Paese, l’impatto negativo che si riverserà sul bilancio pubblico a causa dell’aumento del costo degli interessi sul debito pubblico4, previsto per il 2024 in decisa crescita a circa 100 miliardi di euro.

Il ruolo fondamentale rivestito dai flussi e conseguentemente dal costo del gas sia nella genesi dell’impennata inflazionistica, che dei successivi sviluppi negativi, viene confermato dall’interessante Working Papers di Banca Italia dal titolo “Il ruolo macroeconomico del mercato del gas”5, uscito a metà novembre 2023. Prendendo in esame il periodo 2010-2022, il Centro studi di via Nazionale arriva alla conclusione che “Le restrizioni (sul gas. ndr) causano un rallentamento dell’attività economica e un rialzo dell’inflazione, come avviene nel caso di shock all’offerta di petrolio, ma la peculiare struttura del mercato del gas fa sì che tali effetti si materializzino molto gradualmente, con un picco di inflazione per i beni non energetici che segue di oltre due anni lo shock iniziale”.

Considerando anche le peculiarità della crisi energetica iniziata nel 2021, in termini di un primo shock iniziale del dicembre del 2021 a circa 110 euro a MegaWatt/ora causato dell’attività speculativa, e da un apice assoluto a 222 euro nell’agosto del 2022, in piena fase di ridefinizione della geografia degli approvvigionamenti da parte dei Paesi europei, l’inflazione sembrerebbe aver definitivamente imboccato la via della riduzione ormai dal secondo semestre di quest’anno, in anticipo rispetto alla media individuata dallo studio di Banca Italia.

Nell’ultimo rapporto del 17 novembre dell’Eurostat6 apprendiamo infatti che “Il tasso di inflazione annuale dell’area euro è stato del 2,9% nell’ottobre del 2023, in calo rispetto al 4,3%. Un anno prima era del 10,6%”. A cosa possono essere ricondotte le cause della marcata flessione dell’inflazione dell’Eurozona dal 5,2% di agosto al 2,9% di ottobre?

La risposta, anche in questo caso, la fornisce un rapporto di una autorevole istituzione europea. E’ infatti proprio la Bce nel suo Financial Stability Review del 22 novembre u.s. a mettere in allarme del fatto che “La recessione resta uno scenario possibile di fronte al deterioramento del già debole scenario economico. I numerosi tagli alle stime e sorprese economiche negative (derivanti dalla guerra a Gaza.ndr) confermano un quadro debole con consistenti rischi al ribasso”. Specificando ulteriormente che “Il pieno impatto dell’aumento dei tassi sull’economia deve ancora materializzarsi”.7

Conclusioni

Cercando di mettere ordine nella successione degli eventi che hanno portato l’economia dell’Eurozona addirittura sull’orlo di una possibile recessione, è necessario risalire in primis all’attività speculativa sul gas sul mercato TTF di Amsterdam, a partire dal giugno 2021, e alla successiva scellerata decisione dei Paesi europei di assecondare le richieste di Washington riguardanti l’applicazione delle sanzioni alla Russia a partire addirittura dal giorno antecedente l’inizio dell’operazione militare speciale russa, e, infime, al Piano REPowerEu del maggio successivo, con il quale abbiamo rinunciato al conveniente gas proveniente via tubo dalla Russia.

Le undici tranche di misure restrittive adottate ai danni di Mosca, con il dodicesimo pacchetto attualmente in fase di definizione8, al riscontro oggettivo hanno finito per impattare maggiormente sulle economie dei Paesi europei, previsti per quest’anno dall’ultimo Outlook del Fmi di ottobre ai limiti della stagnazione al solo +0,79, con la Russia, che ne doveva uscire “con le reni spezzate”, invece in crescita del 2,2% (tab. 1).

L’aumento del costo del gas, soprattutto il Gnl importato via nave, l’impennata inflattiva, il rialzo dei tassi e la contrazione di consumi e investimenti hanno completato il quadro a tinte fosche dell’economia dell’Eurozona del 2023. La discesa in recessione della potente locomotiva tedesca fin dall’anno in corso (-0,5% per il Fmi, tab. 1), non casualmente l’economia europea maggiormente integrata a quella Russia fino a febbraio 2022, sommata agli altri fattori enunciati dalla Bce, potrebbero quindi, secondo l’istituto di Francoforte spingere in terreno negativo l’intera Eurozona nel prossimo anno, anche in considerazione della prospettiva ventilata da Christine Lagarde di mantenere ad alti livelli il proprio tasso di riferimento.

Di fronte alle critiche condizioni attuali e alle preoccupanti previsioni per il prossimo futuro che caratterizzano l’economia dell’Eurozona e la tenuta dei conti pubblici nazionali10, sommate all’aggravarsi della crisi sociale in corso11, gli analisti del Giga vorrebbero porre da tempo alla nostra classe dirigente, nazionale e comunitaria, fra tutte due domande:

1) Sussisteva realmente la convinzione, come lasciava intendere la poco felice uscita di Mario Draghi: “Dobbiamo scegliere fra l’aria condizionata accesa e la pace”, che rinunciando al gas a basso costo e alle altre materie prime russe, oltre alle esportazioni verso Mosca, quest’ultima avrebbe avuto un contraccolpo economico tale da indurla a ritirarsi dall’Ucraina? Ciò in quanto, l’economia russa, al riscontro oggettivo, non solo non è crollata come previsto in Occidente nei primi mesi dello scorso anno (da -8,5 di aprile al -2,1% finale, tab.1) ma, addirittura, ha registrato nel 2022 un incremento di circa l’80% del saldo della bilancia commerciale rispetto all’anno precedente (tab. 2).

Tabella 2: interscambio commerciale globale Russia anni 2020-22.

Fonte: http://www.infomercatiesteri12

Interscambio commerciale Russia

2020 Dati rilevati2021 Dati rilevati2022 Dati stimati
Valore export totale (mld €)301,1431495,4
Valore import totale (mld €)206,9257228,8
Saldo bilancia commerciale (mld €)94,2174266,6

2) E inoltre, la pedissequa applicazione delle direttive di Washington, sia in termini economici che geopolitico-militari, è stata effettuata senza valutarne appieno le probabili ricadute negative o eravate consapevoli dei rischi ed avete agito esclusivamente in nome della subalternità atlantista?

I ceti popolari europei, e soprattutto italiani, oppressi da un’altra crisi economico-sociale a soli tre anni da quella pandemica, hanno il dovere di sapere se la nostra classe politica, trasversalmente ai vari schieramenti politici, sia composta da incapaci e improvvisati, oppure da servili masochisti.

Tale legittima richiesta assume ancor maggiore importanza alla luce del fatto che mentre l’Eurozona sta subendo un forte rallentamento, e addirittura la Bce paventa una possibile recessione, l’economia degli Stati Uniti, vero burattinaio delle vicende ucraine, sta, ad ogni Outlook 2023 del Fmi, incrementando le previsioni di crescite per l’anno in corso, fino al +2,1% ad ottobre (tab. 1) e la bilancia commerciale, grazie anche all’esportazione di Gnl in Europa, secondo le attese, registrerà il più basso deficit da tre anni a questa parte. Quest’ultimo su base mensile sceso a soli -58,6 miliardi di dollari ad agosto di quest’anno dai -89,2 di gennaio e febbraio 2022, prima dell’escalation del conflitto in Ucraina13. Evidentemente a qualcuno la guerra giova… E ciò, mentre il saldo commerciale dell’Unione Europea è colato decisamente a picco nel 2022 a -432,6 miliardi di euro, dai +54,5 dell’anno precedente e, addirittura, dai +215,3 del 2020 (tab.3), a causa dell’aumento della bolletta energetica, gas in primis.

Cronaca di un disastro annunciato, parafrasando Marquez, verrebbe da concludere, anche se a Bruxelles si stanno ostinatamente sforzando di far finta di niente.

Tabella 3: valore dell’export, dell’import e del saldo commerciale di soli beni dell’Unione europea coi Paesi extra-Ue in miliardi di euro, periodo 2020-2022. Fonte: Eurostat14 – Rielaborazione: Giga

Bilancia commerciale Unione europea coi paesi extra-Ue
AnnoEsportazioniImportazioniSaldo
20201.932,71.717,4+ 215,3
20212.180,72.126,2+ 54,5
20222.571,43.004,0– 432,6

(*) Andrea Vento – 24 novembre 2023

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

1 Guerra in Ucraina: un primo bilancio delle sanzioni contro la Russia

2 La quotazione del gas è passato da 20.37 euro a MegaWatt/ora di maggio 2021 ai 222,33 euro di agosto 2023 sul mercato TTF di Amsterdam

3 L’inflazione ha raggiunto il suo apice di 10,1% nell’Eurozona e al 11,1% in Italia nel novembre 2022

4 Il debito pubblico italiano ha raggiunto la considerevole cifra di 2.840 miliardi euro

5 Banca d’Italia – N. 1428 – Il ruolo macroeconomico del mercato del gas (bancaditalia.it)

6 https://formatresearch.com/2023/11/17/eurostat-inflazione-annua-area-euro/

7 https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2023/11/22/bce-la-recessione-resta-possibile-rischi-consistenti_fce8f1b4-ce16-47c3-a643-675fae2b91bd.html

8 https://www.eunews.it/2023/11/15/sanzioni-ue-russia-ventisette/

9 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2023/10/10/world-economic-outlook-october-2023

10 Col fantasma del Patto di stabilità che si riaffaccia dietro l’angolo

11 Caritas 17 novembre 2023 nel 2022 si stimano oltre 5,6 milioni di poveri assoluti, pari al 9,7% della popolazione (erano il 9,1% nel 2021), ossia un residente su dieci. Sono scivolati nella povertà assoluta altre 357mila persone. 

12 https://www.infomercatiesteri.it/indicatori_macroeconomici.php?id_paesi=88#

13 https://it.tradingeconomics.com/united-states/balance-of-trade

14https://ec.europa.eu/eurostat/databrowser/view/EXT_LT_INTERTRD__custom_5507953/bookmark/table?lang=en&bookmarkId=ef704ca5-8523-4e0d-b22f-c34fba0e0159

Autonomia differenziata: Il pericolo della secessione dei ricchi

E’ in discussione al Senato il disegno di legge che aprirebbe la strada alla concessione di poteri e risorse finanziarie assai più rilevanti alle Regioni che fanno richiesta di autonomia differenziata. Ciò metterebbe a repentaglio l’unità d’Italia e configurerebbe una “secessione dei ricchi”, a partire dalla sanità

di Gianfranco Viesti

Quali sono il quadro e le prospettive del regionalismo italiano, e più in generale lo stato del decentramento politico e amministrativo nel nostro paese? Si tratta di una domanda importante, che riguarda il potere e i diritti dei cittadini in Italia: i livelli di governo che hanno maggiore possibilità, per competenze e risorse economiche, di prendere le decisioni più importanti sulle grandi politiche pubbliche; e come e quanto, a seconda dell’organizzazione del potere, possono essere garantiti i diritti costituzionali dei cittadini nei diversi territori del paese. Temi con una grande valenza politica, che influenzano tanto i principi di parità dei diritti di cittadinanza degli italiani quanto il funzionamento di alcuni grandi servizi pubblici nazionali, a partire dalla scuola.

La questione è analizzata nel mio volume Contro la secessione dei ricchi, le cui tesi di fondo sono due. La prima è che il grande processo di decentramento dei poteri, in particolare a favore delle Regioni –  avviato  in Italia negli anni Novanta e fortemente consolidato dalla riforma costituzionale del 2001 – ha determinato un quadro assai insoddisfacente, ricco di conflitti e di problemi, che merita senz’altro una paziente e incisiva azione di miglioramento e di riforma, senza eccessivi sbandamenti nelle opposte direzioni di un maggiore accentramento o di un ulteriore decentramento dei poteri. 

La seconda tesi è che il dibattito politico degli ultimi anni non è orientato a risolvere questi problemi, ma a crearne di nuovi, gravi. È incentrato sulle richieste di decentramento asimmetrico e di maggiori poteri e maggiori risorse, ai sensi del terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. 

Il regionalismo differenziato, per come sono state concretamente formulate le richieste prima da tre Regioni e poi da altre, è un processo da evitare perché peggiorerebbe la situazione d’insieme, concentrerebbe troppo potere nelle mani di pochi presidenti di Regione e renderebbe ancora più difficile garantire i diritti civili e sociali a tutti i cittadini. Dunque, avrebbe conseguenze negative sull’intero paese e sui suoi cittadini anche per molti versi, quelli delle stesse regioni che desiderano nuove competenze. Non si tratta infatti di decentramento, bensì di una sostanziale “secessione dei ricchi”.

Con “secessione dei ricchi” si definisce il processo che si avvierebbe con la concessione alle Regioni delle nuove competenze così come richieste. La parola “secessione” è usata per richiamare una separazione che, seppure non di diritto, sarebbe nei fatti. Le Regioni dotate di maggiori autonomie si configurerebbero infatti come delle Regioni-Stato, seppur formalmente ancora dentro la cornice nazionale. Esse godrebbero di poteri estesissimi e delle risorse per esercitarli, anche se in modo differenziato fra di loro. Parallelamente, si avrebbe un depauperamento della capacità del governo e del Parlamento italiano di affrontare questioni vitali con le politiche pubbliche ritenute più opportune. A essi rimarrebbero ritagli di competenze per ritagli di territori: l’Italia diventerebbe un paese arlecchinesco, confuso, inefficiente.

La secessione è dei ricchi in due sensi. In senso geografico, perché le nuove Regioni-Stato includerebbero inizialmente quelle più ricche, che hanno avviato il processo,  con una cesura rispetto al resto del paese. All’obiezione che già oggi le disparità territoriali sono significative è facile replicare: esse sono un dato di fatto che, a norma della Costituzione, si cerca di contrastare; con l’autonomia regionale differenziata diverrebbero disparità previste dalle norme. Lo è in senso economico-sociale, poiché il processo è spinto dal desiderio degli amministratori di queste comunità di poter disporre di una parte del gettito delle tasse pagate nelle loro Regioni superiore a quanto oggi lo Stato spende nei loro territori. Risorse che, a norma di Costituzione, devono essere utilizzate per fornire essenziali servizi pubblici, e quindi garantire diritti di cittadinanza, a tutti gli italiani, indipendentemente dal luogo in cui vivono. In Italia vigerebbe una sorta di ius domicilii, che lega i diritti alla residenza.

Per argomentare queste conclusioni è utile, in primo luogo, una comparazione internazionale: la realtà dei paesi europei è profondamente diversa. Negli ultimi decenni è generalmente cresciuto il grado di decentramento, anche se esso continua a presentare grandi differenze fra paesi come Germania e Spagna, da un lato, e Francia, dall’altro. Non è possibile individuare un livello ottimale di trasferimento di poteri dallo Stato nazionale verso regioni ed enti locali: vi sono, in teoria e nell’esperienza internazionale, vantaggi e svantaggi di cui bisogna tenere attentamente conto. Vi sono poi esperienze di decentramento asimmetrico, cioè di poteri diversi attribuiti a enti dello stesso livello di governo, e anch’esse sono in aumento. Tuttavia, riguardano principalmente il governo delle città e non le Regioni.

Il caso spagnolo è di particolare interesse, soprattutto perché in quel paese vi è un decentramento asimmetrico dei poteri e dei meccanismi finanziari delle comunità autonome (assimilabili alle Regioni italiane); ma proprio le vicende spagnole del XXI secolo mostrano i rilevanti rischi di conflitto associati a queste asimmetrie. L’Europa ha visto vere e proprie secessioni: ma attualmente, nei paesi membri dell’UE, sono assai più interessanti le dinamiche che possono portare a “secessioni di fatto” per cui l’unità nazionale è modificata sostanzialmente anche se non formalmente.  

In Italia il ruolo degli enti locali e in particolare delle regioni è fortemente cresciuto dopo la riforma costituzionale del 2001. Ma l’assetto che ne è scaturito è largamente insoddisfacente. Il quadro dei poteri è confuso e conflittuale; nei primi venti anni del secolo, il livello di governo nazionale si è indebolito e si è fortemente accresciuto il ruolo delle regioni e dei loro presidenti, con atteggiamenti di “sovranismo regionale” volti ad accrescere il loro potere e la loro capacità di intermediare risorse pubbliche. Province e aree metropolitane sono in una situazione di grande incertezza, mentre i comuni – storicamente perno del governo locale in Italia e più vicini ai cittadini – sono schiacciati dalla carenza di risorse e dal controllo che le Regioni esercitano su di loro. Per di più le autonomie speciali esistenti determinano rilevanti, ingiustificate iniquità. In questo quadro i cittadini non hanno la possibilità di conoscere e giudicare ciò che i loro amministratori fanno, e il livello centrale non interviene per garantire i loro diritti, come è evidente nel caso della sanità. Tuttavia, alla fine degli anni Venti la pandemia Covid ha tragicamente mostrato i costi di questa situazione, e la più importante iniziativa di politica economica, il Pnrr, ha visto una forte centralizzazione del potere nell’esecutivo nazionale.

Gli aspetti economici dell’attuale decentramento italiano sono definiti dalla legge 42 del 2009 – che mira ad attuare i nuovi articoli della Costituzione relativi al finanziamento di Regioni ed enti locali –, inclusi i capisaldi dell’intero meccanismo: i livelli essenziali delle prestazioni, cioè il nucleo dei diritti sociali e civili da definire e garantire a tutti i cittadini sull’intero territorio nazionale; e i fondi perequativi, volti a determinare parità nei finanziamenti a realtà amministrative operanti in territori con diversa ricchezza. Ma la legge ha fatto pochissimi passi in avanti. Quasi nessuno per quanto riguarda le Regioni, anche considerando che il finanziamento della loro principale voce di bilancio, e cioè la sanità, non tiene conto dei fabbisogni di salute della popolazione: in sanità i livelli essenziali di assistenza esistono da molto tempo, ma sono irrilevanti per determinare fabbisogni e finanziamenti. Per quanto riguarda i comuni, invece, la legge 42 è stata estesamente applicata, anche grazie a un importante sforzo tecnico. Ma a lungo in modo distorto: in assenza dei Lep, i fabbisogni sono stati rapportati alla spesa storica; il fondo di solidarietà comunale procede con tempistiche assai lente, e dovrebbe andare a regime solo trent’anni dopo la riforma costituzionale. In questo quadro, tuttavia, vi sono anche esempi positivi: è il caso del Lep relativo ai nidi fissato nel 2022, e accompagnato da finanziamenti aggiuntivi per consentire a tutti i comuni di realizzarlo. Vicenda che mostra come siano necessari una volontà politica determinata e un attento disegno tecnico per procedere verso una maggiore uguaglianza fra i cittadini.

Ma questi temi non sono sull’agenda politica. Dominano le vicende dell’autonomia differenziata, che fu originata dalle richieste delle giunte regionali di Veneto e Lombardia di acquisire tutte le competenze possibili mantenendo nel loro territorio una parte di quello che definiscono il loro residuo fiscale; e che ha preso slancio quando l’Emilia-Romagna guidata dal Partito democratico, avanzò analoghe richieste. A inizio 2018 il governo Gentiloni ha siglato pre-intese dai contenuti estremamente discutibili con le tre Regioni. Il successivo governo Lega-Movimento 5 Stelle è arrivato davvero a un passo dal concedere tutti i poteri e i privilegi finanziari richiesti, frenato solo da una riconsiderazione del tema da parte dei 5 Stelle. Uscita dalle priorità nel periodo del Covid, l’autonomia regionale differenziata è tornata in primo piano nel 2022 con il governo Meloni, che ha fatto propria una legge-quadro proposta dal ministro leghista Calderoli per favorire il più possibile le richieste regionali.

Perché è una secessione dei ricchi? L’Italia sarebbe radicalmente trasformata con la nascita di Regioni-Stato al suo interno. Esse, infatti, godrebbero di poteri estesissimi in materie fondamentali, dalla scuola alla sanità, dalle infrastrutture all’ambiente, alle politiche industriali e in molti altri ambiti, come è dettagliatamente ricostruito nel volume. Avrebbero fine la scuola pubblica italiana, il Servizio sanitario nazionale, il sistema unitario delle infrastrutture e dell’energia. Il tutto in un quadro di estrema confusione, dato che le competenze richieste dalle Regioni – a cui è assai probabile che si affianchino subito tutte le altre a statuto ordinario – sarebbero comunque differenziate fra loro. Il governo centrale avrebbe poteri residuali, e competenze su ritagli geografici. L’Italia diverrebbe un paese arlecchino, nel quale sarebbe impossibile condurre fondamentali politiche nazionali, anche nel solco di quelle europee; e nel quale il sistema delle imprese andrebbe incontro a crescenti difficoltà per la frammentazione legislativa e operativa che si potrebbe creare in molti mercati, dall’edilizia ai prodotti alimentari.

La secessione dei ricchi si verificherebbe anche per gli aspetti economici. Le Regioni richiedenti mirano infatti a ottenere condizioni vantaggiose del tutto assimilabili a quelle delle autonomie speciali. Veneto e Lombardia hanno da sempre chiaramente collegato le richieste di autonomia al desiderio di trattenere per sé una parte del cosiddetto “residuo fiscale regionale”, cioè di un ipotetico ammontare pari alla differenza fra il gettito fiscale e la spesa pubblica che hanno luogo nei loro confini. Si tratta dei “soldi del Nord” della tradizione leghista: un calcolo fuorviante, che non tiene conto delle disposizioni costituzionali relative alla progressività del prelievo fiscale e all’universalità dell’accesso dei cittadini ai servizi pubblici: i residui fiscali fanno capo agli individui, non ai territori. Lo strumento per ottenerlo è complesso tecnicamente, ma chiaro politicamente: la previsione di un’aliquota di compartecipazione al gettito dei tributi nazionali, che consentirebbe alle Regioni di godere di risorse garantite senza dover tassare i propri cittadini. Risorse che con il tempo potrebbero crescere, a danno degli altri italiani. E nulla si sa circa altri possibili effetti finanziari a loro vantaggio, ad esempio connessi al trasferimento gratuito di parti del patrimonio pubblico nazionale. A poco vale l’enfasi comunicativa sulla contemporanea determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep): a parte le difficoltà tecniche, fissarli senza garantire risorse aggiuntive molto ampie significa cristallizzare le disparità esistenti.

I ministri leghisti a cui è stata affidata la questione – prima nel governo Conte I, poi nel governo Meloni – hanno cercato di prevedere modalità procedimentali per arrivare all’autonomia differenziata, le più favorevoli possibili per le Regioni. Sono basate sulla centralità della trattativa fra gli esecutivi nazionale e regionale, sulla marginalizzazione del ruolo del Parlamento, cui sarebbero affidati compiti di mera testimonianza, sulla massima segretezza possibile sugli specifici contenuti delle intese Stato-Regioni, da tenere accuratamente al riparo dall’attenzione dell’opinione pubblica, sul trasferimento delle fondamentali scelte di dettaglio a commissioni paritetiche, sempre Stato-Regioni, con decisioni anch’esse al riparo dall’intervento del Parlamento e della Corte costituzionale. Il disegno di legge governativo che mira a questi risultati è attualmente (ottobre 2023) in discussione in Senato.

L’Italia ha bisogno di un paziente processo di riscrittura dei suoi assetti decentrati, senza nostalgie centralistiche o fughe in avanti. Le richieste di maggiore autonomia così come presentate dalle Regioni Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna dovrebbero essere respinte; l’articolo 117 della Costituzione rivisto, il terzo comma dell’articolo 116 eliminato, o quantomeno radicalmente trasformato (come proposto da una legge di iniziativa popolare promossa dal Coordinamento per la democrazia costituzionale, pure attualmente in discussione in Senato). Ne va del futuro dell’Italia nei prossimi decenni.

FONTE: https://sbilanciamoci.info/il-pericolo-della-secessione-dei-ricchi/

FERMARE LA TERZA GUERRA MONDIALE – ROMA 26/27 OTTOBRE

CONFERENZA INTERNAZIONALE, Roma, 27-28 ottobre 2023. Hotel Universo, Via Principe Amedeo, 5/b.

La Conferenza Internazionale di Roma “Fermare la Terza Guerra Mondiale. Per una pace vera e giusta“, organizzata dal Fronte Dissenso italiano assieme ad altri movimenti europei e internazionali, sta prendendo slancio. 

Hanno sottoscritto l’Appello che la convoca, oltre a migliaia di cittadini, decine di organizzazioni politiche e movimenti sociali dei diversi paesi e continenti: dalla Russia all’Ucraina, dall’Afghanistan agli U.S.A., dall’India all’Iraq, dalla Cina alla Palestina, dal Brasile alla Palestina, dall’Africa a tanti paesi dell’Europa. Delegazioni da molti di questi paesi saranno presenti alla Conferenza. 

L’iniziativa è rivolta a tutti i cittadini ed ai movimenti per la pace per dare forza alla resistenza contro le élite dominanti dei paesi NATO e contrastare la russofobia e la propaganda basata sulla menzogna della “guerra d’aggressione russa”

L’appello è sostenuto in Italia da personaggi di spicco come il generale Fabio Mini, il fisico Carlo Rovelli, l’ex ambasciatore in Cina Alberto Bradanini, lo storico Franco Cardini.

Alla conferenza parteciperanno tra gli altri l’ex primo ministro slovacco Ján Cˇarnogursky´, l’ex vice ministro della Difesa greco Konstantinos Isychos, il deputato libanese Ali Fayyad (Hezbollah), Karl Krökel degli Artigiani per la Pace di Dessau, Ernesto Arellano segretario della Confederazione Nazionale del Lavoro delle Filippine, la nota attivista pacifista americana Sara Flounders, il politologo olandese Kees van der Pijl, l’intellettuale marxista ungherese Tamás Krausz, il professore ed ex consigliere scientifico di Attac Rudolph Bauer.

La conferenza vuole gettare le basi per una rete internazionale inclusiva, duratura, e ben organizzata per la pace e contro ogni imperialismo. Il programma della conferenza ruota infatti attorno all’elaborazione di una dichiarazione comune per fondare questa rete. A tal fine saranno discusse le cause dei conflitti, anzitutto quello tra la Russia e la NATO in Ucraina, e indicati i compiti ed i passi da compiere per sventare il pericolo di una terza guerra mondiale. Di centrale importanza sarà la discussione sul tramonto del predominio nord-americano e l’avvento di un nuovo ordine mondiale multipolare rispettoso della sovranità dei popoli e degli stati nazionali.

La conferenza di Roma inizierà venerdì 27 ottobre alle ore 10:00, si concluderà sabato 28 ottobre alle ore 13:00. A seguire, a partire dalle ore 15:00, è indetta una manifestazione in Piazza dell’Esquilino a Roma, cui prenderanno la parole i delegati dei diversi paesi.

Per informazioni e ottenere l’accredito stampa:
conferenzainternazionaledipace@gmail.com
www.internationalpeaceconference.info
Tel: +39 320 40 12 846

Per maggiori informazioni: info@frontedeldissenso.it

PIANGERE SU GERUSALEMME

di Raniero La Valle

Dinanzi allo scempio che dilania la Palestina, apriamo il Vangelo e leggiamo che Gesù, ebreo di Galilea, salendo a Gerusalemme, alla vista della città pianse su di essa dicendo: “Gerusalemme, se tu avessi conosciuto ciò che giova alla tua pace!”. Così oggi, come allora Gerusalemme non ha capito dove fosse la sua pace, ha creduto che fosse nella vittoria, mentre la guerra ora caduta su di lei è proprio il salario della vittoria.

Aveva vinto infatti Israele, o almeno così credeva, tanto che i partiti religiosi erano saliti al potere, dimentichi dei moniti a “non forzare il Messia”, e Netaniahu aveva istituito un “governo di annessione ed esproprio”, come scrive Haaretz, e anche il diritto interno era stato piegato, e le difese allentate, come se la pace fosse stata raggiunta, l’atto di fondazione fosse stato innocente e il problema palestinese fosse ormai cancellato e risolto.

A Israele non era bastato vincere tornando nella terra dei padri. Non era bastato occupare la Cisgiordania, non era bastato riaprire i kibbutz che ne erano stati espulsi, non era bastato aprire le terre occupate ai coloni, non era bastato demolire le case dei palestinesi e segregarli oltre muri e chekpoint, non era bastato salire a sfidarli sulla spianata delle Moschee, non era bastato sigillare le frontiere di Gaza e colpirla di embargo, come ora l’affama, le toglie l’acqua e la luce. Israele voleva ormai anche negare, come ha fatto il suo ministro delle finanze Bezalel Smotrich in piena Europa, a Parigi, che i palestinesi esistano: «non esiste un “popolo palestinese”», aveva detto, si tratterebbe di una «finzione» elaborata un secolo fa per lottare contro il movimento sionista; dunque, causa finita.

Non ha capito Israele ciò che Raimundo Panikkar aveva letto in quei circa 8000 trattati di pace, scritti anche sui mattoni, che si sono susseguiti nella storia da prima di Hammurabi ai giorni nostri: che la pace non si raggiunge mai con la vittoria, sicché mentre l’inchiostro o i mattoni sono ancora freschi, già si approntano le lance e i cannoni, e prima o poi il vinto risorge e si vendica. Perciò Israele piange ora sulla vittoria e il rischio è che voglia vincere ancora, e procacciandosi sicurezze ancora maggiori, e devastanti per gli altri, quando il primo a piangere, nella sua tomba, è il premier Rabin, che al suo popolo voleva dare e stava per dare un’altra pace, fondata sulla riconciliazione e sul rispetto l’uno del volto dell’altro (secondo l’invito dell’ebreo Levinas), israeliani e palestinesi insieme: ma prima che la pace fiorisse, e perché non fiorisse, fu abbattuto da fuoco amico.

Non erano mancate altre voci che a Israele avevano indicato un’altra strada, e voci che addirittura venivano da reduci del genocidio nazista, scampati alla Shoà, come Yehuda Elkana, illustre filosofo e storico della scienza in Israele. Nato in Serbia, aveva raccontato su Haaretz (2.3.1988) di essere stato portato con i suoi genitori ad Auschwitz a soli dieci anni, di essere sopravvissuto all’Olocausto, liberato dall’Armata Rossa e poi immigrato in Israele nel 1948 dopo aver passato alcuni mesi in un “campo di liberazione russo”. E aveva scritto: “Dalle ceneri di Auschwitz sono emerse una minoranza che afferma che “questo non deve accadere mai più” e una maggioranza spaventata e tormentata che dice “questo non deve accaderci mai più.” É evidente che, se queste sono le uniche lezioni possibili, io ho sempre creduto nella prima e considerato l’altra una catastrofe… Se l’Olocausto non fosse penetrato così profondamente nella coscienza nazionale, dubito che il conflitto tra israeliani e palestinesi avrebbe condotto a così tante “anomalie” e che il processo politico di pace si sarebbe trovato oggi in un vicolo cieco.…”.

E in Italia Bruno Segre, nel raccontare in una lunga intervista “Che razza di ebreo sono io”, ha denunciato l’uso strumentale della memoria della Shoah, come si mostrò nella “menzogna raccontata senza pudore” al Congresso sionista mondiale nell’autunno 2015 dal premier Netanyahu, secondo la quale l’idea della Shoah sarebbe stata suggerita a Hitler da Amin al-Husseini, il gran muftì di Gerusalemme. Una bugia “inventata dal premier israeliano – ha detto Segre – per insinuare l’idea che la colpa della Shoah vada attribuita ai palestinesi”, e che vi fosse una continuità fra la Shoah e l’intifada.

E ha scritto Ali Rashid, palestinese a Roma: “Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita. Ma questa catena di morte è inarrestabile? Eppure una volta eravamo fratelli.”

Noi dunque piangiamo con Israele su Gerusalemme, la città divisa che pur unisce due popoli nel dolore, e li abbracciamo nello stesso amore. Ma non così possono piangere quanti hanno concorso alla sciagura di oggi, facendo propria e promulgando senza remore l’ideologia della vittoria, incurante della giustizia e tributaria solo della forza.


CRYING OVER JERUSALEM

by Raniero La Valle

Faced with the havoc that is tearing Palestine apart, let us open the Gospel and read that Jesus, a Jew from Galilee, going up to Jerusalem, at the sight of the city wept over it, saying: “Jerusalem, if you had known what is good for your peace!” So today, as then Jerusalem did not know where her peace was, she believed it to be in victory, whereas the war that has now fallen upon her is precisely the wages of victory.

In fact, Israel had won, or so it believed, so much so that the religious parties had come to power, oblivious to the warnings not to “force the Messiah”, and Netaniahu had set up a “government of annexation and expropriation”, as Haaretz writes, and even domestic law had been bent, and defences loosened, as if peace had been achieved, the founding act had been innocent, and the Palestinian problem had now been erased and resolved.

It was not enough for Israel to win by returning to the land of the fathers. It had not been enough to occupy the West Bank, it had not been enough to reopen the kibbutzim that had been expelled from it, it had not been enough to open the occupied lands to settlers, it had not been enough to demolish the homes of Palestinians and segregate them beyond walls and chekpoints, it had not been enough to go up and challenge them on the Esplanade of Mosques, it had not been enough to seal Gaza’s borders and hit it with an embargo, as it now starves it, takes away its water and light. By now, Israel also wanted to deny, as its finance minister Bezalel Smotrich did in the middle of Europe, in Paris, that the Palestinians exist: “there is no such thing as a ‘Palestinian people’”, he had said, it would be a “fiction” devised a century ago to fight against the Zionist movement; therefore, cause over.

Israel has not understood what Raimundo Panikkar had read in those 8,000 or so peace treaties, also written on bricks, that have followed one another in history from before Hammurabi to the present day: that peace is never achieved by victory, so that while the ink or the bricks are still fresh, spears and cannons are already being prepared, and sooner or later the vanquished rises again and takes revenge. That is why Israel is now weeping over the victory, and the risk is that it wants to win again, and to procure even greater security, and devastating for others, when the first to weep, in his grave, is Prime Minister Rabin, who wanted to give and was about to give his people another peace, based on reconciliation and respect for each other’s faces (according to the invitation of the Jew Levinas), Israelis and Palestinians together: but before peace could blossom, and because it did not blossom, he was shot down by friendly fire.

There had been no lack of other voices pointing Israel in another direction, and voices that even came from veterans of the Nazi genocide, survivors of the Shoah, such as Yehuda Elkana, a distinguished philosopher and historian of science in Israel. Born in Serbia, he had recounted in Haaretz (2.3.1988) how he had been taken with his parents to Auschwitz when he was only ten years old, how he had survived the Holocaust, liberated by the Red Army and then immigrated to Israel in 1948 after spending a few months in a ‘Russian liberation camp’. And he wrote: “Out of the ashes of Auschwitz emerged a minority that says “this must never happen again” and a frightened and tormented majority that says “this must never happen to us again.” It is evident that, if these are the only possible lessons, I have always believed in the first and considered the other a catastrophe… If the Holocaust had not penetrated so deeply into the national consciousness, I doubt that the conflict between Israelis and Palestinians would have led to so many “anomalies” and that the political peace process would have found itself in a dead end today.…”

And in Italy, Bruno Segre, in recounting in a long interview “What kind of Jew am I”, denounced the instrumental use of the memory of the Shoah, as shown in the “lie shamelessly told” at the World Zionist Congress in the autumn of 2015 by Prime Minister Netanyahu, according to which the idea of the Shoah was suggested to Hitler by Amin al-Husseini, the Grand Mufti of Jerusalem. A lie “invented by the Israeli premier,” Segre said, “to insinuate the idea that the blame for the Shoah should be attributed to the Palestinians”, and that there was continuity between the Shoah and the intifada.

And wrote Ali Rashid, a Palestinian in Rome: ‘Like in a “rubbish dump”, the inhabitants of the southern coast of Palestine, victims of ethnic cleansing, ended up in Gaza. According to the new Israeli historians, small or large massacres were carried out to empty every Palestinian town or village, the same happened in the places where the new towns and settlements around Gaza were built, which were the scene of the latest massacres carried out by us Palestinians. It pains me that we have adopted the terror and horror we have suffered to assert our compelling right to life. But is this chain of death unstoppable? Yet we were once brothers.”

So we weep with Israel over Jerusalem, the divided city that yet unites two peoples in sorrow, and we embrace them in the same love. But not so weep those who have contributed to today’s misfortune, embracing and promulgating without hesitation the ideology of victory, heedless of justice and tributary only to force.

Assemblea! Per la Pace, la Terra e la Dignità – diretta web dal teatro Ghione di Roma


L’Appello

Noi sottoscritti, amanti della pace e più ancora della vita, sgomenti per gli sviluppi incontrollati della guerra d’Ucraina e per l’istigazione da parte dei governi a perpetuarla ed estenderla, sentiamo l’urgenza di un impegno personale e intendiamo riunirci in una pubblica Assemblea il 30 Settembre prossimo a Roma per promuovere un’azione responsabile volta ad invertire il corso delle cose presenti, istituire la pace e ristabilire le condizioni di un sereno futuro.

Rivolgiamo perciò un appello:

Ai pacifici, alle donne e agli uomini di buona volontà, ai resistenti perché nessun volto sia oltraggiato e la dignità sia riconosciuta a tutti gli esseri viventi, agli eredi di milioni di uomini e donne che hanno lottato per il lavoro, per l’emancipazione e per la libertà dal dominio pubblico e privato, a quanti si ribellano al sacrificio degli uni per il tornaconto degli altri, ai giovani che abbiamo perduto, a cui non abbiamo saputo garantire il futuro.
Ai credenti e ai non credenti, agli organizzati e ai disorganizzati, ai militanti di tutti i partiti, agli elettori di tutte le liste, agli assenti dalle urne e a quelli di deluse speranze, a quanti godono di buona fama e a chi soffre di una cattiva reputazione, agli inclusi e agli scartati.

Noi ci rivolgiamo a voi non perché siamo più importanti, ma perché siamo voi.
E vogliamo dare una rappresentanza a tre soggetti ideali che ancora non l’hanno o l’hanno perduta, a tre beni comuni: la PACE, la TERRA e la DIGNITÀ.

La Terra: è in pericolo, essa non è un patrimonio da sfruttare, un ecosistema da aggredire, ma la casa comune da custodire, da tornare a rendere abitabile per tutte le creature, da arricchire con i frutti del nostro lavoro e le opere del nostro ingegno.

La Dignità: è la condizione umana da riconoscere, restaurare e difendere. La dignità della libertà e della ragione, del lavoro e del tenore di vita, del migrante per diritto d’asilo e del profugo per ragioni economiche, del cittadino e dello straniero, dell’imputato e del carcerato, dell’affamato e del povero, del malato e del morente, della donna, dell’uomo e di ogni altra creatura.

La Pace: tutti dicono di volere la pace nel mondo, ma questa non si può nemmeno pensare se prima non finisce questa guerra in Europa, dunque è una seconda pace, ed è una bugia quella di chi dice di volere la seconda pace se non vuole e impedisce la prima. Noi sappiamo invece che la pace del mondo è politica, imperfetta e sempre a rischio. È assenza di violenza delle armi e di pratiche di guerra, vuol dire non rapporti antagonistici né sfide militari o sanzioni genocide tra gli Stati, implica prossimità e soccorso nelle situazioni di massimo rischio a tutti i popoli.

Il sistema di guerra è diventato il vero sovrano e comanda ogni cosa, pervade l’economia e domina la politica anche quando la guerra non c’è o non è dichiarata. È questa la ragione per cui la stessa guerra d’Ucraina non riesce a finire, benché in essa entrambi i nemici già ne siano allo stesso tempo vincitori e sconfitti e non finisce perché, così ben piantata nel cuore dell’Europa per rialzare la vecchia cortina sul
falso confine tra Occidente e Oriente, la guerra d’Ucraina, è funzionale o addirittura necessaria a quel sistema, e perciò gli stessi negoziati sono stati proibiti.

È esplosa con la funesta offensiva di Putin ma ha subito suscitato una reazione straordinaria avente lo scopo di dividere l’Europa su una frontiera di odio e di sangue tra Ucraina e Russia, così da lasciare agli Stati Uniti una potenza ineguagliabile, e la Cina come vero e ultimo nemico.

LA TERRA stessa è in pericolo, le politiche ecologiche sono sospese e rovesciate, il clima si arroventa e le acque si rompono. Già ora i Grandi col nucleare sfregiano la Terra (in Ucraina con le bombe ricche di uranio impoverito). Per i potenti della Terra si direbbe che non esiste il futuro.

LA DIGNITÀ delle persone e di tutte le creature viene negata e umiliata, a cominciare dalla dignità dei migranti che sono abbandonati al mare o vengono scambiati per denaro perché siano trattenuti nei lager libici o nei deserti tunisini.
A tutto questo noi diciamo NO. Siamo sicuri che se si potesse fare un referendum mondiale, la grande maggioranza dei popoli e dei cittadini della Terra direbbe NO alla guerra come salute dei popoli, NO all’entusiasmo per il massacro, NO alla competizione strategica per il dominio del mondo, NO alla sfida culminante dell’area euro-Atlantica con la Russia e con la Cina.

Noi non neghiamo rispetto e stima ai partiti e alle loro personalità più eminenti e non condividiamo la ripulsa e il discredito di cui oggi sono fatti oggetto. Il nostro è piuttosto un Partito Preso per la Pace, per la Terra e per la Dignità delle creature, senza riserve ed eccezione alcuna.
La prima occasione in cui tutto ciò sarà messo alla prova saranno le elezioni europee. Risuona per l’Europa la domanda gridata da papa Francesco: “Dove vai Europa?”. Dove stai navigando, senza la bussola della pace?

Il primo punto di un programma elettorale è per noi il rifiuto della creazione di un esercito europeo, erroneamente considerata, nell’attuale deriva politica, il naturale coronamento dell’unità europea. È invece il residuo di una cultura arcaica che ritiene essenziale per la sovranità il potere di guerra e il disporre di un’armata. Un esercito europeo sarebbe integrato nella Nato con gli Stati Uniti al comando, renderebbe permanente la guerra civile europea innescata dal conflitto in Ucraina e il pericolo di una deflagrazione finale in una guerra mondiale già di fatto iniziata.

È invece l’Europa che dovrebbe promuovere la riforma dell’Onu e una politica attiva per il disarmo, con l’inclusione del Brasile, dell’India e del Sudafrica, nazioni che formano i BRICS, nel novero dei Cinque Membri Permanenti del Consiglio di sicurezza. In tal modo la leadership mondiale sarebbe direttamente rappresentativa del 47 per cento (quasi la metà) della popolazione mondiale.

L’Europa ha interesse a sostenere l’opposizione del presidente brasiliano Lula alla supremazia mondiale del dollaro e a sottrarre la moneta e il debito al dominio delle banche private e alla speculazione liberista del mercato di carta per recuperare la sovranità perduta e riconsegnare i beni comuni ai cittadini.
Il sistema di guerra è incompatibile con la democrazia perché porta inevitabilmente a galla fascismi vecchi e nuovi.

Non ci affascinano i Palazzi ma i Parlamenti. Vorremmo una scuola che non trasformi i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è, ma in padroni della parola, coscienti e cittadini. Si decida di rendere vero anche nei fatti che la guerra è ripudiata come il patriarcato, che si salvino per primi “gli ultimi”, perché solo in questo modo si salvano anche i primi. Amiamo l’Europa e l’Occidente ma non pretendiamo un mondo a nostra misura, tanto meno uniformato al modello di “democrazia, libertà e libera impresa”, che si è voluto esportare con le guerre umanitarie e per procura, consacrando così l’economia che uccide.

Per promuovere l’Assemblea del 30 settembre a Roma chiediamo a tutti di firmare questo appello continuando a camminare insieme.

Raniero La Valle e Michele Santoro

FONTE: https://www.serviziopubblico.it/

Le migrazioni in Europa: l’unicità del caso tedesco (II° Parte)

Le migrazioni in Europa: l’unicità del caso tedesco (II° Parte)

La Germania è da oltre un secolo uno dei più grandi “paesi di immigrazione”; per lungo tempo i vari governi rifiutarono questo appellativo, impegnati come erano a considerare e a rendere congiunturali i flussi immigratori che incentivavano in corrispondenza dei cicli di crescita mentre li disincentivavano nei periodi di crisi favorendo i rientri: l’invenzione del Gastarbeiter (lavoratore ospite provvisorio) fu la sintesi letterale di questa impostazione di lunga durata.

Soltanto da circa venti anni questa politica è cambiata con l’introduzione di una legislazione progressivamente più aperta e anche in considerazione del fatto che una volta acquisite competenze e saperi alla cui formazione non si è investito direttamente e di cui si dispone liberamente, è meglio tenersele in casa: ciò costituisce un guadagno oggettivo e in un’economia sempre più fondata sulle competenze e sempre meno su braccia come appendici di macchine, questo fattore è determinante.

La nuova legislazione in corso di definizione sta puntualizzando queste acquisizioni e attraverso di essa la Germania si predispone a programmare e gestire le politiche migratorie dei prossimi decenni con l’obiettivo di stabilizzare la sua popolazione e il suo potenziale economico.

Una più approfondita conoscenza del caso tedesco ci consente di comprendere meglio le dinamiche interne all’Unione Europea. E potrebbe anche aiutare a modificare in meglio l’approccio italiano all’immigrazione, stabilmente caratterizzato da una controproducente emergenzialità.

La sottovalutazione della nuova emigrazione e l’accentuazione dell’immigrazione (solo come problema securitario) è purtroppo parte costitutiva della vicenda nazionale degli ultimi anni. Invece sarebbe auspicabile una valutazione parallela dei due fenomeni per quello che essi denotano dal punto di vista della loro genesi e per quello che possono comportare nei loro effetti, possibilmente evitando approcci ideologici.

SCARICA IL PDF dell’articolo integrale con tutte le tabelle.

Prima parte:  QUI

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Nella Tabella 1) possiamo osservare i flussi registrati in Germania, da e per l’Italia, con relativi saldi nel periodo 1964-2021, 2000-2009 e 2010-2021. (Si veda anche la Tabella 6 in appendice che riassume comparativamente i dati dei movimenti migratori annuali dall’Italia alla Germania dal 1964 al 2014 secondo i dati Istat e secondo i dati dello Statistisches Bundesamt di Wiesbaden).

E’ qui rappresentata una parte significativa della lunga storia di emigrazione italiana verso la Germania, una sorta di dato strutturale delle relazioni economiche tra i due paesi nell’arco di quasi 60 anni, delle loro caratteristiche e delle qualità dei due modelli di capitalismo: in questo spazio di tempo, sono approdati sul suolo tedesco per viverci e lavorare per periodi più o meno lunghi, oltre 4 milioni di persone provenienti dall’Italia.

Una quantità notevole con saldi migratori di una certa consistenza. Significativo che il saldo migratorio “guadagnato” dalla Germania a spese dell’Italia soltanto negli ultimi 12 anni sia di circa 250mila persone equivalente ad una città delle dimensioni di Verona o Venezia, (una città, beninteso, fatta in massima parte di giovani, di cui circa 1/3 laureati, ecc.), mentre, nel decennio precedente il saldo migratorio era a vantaggio dell’Italia a causa dei rientri delle precedenti ondate.

I dati mostrano la sequenza delle ultime grandi fasi emigratorie del dopoguerra (che si chiudono tra gli anni ‘70 e ‘80) e, per l’ultimo periodo considerato, la sua ripresa a seguito degli effetti della crisi dei mutui sub-prime del 2007-2008 che ha innescato, in particolare dal 2010, la nuova massiccia emigrazione italiana nei primi anni del secondo decennio.1

Qui, vale però la pena comprendere meglio, al di là degli effetti della crisi e la ripresa dei flussi italiani, l’approccio politico-economico complessivo di un paese, la Germania, che dagli inizi del secolo e in particolare nel secondo decennio, ha prodotto una performance di acquisizione di risorse umane impressionante, con un saldo positivo di oltre 6 milioni di persone dal 2000 al 2021, di cui oltre 5 milioni e mezzo solo negli ultimi 12 anni; la Tabella 2) illustra i movimenti di tedeschi e stranieri nei due primi decenni del secolo, con i relativi saldi migratori:

Come si vede, nel corso del primo ventennio del secolo sono arrivati in Germania oltre 21 milioni di persone, conferendo al paese oltre 6,5 milioni di saldo immigratorio positivo; ma solo tra il 2010 e 2021 ne sono arrivati quasi 15 milioni per un saldo di oltre 5,6 milioni (cioè oltre l’86% dell’intero periodo 2010-2021). Pur in presenza di un saldo emigratorio negativo di cittadini tedeschi di una certa consistenza, il guadagno demografico è di oltre 6 milioni nel ventennio di cui oltre 5 milioni tra il 2010 e il 2021.

Nella seguente Tabella 3) possiamo invece vedere l’entità dei flussi con i relativi saldi migratori tra Germania e paesi UE-27 per i periodi indicati. Gli effetti della “libera circolazione” delle forze di lavoro in un contesto di squilibrio economico-finanziario e di forti differenziali di produttività tra paesi, sono evidenti; il fatto che quasi la metà dei saldi positivi complessivi sia stato acquisito grazie a flussi di immigrazione intra-europea (dall’ est e dal sud) e non dagli arrivi da Medio Oriente, Asia o Africa, come si è soliti pensare, è un altro dato significativo, quanto frequentemente tenuto ai margini delle riflessioni e delle indagini, probabilmente perché registra un’immagine di U.E. non del tutto auspicabile. Allo stesso tempo, la comparazione tra le tabelle 2) e 3) ci permette di vedere che l’immigrazione da paesi europei verso la Germania è pari ad oltre il 61% del totale nel periodo considerato. Ed è infine imponente il numero di coloro che sono arrivati in Germania dall’Europa nei 57 anni che vanno dal 1964 al 2021: quasi 27 milioni.

La Tabella 4) illustra invece flussi e saldi migratori tra Germania e quesi paesi E.U. che hanno devoluto almeno 100mila unità nell’ultimo decennio (in appendice, alla Tabella 5, l’elenco completo) e rende chiaro lo svolgimento delle dinamiche economiche e demografico-migratorie nell’Unione nei periodi presi in considerazione. Come si vede, nel periodo 2010-2021 l’Italia fornisce alla Germania il quarto contributo immigratorio netto dopo Romania, Polonia e Bulgaria; i maggiori flussi di arrivi per tutto il periodo 1964-2021 provengono da Polonia (paese confinante) e Italia; a seguire dalla Romania. Per tutti i paesi presi in considerazione è l’ultimo decennio quello caratterizzato da maggiori flussi e maggiori saldi immigratori positivi per la Germania, a testimonianza dell’impatto durissimo della crisi del 2008-’11 sui paesi periferici e alla loro strutturale compenetrazione (e dipendenza) dall’economia tedesca attorno a cui sembra orbitare tutta l’area est e sud europea.

Allargando lo sguardo al resto del mondo bisogna ricordare che in questo ventennio questo paese è stato il maggior accettore di emigrazione proveniente dalle aree di grandi crisi geopolitiche e di guerra: dal 2000 al 2021 la Siria ha fornito alla Germania un saldo positivo di 740.894 persone, l’Irak 252.483, l’Afghanistan 269.186; lo spazio ex-Jugoslavo 538.418, mentre lo spazio ex-sovietico nel suo complesso, inclusa la parte asiatica, ne ha fornito 1.057.920, proseguendo il trend degli imponenti arrivi di milioni di Aussiedler e Uebersiedler di origine tedesca che erano giunti dopo il 1989 da Russia, Ucraina e dalle repubbliche centro-asiatiche dell’ex Unione sovietica. 2 3

Si vedrà se questa configurazione è destinata a perpetuarsi in presenza della novità (molto negative) dello scontro Nato-Russia e alla forzata rinuncia agli approvvigionamenti energetici di gas a basso costo che erano assicurati dal Nord Stream e che sta portando alla crisi e alla chiusura di migliaia di imprese, oppure se la nuova situazione consentirà alla Germania di continuare, come programmato, nell’incentivazione di flussi di immigrazione selezionata4 alternativamente anche da territori extra-europei – in ogni caso agli stessi ritmi del decennio trascorso se si vuole mantenere più o meno stabile la popolazione residente ed integra la capacità produttiva potenziale del paese. Ma ormai le scelte non sono più solo in mani tedesche; gli effetti dell’attuale crisi si trasferiranno direttamente anche alle economie dipendenti o legate alla Germania; potrebbero anche comportare la permanenza di flussi nella stessa direzione, se permarranno, come presumibile, differenziali relativi di un certo peso; altrimenti i movimenti di persone dai paesi periferici del sud e dell’est Europa potrebbero prendere, almeno in parte, altre direzioni, in corrispondenza di quelle aree che registreranno una migliore performance rispetto alla riconfigurazione (da vedere se a blocchi conflittuali come intenderebbe la Nato o su nuovi equilibri multipolari come proposto dai Brics) delle catene del valore in cui sembra doversi ricomporre lo scenario globale.

Sarà interessante verificarlo nei dati dei prossimi anni che riguarderanno i paesi emergenti del sud America e del Medio e Estremo Oriente, oltre a quelli del nord America e dell’Australia: nello scenario di nuovi blocchi contrapposti sembra evidente che si produrrebbe un declino complessivo non solo della Germania, ma dell’intero continente, con la probabile apertura di nuove rotte emigratorie extra-europee.

TABELLA 4)

L’esempio tedesco ci dice molte cose, direttamente e indirettamente: intanto conferma l’ordine dei rapporti tra centri e periferie e la sostanziale validità delle relazioni di dipendenza che si registrano anche tra paesi sviluppati e che emergono anche dai movimenti di grandi masse di persone.

Dal punto di vista della capacità di programmazione delle politiche migratorie ci dice anche che non vi sono limiti assoluti di capacità di accoglienza e integrazione; essi sono piuttosto relativi alla dimensione economica e alla necessità/capacità di pianificazione centrale e burocratica di accoglienza e integrazione a capo di ogni sistema-paese, una funzione e una scelta eminentemente politica. Per l’Italia c’è molta materia da approfondire.

La capacità della Germania di programmare fin dalla fine del secolo scorso la quantità di ingressi che abbiamo osservato (che implicano tutta una serie di importanti misure di integrazione ad ogni livello: linguistica, scolastica, sociale, formativa e lavorativa), l’intenzione di proseguire e di perfezionare questo modello anche per i decenni a venire – come preannuncia l’approntamento di nuove leggi – confermano, se ce ne fosse bisogno, che le immigrazioni costituiscono un fattore strategico centrale per ogni paese che miri a mantenere o a conquistare una sovranità sul proprio futuro e a non cadere nella spirale della riduzione di popolazione con ciò che ne consegue.

Le attuali dinamiche demografiche e l’ingresso in un imbuto di crisi sovrapposte a diversi livelli suggeriscono l’opportunità che questa ricerca di futuro con cui ogni paese è costretto a confrontarsi sia misurata e negoziata con chi ci sta intorno, cioè cooperativa. E che non dovrebbe essere devoluta a soggetti esterni. Vi sono scelte e responsabilità da esercitare, cambiamenti strutturali da operare a partire dall’orientamento della spesa pubblica e dell’acquisizione delle risorse necessarie (per contenere l’emigrazione e incentivare l’immigrazione), quindi del sistema fiscale e di tassazione: se l’investimento sulle persone è strategico c’è bisogno di una rivoluzione nel modo di pensare il reperimento e l’allocazione delle risorse. E anche di un altro modello di impresa privata che condivida prospettive che riguardano l’intera società non la massimizzazione del profitto a breve termine. L’orientamento dogmatico all’export dei sistemi produttivi, ad esempio, andrebbe mitigato e conciliato con la necessità di crescita del mercato interno, cosa che costituisce tra l’altro un’opportunità anticiclica nelle fasi più turbolente.

Allo stesso tempo, rispetto al contesto comunitario, si imporrebbe una riconsiderazione delle politiche di coesione territoriale: una UE in balia dei liberi movimenti di capitale con annessa piena devoluzione al mercato della sua capacità di programmazione non sembra avere futuro.

Rodolfo Ricci (Fiei), Agosto 2023

NOTE:

1Gli Italiani in Germania: ancora un Reservarmee per il mercato del lavoro tedesco? (Edith Pichler) – URL: https://www.neodemos.info/2017/07/11/gli-italiani-in-germania-ancora-un-reservarmee-per-il-mercato-del-lavoro-tedesco/

2 – Sulle conseguenze demografiche nei paesi dell’est Europa e dei Balcani dei flussi emigratori post 1989 si rimanda all’importante Dossier “Uno sconvolgimento demografico in Europa” – Le Monde diplomatique/Il Manifesto del 18 giugno 2018, pp. 11-16 – (Philippe Descamps, Jean-Arnault Dérens e Laurent Geslin, Corentin Léotard e Ludovic Lepeltier-Kutasi, Rachel Knabel, Claude Aubert)

3 – I dati qui forniti sono nostre rielaborazioni delle serie storiche 2000-2021 dello Statistisches Bundesamt di Wiesbaden (Destatis) acquisiti nel maggio 2023 (Vedi Tabella 8 in Appendice).

4La Germania vuole diventare attrattiva. La nuova legge sulla immigrazione e il disegno di legge sulla cittadinanza (Edith Pichler) – URL: https://www.neodemos.info/2023/06/23/la-germania-vuole-diventare-attrattiva-la-nuova-legge-sulla-immigrazione-e-il-disegno-di-legge-sulla-cittadinanza/

FONTE: https://fiei.it/?p=802

L’Ucraina è in ginocchio e l’Europa alla canna del gas

Giorgio Monestarolo intervista il gen. Fabio Mini

La guerra in Ucraina continua senza che se ne veda la fine. Ma dal febbraio 2022, data di inizio di questa ultima cruenta fase, molto è cambiato, nei luoghi delle operazioni belliche e nello scenario internazionale. Ci sono, al riguardo, analisi critiche anche dall’interno delle forze armate impiegate nei combattimenti. In particolare negli Stati Uniti, ma non solo. Tra le altre spicca, in Italia, quella di Fabio Mini, generale di corpo d’armata a riposo, già capo di stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa e, dall’ottobre 2002 all’ottobre 2003, comandante delle operazioni di pace a guida Nato in Kosovo, nell’ambito della missione KFOR (Kosovo Force). Mini interviene nel dibattito pubblico da vent’anni (è del 2003 il suo primo libro, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale, pubblicato da Einaudi) e collabora con varie testate, tra cui Limes, la Repubblica e il Fatto Quotidiano. Da ultimo ha pubblicato, per Paper First, Europa in guerra. Sulla situazione dell’Ucraina lo ha intervistato, per Volere la Luna, Giorgio Monestarolo.

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A un anno e mezzo dallo scoppio del conflitto in Ucraina, la guerra sembra essere contenuta a mezzi convenzionali. Secondo molti osservatori, significa che la “deterrenza” sta funzionando, cioè il timore di un conflitto nucleare sta effettivamente mantenendo la guerra entro una cornice gestibile. Nel suo libro, L’Europa in guerra, Lei ritiene invece che la deterrenza non funzioni e che il rischio di una escalation nucleare sia reale.

Che la deterrenza non abbia funzionato è nei fatti. La deterrenza basata sulla minaccia dell’uso della forza è fallita prima dello scoppio delle ostilità, nel momento in cui gli Stati Uniti e la Nato hanno rigettato le richieste russe di accordo sulle misure da adottare per la sicurezza in Europa. In quel momento è stato confermato che non si voleva evitare il conflitto: fine della deterrenza. La Russia e la Nato hanno voluto dimostrare di non essere affatto dissuasi nemmeno dall’uso delle armi nucleari. Le classificazioni di deterrenza strategica (armi nucleari), tattica (nucleare tattico) e convenzionale sono gradini di una scala rotta. Fallita la dissuasione, il ricorso a qualsiasi arma non solo è possibile ma realisticamente probabile. Come, quando, dove e a quale scopo dipende solo dall’andamento delle operazioni e dal grado di coercizione che esse possono raggiungere. Che la guerra attuale sia “gestibile” spero sia sarcastico. Da ogni parte si muovono accuse alla Russia, all’Ucraina, all’Europa, agli Stati Uniti e alla Nato di errori catastrofici, massacri inutili, spreco di risorse, difficoltà di comprensione fra gli stessi alleati. Che tutto questo sia stato e sia gestibile lo lascerei dire a coloro che vogliono che la guerra continui.

La guerra in Ucraina è anche un grande investimento: sia per l’industria militare italiana sia per la ricostruzione.

Per gli Stati coinvolti direttamente o indirettamente il conflitto comporta una spesa in perdita netta. Il bene primario della sicurezza collettiva è perduto e gli effetti materiali, morali e politici della guerra si misureranno nei decenni seguenti. Per chi invece vuole “investire” per profitto, senza curarsi né degli effetti immediati né di quelli successivi, la guerra offre due grandi opportunità: una sicura e una più rischiosa. La prima riguarda la fornitura di armi e servizi ai contendenti, nonché di beni di sussistenza alle popolazioni coinvolte. È un investimento sicuro e molto redditizio, a prescindere da chi perda o vinca, purché la guerra continui. La seconda, che si basa sulla ricostruzione delle aree del conflitto, è un azzardo come qualsiasi altro: dipende da chi vincerà o perderà. Ma chi investe in genere può giocare su entrambi i fronti. Anche lui comunque si aspetta che il conflitto continui a lungo e sia il più distruttivo possibile.

Nel suo libro lei afferma che la Nato di oggi non ha nulla a che fare con quella di un tempo; che, a guardare bene, è un’organizzazione politicamente fallita. Può chiarire quest’idea, visto che la Nato sembra più attiva che mai?

Proprio attiva non direi. La Nato di un tempo è fallita dal 1994, quando ha cominciato a rimestare il quadro della sicurezza in Europa e non solo. A partire dai Balcani fino all’Iraq e all’Afghanistan, l’organizzazione politico-militare ha sposato una politica contraria alla sicurezza degli Stati membri e al diritto internazionale. In questo senso è fallita anche perché ha dimostrato di non rispettare il principio della pari dignità degli Stati membri. Uno di essi infatti – gli Stati Uniti – è più “dignitoso” di tutti gli altri messi assieme. È rimasta integra solo un’organizzazione militare abbastanza efficiente, sopravvissuta ai fallimenti politici. L’attivismo politico dei segretari generali già a partire dai Balcani è stato un esercizio da operetta. Ricordo ancora le comparsate congiunte dei segretari della Nato, dell’Onu e della Ue nelle questioni balcaniche: drammatiche e ridicole. L’attivismo militare, principalmente degli inglesi, è stato incerto, velleitario e contraddittorio. Le fratture interne alla Nato sono emerse non solo nell’incapacità di gestire annose diatribe fra Stati membri come Grecia e Turchia, più volte sfociate in minacce militari, ma anche nella gestione di tutti i conflitti: quelli dei Balcani, Iraq e Afghanistan, ma anche quelli in Georgia, Libia, Siria e Ucraina. In quest’ultimo la Nato sta operando, di fatto, come santuario per tutte le incursioni armate e i centri di smistamento di armi dei suoi paesi membri in Ucraina e contro la Russia. La Nato ha rinunciato a esprimere una posizione propria, collegiale e unanime, come stabilisce il Trattato. Di fatto sostiene e interpreta le posizioni antirusse degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Polonia, della Norvegia e degli Stati del Baltico che non hanno assolutamente a cuore la sicurezza europea.

La guerra attuale, secondo la sua analisi, è l’inizio di una guerra su vasta scala che l’Occidente ha deciso di portare avanti contro la Russia. L’Ucraina è sostanzialmente un pretesto. Quali sono le prove per questa tesi? E quale sarebbe l’obiettivo dell’Occidente? Perché, poi, proprio la Russia è il bersaglio da colpire?

Le prove sono chiare: le sanzioni non mirano a difendere l’Ucraina ma a depotenziare la Russia, a rovinare l’Europa e a favorire l’economia americana. Le misure politiche collaterali rivolte contro la Cina preludono a un conflitto in preparazione nell’Indo-Pacifico. Gli stessi americani critici sul coinvolgimento in Ucraina denunciano la perdita di risorse strategicamente fondamentali per la fase successiva del confronto/scontro con la Cina. Il depotenziamento della Russia è rivolto non solo alla castrazione dell’Europa ma anche alla eliminazione del suo ruolo di potenza strategica che potrebbe essere impiegata a sostegno della Cina. Il conflitto ucraino avrebbe dovuto accelerare questo processo, tenendo impegnata la Russia mentre si rafforzava la manovra americana in oriente. Oggi si assiste a un effetto imprevisto o sottovalutato sulla capacità bellica degli Stati Uniti: l’Ucraina è diventata un pozzo senza fondo di assetti di consumo e i fondi a lei destinati sono distolti dalla preparazione militare del conflitto con la Cina. Quelli che negli Stati Uniti invocano la cessazione delle ostilità più che a salvare l’Ucraina pensano alle limitazioni in Oriente e guardano a un compromesso con la Russia in Europa in cambio di un non intervento in Asia. Ma anche questo si sta rivelando un calcolo fasullo: il cosiddetto Occidente è appena un terzo del mondo; i rimanenti tre quarti sono stufi del monopolio statunitense e “occidentale” sia economico che dell’uso della forza.

La sua posizione sull’inizio della guerra rovescia la tesi secondo cui Putin incarna l’imperialismo zarista prima e sovietico poi: lei sostiene, al contrario, che Putin ha cercato di evitare il conflitto e che sono state le provocazioni occidentali a metterlo con le spalle al muro. Ma quali obiettivi potrebbe ottenere Putin con la guerra? Svezia e Finlandia sono passati dalla neutralità alla Nato, l’Ucraina, anche se sconfitta, rimarrebbe un confine incandescente e ingestibile, senza contare tutte le complicazioni economiche e politiche anche interne prodotte dalla guerra. Insomma, la situazione per i russi, anche in caso di vittoria, sarebbe peggiore di quella precedente la guerra. Non era meglio per Putin evitarla?

La Russia ha cercato di evitare il conflitto e ciò è stato confermato dallo stesso sprovveduto Stoltenberg. Putin voleva e poteva evitare l’invasione. Il suo errore è stato quello di non insistere abbastanza con le richieste di sicurezza nei confronti dell’Occidente. Probabilmente ha ceduto di fronte alle pressioni dei suoi stessi nazionalisti e dei militari, che gli hanno fatto credere che la guerra sarebbe stata una passeggiata, e degli stessi americani, che fin dal 2008 davano per scontato l’ingresso dell’Ucraina (e Georgia) nella Nato e che nel 2021 avevano pianificato di sostenere l’attacco ucraino alla Crimea con un esercito ricostruito dai paesi della Nato dopo lo sfacelo del 2015. Il 16 marzo del 2022, appena 20 giorni dopo l’invasione, Putin tenne un discorso ai capi e governatori delle repubbliche federate impartendo precise istruzioni sui provvedimenti da adottare per minimizzare i danni delle sanzioni, snellire le procedure di produzione e commercio estero, ridurre i disagi della popolazione e attivare l’economia a sostegno delle operazioni militari. L’ulteriore espansione del conflitto da parte della Nato, su richiesta della Gran Bretagna e della Polonia, è stata la prova della vera minaccia. È apparso infatti chiaro alla Russia che, anche senza l’invasione, la Nato si sarebbe allargata, le sanzioni sarebbero state indurite e il Donbass sarebbe stato perduto col rischio di perdere anche la Crimea. Ora la Russia sta cercando di mantenere il punto e l’Ucraina ne farà le spese. Era meglio non fare la guerra? Certo. Ma, in ogni caso, occorre attendere la fine del conflitto per capire se la Nato è veramente più forte e se qualcuno ha vinto. E se ha vinto cosa ha vinto.

Passiamo alla situazione sul campo. La controffensiva ucraina si è rivelata un fallimento con un costo di vite umane enorme (circa 70.000 soldati morti in tre mesi). Quali scenari si aprono? Una trattativa fra le parti è più vicina? I russi vorranno approfittare del vantaggio per lanciare un’offensiva prima che arrivi l’inverno? O, piuttosto, proseguirà la strategia del logoramento degli uomini e delle forze ucraine?

La terza che ha detto.

Nel caso la “campagna di Russia” della Nato si riveli un fallimento, quali conseguenze potrebbero innescarsi? È pensabile che la Nato accetti una sconfitta sul campo senza reagire? Si può ripetere un altro Afghanistan oppure la situazione è diversa?

La Nato non ha mai accettato nessuna sconfitta. Si è sempre sottratta al giudizio finale e laddove la fine non è arrivata, come nei Balcani, ha mantenuto forze, via via scemando di presenza ed efficacia. In Afghanistan, dopo aver scippato l’operazione di assistenza all’Onu, si è mimetizzata nell’assistenza all’esercito afghano con il risultato che conosciamo. Forse non è molto noto che il comandante americano dell’operazione Nato è stato il primo a ricevere l’ordine della Nato di abbandonare l’Afghanistan. Il contingente dipendente dal comando Usa (Centcom) si è trovato così a gestire il caos ben prima che arrivassero i talebani. In ogni caso la Nato in questa situazione non ha una voce propria e neppure la facoltà di accettare o rifiutare una sconfitta. In realtà è essa stessa in crisi. Un cambiamento di politica statunitense può addirittura farla scomparire dalla scena degli attori globali o regionali.

Nel suo libro, tra le righe, c’è l’idea che soltanto una conferenza internazionale, con l’obiettivo di avviare un nuovo ordine basato sulla cooperazione e non sulla minaccia reciproca, è in grado di garantire la pace. Quali passi dovrebbe fare l’Italia per favorire una distensione internazionale?

Il primo passo sarebbe mettere al centro la sicurezza europea e riconoscere che le vere minacce sono i paesi europei che alimentano la guerra. Come Italia possiamo recuperare, almeno in parte, il ruolo di cardine della vecchia Europa e ridimensionare le pretese e le velleità di quella presunta nuova Europa che non contribuisce affatto alla sicurezza europea. Un altro passo sarebbe in ambito Nato: l’Italia deve favorire gli americani nel disimpegno dal conflitto ucraino. Questo è ciò che essi vogliono veramente ed è possibile farlo sospendendo l’invio di armi e opponendosi alla ratifica dell’ammissione di nuovi membri alla Nato. Tale ratifica non può essere un semplice atto dovuto in ossequio all’Alleanza, e nemmeno un atto di routine liquidato per via burocratico-parlamentare. Deve essere il frutto di una decisione popolare: chiara e consapevole.

Riportare l’invasione dell’Ucraina a un conflitto tra grandi potenze, che punta a un nuovo equilibrio mondiale, non è frutto di un eccessivo pessimismo? Le prospettive più fosche dei primi mesi di guerra non si sono avverate. In qualche modo la vita, in Occidente e in Russia va avanti. I Brics + 11 come rappresentanti del Sud globale giocano un ruolo diplomatico importante. La stanchezza dell’opinione pubblica è evidente. Non è che anche la guerra Ucraina è stata metabolizzata?

Il pessimista è un ottimista con l’esperienza, oppure è uno che sa già come va a finire. Le prospettive più fosche sono state superate, in peggio, dalla realtà. Mezzo milione di soldati ucraini morti, 14 milioni di espatriati, un paese divorato dalla corruzione, l’Europa alla canna del gas, gli Stati Uniti che arretrano davanti al resto del mondo, la prospettiva di un allargamento del conflitto che può coinvolgere l’Europa e il mondo sono cose peggiori di quanto si aspettassero i nostri bellicisti. E siamo solo agli inizi. Non ci sono ancora le bombe atomiche ma non credo si debba arrivare ad averle sulla testa per decidersi a tentare una soluzione. Il Sud globale si sta muovendo con e senza Brics. In Sudafrica si è chiarito che non c’è bisogno di multipolarità, nel senso di avere altri poli ai quali assoggettare le varie parti del mondo. C’è invece bisogno di maggiore cooperazione all’insegna del mutuo rispetto, della pari dignità e dell’interesse reciproco. Anche in questo occorre comprendere le istanze che vengono dall’intero mondo e non solo da quello occidentale. E, in quanto occidentali, non partiamo avvantaggiati perché non abbiamo nulla da insegnare o pretendere. Il sud globale si sta muovendo contro gli imperialismi di stampo coloniale e non contro gli imperi in quanto sistemi di potere. Non ce l’hanno con la Russia e la Cina che sono imperi, ma dei quali non hanno conosciuto la violenza. Ce l’hanno con l’Europa perché formata da tutti gli imperi coloniali del passato e dagli Stati Uniti, diventati essi stessi, da colonie, dei neo colonialisti e imperialisti. È vero che l’attenzione sull’Ucraina sta scemando, ma non perché le cose vanno meglio, ristagnano o sono noiose. È perché i protagonisti della propaganda stanno prendendo atto dello sviluppo delle operazioni militari e delle posizioni politiche e non se la sentono di ammetterlo. Si stanno rendendo conto di non essere più seguiti e preferiscono il silenzio alle ammissioni scomode. La propaganda funziona così: quando le esagerazioni e le bugie diventano incredibili è meglio tacere, oppure, come stanno facendo i grandi media, dopo gli sproloqui apodittici, possono iniziare a voltare gabbana avanzando qualche timido dubbio su quanto sbraitato fino a poco prima.

FONTE: https://volerelaluna.it/

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