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Primo Maggio: proletari venezuelani, unitevi!

In occasione della Giornata Internazionale dei Lavoratori, alla “Conferenza 1º Maggio, proletari del Venezuela uniti” a Caracas, Alí Ramón Rojas Olaya ci accompagna in un viaggio nella storia, a partire dai martiri di Chicago, ricordando la visione proletaria di Simón Rodríguez e l’attualità del suo pensiero. Ci rivela anche come il sindacalista giallo Serafino Romualdi (istruito dagli USA) si sia infiltrato per distruggere la coscienza di classe dei sindacati e, infine, affronta la questione del tradimento di Rómulo Betancourt nei confronti dei lavoratori, ricordando come si debba essere sempre vigili e lottare per i nostri diritti.

di Alí Ramón Rojas Olaya (*)

Il Primo Maggio del 1886, quando Alessandro III era Zar dell’Impero Russo, Re di Polonia e Granduca di Finlandia (lo stato cosacco ucraino dell’Hetmanato era una provincia dell’Impero Russo), Antonio Guzmán Blanco governava il Venezuela e Grover Cleveland era il Presidente degli Stati Uniti, gli operai di Chicago iniziarono a protestare in Piazza Haymarket a sostegno degli scioperanti che chiedevano la giornata lavorativa di 8 ore.

In risposta, gli operai Samuel Fielden (inglese, 39 anni, operaio tessile) e Michael Schwab (tedesco, 33 anni, tipografo) furono condannati all’ergastolo, Oscar Neebe (americano, 36 anni, commesso) fu condannato a 15 anni di lavori forzati, George Engel (tedesco, 50 anni, tipografo), Adolph Fischer (tedesco, 30 anni, giornalista), Albert Parsons (americano, 39 anni, giornalista), August Vincent Theodore Spies (tedesco, 31 anni, giornalista) e Louis Lingg (tedesco, 22 anni, falegname) furono condannati all’impiccagione. Il giovane Lingg si suicidò nella sua cella.

La miseria dell’operaio

Nel periodo in cui Simón Rodríguez scrisse la sua opera, il capitalismo dei grandi monopoli era un corpus che stava appena emergendo, assetato di “un’inestinguibile sete di ricchezza”, come definì il capitalismo nel 1848 in Società americane del 1828. Tuttavia, nel dopoguerra fece una radiografia geopolitica e culturale da cui trasse linee visionarie in relazione allo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, alla divisione sociale del lavoro e soprattutto al passaggio dalla libera impresa e dalla concorrenza alla concentrazione del capitale e alla monopolizzazione delle forze produttive.

Nelle Osservazioni sul campo di Vincocaya (1830) afferma che “Gli imprenditori, semplicemente i capitalisti, sono una manifesta rovina dell’industria, sotto la veste della protezione. Nessuno ha il diritto di guadagnare se non impiegando il proprio lavoro o rischiando il proprio capitale. Gestire un’impresa, contando sul lavoro altrui, senza compromettere i propri interessi, è la speculazione più semplice, per quanto riguarda il calcolo, e di solito la più facile, perché conta sulla miseria del lavoratore”.

Materialismo storico

Nel libro “Partiti” (1840) spiega: “Simile alla società monarchica è quella che formano gli operai, con i loro padroni i fabbricanti. Per il buon nome della fabbrica, l’operaio è ridotto alla condizione di strumento: tutta la vita a cantare, tutta la vita a tessere!”.

Rodriguez concepì il suo lavoro con un metodo che in seguito sarebbe stato chiamato materialismo storico. Attraverso questo metodo, il politico nato a Caracas rivendicava l’importanza dell’economia nella dinamica sociale e, all’interno di questa, le relazioni dialettiche tra le forze produttive e i rapporti di produzione (materialismo dialettico). Degli 88 anni che Rodríguez visse, 30 li trascorse nel XVII secolo e 54 nel XVIII. Nacque in una città di proprietà del Regno di Spagna, conobbe la società schiavista e la Rivoluzione industriale con la quale si affermò in tutto il mondo lo Stato liberale borghese e con esso il vertiginoso sviluppo delle forze produttive. La sua realtà come entità individuale e sociale (non dimentichiamo che era un trovatello e un nemico della Spagna per aver fatto parte della cospirazione di Gual, España e Picornell) è evidente in questa analisi che sviluppa in Luces y virtudes sociales (1840): “ai nostri giorni non è permesso sostenere l’ignoranza: mantenere, a tempo debito, coloro che ne sono ben provvisti – abbassare l’importanza di coloro che vivono dell’onorevole industria della compravendita di miserabili…. coloro che non si vergognano di tenere prigionieri per il loro sostentamento, e si riempiono la bocca parlando della loro SCHIAVITÙ…. continuare a farlo; ma confinati entro i limiti della loro convenienza. Non offendete la sana ragione proclamando per le strade giornali che dispongono l’opinione a favore del traffico dei negri – non offendete il governo con accenni a sostenere una pretesa così contraria ai principi di umanità che le leggi moderne hanno consacrato – non imparate, ma lasciate che imparino – tenete per voi ciò che sapete o fingete di non voler sapere, per meglio raccomandare l’ignoranza; ma lasciate che altri si prendano la briga di istruirvi…. sicuri che non insegneranno nulla che non abbia per oggetto il bene comune”.

Divisione del lavoro

Nel suo succinto Estratto dell’educazione repubblicana (1849), afferma che “la divisione del lavoro nella preparazione dei lavori rende gli operai ottusi, e che, se per avere forbici finissime e a buon mercato dobbiamo ridurre coloro che le fabbricano allo stato di macchine, sarebbe meglio tagliarci le unghie con i denti”. Nella stessa opera ci consiglia: “Formate società economiche per istituire scuole agricole e magistrali nei capoluoghi di provincia, ed estendetele, quando è il caso, ai luoghi più popolati. Fate dei regolamenti, in modo che i maestri non facciano dei loro allievi dei domestici, che non permettano ai commercianti di affittare i lavoratori per conto proprio, per ridurli alla condizione di schiavi”.

Hitler e il Primo Maggio

Il 1° maggio 1933 Adolf Hitler, di fronte a una folla di 500.000 persone riunite sul campo di Tempelhof a Berlino, trasformò il Primo Maggio nel “simbolo della grande unità e dell’insurrezione della nazione”. Quella sera, il ministro della Pubblica Illuminazione e della Propaganda del Terzo Reich, Joseph Goebbels, scrisse nel suo diario: “Domani occuperemo le sedi dei sindacati. Non c’è da aspettarsi alcuna resistenza”.

Franco e Papa Pio XII

Nel 1955, Papa Pio XII si appropriò del 1° maggio. Da quel momento in poi sarebbe stata la festa di San Giuseppe Artigiano. Franco incorporò il cambiamento l’anno successivo. A partire dal 1957, in Spagna, l’organizzazione sindacale Educazione e Riposo organizzerà uno spettacolo chiamato “manifestazione sindacale” in cui gruppi di lavoratori si esibiranno in esercizi ginnici e folcloristici davanti al dittatore nello stadio di Chamartín.

23 gennaio 1958: frode storica

Ogni 23 gennaio è fondamentale “Aprire la storia”, come ci consiglia spesso Simón Rodríguez. Ascoltando il grande sentimentalista marocchino, sento il bisogno di parlare del patto di Punto Fijo. La sua origine è da ricercarsi in un primo momento, tra il 1950 e il 1953, negli incontri tra Rómulo Betancourt e Nelson Rockfeller nella villa di quest’ultimo, con Diego Cisneros come intermediario e interprete. Rómulo stava dando a Mister Rocke, come lo chiamava affettuosamente, il suo partito Acción Democrática, dall’esilio, per sostenere la politica statunitense di interferenza nella guerra di Corea. In questi “piacevoli” incontri Betancourt disse a Cisneros che “l’errore del Liberatore è stato quello di non concepire un’America unita sotto i precetti mercantilisti degli Stati Uniti”.

Betancourt e il patto di New York

Nel 1957, Betancourt si incontrò regolarmente con l’agente dell’Istituto americano per lo sviluppo del sindacato libero (AIFLD), Serafino Romualdi. Questo italiano avrebbe avuto un ruolo chiave nel colpo di Stato contro il presidente brasiliano João Goulart nel 1964, poiché nel 1956 organizzò una visita negli Stati Uniti di diversi leader sindacali brasiliani con l’obiettivo di sviluppare “un corpo di dirigenti che, ricevendo l’appoggio entusiasta della base sindacale, avrebbero potuto invertire gli sforzi comunisti di conquistare il movimento operaio brasiliano”.

Il 20 gennaio 1958 Romualdi organizzò un incontro tra Betancourt e i leader Rafael Caldera e Jóvito Villalba, con il Segretario di Stato John Foster Dulles, azionista uomo della United Fruit Company tristemente ricordato nei Caraibi per il massacro delle piantagioni di banane in Colombia nel 1928 e per il colpo di Stato contro Jacobo Árbenz in Guatemala nel 1954. Il gringo lesse ai tre venezuelani il Primer, che delineava il programma di governo da seguire dopo il rovesciamento di Pérez Jiménez, che era già stato architettato da Washington perché si era tinto di nazionalismo e aveva costruito opere contrarie agli interessi angloamericani.

Questo incontro è noto come Patto di New York e il suo obiettivo generale era quello di isolare i comunisti che erano noti per essere in maggioranza nella Junta Patriotica de Venezuela. Gli ordini sono stati chiaramente definiti in questi tre obiettivi specifici: (1) persecuzione, tortura e morte dei comunisti; (2) paralisi delle reti ferroviarie per inondare il Paese di camion Mack e trattori Carterpillar; (3) rafforzamento del modello rentier. Una volta istruiti pedissequamente, questi tre personaggi si recarono con Dulles a Washington. Lì furono ricevuti dal vicepresidente Richard Nixon.

Questo obiettivo generale avrebbe cambiato la storia contemporanea del Venezuela. La sua essenza sta in queste parole che Rockefeller rivolse a Betancourt in riferimento a Pérez Jiménez: “Sono impressionato dallo sviluppo economico del vostro Paese. Penso che, dato che eravate grandi amici, il mio amico Diego, possiate realizzare alcuni aggiustamenti e accordi in modo che ci sia un cambiamento in Venezuela che non sia pernicioso per la vostra situazione politica”. Si dice che il Venezuela sia nell’occhio del ciclone comunista.

Perché Betancourt?

Perché gli Stati Uniti hanno scelto Betancourt? Perché capiva molto bene il bolivarismo, perché aveva fondato il Partito Comunista di Costa Rica, perché aveva sempre voluto essere un militare e un uomo d’affari, perché aveva combattuto a fianco dei comunisti, perché aveva grandi affari e accordi con il regime di Muñoz Marín e il suo Commonwealth di Porto Rico in cui Diego Cisneros era ricevuto come un re, e perché aveva un’idolatria servile per il Monroismo. In altre parole, il fantoccio perfetto, l’uomo chiamato a scavalcare Domingo Alberto Rangel e altri importanti leader come Fabricio Ojeda e Guillermo García Ponce.

Il 9 febbraio 1958 Betancourt tenne un discorso in piazza Diego Ibarra a Caracas in cui spiegò il suo ruolo nel bloccare qualsiasi iniziativa bolivariana: “il fatto è che ci siamo tutti convinti che il cannibalismo politico, l’accesa combattività della lotta politica, spiana la strada alla barbarie per irrompere e impadronirsi della Repubblica. Non sto definendo un atteggiamento di natura personale. Sto ratificando una linea di partito, la linea del partito Acción Democrática”. Il patto di New York fu firmato a Caracas, presso la Quinta Punto Fijo, residenza di Caldera, il 31 ottobre 1958.

Domenica 7 dicembre 1958 Betancourt vince le elezioni. Il 13 febbraio 1959 assunse la presidenza. Il Primo Maggio applaudì l’alleanza operaio-gestionale che aveva portato alla riduzione della classe operaia agli inferi della contrattazione e dell’accattonaggio. È importante ricordare che nel 1919 fu creata l’Organizzazione Internazionale del Lavoro per aggiungere un terzo partecipante alle discussioni tra lavoratori e dirigenti: lo Stato, minando così la classe operaia. Con la creazione della più antica organizzazione internazionale del mondo, essa è governata in forma tripartita da governi, sindacati e datori di lavoro. Perché è nata l’OIL? Per esautorare il primo Stato operaio della storia, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, che ha trionfato nel 1917 con la Rivoluzione Russa, che ha avuto un forte impatto sul movimento operaio mondiale.

Romualdi stava facendo bene il suo lavoro. Per questo italiano, che avrebbe avuto un ruolo chiave nel rovesciamento del Primo Ministro Cheddi Jagan in Guyana, i lavoratori, lungi dall’essere consapevoli della classe, dovevano essere declassati. Nella sua autobiografia Romualdi si vanta dell’efficienza “dei laureati dell’AIFLD nella lotta al comunismo”.

La politica di arrendevolezza del padre del Puntofijismo parla da sé: ha firmato l’accordo commerciale con gli Stati Uniti che obbliga il Venezuela a rifornirsi per l’82% delle sue importazioni da quel Paese; ha consegnato petrolio e ferro ai suoi padroni del Nord (una percentuale significativa delle autostrade, dei viali e delle strade degli Stati Uniti è pavimentata con il nostro petrolio); ha consegnato la maggior quantità possibile di alluminio, in un affare da leoni, affinché l’azienda Reynolds Metals potesse uscire dalla bancarotta. Poi ha inondato il mercato venezuelano di casalinghe che hanno ceduto alla pubblicità “Cosa farei senza di te, foglio di alluminio Reynold’s”. La sostituzione delle importazioni nei piani della nazione per il Punto Fijoismo era lettera morta. Le cifre degli assassinati, dei torturati e degli scomparsi durante il Puntofijismo che la Commissione per la Giustizia e la Verità gestisce sono allarmanti: 1.043 fascicoli esaminati nel dettaglio, senza contare il Caracazo, più di 5.000 vittime dirette, più di 15.000 vittime indirette e 38 centri di tortura terroristici.

Per il bene del Venezuela, Rómulo Betancourt è uno dei personaggi che stanno gradualmente scomparendo dall’immaginario collettivo, man mano che il suo pensiero viene interpretato al di là di frasi emblematiche come “l’adeco è adeco finché non muore”, “sparare prima e scoprire dopo”, o “Neruda è un poeta in declino”.

La sua posizione etica e la sua convinzione ideologica si ritrovano nel suo stesso discorso. Questo politico guatireño ha avuto un ruolo di primo piano in due eventi trascendenti della storia contemporanea del Venezuela: la candidatura del maestro Luis Beltrán Prieto Figueroa nel 1967 e, più indietro nel tempo, il colpo di Stato contro Isaías Medina Angarita del 18 ottobre 1945.

I gringos non vogliono Prieto

L’imperialismo statunitense approva la candidatura di Gonzalo Barrios per il Partito d’Azione Democratica e toglie il pedagogo di Margarita dal gioco elettorale, come si evince da questa citazione di Betancourt alla fine del 1967: “Ma Prieto è impazzito, potrebbe governare senza il consenso di Washington? Anche Prieto vive contaminato dalla febbre di quella sinistra ipocrita, figlia non di principi ma di un risentimento secolare, che chi ha allattato le mammelle dell’ambizione di gruppo suda ma non passa. Non capisce che chi è al potere non lo vuole affatto: la Chiesa lo odia, le Forze Armate non lo amano, i media lo ritraggono orribilmente brutto, senza alcuna grazia personale, gli uomini d’affari lo ridurrebbero in poltiglia alla prima occasione, creando carenze e speculazioni spaventose”, e conclude chiedendosi ‘cosa pensava, che gli americani lo avrebbero lasciato governare; mi hanno già detto che non vogliamo l’uomo nero’. (José Sant Roz, “El procónsul Rómulo Betancourt. Memorie della degenerazione di un paese”, Monte Ávila).

In un’intervista pubblicata su El Universal il 27 settembre 1968, il Maestro Prieto disse: “Credo di non essere mai stato un adeco, se con questo si intende un uomo che usa il potere per perseguitare la comunità a proprio vantaggio. Non sono un adeco, se per tale si intende un politico che usa la forza per distruggere i suoi nemici. È la negazione di ciò che sono stato e di ciò che sono.

Domenica 1° dicembre 1968 si tennero in Venezuela le elezioni per scegliere il successore del presidente adeco Raúl Leoni. Rafael Caldera del partito cristiano-sociale Copei ottenne 1 milione 83 mila 712 voti, Gonzalo Barrios, 1 milione 50 mila 806 voti, Miguel Angel Burelli Rivas, 826 mila 758 e Luis Beltran Prieto Figueroa, 719 mila 461, la maggior parte dei quali ottenuti dalla classe operaia che, purtroppo, si piegò maniacalmente ai disegni di Caldera, abbandonando le lotte per la dignità proletaria. Romualdi ha fatto il suo lavoro!

Colpo di Stato contro Isaías Medina Angarita

Più di due decenni prima, Betancourt era salito al potere con l’aiuto di una cricca di giovani ufficiali militari addestrati alla Scuola delle Americhe sotto la supervisione degli Stati Uniti, che legittimarono il colpo di Stato contro il governo di Isaías Medina Angarita stringendo un patto di condivisione del potere con il leader del Partito Bianco. L’intellettuale venezuelano Arturo Uslar Pietri scrisse una lettera pubblicata sul quotidiano La Esfera il 5 maggio 1946, sei mesi prima che Betancourt diventasse presidente, in cui affermava: “L’errore dei militari nel chiamarla a consegnare il governo è stato davvero tragico. Lei non è mai stato altro che un demagogo e nell’esercizio del potere continua ad esserlo senza speranza. Con quella pittoresca accozzaglia di nozioni sconnesse, che ha accumulato nelle sue letture frettolose e incomplete, ha iniziato a costruire la falsa immagine di uomo colto e dalle molte capacità. Tuttavia, ciò che è stato visto e detto finora sulla politica, l’economia e la storia è superficiale e spesso inesatto. Del grande monumento giuridico e sociale, della carriera amministrativa, non conoscete nemmeno la sagoma… Con l’esibizione permanente di questo sproloquio verbale e con l’audacia incosciente di un uomo che non sa quello che fa e non ha nulla da perdere, è riuscito a impadronirsi del comando effettivo del governo e a condurlo su un sentiero di errori verso la meschina soddisfazione delle sue oscure passioni di uomo con un complesso morboso.

L’analisi del discorso di Rómulo Betancourt porta a riassumere la sua vita come quella di un burattino che ha cavalcato la deontologia avendo come principi l’esecrazione, il crimine e l’ingratitudine. Era un buffone sottomesso e obbediente, un burattino i cui fili erano tirati dal Dipartimento di Stato. Rómulo Betancourt morì a New York il 28 settembre 1981. Ricordo la data perché, a causa del lutto nazionale decretato, Freddy Mercury dovette cancellare le ultime due esibizioni al Poliedro de Caracas con i suoi emblematici Queen. Il Venezuela poté vederlo solo nella serata inaugurale. La Boemia è rimasta senza la sua rapsodia a causa di un uomo con dei complessi.

Il neofascismo ucraino

Il 2 maggio 2014, nel bel mezzo della crisi politica ucraina post-golpe, i nazisti hanno dato fuoco alla Casa dei Sindacati con più di 100 persone all’interno, noto come il massacro di Odessa. Gli attivisti anti-Maidan che sono riusciti a uscire dalle finestre sono stati uccisi dalle orde fasciste.

Il presidente dei lavoratori contro il fascismo

Il 1° maggio 2017, nel bel mezzo di una profonda crisi politica ed economica dovuta alla guerra ibrida che gli Stati Uniti stanno applicando al popolo venezuelano, e di settimane di violente azioni terroristiche (guarimbas) nelle strade, il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, si è rivolto alla nazione per chiedere un’Assemblea nazionale costituente: “Con il popolo, con la classe operaia, chiedo il potere costituente originario del popolo”.

Tempi moderni

Il mese di maggio è propizio per guardare Tempi moderni di Charles Chaplin (1936), poiché il famoso regista inglese in una delle sue scene più memorabili rende omaggio ai martiri di Chicago quando il disoccupato Charlot prende una bandiera rossa caduta da un camion e sventolandola per restituirla all’autista diventa fortuitamente il leader di una marcia di lavoratori.

Non torneranno indietro!

Il Puntofijismo ha vinto le elezioni del 6 dicembre 2015. La sua essenza arrendevole, eminentemente anti-bolivariana, anti-Rodriguez e anti-Zamorano non deve mai tornare a Miraflores.

Proletari venezuelani, unitevi!

(*) Rector Alí Ramón Rojas Olaya es Rector de la Universidad Nacional Experimental de la Gran Caracas (UNEXCA).

L’ampliamento dei Brics ulteriore passo in avanti nella ridefinizione degli assetti geopolitici e geoeconomici internazionali – parte III

Image by Wolfgang Weiser from Pixabay

Processo di dedollarizzazione II

L’utilizzo delle principali valute: la supremazia decadente del Dollaro

Nell’intento di inquadrare all’interno di una cornice oggettiva la situazione della moneta statunitense, sia in relazione ai prematuri slanci verso l’imminente disarcionamento del Dollaro dal ruolo di asse portante del Sim (Sistema monetario internazionale), sia rispetto alle affermazioni di inattaccabilità della sua egemonia globale, procediamo ad analizzare il panorama valutario internazionale alla luce delle varie funzioni rivestite dalle principali monete.

Nel campo delle operazioni internazionali effettuate tramite coppie di valute attraverso il Forex1, secondo l’ultima inchiesta triennale della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri), che considera l’interscambio da entrambi i lati, quindi su base 200, nel 2022 il Dollaro restava saldamente al vertice con l’88,5 delle operazioni in valuta estera (grafico 1), quota rimasta invariata dal 19892

Grafico 1: ruolo degli Usa e del Dollaro a livello mondiale. Periodo: 2° quadrimestre 2022

Ad ampia distanza seguivano l’Euro col 32 e la coppia Yen – Sterlina entrambi col 17, mentre lo Yuan, seppur in espansione rispetto allo 0 del 2007 arrivava a ricoprire solo il 7 del totale, sempre nel secondo semestre 2022 (grafico 2).

Grafico 2: quota di transazioni in Yuan nell’ambito del Forex fra 2007 e 2022. Fonte: Bri

Le sanzioni alla Russia spingono i Brics verso la dedollarizzanione delle transazioni

Le transazioni internazionali hanno tuttavia subito una brusca accelerazione verso la dedollarizzazione dall’inizio del 2022, soprattutto per quelle riguardanti i paesi del Brics, a seguito delle varie tranche di misure restrittive adottate contro la Russia. In particolare, ma non solo, ciò ha interessato principalmente l’interscambio fra Mosca e Pechino, il quale nel corso del 2023, in contemporanea con un cospicuo aumento del 26,4% del valore dei commerci, giunti al record assoluto di 240 miliardi di $, in base ai dati dell’Amministrazione generale delle dogane di Pechino3, ha registrato anche una rapida impennata delle transazioni in Yuan. Infatti, secondo quanto dichiarato dalla governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, la quota di esportazioni russe effettuate tramite la divisa cinese è passata dal 0,4% di due anni or sono al 34,5% di inizio 2024, mentre per ciò che concerne le importazioni, nello stesso arco di tempo, è salita dal 4,3% al 36,4%.

Quindi in soli due anni la moneta cinese è divenuta la più utilizzata dalla Russia nelle transazioni estere, con inevitabili riflessi sulla composizione delle riserve valutarie di Mosca, come ha esplicitamente affermato la governatrice stessa: “Fino al 2022, nelle nostre riserve c’era una quota significativa di Dollari ed Euro. Ciò era dovuto al fatto che i contratti di commercio estero erano in gran parte stipulati in queste valute. Ora, l’attività economica estera sta passando molto attivamente all’uso di altre divise, principalmente lo Yuan”4.

In pratica le sanzioni occidentali hanno determinato un doppio, seppur diversificato effetto boomerang a danno degli stessi committenti: i paesi europei nel suo complesso sono risultati penalizzati negli scambi commerciali sia con Mosca che con Pechino nel 2023, mentre gli Usa hanno principalmente subito una flessione nell’utilizzo della propria moneta nelle transazioni internazionali.

La ridefinizione della geografia dei commerci mondiali e dell’utilizzo delle valute, risultano tuttavia tendenze in atto su scala globale che vanno ben oltre i confini delle relazioni economiche fra Mosca e Pechino.

Negli ultimi due anni, infatti, gli scambi commerciali relativi a prodotti energetici raffinati, gas e petrolio sono stati effettuato in misura crescente con valute alternative al Dollaro. Un processo in rapida evoluzione sotto la spinta delle sanzioni e della determinazione dei Brics di perseguire una ridefinizione degli equilibri geoecenomici globali che ha portato nel 2023 a circa il 20% la quota del commercio globale di petrolio, la commodity più scambiata5, ad essere oggetto di transazioni in altre monete, compresi i Dirham emiratini e le Rupie indiane. New Delhi, infatti, grazie ad un accordo con Abu Dhabi finalizzato a regolare le loro transazioni in Rupie, principalmente petrolio, è divenuta nel 2023, secondo Mario Lettieri e Paolo Raimondi6, la seconda partner commerciale degli Emirati, con un interscambio totale in graduale avvicinamento ai 100 miliardi di $, e sta lavorando ad un’intesa con l’Arabia Saudita per regolare gli acquisti di petrolio in Rupie, oltre a stringere accordi con altri paesi per transazioni in valute nazionali. Ciò al netto del fatto che Riad dopo aver espletato tutti i passaggi formali per l’adesione al Brics prevista per il 1 gennaio 2024 insieme ad Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia e Argentina, dopo il ritiro di quest’ultima ad opera di Milei il 29 dicembre 2023, non ha ancora ufficializzato l’ingresso nel blocco, restando in una fase di empasse7. Posizione attendista, in merito alla quale la leadership saudita dovrà sciogliere la riserva entro il prossimo vertice del Brics+8, previsto per ottobre a Kazan in Russia, garantendo o meno al propria presenza.

Sostanzialmente analoga la situazione per ciò che concerne l’utilizzo del Dollaro nell’ambito dell’intero interscambio commerciale fra soli paesi del Brics, nel cui contesto durante il 2023 il biglietto verde è stato ridimensionato ad appena il 28,7% del totale.

Una quota che con il recente ingresso nel Brics degli Emirati Arabi Uniti e dell’Iran, nel 2022 rispettivamente settimo e ottavo produttori mondiali di petrolio9, andrà con ogni probabilità incrementandosi nell’anno in corso, anche alla luce del fatto che i primi stanno tessendo la tela diplomatica con altri 15 paesi per promuovere gli scambi in monete nazionali e il secondo ne ha estrema necessità essendo stato soggetto a pesanti sanzioni da Trump a partire dall’agosto 2018, facendo carta straccia dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) raggiunto da Obama con i vertici della Repubblica Islamica nel luglio del 2015, nell’ambito del quadro diplomatico detto P5+1 vale a dire Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, Francia e Germania 10.

La situazione valutaria relativa alle riserve monetarie e al mercato dei titoli di stato

Rispetto all’utilizzo delle monete in qualità di riserve valutarie, al cospetto di una situazione sostanzialmente analoga di attuale supremazia del biglietto verde, diversa risulta invece la dinamica registrata nel corso dell’ultimo ventennio, durante il quale il Dollaro ha subito un marcato ridimensionamento passando dal 72% del 2000 al 58,4% del 2023 (grafico 3), tuttavia a favore di monete di propri alleati geopolitici come il Dollaro australiano e quello canadese.

Grafico 3: quota di riserve delle Banche centrali in dollari 1995-2023. Fonte :Fmi

Viceversa, lo Yuan è salito da 0% di inizio millennio, quando la Cina non era ancora membro del Wto, al 2,6% dello scorso anno, una quota che seppur in leggera crescita appare ancora decisamente bassa per poter pensare di scalfire l’egemonia del biglietto verde (grafico 4). L’espansione della valuta cinese in questo campo risulta penalizzata, oltre che dalla sua mancata totale internazionalizzazione, dal fatto che per qualsiasi paese risulta problematico detenere riserve in valute diverse rispetto a quella in cui è stato denominato il proprio debito sovrano.

Grafico 4: quote delle 7 valute detenute come riserve monetarie delle Banche centrali fra 2016 e 2022. Dollaro in viola, Euro in verde chiaro, Sterlina inglese in verde scuro, Yen giapponese in grigio, Yuan cinese in nero, Dollaro australiano in rosso e dollaro canadese in giallo. Fonte: 11

Gli investimenti sul Dollaro sono ancora percepiti come un rifugio sicuro per i capitali anche per quanto riguarda il mercato dei Titoli di stato, nel cui contesto si registra ancora un netto predominio del biglietto verde grazie ai 23.000 miliardi di $ di Titoli del Tesoro Usa, un valore 11 volte superiore ai 2.000 $ di quello tedesco12.

Il ruolo preminente del Dollaro, in questo campo è supportato anche dall’imponente debito federale degli Stati Uniti che ad inizio 2024 ha raggiunto la stratosferica cifra di 34.000 miliardi di dollari, pari al 123,3% del Pil13, del quale, tuttavia, solo il 24% corrispondente a circa 8.100 miliardi di $ (grafico 5 – istogramma) è in mano a soggetti stranieri, sia governi che investitori privati.

Nonostante il disimpegno della Cina che, per motivi geopolitici e per ritorsione verso la guerra commerciale di Trump, ha alleggerito la propria posizione sui Treasury bond14 dal 15% del 2010 al 10% del 2023, e del Giappone sceso, da oltre il 35% del 2005 al 15% dello scorso anno (grafico 5 – diagramma), la disponibilità estera dei titoli di stato statunitensi, è cresciuta nel 2023 di 427 miliardi di dollari a beneficio di altri attori come Regno Unito, Canada, India e Francia15 (grafico 6).

Grafico 5: diagramma lineare quota di debito pubblico Usa detenuto da Giappone e Cina 2000-2023 (valori a destra). Istogramma: entità di debito pubblico in mani straniere (valori a sinistra)

Grafico 6: possessori internazionali di titoli di stato Usa confronto gennaio 2018 – marzo 2023

Il ruolo egemone dello Swift fra le piattaforme di pagamenti internazionali

Lo Swift, acronimo di Society for Worldwide Interbank Financial Telecomunican (società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie mondiali), costituisce un sistema di pagamenti interbancari internazionali che, attraverso l’attribuzione di un codice ad ogni istituto bancario, consente di facilitare le transazioni finanziarie su piazze estere.

La piattaforma finanziaria in questione risulta controllata dalle Banche centrali di Belgio, dove ha la sede, Francia, Stati Uniti, Canada, Germania, Italia, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera, Giappone e Regno Unito ed ha lo scopo di consentire il pagamento diretto anche nel caso in cui i due soggetti coinvolti nella transazione non siano clienti dello stesso istituto bancario.

In base a quanto riportato nel sito ufficiale dello Swift16 attualmente vi sono collegate 11.600 istituzioni bancarie appartenenti a oltre 200 fra paesi e territori ed indubbiamente costituisce la piattaforma dominante nel sistema finanziario internazionale per il trasferimento di fondi.

La ripartizione geografica delle transazioni relativa al mese di gennaio del 2022, l’ultimo prima dell’escalation del conflitto in Ucraina e delle sanzioni occidentali ai danni di Mosca, presentava il seguente quadro: il 45,5% riguardavano Europa, Medio Oriente e Africa, il 40% Americhe e Regno Unito e il 14,5% Asia e Pacifico17.

A conferma della crescita del proprio ruolo nel contesto economico-finanziario internazionale, anche la Cina, ha proceduto alla strutturazione di una propria piattaforma denominata Cips, acronimo di Cross-Border Interbank Payment System (sistema di pagamento interbancario di pagamento) incentrata sullo Yuan e gestita dalla Banca centrale cinese, la People’s Bank of China (Bpc), la quale, tuttavia, nel 2020, secondo Lettieri e Benvenuti, non arrivava a coprire nemmeno lo 0,5% del volume delle transazioni internazionali18. Alla piattaforma cinese ad inizio 2022 aderivano 1.280 banche appartenenti a 103 paesi, fra le quali istituti europei, statunitensi, giapponesi, russi e africani e nel 2016 ha sottoscritto un accordo con lo Swift in modo potervi operare anche i soggetti che non hanno aderito al Cips.

Anche la Russia ha un proprio sistema di pagamenti il Spfs, acronimo di System for Transfert of Financial Messages (sistema per il trasferimento di messaggi finanziari) ma a differenza del Cips cinese viene utilizzato soprattutto per i regolamenti interni oltre che da alcune banche con sedi in Germania e Svizzera oltre a quelle di paesi dello spazio ex sovietico come Bielorussia, Armenia, Kazakistan e Kirghizistan, per un totale di 400 istituti di credito sempre ad inizio 2022.

L’utilizzo dello Swift come arma geopolitica

Risultando un sistema di pagamento sotto controllo esclusivamente occidentale, lo Swift con l’acuirsi delle tensioni internazionali è stato trasformato da semplice strumento finanziario, in parallelo col ruolo del Dollaro19, in un’arma di natura geopolitica in considerazione del fatto che le istituzioni bancarie che ne vengono escluse accusano gravi problematiche nell’attuare trasferimenti di fondi all’estero.

Il potere di comminare l’esclusione di determinate istituzioni bancarie dallo Swift è riservato agli istituti finanziari e alle autorità nazionali che le supervisionano. Ed stato proprio nell’ambito dei vari pacchetti sanzionatori imposti unilateralmente alla Russia senza approvazione dell’Onu a partire dal 23 febbraio 202220, che la terza tranche entrata in vigore il 2 marzo successivo, su input dei governi di Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Unione Europea, ha disposto l’esclusione di 7 banche russe dallo Swift21. Mentre nel sesto pacchetto, approvato il 3 giugno, stessa sorte è stata riservata anche alla principale banca russa, la Sberbank, in parte di proprietà del colosso del gas Gazprom, alla Credit Bank of Moscow e alla Russian Agricultural Bank22. Tuttavia, i governi dei paesi membri dell’Ue non hanno escluso la terza banca russa, Gazprombank, in quanto viene utilizzata da Mosca per le transazioni energetiche e, per quel che ci riguarda, in particolare del gas dal quale dipendeva fino ad inizio 2022 oltre 40% del’totale dell’import dell’Ue23 e che nel 2023 ha continuato a coprire il 15% l’approvvigionamento estero comunitario24. Con l’inquietante paradosso che mentre abbiamo diminuito l’import di gas russo via conduttura acquistato con contratti pluriennali a basso costo, a causa delle sanzioni e del sabotaggio dei gasdotti del baltico, nei primi sette mesi del 2023 l’Ue, rispetto al corrispondente periodo del 2021, ha incrementato di ben il 40% (da 15 mln a 22 mln di mc) l’import da Mosca del sensibilmente più costoso GNL25.

A seguito della frattura geoeconomica apertasi fra Russia e paesi occidentali a causa dalle varie tranche di provvedimenti restrittivi, arrivati alla tredicesima il 23 febbraio 2024, e dal Piano REPowerEU del 18 maggio 2022, tramite il quale abbiamo deciso di rinunciare ameno sulla carta alle fonti e ai prodotti energetici russi, Mosca ha elaborato varie strategie per aggirare le sanzioni, cercando canali commerciali alternativi, soprattutto Cina e India, e utilizzando altre valute per regolare i pagamenti internazionali. Rispetto a quest’ultima problematica, le autorità russe si sono orientate principalmente verso l’utilizzo dello Yuan contribuendo ad aumentare il ruolo della divisa cinese nel panorama mondiale delle transazioni, una strategia non solo di natura economico-finanziaria ma anche, se non soprattutto, di carattere geopolitico. Conseguentemente la filiale moscovita della Industriale and Commercial Bank of China (ICBC), la principale banca mondiale con 400 milioni di clienti e 203 filiali estere, fra cui anche Milano26, dislocate in 40 paesi, ha sensibilmente aumentato il volume delle transazioni in Yuan fra Mosca e Pechino, in quanto collegata sia alla piattaforma cinese Cips che a quella russa Spfs, oltre che allo Swift27. Infatti negli ultimi 3 trimestri del 2022 la filiale moscovita dell’ICBC ha incrementato di oltre il 290% i depositi dei clienti e quasi 50 istituzioni bancarie vi hanno aperto un conto per poter operare con la Russia, aggirando di fatto le sanzioni occidentali28.

Il processo di dedollorazione, seppur in recente accelerazione, ha tuttavia un orizzonte ancora lontano per potersi completare, in quanto la maggior parte dei regolamenti dei flussi commerciali viene ancora effettuata tramite le valute dei paesi del G7 e in particolar in Dollari attraverso lo Swift. Infatti, a settembre dello scorso nell’ambito dello Swift, il Dollaro ricopriva una quota del 45,58% delle transazioni, l’Euro il 23,60%, la Sterlina il 7,32% e lo Yen il 4,20%, mentre lo Yuan seppur in crescita si attestava al quinto posto col 3,71%.

L’effettiva emancipazione del Brics+ dalla piattaforma sotto controllo occidentale potrà realizzarsi solo creando un proprio sistema multilaterale di pagamenti basato sulle proprie divise nazionali. Ed è proprio in questa ottica che a partire dal 2018 si stanno impegnando nella realizzazione del progetto Brics Play basato sull’utilizzo di tecnologie innovative come le piattaforme blockchain29 e le valute digitali ufficiali controllate della Banche Centrali (CBCD30), fra le quali lo Yuan digitale, entrato in vigore ad inizio 2022, oltre a numerose altre che si trovano nelle diverse fasi di progettazione e sperimentazione, soprattutto appartenenti a potenze emergenti come Russia, Arabia Saudita e Sudafrica (carta 1). Infatti il Brics Pay è stato predisposto in modo da poter utilizzare tutte le monete digitali dei paesi del Brics+31.

Carta 1: la situazione delle CBDC nei vari paesi.

Fonte: statista https://it.benzinga.com/2023/06/26/cbdc-quali-rischi-investitori-crypto/

Conclusioni

L’attuale situazione internazionale relativa all’impiego delle principali valute, per ciò che concerne le transazioni internazionali, le riserve delle Banche centrali e il mercato dei titoli di stato, come emerso in precedenza, presenta dunque carattere di fluidità e complessità che, a nostro avviso, per essere efficacemente inquadrata necessita di tenere in considerazione oltre alle dinamiche in atto anche la panoramica generale globale.

In considerazione di ciò, il quadro descritto in sintesi dall’agenzia britannica Reuters “Le Banche centrali stanno sperimentando una più ampia varietà di asset, fra cui obbligazioni di società private (corporate bonds. ndr), titoli di stato (government bonds), beni immobiliari, oro e ovviamente altre valute”, al pari di quello dall’amministratore delegato di Toscafund Hong Kong, Mark Tinkter, “Questo è il processo in corso. Il Dollaro verrà utilizzato sempre di meno nel sistema globale”32, a nostro avviso, se, da un lato, risultano entrambi centrati in relazione alle dinamiche in atto, dall’altro, non fotografano esaustivamente nel suo complesso la situazione valutaria mondiale attuale.

Dalla nostra analisi emerge come in un contesto in cui la posizione del Dollaro risulti al momento ancora maggioritaria, la sua parabola discendente sembra inesorabilmente esser stata imboccata, come ha efficacemente inquadrato la Banca centrale indiana (Reserve bank of India – Rbi): “Sembra, quindi evidente che mentre il dominio rimane per ora incontrastato, esso ha iniziato ad erodersi lentamente e in futuro l’ordine economico dovrà evolversi per guardare oltre la valuta statunitense”. Una prospettiva sostenuta anche dalla maggior parte degli analisti più qualificati, i quali prevedono che il Dollaro, almeno per qualche lustro, non verrà scalzato, principalmente per mancanza di competitor effettivi33, dalla leadership globale da altre valute, premunendosi, tuttavia, di specificare che il panorama valutario mondiale è destinato a subire un inevitabile riequilibro.

Lo scenario che potrebbe delinearsi nel Sistema monetario internazionale (Sim), nel cui ambito il Dollaro a fine 2022 rappresentava ancora il 56% degli investimenti finanziari internazionali e il 58,4% delle riserve delle Banche centrali34 (tabella 1), non presagisce tanto il passaggio di leadership a vantaggio di un’altra divisa, quanto, nel contesto della ridefinizione degli equilibri geoeconomici e geopolitici sospinti in senso multipolare dal Brics, la formazione di un ordine valutario internazionale basato su un nuovo assetto “multy-currency35.

La tendenza, già in atto da alcuni anni, e in accelerazione dal febbraio 2022, indica che le Banche centrali stanno operando in modo da adeguare i propri asset monetari verso un paniere diversificato di valute, sotto la spinta dell’evoluzione strutturale del commercio mondiale a favore dei paesi emergenti e della riorganizzazione per aree geoeconomiche “amichevoli”.

Tabella 1: quota attuale di utilizzo del dollaro nelle forme di impiego

Tipologie di impiegoDollaro 2023
Investimenti finanziari56,0%
Riserve delle Banche Centrali58,4%
Forex (anno 2022) indice su base 20088,5
Swift (settembre 23)45,58%

Il processo di dedollarizzazione dell’economia e del Sistema monetario internazione è destinato a proseguire, tuttavia attraverso un non lineare incedere, le cui eventuali accelerazioni potrebbero derivare da eventi internazionali particolarmente gravi sia di carattere geoeconomico/finanziario che geopolitico/militare.

Soprattutto ulteriori tensioni geopolitiche o, addirittura, rotture dell’ordine economico internazionale, come le sanzioni alla Russia e il piano comunitario REPoweEU36 o di un inizio di disimpegno dagli asset in Dollari da parte dei grandi fondi di investimento, BlackRock e Vanguard in primis37, finiranno per imprimere nuovo slancio allo sganciamento dal Dollaro. In tal caso potrebbe formarsi, secondo Reanud Lambert e Dominique Plihon, un’area “Indipendente dal Dollaro” per gli stati sotto sanzioni statunitensi. In tale contesto, come afferma a tal proposito l’autorevole economista James K. Galbraith: “La Cina assumerebbe un ruolo chiave tra i due sistemi (monetari. ndr), (divenendo. ndr) punto di fermo di una struttura multipolare”.

Washington potrebbe, quindi, risultare lei stessa penalizzata dall’estremizzazione dell’utilizzo a fini politici del Dollaro, come rileva anche Galbraith: “Se Pechino dovesse a sua volta essere oggetto di decisioni così severe (come quelle imposte a Mosca. ndr), allora potrebbe prodursi una rottura in grado di dividere il mondo in due blocchi isolati”. Un passo azzardato che, visto l’enorme interscambio commerciale38 e finanziario in essere fra Washington e Pechino, gli Stati Uniti valuteranno sicuramente a fondo prima di compiere, in quanto innescherebbe ripercussioni negative in primis sui propri titoli di stato.39

“La multipolarità monetaria perseguita dal Brics, (parallelamente a quella geopolitica e geoeconomica. ndr)”, conclude Galbraith, “Potrebbe essere negativa per l’oligarchia, ma vantaggiosa per la democrazia, per la protezione del pianeta e per il bene comune. Da questo punto di vista non arriverà troppo presto. Le grandi trasformazioni dell’ordine economico mondiale sopraggiungono solo in occasione di crisi estrema”.

L’accelerazione del processo di ridimensionamento della supremazia globale del Dollaro risulterebbe, dunque, più interconnessa al livello di spregiudicatezza delle linee di politica internazionale di Washington, che alla reali attuali potenzialità del Brics di realizzare a breve un ordine monetario internazionale alternativo. Come già ebbe a presagire nel marzo 2022, all’indomani delle prime misure restrittive, il Vice direttore generale del Fmi, Gita Gopinath: “Le sanzioni contro la Russia potrebbero erodere il dominio del Dollaro incoraggiando blocchi di trading più piccoli in altre valute”. Anche perché il Brics nel suo complesso non sembra nelle condizioni di riuscire a portare a compimento il progetto di sostituzione del Dollaro con un’altra valuta a corso legale, essendo al momento orientato verso l’istituzione di una unità di conto40, più che di una moneta comune.

Il futuro Sistema Monetario Internazionale potrebbe anche assumere un assetto multipolare strutturato in “zolle valutarie”, ciascuna dominata da una singola divisa che andrebbe a ricalcare quello geopolitico globale attualmente in fase di ridefinizione, il quale sembrerebbe orientato a delinearsi in “placche geopolitiche e geoeconomiche” tendenzialmente assoggettate all’influenza di una potenza macroregionale

Indipendente dai connotati che assumerà in futuro il Sistema monetario internazionale, i tempi di sviluppo della curva di flessione della supremazia globale del Dollaro risultano, quindi in primis, nelle mani, o per meglio dire nelle politiche, delle future amministrazioni di Washington a partire da quella che uscirà dalle ormai prossime presidenziali del novembre.

Andrea Vento – 29 aprile 2024

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati (Giga)

NOTE:

1Il Forex è il mercato dove avvengono tutte le negoziazioni che hanno per oggetto le differenti valute. Non a caso, il termine stesso Forex deriva dall’inglese FOReign EXchange market. Ha origini antiche e nasce da esigenze commerciali di cambiare una valuta per un’altra, al fine di concludere transazioni. Il Forex è il mercato delle valute e ad essere scambiate non sono le singole valute, come spesso si dice, ma coppie di valute. Per esempio, non è possibile vendere dollari e basta. Bisogna vendere dollari e comprare, contemporaneamente, un’altra valuta, ad esempio euro. Nel Forex si ragiona, quindi, in termini di coppie di valute: ad esempio, EUR/USD sta ad indicare il cambio euro/dollaro.

https://www.prestitionline.it/guide-prestiti/domande-frequenti/cos-e-il-forex-e-come-funziona

2 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

3 https://www.agenzianova.com/a/65a10ef4d46c74.84366983/4764358/2024-01-12/cina-russia-interscambio-commerciale-tocca-record-di-240-miliardi-di-dollari-nel-2023

4 https://www.agenzianova.com/news/russia-la-governatrice-della-banca-centrale-lo-yuan-cinese-ha-rimpiazzato-il-dollaro-nelle-nostre-operazioni/

5 Il commercio del petrolio ammonta a circa 1/5 del valore dell’interscambio mondiale complessivo

6 Nei Brics non si usa più il dollaro di Mario Lettieri e Paolo Raimondi. https://www.italiaoggi.it/news/nei-brics-non-si-usa-piu-il-dollaro-2627434

7 https://it.marketscreener.com/notizie/ultimo/L-Arabia-Saudita-sta-ancora-considerando-l-adesione-ai-BRICS-dicono-le-fonti-45767507/

8 Brics+ è nuova denominazione del gruppo allargato, dopo gli ingressi del 1 gennaio 2024

9 https://www.energiaitalia.news/news/petrolio/petrolio-la-classifica-dei-20-piu-grandi-produttori-mondiali/25339/

10 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/iran-tornano-vigore-le-prime-sanzioni-usa-21095

11https://www.groupama-am.com/it/article/la-progressiva-de-dollarizzazione-delleconomia-mondiale/

12 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

13 https://www.italiaoggi.it/news/il-debito-usa-e-sempre-piu-alto-2624189

14 I Treasury Bond (T-Bond) sono titoli del debito pubblico statunitense di lungo termine

15 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

16 https://www.swift.com/about-us

17 https://www.fondopriamo.it/blog/priamo/sistema-swift

18 https://www.italiaoggi.it/news/nei-brics-non-si-usa-piu-il-dollaro-2627434

19 Saggio: L’ascesa dei Brics parte II: La complessa questione della dedollarizzazione di Andrea Vento (mettere link)

20 La prima tranche di sanzioni occidentali è stata introdotta un giorno prima l’avvio dell’Operazione speciale russa in Ucraina a conferma della finalità di natura geoeconomica tesa a creare una frattura fra Ue e Russia a beneficio Usa

21 Nel dettaglio il provvedimento sanzionatorio ha colpito: VTB, Bank Otkritie, Novikombank, Promsvyazbank, Rossiya Bank, Sovcombank, Vneseheconombank (VEB) https://www.confindustria.it/home/crisi-ucraina/sanzioni

22 https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2022/06/03/russia-s-aggression-against-ukraine-eu-adopts-sixth-package-of-sanctions/

23 https://www.agi.it/estero/news/2022-01-29/ucraina-ue-ridurre-dipendenza-gas-da-russia-15406821/

24 https://www.shipmag.it/europa-diminuisce-la-domanda-di-gas-ma-limport-dalla-russia-resta-alto/

25 https://www.rinnovabili.it/mercato/politiche-e-normativa/gnl-dalla-russia-ue/

26 https://milan.icbc.com.cn/it/column/1438058492186738925.html

27 https://wise.com/it/swift-codes/ICBKCNBJNTG

28 https://www.geopolitica.info/esclusione-russia-swift-internazionalizzazione-renminbi/

29 https://blog.osservatori.net/it_it/blockchain-spiegazione-significato-applicazioni

30 Central Bank Digital Currency: può essere definita come la rappresentazione digitale di una moneta nazionale, intesa come moneta a corso legale, emessa e gestita da un’istituzione sovrana come la banca centrale. Si tratta quindi di una passività bancaria denominata in un’unità di conto esistente, accessibile a tutti, che funge sia da mezzo di scambio sia da riserva di valore. A differenza delle criptpvalute e delle stablecoin, una CBDC è quindi direttamente sostenuta da un governo e rappresenta una passività della banca centrale.

Fonte: https://civitas-schola.it/2022/02/09/valute-digitali-emesse-dalla-banca-centrale/

31 https://www.italiaoggi.it/news/nei-brics-non-si-usa-piu-il-dollaro-2627434

32 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

33 lo Yuan è la moneta che in teoria potrebbe sostituire il dollaro a causa del suo ruolo crescente nell’economia mondiale (la Cina rappresenta il 18% del PIL mondiale). Tuttavia, le autorità cinesi non accetteranno mai di non controllare la loro bilancia dei capitali, il che rende lo Yuan di fatto incompatibile con un ruolo di valuta di riserva.

34 Dati diramati da Christophe Morel, chief economist di Groupama Asset Management, https://esgnews.it/focus/opinioni/la-progressiva-de-dollarizzazione-delleconomia-mondiale/

35 Vale a dire multi valutario

36 Piano dell’Ue finalizzato al superamento delle forniture energetiche dalla Russia e alla ridefinizione della geografia degli approvvigionamenti comunitari a beneficio di altri paesi come Usa, Qatar, Norvegia, e Algeria

https://ec.europa.eu/eurostat/documents/4187653/16179953/energy-imports.png/43bcbb87-3336-27a6-bec6-11628a74c98d?t=1703163769017

37 Tesi sostenuta dal prof. Alessandro Volpi nella trasmissione “Scommesse al posto del Welafre” di Ottolina tv a partire dal minuto 36. https://www.youtube.com/watch?v=zic9zuZDPTA&ab_channel=OttolinaTV

38 Nel 2022, ultimo anno con dati completi a disposizione, l’interscambio complessivo Cina – Usa, nonostante la guerra commerciale, secondo i dati ufficiali del Bureau of Economic Analysis ha raggiunto la cifra record di 690,6 miliardi di $, superando il precedente primato di 659 miliardi del 2018. L’export cinese negli Usa è risultato di 536,8 miliardi di $ e quello statunitense in Cina 153,8 con un saldo a favore di Pechino di 383 miliardi. https://www.agenzianova.com/a/63e320597ef4b1.11519917/4240576/2023-02-08/usa-cina-record-scambi-commerciali-nel-2022-690-miliardi-di-dollari-nonostante-tensioni

Nel 2023 l’interscambio commerciale Cina – Usa si è ridotto per la prima volta dal 2019 attestandosi a 644,4 miliardi $

39 James K. Galbraith “The dollar system in a multi-polar world” – International Journal of Political Economy vol.51, n°4, New York 2022

40 Il progetto è stato recentemente proposto dalla Russia e dal Brasile in ambito Brics.

Unità di conto: uno strumento comune per misurare il valore delle transazioni economiche tramite la fissazione dei prezzi e la contabilizzazione dei debiti e dei crediti, associati al passaggio di proprietà dei beni o delle attività senza un contestuale regolamento in moneta

https://www.treccani.it/enciclopedia/unita-di-conto_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)

COLONIALISMO: come la Palestina divenne dipendente da Israele

100 ANNI Dal mandato britannico a oggi: l’estrazione di valore a favore dell’economia israeliana, aiutata da leggi e forza militare, ha impoverito i palestinesi e li ha messi alla mercé del “vicino”

di Clara Mattei (da Il Fatto Quotidiano, 29/04/24)

Nel suo magistrale libro Jaccuse (Fuoriscena), in cui mette in luce la violenza strutturale della colonizzazione e la violazione di diritti umani perpetrata da Israele, la special rapporteur delle Nazioni Unite Francesca Albanese riproduce la giornata tipo di un lavoratore palestinese: “Alle 7.30 ti svegli, vuoi fare una doccia ma l’acqua la devi comprare da Mekorot, l’azienda idrica di Israele, che ha preso il controllo dell’80% delle risorse idriche della West Bank.
Alle 8.30 sali in auto per andare al lavoro, in un percorso simbolico, come può essere quello da Betlemme a Ramallah. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha una rete di 97 check-point fissi e centinaia di posti di blocco ‘volanti, che compaiono e scompaiono senza preavviso.
Lunghe code, controllo documenti, spesso chiusure — collettive o verso singole persone senza spiegazioni. Ogni lavoratore palestinese deve muoversi da casa con largo anticipo.
In pausa pranzo, per comprare un panino o fare la spesa, si usa solo lo shekel israeliano, non avendo Mai avuto una moneta palestinese.
Magari devi tare benzina, solo da gestori israeliani, che hanno il totale controllo delle risorse energetiche. Se lavori con l’estero, qualsiasi viaggio tu voglia fare, per qualsiasi motivo, dipende dall’autorizzazione che ti sarà eventualmente concessa da Israele, che controlla tutti i punti di accesso e di uscita dalla Palestina”.

QUESTA IMMAGINE è emblematica di una ultra-decennale storia di oppressione economico-politica, che gli economisti critici chiamano “teoria della dipendenza”: la vicinanza geografica tra Israele e Palestina ne è un caso da manuale. L’idea fondamentale è quella per cui lo “sviluppo” delle nazioni ricche non accade in maniera indipendente, ma deriva dall’attiva creazione di “povertà” in quelle povere. La struttura economica della periferia (Palestina) è stata trasformata per soddisfare le esigenze del centro (Israele). Prova ne sia il Pil di Israele: il doppio di quello palestinese nel 1967, oltre 14 volte tanto nel 2022 (in valori assoluti oggi e quasi 20 volte quello palestinese).
L’economia palestinese ha perso nel tempo un‘autonoma base produttiva, sia manifatturiera che agricola. L’estrazione di valore è dunque oggi tutta a favore dello Stato ebraico, che ne beneficia in un doppio senso: Riceve risorse naturali, materie prime e forza lavoro da un lato; ha a disposizione un mercato per le proprie merci dall’altro. La Palestina deve infatti importare i più costosi beni finiti sviluppando un deficit commerciale che ne aumenta la vulnerabilità economica e monetaria: negli ultimi cinquant’anni il 75-80% di tutti i beni importati ed esportati dalla Palestina sono stati scambiati con l’economia israeliana; nel 50% dei casi impor palestinese ha riguardato beni in passato prodotti in Palestina (abbigliamento, calzature, bibite, mobili, eccetera).

Per studiare il fenomeno della dipendenza economica palestinese, e quanto sia inscindibile da chiare decisioni politiche, dobbiamo fare un passo indietro e guardare agli anni del mandato britannico (1922-1947). La Gran Bretagna, in collaborazione con le organizzazioni sioniste del tempo (Palestine Jewish Colonization Association, The Jewish National Fund, The Palestine Land Development Company e via elencando), ebbe un ruolo cruciale nel plasmare l’economia dell’area in direzione capitalistica: facilitò la crescita dell’industria israeliana e la proletarizzazione dei palestinesi, allontanandoli dalla terra che costituiva la base della loro economia di sussistenza.

La terra acquistata dalle organizzazioni sioniste fu censita come “terra soltanto per ebrei’, non più vendibile ai non ebrei. Gli inglesi favorirono, inoltre, grandi donazioni e investimenti per le industrie ebraiche.
E ancora: l’impero britannico richiese le tasse agricole in denaro, causando l’indebitamento dei contadini palestinesi e costringendoli a prendere denaro in prestito, rendendoli cosi pià dipendenti dal mercato. D’altro canto, la Gran Bretagna assicurò fondamentali concessioni sulle risorse naturali alle compagnie ebraiche: la Rutenberg Electricity Company (1922), la la Atlit Salt Company (1929) e la Palestine Potash Company (1929),società – quest’ultima – di estrazione mineraria.
LA POLITICA DISEGUALE dei dazi giocò poi un ruolo fondamentale per creare le condizioni dipendenza palestinesi. Gli inglesi mandatari abolirono i dazi sulle merci prodotte da ebrei e sulle importazioni di materie prime, mentre imposero alte tariffe sulle merci che potevano competere con I’industria ebraica. Il trattamento opposto fu riservato all’industria araba, con l’imposizione di alte tariffe sul sapone e l’olio di oliva, i loro primari settori economici. Non solo: la “open border policy”, già sperimentata in India, comportò che i contadini palestinesi non fossero più in grado di competere coi prodotti agricoli importati, aumentando il loro debito e portandoli a vendere le terre a grandi proprietari terrieri.
Venticinque anni dopo, al momento del piano di partizione del 1947 e della guerra del 1948 – la Nakba, “la catastrofe” degli arabi, durante la quale ”80% della popolazione palestinese divenne profuga e più di 700 villaggi furono distrutti – il peso dell’economia ebraica era molto più forte della sua controparte araba: la quota ebraica della produzione nazionale era del 53%, ma quella della produzione industriale dell’89% e gli investimenti in capitale I’88% di quelli totali.
Il momento chiave nella costruzione della subalternità politico-economica fu però l’occupazione del 1967, in cui la Palestina fu ridotta al 22% del territorio rispetto alla Palestina del mandato, ovvero Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Tra le varie ordinanze militari emesse da Israele si possono ricordare quelle che stabilirono la chiusura di tutte le banche operanti in Cisgiordania tranne due, poste sotto supervisione israeliana; o l’impossibilità di importare nuove macchine (l’unica opzione era acquistarle di seconda mano); o ancora quelle che misero in atto una complessa rete di procedure amministrative e restrizioni, in vigore ancora oggi, che hanno reso praticamente impossibile per i palestinesi avviare un’attività commerciale. Tra il 2016 e il 2018, le autorità militari israeliane hanno approvato solo il 3% dei permessi di costruzione nell’Area C, che comprende più del 60% della Cisgiordania.

Da allora la Cisgiordania e la Striscia di Gaza sono state incorporate in un’unione doganale con Israele, che impone restrizioni sui tipi di merci che possono essere importate o esportate dai Territori per proteggere l’agricoltura israeliana.
Ogni commercio col resto del mondo deve passare attraverso Israele ed essere gestito da personale israeliano: qualsiasi Merce importata o esportata da singoli o da imprese palestinesi passa dalla dogana israeliana, che può bloccare e tutto e che da anni trattiene i dazi doganali invece di girarli come da Accordi di Oslo all’Autorità nazionale palestinese. Per di più le autorità israeliane hanno proibito gli investimenti da Israele – o dall’estero – nell’economia palestinese e l’esercito israeliano ha esercitato il pieno controllo sui bilanci in Cisgiordania e Gaza, compresa la tassazione e la raccolta: i palestinesi sono stati costretti a pagare imposte sul reddito dal 3 al 10% più alte rispetto a quelle applicate agli israeliani per la stessa fascia di reddito.

L’OCCUPAZIONE MILITARE ha confiscato nel tempo vaste aree di terre pubbliche e private palestinesi per la costruzione di insediamenti e riserve naturali.
Alla meta degli anni 80, il 39% della Cisgiordania e circa il 31% della Striscia di Gaza erano state Mappate come terre statali israeliane: secondo il gruppo per i diritti israeliano B’Tselem, durante i primi 36 anni di occupazione Israele sequestro quasi 200mila ettari di terre palestinesi affittandole a enti, associazioni e privati per la costruzione di insediamenti.

Le confische di terreni e le restrizioni al commercio e agli investimenti causarono il collasso dell’agricoltura palestinese, che un tempo impiegava gran parte della forza lavoro autoctona: nel 1967 l’economia agricola nei Territori assorbiva quasi il 40% della forza lavoro, nel 1993 degli Accordi di Oslo meno del 20%. Comunità autosufficienti videro scomparire i loro mezzi di sostentamento e il risultato fu una diffusa “proletarizzazione” della società palestinese: molti passarono dall’essere lavoratori autonomi nell’agricoltura locale a salariati nell’economia israeliana. Nei primi vent’anni dell’occupazione, la percentuale di individui che cercavano lavoro all’interno di Israele o dei suoi insediamenti aumentò in modo esponenziale: da pressoché zero prima del 1967 a circa il 40% nel 1987, quando scoppio la Prima Intifada.

IL LAVORO PALESTINESE serve Israele in molteplici modi. La presenza di un grosso esercito industriale di riserva riduce i costi dei salari e garantisce sufficiente estrazione di plusvalore per l’industria israeliana.
Come ha detto un imprenditore al giornale Haaretz: “E quasi impossibile licenziare un lavoratore israeliano o spostarlo senza il suo permesso e un aumento del salario, invece un lavoratore arabo è eccezionalmente mobile, può essere licenziato senza preavviso e spostato da un luogo all’altro. Non fanno scioperi, non presentano richieste.

La riduzione dei costi di produzione permette di vendere merci a prezzi migliori: è dunque un vantaggio competitivo rispetto all’estero, Palestina compresa, ma come spiega Ibrahim Shikaki, professore di economia al Trinity College in Connecticut, l’esercito industriale di riserva palestinese aiuta anche a togliere potere contrattuale ai lavoratori israeliani.

Come già fu in Sud Africa, i palestinesi sono autorizzati a lavorare solo per il datore di lavoro indicato sul loro permesso (che contiene i dettagli di entrambi), a viaggiare solo nell’area del loro lavoro e devono rientrare entro un determinato orario, pena l’arresto. I permessi sono carte biometriche necessarie per attraversare i check-point, in alcuni dei quali Israele ha implementato per i palestinesi il riconoscimento facciale automatico con l’intelligenza artificiale.

I flussi di lavoro palestinese verso Israele hanno coinvolto negli anni fino al 40% dei lavoratori della Striscia di Gaza e il 30% di quelli della Cisgiordania, dove ancora oggi sono più di 200mila: “Una volta che si sottrae una cosi massiccia forza lavoro a un’economia, non può che conseguirne miseria”, spiega al Fatto il professor Shikaki, i cui studi mostrano chiaramente che il tasso di disoccupazione palestinese è ormai strettamente correlato al ciclo economico di Israele. Con un corollario non da poco: “Oggi poi, sotto le bombe e col blocco totale delle frontiere, non si può neppure più lavorare..”.

FONTE. Il Fatto Quotidiano, 29 Aprile 2024

Nuova Patto di stabilità EU: “Serve una vera Liberazione, contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari”

di MARCO BERSANI

«L’ Europa è preoccupata? Se vinciamo noi è finita la pacchia!». Così urlava Giorgia Meloni all’ultimo comizio elettorale del settembre 2022. Siamo nell’aprile 2024, Meloni ha vinto e l’Unione Europea ha approvato il “nuovo” patto di stabilità dopo la sospensione triennale post pandemia.
Guardando le misure introdotte, si può dire che Meloni avesse ragione dal punto di vista letterale, ma avendo invertito soggetti attivi e soggetti passivi dell’affermazione.

Perché la pacchia -peraltro mai pervenuta dalle parti delle fasce deboli e medie della popolazione- è davvero finita e ritorna in grande stile la gabbia del debito e delle politiche di austerità.

Cosa prevede infatti il nuovo patto di stabilità? Intanto ripropone i numeri magici (60% rapporto debito/Pil e 3% rapporto deficit/Pil) i cui stessi ideatori dichiararono a più riprese di averli letteralmente inventati senza alcuna base scientifica. Su come raggiungerli e sulle procedure d’infrazione nel caso di mancato risultato, i mass media e le elite politiche si sbracciano per dire che c’è un allentamento rispetto alle misure previste in passato. Ma il focus è ancora una volta sbagliato.

Vediamo i dettagli. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil, i Paesi con un debito tra il 60% e il 90% del Pil dovranno ridurlo dello 0,5% ogni anno, mentre i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil (è il caso dell’Italia) dovranno ridurlo dell’1% annuo. Se è vero che il patto di stabilità precedente prevedeva un rientro del 5% all’anno, è altrettanto vero che prima tutti i Paesi erano consapevoli della totale impossibilità di un rientro così drastico, mentre ora il risultato è esigibile e quindi con conseguenze reali in termini di impatto economico e sociale. Per quanto riguarda il deficit, le nuove misure sono drasticamente peggiorative, perché, pur mantenendo il 3% come tetto non soggetto a procedura d’infrazione, spinge i Paesi ad arrivare all’1,5%, in modo da avere una più cogente stabilità finanziaria che consenta di affrontare eventi straordinari (vedi pandemia) senza mai superare il mitico 3%.

E come si raggiunge questo risultato? Con un miglioramento del saldo primario strutturale (entrate maggiori delle uscite) del 0,4% annuo del Pil nel caso di un percorso di aggiustamento di quattro anni o del 0,25% annuo del Pil nel caso il percorso sia di sette anni. Come riporta uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato sui calcoli del centro studi Bruegel (https://www.etuc.org/en/pressrelease/100bn-cuts-next-year-under-council-aust erity-plan), si tratta per l’Italia di tagli al bilancio di 25,4 mld/anno (percorso quadriennale) o di 13,5 mld/anno (percorso settennale). E se il buongiorno si vede dal mattino, segniamoci la data del 19 giugno (post-elezioni) perché sarà allora che si aprirà la prima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il deficit eccessivo registrato nel 2023.

Non di soli numeri si parla nel “nuovo” patto di stabilità, bensì anche di democrazia. Già perché l’altra novità è che per i Paesi con debito alto sarà direttamente Bruxelles “a indicare la traiettoria di riferimento della spesa primaria netta”, ovvero a decidere quanti soldi andranno alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica, mentre un occhio di riguardo nei conteggi sarà riservato per tutti gli investimenti che riguardano il bilancio della Difesa e le spese militari.

Torna la gabbia, dunque, e la ridicola astensione al voto da parte della maggioranza di governo di destra, così come quella del Pd, hanno il sapore della foglia di fico pre-elettorale.

Oggi più che mai serve una vera Liberazione: contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari.

FONTE: Il Manifesto del 27 Aprile 2024

La lunga notte della Repubblica

di Domenico Gallo

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006.

La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni.

Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017).

Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”

(Intervento al convegno del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che si è tenuto il 23 aprile a Roma. Un estratto è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano del 24 aprile con il titolo: Una tempesta perfetta contro la Costituzione)    

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/la-lunga-notte-della-repubblica/

Annotazioni su Black Marxism, con uno o due occhi sulla Sardegna

di Enrico Lobina

Avvertenza

Non ho una conoscenza organica e completa degli studi postcoloniali. Ritengo molto utile conoscerli e studiarli perché ci permettono di fare passi in avanti rispetto al “marxismo bianco”, che ha ancora di più ristretto la capacità di lettura della società di Marx ed Engels. La società ha bisogno di chiavi di lettura, e gli studi postcoloniali lo sono. Anche perché poi, noi, il mondo lo vogliamo cambiare, lo vogliamo più giusto rispetto ad oggi.

“Black marxism – genealogia della tradizione radicale nera” è un libro uscito in lingua inglese nel 1983, e pubblicato per la prima volta in lingua italiana nel 2023, dalla casa editrice Edizioni Alegre. L’autore è Cedric J. Robinson, docente universitario statunitense, e punto di riferimento dei “black studies”. Robinson è venuto a mancare nel 2016.

La traduzione del libro è di Emanuele Gianmarco, e la prefazione e postfazione sono di Miguel Mellino, il quale in questi decenni molto si è prodigato per popolarizzare gli studi postcoloniali in Italia.

Anche perché, proprio in Italia, per ragioni varie, gli studi postcoloniali non hanno suscitato l’interesse, accademico e non solo, registrato in altri paesi dell’Europa occidentale[1]. Rispetto ad un tema che nel libro viene trattato (il sistema schiavistico delle repubbliche marinare), per esempio, Mellino scrive: “non può non colpire, infatti, l’assenza in Italia, diversamente che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, di una ricerca storica sul proprio coinvolgimento nella genesi e nello sviluppo del sistema schiavistico globale moderno. Difficile non interpretare oggi una simile assenza o rimozione, sulla traccia del lavoro di Gloria Wekker, come parte di una tradizionale innocenza bianca italiana”[2].

Il libro, di circa 700 pagine, reinterpreta la storia dell’Europa e degli Stati Uniti, ed in definitiva del mondo non asiatico, alla luce di elementi colpevolmente dimenticati, secondo l’autore, dal pensiero marxista fino a quel momento egemone.

Robinson struttura il libro in parti diverse. Una prima parte è dedicata alla nascita ed alle vicissitudini del radicalismo europeo, al cui interno colloca sicuramente il marxismo, ma anche il nazionalismo.

Già in questa prima parte appare un concetto fondamentale, che sarà una pietra miliare dell’analisi sociale, ancora oggi estremamente utile, per il quale rimarrà famoso probabilmente per sempre: il capitalismo razziale.

Prima di affrontare questo concetto, soffermiamoci su quello di razzialismo. Il razzialismo è una delle caratteristiche più profonde dell’ordinamento della società europea. Non è legato al colore della pelle, in quanto è stato rivolto a tanti popoli che si è inteso dominare e sfruttare, già a partire dal Medioevo. Determinate caste o classi hanno sfruttato ed espropriato i popoli più disparati in nome di una superiorità. Uno degli esempi più conosciuti è quello del popolo irlandese, ma ci potremmo soffermare su tanti altri contesti. Per Robinson:

“Ci sono almeno quattro momenti che dobbiamo tenere a mente nella storia del razzialismo europeo; per due di questi le origini vanno ricercate nella dialettica dello sviluppo europeo, per gli altri due no:

  1. L’ordinamento razziale della società europea a partire dal suo periodo formativo, che si estende nelle epoche medievali e feudali sotto forma di ‘sangue’, credenze e leggende razziali;
  2. La dominazione islamica (ovvero araba, persiana, turca e africana) della civiltà mediterranea e il conseguente ritardo della vita culturale e sociale europea: il Medioevo dei cosiddetti Secoli bui;
  3. L’incorporamento dei popoli africani e asiatici e del Nuovo mondo nel sistema globale emerso dal tardo feudalesimo e col capitalismo mercantile;
  4. La dialettica del colonialismo, della schiavitù piantocratica e della resistenza dal sedicesimo secolo in avanti, e la formazione della manodopera industriale e della manodopera di riserva.

Per convenzione si tende ormai a iniziare l’analisi del razzismo nelle società occidentali con il terzo momento; ignorando interamente il primo e il secondo e facendo i conti solo in parte col quarto”[3].

La necessità di aggiungere l’aggetto “razziale” al sostantivo “capitalismo” è dato dalla sostanziale sottovalutazione, da parte del marxismo bianco, di questi aspetti. Il capitalismo si impone perché è capitalismo razziale, e la schiavitù e la razzializzazione non sono orpelli di uno sviluppo capitalistico, bensì intrinseci alle dinamiche sia di accumulazione originaria che di espansione dello stesso.

Questo concetto arriva sino ai giorni nostri, a società razzializzate in cui la natura proteiforme della società, per riprendere alcuni termini di Franz Fanon, è razzializzata al suo interno, all’interno di quella che una volta era la “metropoli” della colonia. Oggi la segmentazione razziale del lavoro si vive nella ristorazione e nell’industria meccanica dell’Europa e degli Stati Uniti, nell’agricoltura e nella pastorizia. Il colonialismo è formalmente scomparso, ma la razzializzazione è onnipresente.

Il capitalismo senza razzializzazione non sarebbe stato. Il marxismo bianco, compreso quello italiano, quello togliattiano per intenderci, ha obliterano il tema, spesso con l’obiettivo di diventare “forza nazionale”[4].

Si tratta di arricchire e completare una analisi marxista. Come scrive Angela Davis, citata da Mellino nell’introduzione, “‘il termine ‘capitalismo razziale’ […] è stato proposto dal politologo Cedric Robinson come una critica alla tradizione marxista, fondata su quella che egli chiamava la tradizione radicale nera, io credo che tale concetto possa essere anche generativo per continuare a tenere queste due tradizioni intellettuali e attiviste che si sono storicamente intrecciate in una tensione davvero produttiva. Se il nostro scopo sarà cercare di mettere in luce i diversi modi in cui il capitalismo e razzismo si sono storicamente intrecciati, dalle epoche coloniali e dalla schiavitù fino al presente […], non staremo allora operando una semplice distensione del marxismo (per dirla con Fanon), bensì continuando a sviluppare in modo critico le sue intenzioni’. Da questo punto di vista, Black Marxim, soprattutto negli scenari europei, offre notevoli spunti per una decolonizzazione tanto del maxismo occidentale quanto dell’antirazzismo bianco”[5].

Questi ragionamenti sono utili alla Sardegna? Ne sono convinto. Se è vero che è stata prestata poca attenzione al razzismo intra-europeo, è altrettanto vero che, quanto meno a partire dal 1720, è stata prestata poca attenzione al razzismo piemontese verso la Sardegna e i sardi, ritenuti essere inferiori, sostanzialmente sub-umani e, quindi, oggetto di razzializzazione.

Saltando velocemente all’oggi, il politicamente corretto impone che questi termini non si utilizzino più, e che la razzializzazione produttiva si realizzi ma non entri in un discorso pubblico, ma il tema a mio parere rimane. L’Italia ha molti problemi, ed uno è questo: una unificazione nazionale che si è costruita con una sostanziale subordinazione del sud al nord, che oggi si esplica con una emigrazione massiccia di forza lavoro, qualificata e non, per la quale si sono spesi miliardi di euro al Sud e che, successivamente, va a creare plusvalore al Nord[6]. Con tanti saluti alle varie ideologie della CGIA di Mestre e dei loro amici ed alla ideologia del “residuo fiscale”, che oggi partorisce l’autonomia differenziata.

Ma torniamo al libro.

La seconda parte del volume “Le radici del radicalismo nero” è la parte in cui l’analisi storica è più consistente, soprattutto riguardo l’Europa, e su cui sicuramente i modernisti ed i medievalisti più potranno scrivere e dire. L’obiettivo centrale di Robinson, riuscito, è dimostrare che il pensiero radicale nero ha radici, origini, autonome e non dialoganti, quanto meno per secoli, con il pensiero radicale europeo, il quale ha tra le altre cose avuto come risultato il marxismo.

Robinson, anche qua con un aggiornamento necessario, dà voce a chi voce non aveva, gli schiavi e gli africani non schiavizzati, i quali sono stati categorizzati come “negri”, per affermare il loro carattere “sub-umano”.

Robinson passa in rassegna le forme massive di resistenza alla schiavitù, di cui si hanno tracce documentaria già a partire dal seicento, e le localizza territorialmente lungo il continente americano.

Emergono novità eclatanti, quanto meno per il sottoscritto, e mi limito a riportarne una:

“Di continuo, nei rapporti, nelle memorie, nei resoconti ufficiali, nelle testimonianze dirette, nelle vicende di ciascun episodio di questa tradizione, dal sedicesimo secolo fino agli eventi riportati sui quotidiani di un mese fa, di una settimana fa, un aspetto è sempre stato presente e ricorrente: l’assenza di una violenza di massa. Gli osservatori occidentali, spesso sinceri nella loro meraviglia, hanno rimarcato più e più volte come nei moltissimi avvicendamenti fra i neri e i loro oppressori […] i neri abbiano impiegato solo saltuariamente il livello di violenza che essi stessi (gli occidentali) ritenevano adatti all’occasione. Se pensiamo che nel Nuovo mondo del diciannovesimo secolo i circa sessanta bianchi rimasti uccisi nell’insurrezione di Nat Turner abbiano comportato uno degli episodi più gravi di tutto il secolo; se pensiamo che nelle enormi sollevazioni schiavili del 1831 in Giamaica – un paese in cui 300mila schiavi sopravvivevano al dominio di 30mila bianchi – furono accertate soltanto quattordici vittime bianche, quando paragoniamo rivolta dopo rivolta le fortissime e spesso indiscriminate rappresaglie di una civilissima classe padronale (l’impiego del terrore) alla scala di violenza adottata dagli schiavi (e dai loro discendenti oggi) si ha quantomeno l’impressione che in questi popoli così brutalmente oltraggiati esista un ordine diverso e condiviso delle cose”[7].

La seconda parte è propedeutica alla terza, “Radicalismo nero e teoria marxista”, in quanto “La memoria della renitenza nera alla schiavitù e ad altre forme di oppressione, più in dettaglio, è stata metodicamente rimossa o distorta a beneficio di storiografie egemoni razzializzanti ed eurocentriche. La summa di tutto questo è stata la disumanizzazione dei neri” e “la considerazione accordata alla politica rivoluzionaria delle masse nere ha la sua fonte nel radicalismo ‘bianco’”.

Tutta la terza parte è volta, tramite l’esame di alcuni intellettuali di riferimento, a smontare quest convinzione profonda, presente nel marxismo bianco e, più in generale, nelle organizzazioni di classe del XX secolo, ed anche del XXI sui due lati dell’oceano atlantico.

Gli intellettuali esaminati sono William Edward Brughardt Du Bois, abbreviato W.E.B. Du Bois, Cyrill Lionel Robert James, abbreviato C.L.R. James, e Richard Wright.

Robinson discute anche la parabola intellettuale di professori e dirigenti rivoluzionari, che abbracciarono il marxismo e spesso terminarono per acquisire una coscienza più profonda, un pensiero radicale nero.

Robinson lungo tutto il volume, e specialmente in questa terza parte, presenta il dato di fatto che l’élite nera accettò la razzializzazione dei neri, e la usò per potersi ritagliare uno spazio sociale, o di rendita o di intermediazione[8].

Du Bois è stato un grandissimo studioso, ed ha scritto parole non emendabili sulla schiavitù:

“Nelle primissime pagine di Black Reconstruction Du Bois individua subito quale sia per lui la contraddizione fondamentale di tutta la storia americana, quella che avrebbe sovvertito l’ideologia fondante del paese, distorto le sue istituzioni, traumatizzato i rapporti sociali e la formazione delle classi, fino a disorientarne, nel ventesimo secolo, anche i ribelli e rivoluzionari:

sin dal giorno della sua nascita l’anomalia della schiavitù ha infettato una nazione che affermava l’uguaglianza fra tutti gli uomini e ambiva a fondare ogni suo potere di governo sul consenso dei governati. In mezzo a questo coro di proclami vivevano più di mezzo milione di schiavi neri, quasi un quinto di tutti gli abitanti della giovane nazione.

È stato il lavoratore nero, pietra angolare del nuovo sistema economico e del mondo moderno, a portare la guerra civile nell’America del diciannovesimo secolo. Era lui la causa sottintesa, a prescindere da qualsiasi tentativo di individuare nel potere nazionale e in quello dell’Unione le radici del conflitto”[9].

Attraverso le figure dei tre intellettuali citati si esamina anche la storia del rapporto tra il comunismo ortodosso statunitense, ed il Comintern, e la questione nera, o negra, come scriveva allora proprio il Comintern.

Secondo Robinson, “Dopo il 1922, la tutela e la formazione dei quadri neri in Unione Sovietica vennero prese piuttosto seriamente”.

A fine 1928 la “questione negra americana” venne inserita nel rapporto congressuale dal titolo “tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e nelle semi-colonie”. Insomma, il comunismo “ufficiali”, si accetti questa definizione per semplificazione, si accorse della questione negra e la affrontò seriamente.

Ma non bastò. La Terza Internazionale, nel frattempo ideologicamente, politicamente ed organizzativamente egmonizzata dallo stalinismo, non compì quegli sforzi teorici e non ebbe la necessaria dose di coraggio che sarebbe stata necessaria per affrontare, per esempio, quanto scriveva C.L.R. James[10] riguardo Haiti. Nelle parole di Robinson

“Il capitalismo aveva prodotto la sua negazione storica e sociale in entrambi i due poli della sua espropriazione: l’accumulazione capitalistica aveva prodotto il proletariato nel centro manifatturiero; l’accumulazione originaria aveva posto le basi sociali per le masse rivoluzionarie della periferia. Ma ciò che distingueva le formazioni di queste due classi rivoluzionarie era la fonte dei loro sviluppi ideologici e culturali. Mentre il proletariato europeo si era formato attraverso le idee della borghesia  […] ad Haiti e presumibilmente altrove, fra le popolazioni schiave, gli africani avevano costruito la loro propria cultura rivoluzionaria:

E comunque non c’è bisogno di istruzione e di incoraggiamento per coltivare sogni di libertà. Nei riti notturni Voodoo, il loro culto africano, gli schiavi danzavano solitamente al ritmo del canto preferito: […]

Giuriamo di distruggere i bianchi e tutto ciò che posseggono; moriremo piuttosto che infrangere questo voto […]

Siamo davanti a qualcosa di lontanissimo dal modo in cui Marx ed Engels avevano concepito la forza trasformativa e razionalizzante della borghesia. Implicava (e James non se ne accorse) che la cultura, il pensiero e l’ideologia borghese fossero irrilevanti per lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria fra i neri e gli altri popoli del Terzo mondo. Significava rompere con la catena evoluzionistica implicita nel materialismo storico e nella sua dialettica chiusa”[11].

Il lavoro di Robinson, letto a 40 anni dalla sua pubblicazione, per un pubblico italiano oggettivamente lontano da quelle realtà e da quei dibattiti, è importante. Si destruttura la storiografia americana e occidentale. Si pone a critica la tradizione intellettuale socialista ed il marxismo, organizzato e non.

Il movimento radicale nero ha ricreato, con l’impatto con la schiavitù ed il dominio razziale, una chimica collettiva, e personale, che è diventato un movimento sociale (vedi i recenti movimenti Black lives Matter), i quali non affondano le loro radici nel radicalismo europeo.

La categoria di capitalismo razziale resta utilissima, innanzitutto in Europa, sia per il passato che per il presente: “Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale”[12].

Esiste, in altri termini, un vincolo strutturale tra capitalismo e razzismo, che per esempio l’antirazzismo borghese europeo, che poi è quello praticato dalle cosiddette sinistre, non vede.

Ciò non toglie che “Black marxism”, che è un libro del 1983, non vada aggiornato, soprattutto nelle sue analisi storiche, e non sono io in grado di farlo, riguardo ad una messe enorme di studi che hanno approfondito ed introdotto novità riguardo ad una miriade di fenomeni storici analizzati dalla studioso.

Per concludere sul libro ““Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale” e “la questione al cuore del testo: ciò che manca nel marxismo storico, si potrebbe dire, è un’interrogazione più radicale delle origini della civiltà occidentale, così come della sua appartenenza culturale, come movimento teorico-politico, al campo della filosofie europea”.[13]

Postilla – E l’Asia?

L’Asia è completamente assente dal libro di Robinson. È comprensibile. India, Cina, Viet Nam e Giappone, e l’insieme del continente (Russia esclusa) hanno vissuto tra settecento e novecento parabole coloniali diverse rispetto al capitalismo razziale dell’Africa e soprattutto delle Americhe. Non che a quei paesi non si possa adattare il concetto di capitalismo razziale, o che non siano paesi razzializzati, in modi completamente diversi rispetto a quanto possiamo immaginare[14].

La risposta durante il novecento, e questa forse è la ragione del silenzio di Robinson, il quale alla fine aveva comunque un tema ben definito da affrontare, del comunismo asiatico è stata nei fatti diversa rispetto a quella del comunismo ortodosso. In Cina e Viet Nam, infatti, da una parte si aveva una conformazione sociale molto diversa rispetto al capitalismo razzializzato nordamericano ed europeo, perché si aveva un regime coloniale molto duro e con un consenso largo, seppur passivo, tra le élite. Dall’altra, il comunismo cinese e vietnamita è riuscito a far sposare, convivere, e poi far vincere, le loro rispettive “tradizioni radicali” autoctone, con una elaborazione marxista originale, anch’essa autoctona. Da qua la loro vittoria e, probabilmente, la capacità di sopravvivere, insieme al Kerala ed altre realtà, alla caduta del Muro di Berlino



[1] E forse questa è anche una delle ragioni per cui, come da ultimo ha scritto Salvatore Cannavò su Jacobin, “La seconda repubblica si è mangiata la sinistra”. https://jacobinitalia.it/la-seconda-repubblica-si-e-mangiata-la-sinistra/

[2] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 772

[3] Idem, p. 168-169

[4] Per esempio Togliatti ed il PCI decisero di porre in secondo piano, e di non fare emergere come grande questione politica generale, i temi posti sia dall’occupazione delle terre a fine anni quaranta e durante gli anni cinquanta, sia le battaglie contro la emigrazione che, per esempio, vide in Calabria protagonista un gigante del comunismo italiano novecentesco italiano come Paolo Cinanni. Si preferì calcare la mano sul “vento del Nord”, e sostanzialmente non contrastare adeguatamente le emigrazioni di massa dei contadini, mezzadri e semi-proletari del sud Italia, i quali andarono a costituire un segmento lavorativo, parzialmente razzializzato, il quale costituì un serbatoio di manodopera fondamentale per il “miracolo economico italiano”. I “margini” non divennero centrali nell’intervento politico del PCI. Di Paolo Cinanni si veda “Che cos’è l’emigrazione – scritti di Paolo Cinanni”, edito dalla FILEF nel 2016, scaricabile al link https://filef.info/index.php/2017/07/04/che-cose-lemigrazione-scritti-di-paolo-cinanni-e-ora-scaricabile-on-line/

[5] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 18

[6] Sulla emigrazione giovanile qualificata sarda, con qualche riferimento ai costi dell’emigrazione dal sud Italia, cfr. http://www.enricolobina.org/wp/2018/02/04/emigrazione-giovanile-qualificata-in-sardegna-lo-studio/

[7] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 400

[8] Non è successa la stesa cosa per i sardi? La cosiddetta sinistra politica e sindacale sarda, e gli stessi Riformatori Sardi, non sono o aspirano ad essere una élite di mediazione, una membrana che media gli interessi capitalistici italiani per renderli digeribili ai sardi, al contrario della destra, la quale è molto più diretta nella gestione del potere?

Chiaramente questo tema andrebbe approfondito con molta attenzione, al di là dei riferimenti contemporanei. Varrebbe la pena utilizzare la lente di Robinson per discutere della razzializzazione, per esempio, nel settore delle miniere. Consiglio l’articolo di Andria Pili “Capitalismo globale e ordine bianco” rintracciabile qui: https://www.filosofiadelogu.eu/2022/capitalismo-globale-e-ordine-bianco-di-andria-pili/ e, più in generale, tutta l’elaborazione di Filosofia de Logu, https://www.filosofiadelogu.eu/.

[9] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 459.

[10] C.L.R. James è l’autore del libro “I giacobini neri”.

[11] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 614-615.

[12] Idem, p. 722

[13] Idem, pp. 733-735

[14] Chi ha studiato un po’ la Cina sa, anche senza aver studiato il cinese, che il termine straniero in cinese, “lao wai”, è un termine dispregiativo, l’equivalente di “barbaro straniero”.

FONTE: http://www.enricolobina.org/situ/annotazioni-su-black-marxism-con-uno-o-due-occhi-sulla-sardegna/

LE RICETTE FALLITE DEI 7 NANI E I DUE PESI SU IRAN E ISRAELE

di Elena Basile

Sembra un film distopico. I leader dei Sette Paesi, che un tempo erano i più sviluppati del mondo e oggi costituiscono una minoranza arroccata alla propria potenza militare e in declino economico, diffondono sui media la loro fotografia in una giornata di sole con lo sfondo dei Faraglioni di Capri. E noi abbiamo l’impressione che il genere umano sia ostaggio di politiche deliranti, senza veri scopi strategici, terribilmente dannose per i cittadini occidentali in quanto causano povertà, disparità sociale, recessione, distruzione dell’industria e della transizione verde, negazione dello stato sociale, guerra e rischio di conflitto nucleare.

Si sono riuniti per confermare la strategia che per due anni è risultata perdente: armare l’Ucraina per condurre la Russia a una “pace giusta”. Giusta per chi?
Per Zelensky o per le popolazioni russofone? Giusta per noi occidentali o per i russi? Che significa pace giusta? La pace è stata storicamente il risultato della diplomazia che ha dovuto necessariamente tenere in conto gli opposti interessi in gioco e le forze in campo. Era giusto considerare la Russia il perdente della Guerra fredda?
No, era una constatazione di fatto. Dal 1989 al 2007 Mosca ha dovuto ingoiare le prepotenze occidentali, inclusi i bombardamenti su Belgrado e due allargamenti della Nato. Poi ha rialzato la testa, notando che il mondo cominciava a cambiare e gli emergenti si organizzavano intorno alla Cina. Si è opposta al colpo di Stato ucraino di piazza Maidan e ha conservato le basi di Sebastopoli sul mar Nero annettendo la Crimea. Erano giusti il colpo di Stato a Kiev e la reazione russa di annettere la Crimea senza spargimenti di sangue?

La giustizia nelle relazioni internazionali è una categoria discutibile. Il diritto internazionale dal 1989 in poi, per non andare troppo indietro negli anni, è stato violato ripetutamente dagli Stati Uniti, da Israele e dall’Occidente con le guerre “umanitarie” (Bel grado, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). Come ricorda Piergiorgio Odifreddi, dal 1991 si contano 250 interventi militari Usa al di fuori dei loro confini. In tutto il mondo abbiamo 800 basi militari Usa (la Cina ne ha una sola a Gibuti). In Italia ve ne sono 35, anche nucleari. Come possono i politici delle democrazie europee balbettare parole senza senso che poco hanno a che vedere con la storia e con la realtà? Si creano categorie morali funzionali ai nostri interessi. L’opinione pubblica introietta luoghi comuni che distorcono le vere dinamiche internazionali.

Al G7, su proposta di Ursula von der Leyen – presidente della Commissione che dovrebbe incarnare il pilastro comunitario, la base dei sogni dei federalisti europei – si avallano nuove sanzioni all’Iran, colpevole dopo due attacchi terroristici con centinaia di morti e la violazione israeliana della loro rappresentanza diplomatica, di reagire simbolicamente, concordemente con la Cia, senza provocare morti. I difensori della democrazia liberale e dei diritti umani non impongono alcuna sanzione a Israele che, oltre a violare il diritto internazionale e umanitario, a rendersi colpevole di crimini di guerra a Gaza e in Cisgiordania, con l’attentato all’ambasciata iraniana di Damasco, ha confermato di avere un governo terrorista. Il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, artefice dell’attacco alla Libia, ha avuto la sfrontatezza di affermare che la risposta senza danni e morti di Teheran era sproporzionata rispetto all’attacco all’ambasciata iraniana in Siria con numerose vittime. Mai la classe dirigente è sembrata così lontana dal senso comune, dalla morale comune, come oggi.

Due italiani, Mario Draghi ed Enrico Letta – e dovremmo pure esserne fieri – hanno stilato vecchie proposte in nuovi documenti sul mercato comune, sugli investimenti nei beni comuni, sul debito comune, sulla politica industriale europea, sulla crescita di ricerca e sviluppo, sull’Europa della difesa. Un parziale scimmiottamento di quanto Mario Monti aveva già scritto e i “riformisti” dell’Europa hanno ripetuto per anni senza che nulla mutasse. Ma oggi la dissonanza è più grave. Essi hanno sbagliato previsioni sulla fine della guerra in Ucraina, sono complici del massacro dei diciottenni ucraini e della crisi economica europea, della fine di una voce in grado di proteggere le finalità europee in ambito Nato. A riprova che non esiste la responsabilità per le proprie azioni e i propri sbagli, ritornano sul palco per venderci il sogno di un’Europa unita, indipendente, in grado di investire nei beni comuni, nella sua industria, nella sua ricerca, nella sua difesa.
Già: la difesa in un quadro di autonomia strategica dagli Usa o come braccio armato degli interessi di oltreoceano? Domande ignorate da Tajani e dagli altri esponenti di una Ue che ha sdoganato il mostro fascio-nazista affinché, una volta al potere, si allinei ai voleri delle oligarchie.

FONTE: Il Fatto Quotidiano, 20 Aprile 2024

Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.
C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota aut o m at i c o ” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata .
Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen.

La concorrenza fra le due persone è finta. A chi legga il discorso dell’ex presidente del Consiglio, tutto verrà in mente tranne che un pensatore e un protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione , dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.
Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa“. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).
Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 20 Aprile 2024

L’aziendalizzazione delle politiche di gestione del Servizio Idrico Integrato: il caso del Basso Valdarno

Il caso del Basso Valdarno dove Acque Spa, società a capitale pubblico-privato, gestisce il servizio con logiche manageriali tese alla massimizzazione dei profitti

di Andrea Vento

Il progressivo affermarsi delle politiche neoliberiste durante gli anni ’90 del XX secolo ha comportato per il nostro Paese, non solo una massiccia campagna di privatizzazione di aziende pubbliche strategiche (energetiche, bancarie, siderurgiche, meccaniche, telefoniche ecc..) ma ha anche determinato un graduale passaggio della fornitura di fondamentali servizi per la cittadinanza come rifiuti e acqua da una gestione pubblica al servizio della collettività, ad una caratterizzata da criteri manageriali con finalità di profitto. Questa profonda trasformazione ha praticamente accomunato, , le tre tipologie di società che in quegli anni avevano assunto la gestione del servizio idrico integrato nei neo costituiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in tutto il territorio nazionale1.

La gestione del servizio riguarda le infrastrutture: la proprietà dei beni costituenti la dotazione del Servizio Idrico appartiene allo Stato, alle Province e ai Comuni. Il gestore ne dispone per concessione gratuita e ne usufruisce del possesso.

Il comune può gestire il Servizio Idrico direttamente (in economia) oppure decidere di affidarlo, secondo quanto previsto dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi del settembre 2014, per cui il Servizio idrico Integrato può essere assegnato in gestione attraverso:

• concessione a soggetti privati che abbiano vinto una gara di appalto;

• affidamento a società mista pubblico privato (con progressiva imposizione del gestore unico per ogni ATO, scelto tra coloro che già gestiscono il servizio del 25% della popolazione (art. 7 comma 1 lettera d e lettera i dello Sblocca Italia) vale a dire le grandi aziende e le multiutilities, anche appositamente create;

• affidamento a società per azioni a completo capitale pubblico partecipate dai comuni e/o da enti e società pubbliche locali;

• affidamento in house alla propria società a capitale interamente pubblico.

Ne consegue che il Servizio Idrico in Italia può essere gestito da società interamente pubbliche, da società private o da società miste pubblico/privato. La popolazione italiana nel 2018 risultava servita per:

• il 53% da società totalmente pubbliche;

• il 32% a maggioranza / controllo pubblici;

• il 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio (cosiddetta «gestione in economia»);

• il 2% da società interamente privata;

• l’1% è da società miste a maggioranza privata2.

Soprattutto al Centro Italia, e in Toscana in particolare, il modello societario prescelto per la gestione è risultato quello delle società a capitale misto pubblico-privato ma con management espresso dalla parte privata, tramite affidamento diretto della gestione da parte dell’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (AATO), l’Autorità Idrica Toscana3. Ciò, nonostante il primo referendum sul tema della acqua del giugno 2011 prevedesse, si legge sul sito del Ministero dell’Interno, “L’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali ad operatori privati”4. In sostanza lo schiacciante esito favorevole del 95%, espresso dal 55% degli aventi diritto al voto, che ha imposto il ritorno della gestione del servizio idrico integrato in mano pubblica e con criteri a beneficio della collettività è rimasto in pratica inapplicato, salvo alcune rare eccezione di amministratori locali virtuosi che hanno proceduto in tale direzione. Come nel caso della Giunta De Magistris a Napoli tramite la creazione di Acqua Bene Comune, sorta nel 2013 dalla trasformazione di ARIN, Spa totalmente partecipata dal comune di Napoli, in Azienda Speciale comunale5.

Ed appurato che il secondo quesito referendario relativo alla determinazione delle tariffe del servizio idrico integrato, anch’esso approvato con percentuali analoghe, contemplasse “L’abrogazione parziale delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, il cui importo prevede anche la remunerazione del capitale investito dal gestore”, vale a dire una rendita finanziaria garantita pari al 7% del capitale investito, benefit che non ha in pratica eguali in altri comparti, si sarebbe dovuto procedere alla sottrazione della determinazione delle tariffe dalle logiche del mercato e del profitto, a prescindere dalle tipologie di società che forniscono il servizio.

Il caso dell’Ato Toscana 2 del Basso Valdarno

Dalla nostra analisi relativa alle trasformazioni subite, dalla fine del secolo scorso, dal servizio idrico integrato (SII) del Basso Valdarno, emerge come a seguito del parziale processo di privatizzazione e soprattutto di passaggio alla gestione manageriale, siano stati introdotti profondi cambiamenti rivelatisi particolarmente penalizzanti per gli utenti. Infatti, da un servizio erogato con basse tariffe direttamente dalle amministrazioni comunali, la prima trasformazione è avvenuta con la creazione di società municipalizzate, vale adire Società per azioni controllate interamente dai Comuni. Per poi procedere al successivo passaggio in direzione della radicale trasformazione della finalità gestionali, con la creazione della società a capitale misto pubblico-privato e l’assegnazione diretta del servizio a partire dal 1 gennaio 2002, senza gara di appalto ad Acque Spa.

Acque Spa: cenni storici e composizione societaria

Acque Spa è una società a capitale misto pubblico-privato alla quale, dall’inizio del 2002, l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale ha affidato in forma esclusiva la gestione del servizio idrico integrato di 55 comuni del Basso Valdarno (ATO Toscana 2) distribuiti su 5 province, Pisa, Firenze, Pistoia, Lucca e Siena, ai quali da allora fornisce i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione ad una popolazione che attualmente ammonta a circa 800.000 persone.

La società monopolista sorse il 17 dicembre 2001 dalla concentrazione di cinque società pubbliche operanti su di un vasto territorio che dall’entroterra della Toscana settentrionale arriva fino alla costa tirrenica: Gea di Pisa, Publiservizi di Empoli (Fi), Cerbaie di Pontedera (Pi), Coad di Pescia (Pt) e Acqapur di Capannori (Lu), prevedendo l’ingresso nel capitale sociale di soggetti privati con una importante quota di minoranza. In linea con gli impegni stabiliti dalla convenzione di affidamento del servizio, Acque Spa nel 2003 ha espletato, a suo dire, una gara ad evidenza pubblica a livello europeo per la selezione di un partner privato, che si è conclusa con l’aggiudicazione del 45% del capitale sociale da parte di Abab SpA. Società, con sede a Roma in piazzale Ostiense 2, costituita appositamente in data 21 dicembre 2003 da Acea S.p.A., Ondeo Services Società Anonima di diritto francese (ora Suez Environnement S.A.), Monte dei Paschi di Siena S.p.A., SILM Società Italiana per Lavori Marittimi S.p.A., Ondeo Degremont S.p.A. (ora Degremont S.p.A.) e dal Consorzio Toscano Costruzioni C.T.C. s.c.a.r.l. e, come si apprende dalla visura camerale6, avente per “oggetto l’assunzione e la gestione della partecipazione di minoranza di Acque Spa”.

Carta 1: il territorio dell’ATO Toscana 2 del Basso Valdarno

Il capitale sociale di Abab spa, che nel 2024 ammonta ad 8 milioni di euro, dopo varie modifiche registrate negli anni, attualmente, secondo il sito ufficiale di Acque Spa7, risulta controllato da Acea Spa, Suez Italia Spa, Vianini Lavori Spa e CTC Società Cooperativa.

Senza lasciarsi fuorviare dalla poetica denominazione di Abab spa, acronimo di “Acque blu basso Valdarno”, la società ha come classificazione della propria attività economica (Ateco) “Attività delle società di partecipazione” vale a dire rappresenta una holding, una società che controlla il capitale sociale di altre imprese, ed i cui attuali soci meritano di essere brevemente inquadrati per facilitarne la comprensione delle linee strategiche aziendali.

Acea, acronimo di “Azienda comunale energia e ambiente”, è l’ex municipalizzata del comune di Roma che “nel corso del tempo è cresciuta sino a diventare una multiutility di riferimento del panorama italiano”8 con partecipazioni azionarie in molte ex aziende pubbliche locali di servizi e dal 2000 operante anche all’estero. Divenuta di fatto una multinazionale, attualmente opera nella fornitura di servizi legati ad acqua, gas, rifiuti, energia e mobilità sostenibile, e risulta la prima azienda del settore a livello italiano9.

Suez Italia Spa è la divisione italiana di Suez Environnement, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti, dietro Veolia Environnement, entrambe società a controllo francese.

In origine la società Suez era una compagnia franco-belga nata nel 1997 dalla fusione della Compagnia del Canale di Suez (Belgio) e della Lyonnaise des Eaux (Francia) che si è fusa per incorporazione con Gaz de France (energia) nel 2008, dando vita al gruppo GDF Suez, divenuto poi Engie nel 2015. Contestualmente alla fondazione di GDF Suez nel 2008, le attività di Suez nel settore idrico sono state cedute ad una nuova società che ha preso appunto denominazione di Suez Environnement, controllata al 35% da Engie

Vianini Lavori Spa è invece una società del gruppo Caltagirone fondata a Roma nel 1908, che opera nei settori dell’ingegneria civile e nell’industria dei manufatti in cemento ed ha numerose partecipazioni in aziende italiane ed estere, in vari comparti. Nonostante il suo core business sia nell’ingegneria, nell’edilizia e nelle opere infrastrutturali, ha ampliato il suo raggio di azione in altri settori ritenuti redditizi, come quello della gestione del ciclo delle acque.

Il Consorzio Toscano Cooperative – C.T.C è una società cooperativa nata a Firenze nel 1980, attiva, come da codice Ateco, nella “Costruzione di edifici residenziali e non residenziali”10, e nonostante si legga nella presentazione11 che “Il consorzio è retto e disciplinato dai principi di mutualità senza fini di speculazione privata”, continua a mantenere una proficua quota del capitale di Abab dalla sua fondazione che, in qualità di Spa che rappresenta una forma societaria che per peculiarità proprie persegue la massimizzazione dei profitti12.

La parte pubblica pur controllando il 55% del capitale di Acque Spa, ha una partecipazione suddivisa fra varie società e enti locali: Cerbaie Spa il 16,26%, Acquapur Spa il 5,04%, Gea Servizi Spa il 12,27%, il comune di Chiesina Uzzanese lo 0,31%, quello di Crespina – Lorenzana lo 0,25% e Alia Servizi Ambientali Spa il 19,31% (grafico 1). Quest’ultima, prima multiutility toscana dei servizi pubblici locali, opera nei settori ambiente, ciclo idrico integrato ed energia, ed è stata fondata il 26 gennaio 2023 dalla fusione per incorporazione da parte di Alia Servizi Ambientali Spa di tre società pubbliche della Toscana Centro-Settentrionale: Publiservizi Spa, Consiag Spa e Acqua Toscana Spa.

La nuova società multiservizi risulta al momento partecipata da 66 comuni tra l’Empolese – Val d’Elsa e le province di Firenze, Prato e Pistoia, con le quote ripartite tra i principali Comuni nella seguente modalità: Firenze (37,1%), Prato (18,1%), Pistoia (5,54%), Empoli (3,4%) mentre altri comuni toscani detengono il rimanente 35,9%. Tuttavia sin dalla sua fondazione la nuova multiutility è risultata accompagnata da un programma di apertura al capitale privato e di quotazione in borsa sul modello di Acea13, come puntualmente esposto dal suo Amministratore delegato Alberto Irace, non casualmente amministratore delegato di Acea in carica dal 2014, al termine del quale la parte privata entrerà nella società fino ad una quota massima del 49%, tramite un aumento di capitale sociale14, che non è difficile immaginare possa riguardare anche Acea stessa.

Emerge il paradosso che una multiutility a totale capitale pubblico sia affidata nella conduzione strategica all’Amministratore delegato della principale società nazionale del settore, nota per i suoi criteri di gestione all’insegna della remunerazione degli azionisti, sollevando quindi non infondate perplessità sulla compatibilità con la tutela dell’utenza e della risorsa idrica che dovrebbero essere i principi cardine dell’interesse colletivo.

Grafico 1: la composizione del capitale sociale di Acque Spa

Il management di Acque Spa

Pur controllando la parte pubblica nel suo insieme il 55% del capitale sociale di Acque Spa, la componente privata, in virtù del rappresentare il socio di maggioranza relativa col 45%, riesce ad esprimere il management dell’azienda e a dettarne le linee gestionali. Dall’ultimo rinnovo del Consiglio di amministrazione di fine 2023 è uscita infatti la riconferma ad Amministratore delegato di Fabio Trolese, manager espressione di Acea, già in carica dal 2020, mentre la parte pubblica continua a mantenere cariche prevalentemente di rappresentanza e di controllo come la Presidenza, assegnata all’ex sindaco di Pontedera (Pi) Simone Millozzi, e la vicepresidenza, attribuita ad Antonio Bertolucci, già consigliere comunale e assessore al Comune di Capannori (Lu)15 e da tempo membro del Cda della stessa azienda.

I compensi percepiti dai membri del Consiglio di amministrazioni risultano molto elevati e, in genere, superiori rispetto a quelle di società analoghe, tant’è che il Presidente riceve un compenso lordo di 72.000 euro, il Vicepresidente 26.000 euro, l’Amministratore delegato 67.000 euro e i consiglieri, tre per parte pubblica e altrettanti per quella privata, 21.000 euro ciascuno. Per un totale annuo del 2023 pari a 291.000 euro.

Per avere un termine di paragone con una società toscana che presta lo stesso servizio fra le province di Arezzo e di Siena e dalla analoga struttura a capitale misto pubblico (53,84%) – privato (46,16%), come Nuova Acque Spa, il Presidente viene remunerato con 32.536 lordi e i restanti otto Consiglieri, dei quali uno adempie al ruolo di Amministratore delegato e altro quello di Vicepresidente, solamente 4.648 euro lordi, con l’aggiunta di un gettone di presenza per ogni Consiglio d’amministrazione di 300 euro16.

Tabella 1: comparazione compensi lordi in euro del Cda di Acque Spa e di Nuova Acque Spa.

CaricheCompensi Cda Acque Spa in euroCompensi Cda Nuova Acque Spa in euro
Presidente72.00032.536
Vicepresidente26.0004.648
Amministratore delegato67.0004.648
Consiglieri (n° 6)21.0004.648
Totale compensi lordi Cda291.000101.720
Gettone di presenza riunioni CdaNon previsto300

Compensi indubbiamente eccessivi per una azienda senza particolari rischi di impresa che agisce ad affidamento diretto in regime di monopolio, fornendo un bene primario indispensabile per l’esistenza umana e del quale ne impone le condizioni tariffarie in modo unilaterale finendo per appesantire l’entità delle bollette a carico della cittadinanza.

L’impennata delle tariffe e la rimodulazione degli scaglioni di consumo

Al fine di quantificare l’impatto dell’aumento dei costi della fornitura idrica integrata sulle casse delle famiglie abbiamo effettuato uno studio sull’entità sia delle tariffe che delle fasce di consumo fissate dai 2 gestori che si sono succeduti nel corso degli ultimi 25 anni nei comuni del Basso val d’Arno. Nella tabella 1 riportiamo inizialmente le tariffe applicate, per la sola fornitura idrica, nell’anno 2001 dalla società Gea Spa, a completo controllo pubblico, e, successivamente, quelle di Acque Spa, società mista pubblico-privato, fra il 2002 e il 2013, mentre nella penultima riga troviamo gli esorbitanti aumenti percentuali intercorsi fra il 2001 e il 2013. Nell’ultima, invece, sono riportati gli incrementi registrati fra il 2011 e il 2013, vale a dire nel periodo successivo all’effettuazione dei Referendum del giugno 2011, i cui risultati disponevano, oltre al ritorno del servizio in mano pubblica, anche l’eliminazione della remunerazione del capitale investito.

Il passaggio, fra il 2001 e il 2002, della gestione dalla società pubblica Gea Spa, costituita il 15 giugno 1995 mediante trasformazione dell’allora Consorzio Azienda Servizi Ambientali Area Pisana, ad Acque Spa ha comportato in un solo anno un aumento di 3 volte della Tariffa agevolata sino ad 80 mc di consumo e di 5,5 volte della quota fissa, mentre la Tariffa base è quasi raddoppiata e l’Eccedenza 1 aumentata “solo” del 50%, con l’Eccedenza 2 che invece beneficia di una diminuzione della tariffa. Una dinamica tariffaria non solo in rapida ascesa ma anche estremamente penalizzante per le basse fasce di consumo, come i pensionati, i nuclei familiari poco numerosi e in genere chi consuma poca acqua (tab.2).

Allargando l’arco temporale del raffronto rileviamo come fra il 2001 e il 2013, ultimo anno di uniformità delle fasce di consumo, la Tariffa agevolata sia aumentata vertiginosamente del 615%, mentre le altre in misura sensibilmente minore, con la quota fissa addirittura del 1.280%. Una politica tariffaria chiaramente orientata non solo all’incremento dei profitti, con ricadute negative sull’intero panorama degli utenti ma che infierisce sulle fasce sociali più deboli come i pensionati che, consumando in genere poca acqua, hanno visto lievitare in modo insostenibile sia il costo della fornitura idrica sia quello della quota fissa che colpisce trasversalmente tutti gli utenti a prescindere dal consumo e dal reddito.

Rileviamo infine come Acque Spa e i sindaci dell’ATO 2 conniventi con tali politiche, non solo non hanno proceduto all’attuazione degli esiti dei due referendum sull’acqua del 2011, ma hanno continuato incurantemente ad aumentare le tariffe, tant’è che nei due anni successivi le varie fasce di consumo e la quota fissa sono aumentati fra l’11 e il 13%. Con buona pace della cancellazione del 7% di rendita finanziaria sul capitale investito, procedimento che poteva essere attuato anche senza il ritorno della gestione del servizio idrico totalmente in mano pubblica.

Tabella 2: tariffe della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 (residenti) fra 2001 e 2013



Tariffe in euro della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 periodo 2001-2013
PeriodoGestoreTariffa agevolata al mc (0-80)Tariffa base al mc (81-200)Tariffa I eccedenza al mc (201-300)Tariffa II eccedenza al mc (oltre 300)Quota fissa annua
2001GEA Spa0,1560,3750,6251,2512,784
2002Acque Spa0,5140,6860,9321,11915,493
2009Acque Spa0,8671,1571,5731,88826,395
2011Acque Spa0,9841,3131,7842,14129,891
2013Acque Spa1,1161,4892,0242,42838,44

Aumento 2001-2013
615,38%297,06%223,84%94,08%1.280,74%

Aumento 2011-2013
11.34%13,40%11,34%11,34%12,87%

Dal 2014 Acque Spa ha attuato una rimodulazione delle fasce di consumo con una drastica riduzione da 80 a 30 mc di quella soggetta a Tariffa agevolata, accompagnata da ulteriori aumenti generalizzati delle tariffe negli anni successivi (tab. 3), diabolico combinato disposto che ha impattato negativamente sulla quasi totalità degli utenti.

Tuttavia, restringendo la fascia di consumi a Tariffa agevolata a soli 30 mc/annui, maggiori penalizzazioni vengono subite dalle famiglie con uno o due compenti, alle quali viene applicata in prevalenza la Tariffa base. Ugualmente subiscono marcati aumenti le utenze con i consumi più frequenti, vale a dire le famiglie di 3-4 persone che consumano in media fra 100 e 200 mc annui e che passano da una tariffa di 2,429 euro/mc del 2013 a 3,613 nel 2017 (tab 3).

Il malcontento generato da una politica tariffaria di tale aggressività costringe nel 2018 Acque Spa ad innalzare la fascia di consumo a Tariffa agevolata a 55 mc.

Tabella 3: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2017



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche 1 anno 2017
Tariffe

Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 30 mc0,2260,2340,9161,376
Base da 30 a 90 mc1,7360,2340,9162,886
I eccedenza da 90 a 200 mc2,4630,2340,9163,613
II eccedenza oltre 200 mc3,4610,2340,9164,611
Quota fissa56,35

Tabella 4: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2020



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2020


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,9420,2540,9942,190
Base da 56 a 135 mc1,8850,2540,9943,133
Eccedenza oltre 135 mc3,0450,2540,9944,293
Quota fissa61,17

Tabella 5: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2023



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2023


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,6360,7901,2532,679
Base da 56 a 135 mc1,2720,7901,2533,315
Eccedenza oltre 135 mc2,9350,7901,2534,978
Quota fissa60,21

Dall’analisi della dinamica tariffaria e dai criteri di rimodulazione delle fasce di consumo, risulta quindi palese che la strategia aziendale attuata dal management di Acque Spa si ispiri alla massimizzazione del profitto, con entrambe tese a penalizzare le utenze con consumi più bassi, come i pensionati e i nuclei mono o bi-personali, e coloro che cercano di attuare comportamenti virtuosi orientati alla riduzione dell’utilizzo della risorsa idrica.

Anche per questo riteniamo necessario che la tematica del rispetto della volontà popolare espressa tramite le consultazioni del giugno 2021 sia portata, soprattutto dai movimenti e dai partiti che sostennero il Sì ai due referendum, al centro dei programmi delle imminenti elezioni europee e amministrative di molti comuni italiani. Un messaggio di coerenza che sicuramente contribuirebbe a riavvicinare gli elettori, sempre più disinnamorati da questa politica, ai seggi.

Andrea Vento – 9 aprile 2024

Comitato comunale per l’Acqua pubblica di San Giuliano Terme (Pisa)

NOTE:

1 Gli ATO Acqua sono stati originariamente istituiti dalla Legge del 5 gennaio 1994 n. 36 “Disposizioni in materie di risorse idriche” che ha riorganizzato i servizi idrici aggregando sotto un’unica autorità (L’autorità di Ambito) i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, ivi comprese le relative tariffe.

2 Rapporto Servizio idrico in Italia del marzo 2019, realizzato da Utilitalia la federazione che riunisce 450 aziende di servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’energia elettrica e del gas operanti in Italia.

3 https://www.autoritaidrica.toscana.it/it/page/ait

4 Per i testi e gli esiti elettorali dei referendum dell’12 e 13 giugno 2011: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/altri_speciali_2/referendum_2011/index.html

5 https://www.abc.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=113

6 https://www.ufficiocamerale.it/2460/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa

https://atoka.io/public/it/azienda/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa/1ab8f6f855d1

7 https://cittadinoinformato.it/acque_spa/?doing_wp_cron=1711984551.6514940261840820312500

8 https://www.gruppo.acea.it/conoscere-acea/nostra-storia

9 http://europeanwater.org/it/azioni/focus-per-paese-e-citta/710-acqua-privata-frosinone-e-provincia-si-ribellano-revocato-il-contratto-con-acea

10 https://registroaziende.it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa-firenze

11 https://atoka.io/public/it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa/270196460d42

12 La gestione deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci. https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_per_azioni_(ordinamento_italiano)

13https://www.ilsole24ore.com/art/pronta-varo-multiutility-toscana-l-obiettivo-e-borsa-AEzqHKWB

https://www.arezzonotizie.it/attualita/corte-conti-no-quotazione-borsa-multiutility.html

https://www.utilitalia.it/notizia/dbe68738-6095-4d3d-8dfc-6c28ab59d9e9

14 Irace (Ad multiutility Toscana): l’obiettivo è la quotazione nell’aprile 2024

https://www.milanofinanza.it/news/irace-ad-multiutility-toscana-obiettivo-e-quotazione-aprile-2024-202302101958398899?refresh_cens

15 https://www.acque.net/wp-content/uploads/cv_bertolucci_antonio.pdf

16 https://nuoveacque.it/chi-siamo/#

L’oasi felice cilena: destre e poteri forti

di Marco Consolo

C’era una volta un’oasi felice (l’ex presidente Sebastian Piñera dixit), una specie di castello incantato, idilliaco e magico. Un Paese di cui molti si vantavano per essere un esempio di onestà e trasparenza, dove la corruzione non arrivava in Parlamento, meno tra le Forze Armate, i Carabineros, gli imprenditori e tra i professionisti meno esposti come gli avvocati. Si guardava con una certa superiorità e un po’ di disprezzo fuori dai confini di un “Paese civile” come il Cile, circondato da vere e proprie “Repubbliche delle banane”. Un Paese che nella narrazione interessata della dittatura civile e militare di Pinochet, anche grazie alla sua “mano dura” aveva messo al bando il “malcostume” della corruzione nelle istituzioni pubbliche e la criminalità organizzata. Le Forze Armate, i Carabineros e la Chiesa cattolica erano le istituzioni che più godevano di credibilità da parte dei cittadini.

Poi, piano piano, il miraggio è svanito, la realtà ha superato l’immaginazione e il castello incantato è cominciato a crollare, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie di quella parte della magistratura cilena non legata a doppio filo con il potere e grazie ai procedimenti dagli stessi Stati Uniti e dalla Spagna. All’inizio, le inchieste misero in luce i numerosi e milionari conti bancari all’estero del dittatore (a partire dal “Caso Riggs” [1]) e la trama di corruzione nelle FF.AA..

Poi, negli anni, i vertici apicali sia delle FF.AA. che dei Carabineros sono stati travolti da inchieste giudiziarie note come “Milicogate” [2] e Pacogate” [3], per appropriazione indebita di fondi pubblici, uso improprio di fondi riservati, arricchimento illecito, sottrazione dei fondi pensioni interni all’istituzione con l’inganno, etc.

Da ultima, la Chiesa cattolica ha iniziato a perdere colpi e credibilità per i numerosi scandali di pedofilia coperti dalle gerarchie locali (e non solo) con la migrazione di molti fedeli verso le Chiese evangeliche, in diversi casi vere e proprie “sette personali” di qualche predicatore in cerca di adepti e fondi.

Ma in queste settimane, è scoppiato uno scandalo che non ha precedenti, visto che non si tratta di qualche “mela marcia”. I massimi vertici delle due istituzioni principali di pubblica sicurezza, ovvero la Polizia di Investigazioni (PDI) e Carabineros,  sono sotto i riflettori, proprio quando la campagna contro il “dilagare della delinquenza” è il cavallo di battaglia della destra locale. Il Direttore Generale della PDI, Sergio Muñoz, si è appena dimesso, travolto da intercettazioni telefoniche in cui si è scoperto che filtrava informazioni riservate su procedimenti giudiziari in corso a Luis Hermosilla, un avvocato di lungo e complesso corso, ben collocato nel potere politico, finanziario e giudiziario.

Ed il Generale Ricardo Yáñez, a capo dei Carabineros, traballa per le accuse relative alla violazione dei diritti umani durante la “rivolta sociale” del 2019. Rimane in sella almeno fino al prossimo 7 maggio, data in cui saranno probabilmente formalizzate le accuse nei suoi confronti. Mentre il governo di Gabriel Boric non si pronuncia formalmente e non lo rimuove, Partito Comunista e Frente Amplio (entrambi parte integrante del governo) ne chiedono a gran voce le dimissioni. Ma andiamo con ordine.

La “porta giratoria”

Anche in Cile, le “porte giratorie” garantiscono influenza e potere. Alla fine del proprio mandato, pochi privilegiati passano allegramente a ricoprire cariche nel settore privato o anche in quello pubblico. Gli ex comandanti in capo delle Forze Armate, dopo aver gestito informazioni sensibili, spesso “arrotondano” la pensione ed i loro numerosi privilegi istituzionali: entrano nei consigli di amministrazione di consorzi privati, rilasciano interviste su temi di sicurezza e politici, ricoprono incarichi pubblici e sono candidati ed eletti, finora sempre nei partiti delle destre. Per chi ha ricoperto posizioni sensibili e di grande responsabilità nel campo della difesa e della sicurezza nazionale non ci sono limiti di tempo o di spazio. Al contrario, sono più che benvenuti.

Diversi ex capi delle Forze Armate e dei Carabineros sono stati eletti a destra in Parlamento, e non bisogna dimenticare i “senatori designati” dalla “costituzione” della dittatura, mantenuti per molti anni dopo il periodo post-dittatoriale.

L’ex capo dell’Aeronautica, Ricardo Ortega Perrier, è stato eletto consigliere costituzionale del Partito Repubblicano, partito nostalgico della dittatura. Prima di lui, l’ex comandante in capo della Marina, Jorge Arancibia, è stato membro della Convenzione costituzionale per l’Unione Democratica Indipendente (UDI) nochè senatore del partito che per anni è stato il “braccio politico” della dittatura. Oscar Izurieta, ex capo dell’esercito, è stato sottosegretario alla Difesa con l’ex presidente Sebastián Piñera. E, dulcis in fundo, un ex comandante in capo, Juan Emilio Cheyre, è stato presidente del Servizio elettorale, promosso da Piñera, con l’approvazione di vari partiti politici.

Per quanto riguarda l’esercito, ad oggi, sei dei sette ex comandanti in capo del periodo post-dittatura sono stati processati per reati finanziari, corruzione e violazione dei diritti umani.

Le uniformi macchiate dei Carabineros

Gli ultimi tre direttori generali dei Carabineros sono stati indagati e/o processati per reati finanziari, frodi e violazioni dei diritti umani. L’attuale direttore dei Carabineros, il Generale Ricardo Yáñez, è sotto accusa per violazione dei doveri d’ufficio in casi di arresto illegale e violazioni dei diritti umani durante la “rivolta sociale”. In uno dei tanti episodi “anomali”, alcuni dirigenti politici e parlamentari dell’opposizione democristiana e di destra hanno fatto visita pubblica al generale nella sede istituzionale per dargli sostegno politico. Il generale ha posato con loro per le foto, in un’operazione mediatica a dir poco anomala per un’autorità di polizia di alto rango e non deliberante.

Gli scheletri nell’armadio della PDI 

Gli ultimi due direttori generali della Polizia di Investigazioni (PDI) sono processati per appropriazione indebita, falsificazione di documenti pubblici, riciclaggio di denaro, fuga di informazioni da casi riservati e riciclaggio di attivi. Ad essi vanno sommati gli ufficiali e i funzionari dei Carabineros indagati e processati per falsificazioni, false testimonianze, irregolarità, abusi, mancato rispetto dei protocolli e violazioni dei diritti umani.

I casi del “Pacogate” e del “Milicogate”, in cui ufficiali, sottufficiali e funzionari dei Carabineros e dell’esercito hanno effettuato operazioni finanziarie fraudolente a spese dell’erario, per importi multimilionari, hanno occupato le prime pagine negli anni scorsi.

Poteri forti, magistratura e Servizio elettorale

La crisi politica ed istituzionale coinvolge anche altri settori, in particolare la magistratura, in un quadro rarefatto i cui contorni vengono alla luce poco a poco. Al centro ci sono i poteri forti, un’oligarchia di poche famiglie che muove i fili del potere, del denaro, della politica, dei mezzi di comunicazione e delle istituzioni. Una élite che piazza loschi personaggi in posti pubblici grazie a quote politiche.

È il caso dell’attuale Procuratore nazionale del Cile, Ángel Valencia Vásquez, fresco di nomina parlamentare piena di polemiche. Già consigliere parlamentare della destra di Renovación Nacional (RN), eletto Procuratore come “terza scelta” dopo che le destre avevano affondato altre due candidature “scomode”. Consulente diretto del senatore di RN Alberto Espina (ex ministro della Difesa nel governo di Sebastián Piñera), Valencia ha lavorato nel suo studio legale, legato alle inchieste giudiziarie dei comuni di Vitacura, Lo Barnechea e Ñuñoa, per casi di irregolarità e corruzione, quando erano in mano a sindaci di destra. Una foto in una cena conviviale, insieme all’ex ministro degli Interni e “colonnello” dell’Unione Democratica Indipendente (UDI), Andrés Chadwick, mostra i rapporti di Valencia con gruppi dell’élite cilena. Facile prevedere il suo scrupolo protettivo verso personaggi di quel settore legati ad atti illeciti. Eclatante il suo recente intervento “a gamba tesa” contro la portavoce del governo, la comunista Camila Vallejo, che ha parlato di una possibile rete di corruzione basata sulle intercettazioni giudiziarie del capo della PDI, mettendola in discussione ed entrando in un dibattito politico. Lungi dall’ “eseguire i corrispondenti atti di indagine”, il Procuratore nazionale appare coprire e servire altri interessi, grazie ai suoi legami con l’élite politica conservatrice.

Ma non è il solo caso. Andrés Tagle Domínguez dal 2021 è il presidente del Consiglio di amministrazione del Servizio elettorale del Cile (Servel), l’organismo incaricato di garantire la trasparenza e il corretto svolgimento delle elezioni. Tagle era membro della Commissione politica della UDI e “l’esperto elettorale” del partito. Durante il governo Piñera è stato consulente per le questioni elettorali della Segreteria della Presidenza, per poi diventare presidente del Servel nel secondo governo Piñera, sostenuto dalla maggioranza di destra del Senato, secondo la logica delle quote politiche binominali. Ingegnere commerciale dell’Università Cattolica, Tagle è stato direttore della potente Corporazione del rame (Codelco), direttore e consulente di aziende e società finanziarie e vicepresidente dell’influente Associazione delle assicurazioni sanitarie private (Isapres). Un uomo legato a doppio filo alle élite politiche e finanziarie del Paese è quindi oggi responsabile del Servizio Elettorale.

Prossime sorprese ?

Le intercettazioni del telefono dell’avvocato Hermosilla hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, confermando il controllo dei “poteri forti”, come élite politica e finanziaria che tira i fili del potere. L’indagine è ancora in corso e ci si aspettano molte altre sorprese potrebbero uscire dalle intercettazioni telefoniche e dalla rete di contatti per gestire e/o disturbare casi giudiziari, intervenire nell’operato di organi dello Stato, influenzare decisioni sulla nomina di giudici, ricevere illegalmente rapporti riservati della polizia.

Finora nei messaggi del suo cellulare appaiono menzionati tutti personaggi legati alla destra economica e politica cilena: l’ex presidente Sebastián Piñera (di cui Hermosilla sosteneva essere l’avvocato), l’ex ministro degli Interni di Piñera, Andrés Chadwick, l’ex sovrintendente Felipe Guevara, l’ex sindaco Raúl Torrealba, alcuni giudici e casi giudiziari relativi a temi come la compravendita dell’azienda mineraria Dominga e del Casinò Enjoy.

Finora, la rivelazione più delicata è che l’ex direttore del PDI, Sergio Muñoz, ha fornito informazioni riservate a Hermosilla. Quest’ ultimo era appena stato coinvolto nella fuga di notizie di una conversazione audio in cui si parlava, tra l’altro, di tangenti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate e della Commissione per il Mercato Finanziario. Nell’audio sono citati più di 50 uomini d’affari e personaggi dell’élite. Le intercettazioni e l’audio di quella conversazione sono un esempio plastico di come funziona la ristretta oligarchia al potere in Cile. Con i cittadini come spettatori, all’oscuro di ciò che accade realmente nei “salotti che contano”.

Liberi tutti

Anche in Cile l’impunità regna campante. Hermosilla è ancora libero, non è nemmeno ricercato per traffico di influenze o gestione illegale di informazioni riservate di polizia. È in buona compagnia, visto che in Cile grandi uomini d’affari e capi di gruppi finanziari processati per casi di corruzione, irregolarità, finanziamento illegale di campagne politiche, continuano a ricoprire le loro cariche. Uno dei casi più eclatanti è quello di Ponce Lerou (genero di Pinochet) presidente per più di venti anni dell’azienda chimica Soquimich (privatizzata con il golpe e regalatagli da Pinochet), coinvolto direttamente in casi di delitti tributari e corruzione (Caso Cascadas [4]). La Soquimich recentemente ha addirittura chiuso accordi strategici con lo Stato per lo sfruttamento del litio, di cui il Cile è tra i principali produttori.

Ad oggi, nessuno di questi grandi uomini d’affari e finanzieri ha scontato pene di carcere, ad eccezione di qualche risoluzione giudiziaria per frequentare “corsi di etica”. Mentre le galere si riempiono come sempre soprattutto di “poveri cristi” (magari colpevoli di commercio ambulante), sono decine i dirigenti di grandi aziende coinvolti in casi di corruzione, concussione, frode e collusione, allegramente a piede libero.

Con l’ombra della criminalità organizzata, del narco-traffico e della corruzione finanziaria che si allunga sul Paese, la Corte Suprema ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che “l’attuale sistema costituzionale e giuridico potrebbe consentire alcuni spazi di opacità”.

Con un governo senza la maggioranza in Parlamento, una quasi inesistente mobilitazione di piazza ed una crisi sociale che non accenna a diminuire, la crisi di credibilità istituzionale  e la destabilizzazione continuano.

NOTE

[1] https://ciperchile.cl/wp-content/uploads/CASO-RIGGS-SENTENCIA.pdf

[2] https://www.theclinic.cl/2019/08/20/milicogate-la-historia-de-la-investigacion-publicada-por-the-clinic-que-noqueo-al-ejercito/

[3] https://cooperativa.cl/noticias/pais/ff-aa-y-de-orden/carabineros/pacogate-fiscalia-pide-mas-de-20-anos-de-carcel-para-exdirectores-de/2023-10-24/070028.html

[4] https://www.ciperchile.cl/2014/10/20/caso-cascada-asi-se-perdio-la-plata-de-los-afiliados-a-las-afp/

Fonte : https://elsiglo.cl/notas-del-reporteo-pais-con-anomalias/


FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/loasi-felice-cilena-destre-e-poteri-forti/

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta.

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta. Alla faccia di lavoratori, agricoltori e cittadini

di Monica Di Sisto

Nemmeno la cornice iper-futuristica di Abou Dhabi è riuscita a restituire al commercio internazionale una direzione condivisa da parte dei diversi capitalismi che si contendono lo scacchiere globale. Una riunione tempestosa, la 13esima ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), prolungata di quasi due giorni pieni alla ricerca di un consenso mai raggiunto, e conclusa con un “ci vediamo nel quartier generale di Ginevra e ne riparliamo”.

Mentre il cambiamento climatico riduce la portata del canale di Panama e il passaggio delle navi-cargo fino al 40% e la guerra in Medio Oriente ne blocca fino al 60%, i dossier più urgenti sono rimasti tutti aperti sui tavoli dei negoziati: dallo stop ai sussidi sulla pesca da parte dei grandi Paesi esportatori, che devasta la biodiversità e schiaccia la pesca territoriale, alla facilitazione dei beni e servizi ambientali; da una soluzione permanente per consentire ai Paesi in via di sviluppo di gestire stock alimentari pubblici per calmierare i prezzi interni, a co-regolare (e tassare) il commercio digitale.

I 164 Paesi della Wto si sono spaccati lungo le faglie della nuova guerra fredda in corso: da un lato gli Stati Uniti, determinati a difendere il proprio mercato interno e il livello attuale di sussidi e di competitività delle sue grandi imprese tecnologiche e digitali, anche continuando a indebolire l’organo di risoluzione delle dispute commerciali globali azzoppato da Trump. Dall’altro la Cina, che pur continuando ad aderire alla Wto sta costruendo un proprio sistema commerciale, con accordi regionali e bilaterali con quasi trenta Paesi, che rappresentano quasi il 40% delle sue esportazioni.

“I paesi ricchi possono giocare al gioco dei sussidi – è stata l’amara costatazione della direttrice generale della Wto, Ngozi Okonjo-Iweala – i paesi più poveri non possono permetterselo”. E infatti Sudafrica e India hanno giocato il ruolo di catalizzatori dello scontento “da sud”: il primo sul tema dei brevetti, il secondo su quello dell’agricoltura. E il banco è saltato.

Chi è mancata al tavolo delle decisioni che contano è stata, come accade da tempo, l’Unione europea: paralizzata tra retorica democratica e pratica liberista, mentre le aziende piccole e medie del settore agroalimentare invadevano di trattori le strade delle nostre città, l’Ue si è affrettata a portare all’approvazione del Parlamento europeo tre nuovi trattati di liberalizzazione commerciale con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya, che sicuramente non allevieranno la pressione competitiva sulla produzione primaria nazionale e comunitaria.

L’Italia, in questa cornice, ha saputo tuttavia battere tutti i record di scarsa lungimiranza e incoerenza. Il governo considerato più sovranista nella storia della Repubblica sta infatti provando a far ratificare dal Parlamento l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada (Ceta), che proprio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva definito “una porcata contro i bisogni dei popoli”, annunciando che FdI si sarebbe battuto in Italia contro la ratifica. “Chi vota il Ceta – aveva aggiunto Meloni – fa un favore alle grandi produzioni, e sputa in faccia agli italiani che si sono rifiutati di mettere schifezze nei loro prodotti”.

Noi siamo rimasti della stessa opinione, e personalmente, nel corso dell’audizione che ho svolto per la mia associazione presso la commissione Affari esteri della Camera con Movimento Consumatori e Cgil, ho ricordato al presidente, Giulio Tremonti di avergli passato il microfono su un palco di protesta contro la ratifica, avviata a quel tempo dal governo Gentiloni, dal quale lui ci aveva spiegato la sua contrarietà e i motivi per i quali facevamo bene a opporci.

In una condizione di commercio globale in assoluta ritirata, e di fronte a un’esigenza di proteggere la capacità d’acquisto di cittadini e consumatori, alimentare la concorrenza sleale da parte di Paesi che non hanno il nostro sistema regolatorio, e la guerra al ribasso tra grandi imprese che si gioca sui diritti di lavoratori e natura, non può che premere ancora di più sui nostri salari e sulla nostra speranza di futuro. Un gioco al massacro che dobbiamo essere sempre più in grado di leggere e contrastare.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-06-2024/3119-mentre-il-wto-si-impantana-la-sovranista-meloni-rilancia-il-ceta-alla-faccia-di-lavoratori-agricoltori-e-cittadini-di-monica-di-sisto

Senegal, un altro Paese perso alla causa del neocolonialismo occidentale ?

di Giovanni Santini (da Dakar)

Il Senegal ha scelto, in modo plebiscitario, il suo nuovo Presidente. Anche se lo spoglio non è ancora terminato e quindi manca l’ufficialità, la tendenza, a due terzi dei voti scrutinati è ormai chiara: Bassirou Diomaye, rappresentante del partito Pastef ha una superiorità schiacciante, di molto superiore al 50%, che gli permetterebbe di essere eletto al primo turno.

Presentatosi al posto di Ousmane Sonko, capo carismatico del partito che non ha potuto candidarsi per guai giudiziari, sarà con i suoi 44 anni, il più giovane Presidente della storia del Senegal.

I motivi che hanno indotto i senegalesi, in grande maggioranza, a votare un politico quasi sconosciuto fino a pochi mesi fa, sono diversi.

Innanzitutto il rigetto del Presidente uscente, Macky Sall, accentuatosi nelle ultime settimane dopo il maldestro tentativo di quest’ultimo di rimanere al potere ben oltre i limiti temporali previsti dalla Costituzione ed oltre il dissenso , ormai diffuso in tutta la società, per le sue politiche liberiste ed i suoi legami con la Francia. Anche la classe media, moderatamente agiata e benpensante, che lo aveva appoggiato per larga parte dei suoi due mandati, non ne poteva più del suo attaccamento al potere e dei tentativi di eliminare, per via giudiziaria, il principale oppositore, Ousmane Sonko. Le violente proteste seguite a tali tentativi e l’aperta violazione della Costituzione stavano facendo perdere al Senegal la propria fama di Paese pacifico e democratico a cui i senegalesi tengono molto e che costituisce un forte incentivo per gli investimenti stranieri. Nelle strade si respira un senso di liberazione e sul web si moltiplicano i commenti entusiasti per la fine di un incubo.

Ma un elemento altrettanto importante è costituito dalla proposta politica del Pastef, completamente opposta a quella portata avanti in questi anni e che interpreta il diffuso sentimento anticoloniale e segnatamente anti francese che pervade la società senegalese.

L’azione politica del Presidente uscente si era concentrata soprattutto sulla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, con l’intervento di capitali stranieri ma anche di grandi investimenti statali. L’allargamento della rete autostradale, inesistente fino a dodici anni fa; una moderna linea ferroviaria che serve la regione di Dakar; la creazione di un polo amministrativo ed industriale ad una trentina di chilometri dalla capitale per favorirne il decongestionamento; il miglioramento della viabilità della medesima, con la costruzione di viadotti e l’acquisto di autobus ecologici.

Tutti questi investimenti, però, hanno avuto una ricaduta minima sulle condizioni di vita delle famiglie, costrette a fare i conti con un costo della vita crescente in maniera esponenziale rispetto a salari e stipendi stagnanti; laddove, poi, si possa contare su un’entrata fissa a fine mese, visto che gli indici di disoccupazione e lavoro informale sono stati anche loro sempre crescenti negli ultimi anni.

Il malcontento popolare contro l’attuale governo ha raggiunto il culmine negli ultimi mesi quando non solo le bollette di energia elettrica ed acqua, ma anche gli ingredienti basici dell’alimentazione senegalese, come pane, riso e cipolle, hanno subito aumenti drastici.

L’agenda politica del Pastef, che si ispira, come dichiarato dai suoi principali esponenti, ad un “panafricanismo di sinistra”, prevede, in totale rottura con il passato, la rivendicazione della sovranità politica, finanziaria ed economica del Paese; il rifiuto delle ricette neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale a fronte dei propri prestiti, di cui l’ultimo, di 1,8 miliardi di dollari, approvato a giugno 2023, potrebbe essere rinegoziato o addirittura abbandonato dal nuovo governo; la messa in discussione del franco CFA, la moneta di 14 Paesi ex colonie francesi, controllata dalla Francia; la rinegoziazione dei contratti fin qui stipulati con società straniere per lo sfruttamento di petrolio, gas e miniere, che potrebbe cambiare il volto economico del Paese; la lotta alla corruzione che è stata il corollario dei contratti per le grandi opere infrastrutturali e per l’ammodernamento del Paese, stipulati con società straniere, con beneficio di queste ultime e dei politici di turno; una politica sociale per alleviare le difficili condizioni di vita della popolazione, sia urbana che rurale, attraverso, tra l’altro, un controllo dei prezzi dei beni di prima necessità.

Anche nella politica internazionale la discontinuità è evidente. In campagna elettorale Diomaye ha dichiarato che, pur non nutrendo ostilità nei confronti della Francia, il Senegal rivendica il diritto di scegliere i propri partner, non escludendo a priori alcuno Stato, con evidente riferimento alla Russia.

Insomma, è evidente che dopo Mali, Burkina Faso e Niger, il dominio neo coloniale francese in Africa occidentale sta perdendo un ulteriore pezzo, forse il più importante. E questa volta non attraverso un colpo di Stato militare, sia pure appoggiato dalla popolazione, ma per via costituzionale, nel rispetto di quella “democrazia” tanto cara al mondo occidentale, per la cui affermazione non si lesinano guerre e bombe su civili inermi.

Nel caso del Senegal il distacco è sancito dalla volontà popolare, attraverso il più democratico degli esercizi politici, le elezioni.

Chi avrà il coraggio di paventare interventi o ritorsioni, come avvenuto per gli altri Paesi che rifiutano l’appartenenza al vecchio mondo neo coloniale e liberale?

FONTE: http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2024/03/25/il-senegal-altro-paese-perso-alla-causa-del-neocolonialismo-occidentale/

Perché il Messico è la nuova variabile nei rapporti tra Usa e Cina

di Federico Giuliani (da Insiderover)

I dati pubblicati lo scorso 8 febbraio dal dipartimento del Commercio Usa hanno generato curiosità e stupore. Per la prima volta in più di due decenni, nel 2023 la principale fonte di beni importati dagli Stati Uniti non coincideva con la Cina. A rubare la corona al gigante asiatico è stato il Messico, specchio delle crescenti tensioni economiche tra Washington e Pechino, nonché degli sforzi attuati dall’amministrazione Biden per importare mercanzia da Paesi geograficamente più vicini rispetto alla Repubblica Popolare Cinese ma, soprattutto più amichevoli del Dragone.

Attenzione però, perché se è vero che gli Usa stanno scommettendo sul Messico per delocalizzare al suo interno le loro aziende – una volta ben felici di essere ancorate al ricco mercato cinese, realtà dorata ormai compromessa dalle tensioni geopolitiche – allo stesso tempo il gigante asiatico sta a sua volta guardando al vicino di casa Usa per far confluire in loco le proprie società. A che pro? Semplice: per farle esportare negli Stati Uniti eludendo dazi e tariffe, e giocando sul fatto che i loro prodotti non sono made in China bensì in Messico.

Ci troviamo così di fronte ad una situazione tanto bizzarra quanto complessa: mentre Washington spera di smarcarsi il più in fretta possibile da Pechino, importando prodotti da altri Paesi in via di sviluppo, le aziende cinesi incrementano le loro attività in quelle stesse nazioni, per produrre beni da inviare nel mercato statunitense come se niente fosse. Il Messico, ancor più del Vietnam, è dunque una variabile emblematica del nuovo equilibrio economico che regola i rapporti tra le due superpotenze del XXI secolo.

La variabile Messico

Nel 2023, dicevamo, gli acquisti statunitensi di prodotti cinesi hanno raggiunto i 427,2 miliardi di dollari, in calo del 20% rispetto al 2022. Al contrario, il Messico ha esportato prodotti in Usa per un valore di 475,6 miliardi di dollari, in un aumento del 4,6% rispetto all’anno precedente. Risultato: Città del Messico è diventata la principale esportatrice verso Washington soppiantando per la prima volta Pechino in 21 anni.

Le ragioni, come detto, hanno tuttavia meno a che fare con il Messico in sé e più con le attuali tensioni internazionali. Detto altrimenti, come spiegato da El Paìs, gli Stati Uniti vogliono smettere di acquistare prodotti a basso costo dalla Cina, e il governo messicano sta lottando per ottenere almeno una parte di quella fetta di torta. Una fetta, si badi bene, potenzialmente destinata a crescere ancora, visto che Joe Biden sta valutando nuovi aumenti delle tariffe su beni cinesi come veicoli elettrici, apparecchiature legate all’ambito dell’energia solare e semiconduttori meno avanzati.

La decisione finale dovrebbe essere presa nella prima metà di quest’anno, ma Pechino ha iniziato a prendere adeguate contromisure. Già, perché come ha evidenziato il Financial Times la Cina sta semplicemente spedendo più merci negli Stati Uniti attraverso il Messico (e altri Paesi), eludendo ogni dazio possibile e immaginabile. La controprova arriverebbe dall’aumento del numero di container da 20 piedi spediti da Pechino a Città del Messico: 881.000 nei primi tre trimestri del 2023, in crescita rispetto ai 689.000 rilevati nello stesso periodo del 2022.

Altro dato rilevante: l’ente commerciale messicano per i fornitori di ricambi per auto, l’INA, ha evidenziato come 33 aziende di proprietà cinese, ma operanti in Messico, abbiano inviato negli Stati Uniti componenti per un valore di 1,1 miliardi di dollari nel 2023, in aumento rispetto ai 711 milioni di dollari del 2021. Che cosa significa tutto questo? Tanto, tantissimo, considerando che le automobili importate negli Stati Uniti dal Messico sono soggette ad un prelievo statunitense pari al 2,5%, mentre le parti assemblate in Messico sono soggette a una tariffa compresa tra lo 0% e il 6%. Al contrario, le automobili e i ricambi importati direttamente dalla Cina pagano un’ulteriore tassa del 25%, secondo il regime fiscale introdotto da Donald Trump e mantenuto da Biden.

L’intermediario tra Usa e Cina

Dal canto suo il Messico è consapevole di essere sotto i riflettori, e l’anno scorso ha annunciato tariffe che vanno dal 5% al 25% su merci provenienti da Paesi come la Cina (anche se non è chiaro quanto e come il nuovo regime verrà applicato o influenzerà le importazioni). A dicembre, inoltre, il governo messicano ha firmato un memorandum d’intesa con gli Stati Uniti sul controllo degli investimenti esteri – compresi i nuovi impianti cinesi di veicoli elettrici – in relazione ai rischi per la sicurezza nazionale.

Come se non bastasse, a giugno sono in programma le elezioni presidenziali messicane che decreteranno chi sarà il successore di Andres Manuel Lopez Obrador. In lizza troviamo due donne: Claudia Sheinbaum, portabandiera del partito MORENA al potere, appoggiata dall’attuale presidente e in rampa di lancio, e Xochitl Galvez, volto della coalizione di opposizione, composta da PAN, PRI e PRD. Le intenzioni di voto per Sheinbaum si aggirerebbero intorno al 64% a fronte del 31% della rivale. Molto distaccato, intorno al 5%, Jorge Alvarez Maynez, del partito Movimento Cittadino (di centrosinistra). Qualora dovesse vincere Sheinbaum, è lecito supporre che il nuovo leader del Paese riproponga l’agenda di Obrador, cercando dunque di ampliare le opzioni economiche a disposizione di Città del Messico, compresa la pista cinese.

Nel frattempo le aziende del Dragone hanno cambiato modo di fare affari con Washington. Alcune, come Hisense – che dal 2022 produce elettrodomestici e frigoriferi per il mercato nordamericano – ha piazzato uno stabilimento dal valore di 260 milioni di dollari in Messico, mentre le società automobilistiche SAIC Motors e JAC Motors hanno annunciato piani per costruire in loco impianti di assemblaggio. Va da sé, sempre in ottica mercato Usa.

In tutto questo troviamo chi vede l’integrazione tra Messico e Stati Uniti come la prova più evidente del successo nel disaccoppiamento Usa dalla Cina, e chi, al contrario, crede che il gigante asiatico stia cercando di migliorare le sue relazioni con il vicino statunitense per evitare sanzioni e tariffe. Insomma, l’ “intermediario” Messico ha il potenziale per riscrivere, in un senso o nell’altro, i rapporti tra le due superpotenze del pianeta. Tutto o quasi dipenderà da chi, tra Usa e Cina, chi riuscirà ad attrarre prima il Paese latinoamericano alla propria sfera di influenza. Con investimenti, progetti e accordi milionari.

FONTE: https://it.insideover.com/economia/il-dilemma-dei-falchi-europei-per-la-difesa-comune-i-bond-demoliscono-lausterita.html

La situazione ad Haiti. Documenti dal fronte interno.  

La polizia antisommossa keniota pattuglia uno slum durante le proteste antigovernative

a cura di Enrico Vigna, 13 marzo 2024

Premetto che questo lavoro è un insieme di documentazioni provenienti da movimenti e realtà haitiane sul campo o di sostegno al popolo haitiano da anni, e non interpretazioni o analisi estemporanee da qui. Soprattutto, molto al di fuori da letture uniformi o lineari, dato il complesso e intricatissimo quadro che la storia haitiana passata e attuale raffigura. 

E’ una resistenza, un processo rivoluzionario o un ennesimo scontro sanguinoso tra attori disgiunti tra loro, ma con interessi momentanei coincidenti? Questa, che sembra una domanda banale è in realtà la riflessione centrale, per ora senza risposta, che si pongono militanti, attivisti, politici e studiosi haitiani nel paese o fuori. Sicuramente, come sempre, saranno gli sviluppi sul campo a dare una risposta. Per ora mettiamo sotto i riflettori questi materiali, documentazioni, denunce, appelli che ci arrivano dai protagonisti e testimoni diretti.


A causa della situazione caotica che il Paese ha vissuto negli ultimi tempi, la lotta del popolo haitiano per un domani migliore, sta vivendo in queste settimane un passaggio cruciale, considerando una indubbia mobilitazione popolare, insieme a violenze dispiegate, ma non solo casuali o spontanee, che sembrano suscitare nelle masse diseredate, speranze di cambiamenti radicali e ricerca straziante di futuro, mentre gettano indubbiamente nel panico i colonizzatori e gestori da Washington e Parigi, di Haiti.

In seguito a manifestazioni popolari di protesta e rabbia, verificatesi negli ultimi mesi la risposta del governo è stata una repressione brutale e criminale sulla popolazione e molti civili sono stati feriti o assassinati dalla polizia.

In particolare la repressione che si è abbattuta sui manifestanti durante la giornata di protesta del 7 febbraio, ha svelato definitivamente il carattere reazionario e duro a morire di questo regime fuorilegge imposto dagli Stati Uniti. Nel tentativo del regime di proteggersi da ogni possibilità di cambiamento popolare rivoluzionario, ha scatenato terrore e violenze indiscriminate nelle piazze e nei quartieri, ecco perché mentre la popolazione civile è stata costretta ad arretrare, tutta la rete, certamente legata al crimine, ma non tutte le bande, hanno reagito e occupato il vuoto di potere sul campo. Questa risposta, controversa e da valutare in profondità, non con categorie precostituite o usuali, ma tenendo conto della realtà devastata socialmente del paese, ha trovato il riconoscimento istintivo e l’appoggio degli umiliati e dei diseredati, di contadini, lavoratori e soprattutto di un gran numero di giovani.

Questa mobilitazione e dimostrazione di forza militare, ha suscitato una potente eco tra le masse diseredate haitiane, può piacere o meno, ma è un dato di fatto oggettivo e concreto, come si può leggere nelle documentazioni qui esposte come informazione. È un’esperienza sociale e politica fuori dagli schemi e nuova, una prova formidabile nel quale le masse immiserite e schiacciate di Haiti si sono identificate senza alcun segno di ritegno o esame. Dimostra la volontà di un popolo da troppi decenni soggiogato e sfruttato in modo disumano e criminale, che chiede cambiamento e la costruzione di una vita dignitosa, in qualsiasi modo. Certo, forse è solo la ricerca di una speranza, anche intrisa di contraddizioni e rischi, che potrebbe nuovamente scemare, ma per essi è necessità, bisogno per sopravvivere. Un popolo, vittima sacrificale, distrutto da decenni di precarietà, disoccupazione, di vita in abitazioni insalubri, se non capanne, servizi pubblici quasi inesistenti, carestie e disastri naturali, sfruttamento smisurato, insicurezza, miseria e sfollamenti forzati, tutte conseguenze dei governi di questi decenni assoggettati al dominio statunitense. Questo è Haiti oggi.

Purtroppo, quasi tutte le componenti politiche, sia interne che internazionali, faticano o non intendono affrontare la situazione creatasi, anche perché, oggettivamente è piena di rischi e nebulosa sul terreno. Ma come qui documento, non tutti si sono astenuti o negati a per dare solidarietà al popolo haitiano.

Un dato è certo, nessuno crede più che le soluzioni verranno dalla classe politica tradizionale locale, che già si prepara a riprendere il controllo con la proposta di una transizione, per ricominciare a dialogare e condividere con l’imperialismo e i suoi discepoli. In particolare i vari Ariel Henry, André Michel, Edmonde Supplice Beauzile, politici asserviti allo straniero che vorrebbero intavolare trattative per un compromesso e una nuova spartizione del paese.

Cercare di comprendere le complessità di Haiti e la sua lotta per un vero cambiamento è molto difficile e composito. Ma il punto fondamentale da comprendere e da cui partire per affrontare la situazione creatasi, è questo: da quando gli Stati Uniti hanno rovesciato il presidente Jean Bertrand Aristide, legittimamente eletto, esattamente nel febbraio di 20 anni fa, Haiti ha vissuto incessanti interferenze elettorali, sfruttamento, invasione e occupazione da parte o per conto del governo degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Il risultato è stato un ingresso incontrollato di armi nordamericane, la proliferazione di paramilitari, il dilagare di bande criminali, disperazione economica, malattie e la costruzione di carceri finanziate dagli Stati Uniti. Haiti è un paese che sta crollando sotto la guida di un governo scelto dagli Stati Uniti e non scelto dal popolo. In queste settimane il paese è praticamente occupato: dall’aeroporto di Port-Au-Prince, ai porti, alle varie istituzioni, banche, depositi di carburante, carceri e con il presidente Ariel Henry, di fatto in esilio fuori dal paese. I manifestanti chiedono le dimissioni di Henry, la cacciata dal paese di tutti i politici e amministratori legati agli USA e corrotti.

Tra settembre 2021 e 2022, si stima che nelle carceri haitiane siano morti di fame tra 80 e 100 detenuti. Nel Penitenziario Nazionale, i detenuti non hanno condizioni vitali e umane minime, l’83% dei prigionieri haitiani sono detenuti in custodia cautelare che non hanno nemmeno visto un giudice, alcuni aspettano da anni senza che vengano formalmente mosse accuse contro di loro. I media asserviti e i portavoce del governo americano cercano di liquidare ciò che sta accadendo in queste settimane, come una crisi causata da “gang violente”, problema reale ma che è solo un aspetto del problema. E’ una grave semplificazione del problema, che serve solo gli interessi di coloro che desiderano sfruttare e controllare Haiti per i propri fini. Ridurre la crisi a un nebuloso conflitto con “gang armate” è un tentativo razzista di utilizzare un linguaggio in codice per stereotipare gli haitiani. Haiti è il prodotto del caos generato dall’occupazione straniera e dai gruppi criminali e paramilitari sponsorizzati dall’oligarchia haitiana e dai leader economici e politici mantenuti al potere con l’aiuto degli USA. Più volte ci sono stati casi in cui i conflitti armati venivano risolti attraverso negoziati locali o territoriali, ma subito dopo la pace rotta veniva rotta da una di queste bande legate a interessi stranieri o di potentati locali corrotti.

Ma l’altro aspetto della storia è che è in corso una massiccia resistenza e mobilitazione popolare. Ad Haiti è in corso una rivolta per cambiare lo stato putrido delle cose e la fine del controllo straniero. Le richieste che il presidente Henry si dimetta, che agli haitiani sia permesso di tenere elezioni sotto il controllo popolare e che le invasioni e le occupazioni sponsorizzate dagli Stati Uniti debbano finire non sono richieste di “gang”, ma del popolo. L’attuale presidente di Haiti, Ariel Henry, è stato scelto nel 2021 dal gruppo CORE, composto da ambasciatori di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Spagna, Unione Europea e Brasile, insieme a rappresentanti dell’Organizzazione degli Stati Americani e delle Nazioni Unite. Era stato scelto per guidare il paese dopo l’assassinio del presidente Jovenal Moise. Henry è implicato nella pianificazione dell’assassinio, in uno scontro di poteri, per questo si è sempre rifiutato di collaborare alle indagini e non bisogna dimenticare che Henry partecipò anche al colpo di stato contro il presidente Aristide, venti anni fa.

Gli Stati Uniti hanno finora sostenuto il governo Henry, ma si rendono conto che la loro strategia è fallita e che il governo Henry probabilmente cadrà con o senza il sostegno degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato statunitense ha ora invitato Henry a dimettersi e ad avviare la transizione verso un nuovo governo. L’onestà dell’appello è dubbia e sembra essere piuttosto un tentativo da parte degli USA, di riprendere il controllo e facilitare la formazione di un nuovo governo che continuerà a fungere da rappresentante del dominio statunitense. Nello stesso momento in cui chiede le dimissioni di Henry, la Casa Bianca preme affinché venga schierata una forza d’invasione multinazionale guidata dal Kenya. Quella forza sarà lì per continuare a garantire l’egemonia statunitense, non per garantire una transizione verso elezioni giuste. Sono state discusse anche le eventualità di schierare un’unità d’élite di Marines americani.

Tuttavia, i piani statunitensi mostrano molteplici crepe. L’amministrazione Biden ha promesso fino a 200 milioni di dollari per sostenere la forza multinazionale, ma i finanziamenti sono stati bloccati dai Repubblicani che mettono in dubbio i costi. Le stime dicono che il prezzo potrebbe salire fino a 500 o seicento milioni di dollari. L’opposizione Repubblicana, che non mette in discussione il ruolo assoggettatore USA, sostiene inoltre che non c’è abbastanza tempo per formare e addestrare sufficientemente una forza d’invasione. Ancora una volta la proposta non è trovare soluzioni negoziali o conciliatorie ma è la metodologia di invasione e interferenza. In effetti, fu l’International Republican Institute (IRI), uno dei quattro istituti principali del National Endowment for Democracy, a coordinare essenzialmente il rovesciamento di Aristide nel 2004. L’IRI e la CIA addestrarono Guy Philippe a guidare il colpo di stato. Dopo il colpo di stato e le sue conseguenze, Phillipe andò negli Stati Uniti. Successivamente venne arrestato con l’accusa di riciclaggio di denaro legato ai narcotrafficanti colombiani. Philippe è stato rilasciato lo scorso novembre dopo sei anni di detenzione e poi rientrato ad Haiti., annunciando la sua intenzione di candidarsi alla presidenza. Anche da parte Democratica c’è stata una certa resistenza alle politiche di Biden. Alcuni rappresentanti alla Camera hanno rilasciato una dichiarazione nel dicembre 2023 invitando il presidente Biden a cambiare rotta, scrivendo che: “…Un altro intervento straniero armato ad Haiti non si tradurrà nella necessaria transizione guidata verso un governo democratico, piuttosto rischia di destabilizzare ulteriormente il paese, mettendo in pericolo più persone innocenti e rafforzando l’attuale regime illegittimo”.

Alla domanda se c’è qualche soluzione praticabile, i vari esponenti politici, militanti haitiani, ribadiscono la necessità primaria e fondamentale di espellere dal paese Stati Uniti, Francia, Canada e i loro alleati, solo questo passaggio difficile e impervio potrà aprire scenari nuovi per il popolo haitiano. Dietro i titoli sensazionalistici e inquietanti dei media occidentali, pervasi di un sottile razzismo, per cui Haiti è ingovernabile e il popolo haitiano non può governarsi da solo, è indirizzato e prepara il terreno a giustificare e legittimare una coalizione militare straniera che intervenga per “ stabilizzare e salvare” dal caos il paese. E’ invece un attacco alla sovranità e all’indipendenza di Haiti e del suo popolo.




Queste le posizioni e documentazioni dalla parte delle forze di resistenza popolari haitiane e quelle solidali con esse


Fanmi Lavalas, il partito dell’ex presidente Aristide, l’unico presidente eletto dal popolo nella storia di Haiti, ha risposto all’aggravarsi della situazione, e della crisi umanitaria e politica ad Haiti denunciando i molteplici interventi e attacchi degli Stati Uniti alla sovranità haitiana, come causa principale di queste crisi, che stanno causando sempre più vittime di, sofferenze e migrazioni forzate dal paese più povero dell’emisfero occidentale. Invita gli haitiani a manifestare e sostenere le parole d’ordine come “Truppe statunitensi/keniote, Ariel Henry/Gangster: fuori da Haiti!”, “Il governo haitiano non eletto è il capo gangster! Autodeterminazione per il popolo haitiano e “Fermare i massacri e i rapimenti”, che sono diventati crimini quotidiani contro le masse di Haiti.

Maryse Narcisse la presidente di FL ha dichiarato: “ Ogni giorno, la polizia haitiana, sotto il comando di Henry, armata e addestrata dall’esercito statunitense, lancia gas, picchia e uccide lavoratori disarmati che partecipano alle grandi proteste contro le condizioni di povertà e il governo. Qualsiasi caos sociale interno, che attanaglia i quartieri haitiani è stato creato dall’intervento degli Stati Uniti…”.

Il portavoce di Fanmi Lavalas, Jodson Dirgène, da parte sua ha dichiarato in un’altra intervista al programma ”Panel Magik”: “…Non possiamo chiedere al primo ministro Ariel Henry di dimettersi, non gli abbiamo mai dato un mandato…”.


Fòrs Revolisyonè G9 an Fanmi e Alye (Forze Rivoluzionarie della Famiglia G9 e alleati)

L’Alleanza G9 Famiglia e Alleati (G9 Fanmi e Alye) è una federazione di nove bande armate. Fondata nel giugno 2020 dall’ex agente di polizia diventato capobanda Jimmy Chérizier, detto “Barbecue”, questa coalizione controlla gran parte delle azioni armate organizzate dentro la rivolta.

L’ex agente di polizia Jimmy Chérizier, è una figura molto controversa e non lineare, sicuramente poco classificabile per ora, in questi mesi è divenuto il punto di riferimento militare ma anche politico all’interno di Haiti. Con un passato rasente e congiunto alla criminalità più dura, è poi diventato famoso per aver fondato G9 and Family (G9 an fanmi – G9), una federazione di nove potenti bande territoriali, radicate soprattutto nella capitale haitiana di Port-au-Prince, ma con ramificazioni anche in altre città dell’isola. Dallo scorso anno G9 si presenta come un’organizzazione politica rivoluzionaria e ha creato una rete di alleanze a livello nazionale denominata “G20”.

Da molti indicato come un efferato criminale, addirittura sanzionato dagli Stati Uniti, negli ultimi anni si è voluto proporre come leader politico rivoluzionario. Da tutti, in questo momento è considerato l’uomo più potente del Paese. Cherizier aveva costruito un forte legame con una delle forze politiche più potenti di Haiti, il partito haitiano Tèt Kale (Parti Haïtien Tèt Kale – PHTK) dell’ex presidente Jovenel Moise, poi dopo il suo assassinio allontanandosene, così come con pezzi della polizia, in particolare con le Forze di sicurezza, arrivando ora ha imporre le dimissioni del presidente Henry e sfidando apertamente lo Stato haitiano. 

In una intervista con la TV statunitense ABC News, Cherizier, ha promesso che la sua Alleanza avrebbe concesso una tregua, se Henry si fosse dimesso, i suoi combattenti avrebbero “fermato automaticamente gli attacchi alle stazioni di polizia…ma la guerra contro lo Stato continuerà fino a che tutte le élite politiche corrotte non saranno eliminate…Il primo passo è rovesciare Ariel Henry e poi inizieremo la vera lotta contro il sistema attuale, il sistema di oligarchi corrotti e politici tradizionali corrotti…Non solo stiamo combattendo contro Ariel Henry, ma stiamo anche combattendo contro chiunque abbia qualche complicità…Il mio messaggio per la comunità internazionale, in particolare per gli Stati Uniti che hanno un rapporto di lunga data con il popolo haitiano, è che dico loro che non possono più continuare a trattare il popolo haitiano come hanno fatto finora… Non siamo in una rivoluzione pacifica. Stiamo facendo una rivoluzione sanguinosa nel paese perché questo sistema è un sistema di apartheid, un sistema malvagio…”.

Cherizier ha anche accennato alle ambizioni presidenziali, dicendo ad ABC News: “Non sono io a decidere se voglio essere presidente o no. Sarà il popolo haitiano a decidere chi dovrà essere il suo presidente, chi dovrà guidare il Paese. Personalmente mi considero un servitore del PaeseAbbiamo deciso di prendere in mano le sorti del Paese. Ciò significa liberare il paese dal 5% delle persone che controllano l’85% della ricchezza del paese…”.

Brian Concannon, direttore esecutivo dell’Istituto per la giustizia e la democrazia di Haiti (IJDH), un istituto statunitense ha dichiarato che: “… il più grande attore criminale di Haiti ha ora un potere significativo nel sistema politico formale. Con il sostegno degli elettori nelle zone della città sotto il suo controllo , in futuro potrebbe addirittura candidarsi per un seggio in parlamento, con grandi margini di vittoria…”.


La Black Alliance for Peace ( Alleanza Nera per la Pace , BAP), sezione Haiti

“…La posizione dell’Alleanza Nera per la Pace è coerente e chiara. Noi sosteniamo gli sforzi del popolo haitiano per affermare la propria sovranità e rivendicare la propria indipendenza.Denunciamo l’attuale attacco imperialista contro Haiti e chiediamo che venga estirpata la presenza dei governanti coloniali stranieri di Haiti…il fallimento della governance nel paese, non è qualcosa di interno ad Haiti, ma è un risultato dello sforzo concertato da parte dell’Occidente per sventrare lo Stato haitiano e distruggere la democrazia popolare ad Haiti… Haiti è attualmente sotto occupazione da parte degli Stati Uniti/ONU e del Core Group, entità straniere che governano effettivamente questo paese. L’occupazione di Haiti è iniziata nel 2004 con il sostegno di Stati Uniti, Francia e Canada al colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto di Haiti.

Il colpo di stato è stato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.Che ha poi istituito una forza militare di occupazione (eufemisticamente chiamata missione di “peacekeeping”), con l’acronimo MINUSTAH. Sebbene la missione MINUSTAH sia ufficialmente terminata nel 2017, l’ufficio ad Haiti è stato ricostituito come BIHUH.BINUH,e continua ad avere un ruolo importante negli affari haitiani….Negli ultimi quattro anni le masse haitiane si sono mobilitate e hanno protestato contro un governo illegale, l’ingerenza imperialista e all’insicurezza da parte di gruppi armati finanziati dalle élite. Tuttavia, queste proteste sono state represse dal burattino installato dagli Stati Uniti. Dal 2021, i tentativi di controllare Haiti da parte degli Stati Uniti si sono intensificati.In quell’anno, il presidente di Haiti, Jovenel Moïse, fu assassinato e Ariel Henry fu insediato dagli Stati Uniti e dal gruppo ristretto delle Nazioni Unite come primo ministro de facto. Sulla scia del l’assassinio di Moïse e l’insediamento di Henry, gli Stati Uniti hanno cercato di costruire una coalizione di stati stranieri disposti a inviare forze militari per occupare Haiti e affrontare il presunto problema delle “gang” di Haiti….I gruppi armati (le cosiddette “gang”), principalmente nella capitale Haiti dovrebbero essere intese come forze “paramilitari”, poiché sono costituite da ex (o attuali) elementi militari e di polizia haitiani.

Molte di queste forze paramilitari sono note per agire per alcune delle élite di Haiti…Quando noi parliamo di “bande”, dobbiamo conoscere che le bande reali e più potenti del mondo sono gli Stati Uniti, il Core Group e l’ufficio illegale delle Nazioni Unite ad Haiti, in quanto sono questi che hanno contribuito a creare l’attuale crisi… Gli attacchi alla sovranità dei neri ad Haiti sono uguali agli attacchi ai neri in tutte le Americhe. Oggi Haiti è importante e vitale per la geopolitica e l’economia degli Stati Uniti.Haiti si trova in una posizione chiave nei Caraibi per la strategia militare e di sicurezza degli Stati Uniti nella regione, soprattutto alla luce dell’imminente confronto tra Stati Uniti e Cina, contesto dell’attuazione strategica del Global Fragilities Act…I BAP, come molte organizzazioni haitiane e di altro tipo, hanno argomentato con coerenza contro un rinnovato intervento militare straniero. Abbiamo chiesto con insistenza la fine dell’occupazione straniera di Haiti.Questo comprende lo scioglimento del Core Group, dell’ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti (BINHU), e la fine della costante ingerenza degli Stati Uniti, insieme ai suoi partner minori, CARICOM e il Brasile. Abbiamo denunciato i governi della Comunità Latinoamericana e Stati dei Caraibi (CELAC) (ad eccezione di Venezuela e Cuba), che sostengono i piani statunitensi per l’intervento armato ad Haiti e la negazione della sovranità haitiana. Abbiamo denunciato i leader della CARICOM…Le soluzioni di Haiti dovrebbero arrivare dal popolo haitiano attraverso un ampio consenso…Abbiamo anche criticato il ruolo del presidente brasiliano Luiz Inácio “Lula” da Silva, non solo per aver continuato il ruolo del Brasile nel Core Group, ma anche per guidarlo insieme al governo criminale degli Stati Uniti. In solidarietà con i movimenti haitiani, abbiamo denunciato l’approvazione delle Nazioni Unite, all’invasione armata straniera e l’occupazione di Haiti, finanziata dagli Stati Uniti e guidata dal Kenya. Noi siamo fermamente convinti che un intervento straniero armato ad Haiti guidato dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, non sia solo illegittimo, ma illegale.Sosteniamo il popolo haitiano e le organizzazioni della società civile che sono stati coerenti nella loro opposizione ai militari armati stranieri…Continueremo a sostenere i nostri compagni mentre lottano per un mondo libero e sovrano Con Haiti. Viva Haiti!”.


La Via Campesina Haiti

Questo comunicato stampa è stato preparato dalle organizzazioni membri di La Via Campesina ad Haiti, tra cui Mouvman Peyizan Nasyonal Kongre Papay (MPNKP), Mouvman Peyizan Papay (MPP), e Tet Kole Ti Peyizan Ayisyen (TK), in collaborazione con il coordinamento regionale delle organizzazioni del sud-est (KROS). Queste organizzazioni formano collettivamente la piattaforma “4 Je Kontre” ad Haiti.

Haiti: appello per la resistenza e la solidarietà con il popolo haitiano per un governo di transizione 16 febbraio 2024

Haiti, 6 febbraio 2024

La piattaforma “4 Je Kontre”, che comprende il Movimento Nazionale Contadino del Congresso Papaye (MPNKP), Tet Kole Tile Peyizan Ayisyen (TK), il Movimento Contadino di Papaye (MPP) e il Coordinamento Regionale delle Organizzazioni del Sud-Est (KROS), coglie questa opportunità per elogiare la resilienza e la determinazione del popolo haitiano contro il regime autoritario del PHTK. Questo regime è guidato dal primo ministro de facto Ariel Henry, da altri membri del governo senza scrupoli, e dai loro alleati nazionali e internazionali. Un’analisi completa della terribile situazione di Haiti rivela che gli atti criminali di bande armate e criminali senza scrupoli persistono, ostacolando la mobilitazione a livello nazionale contro il regime. L’aumento dell’insicurezza è stato documentato nelle aree in cui la popolazione è sottoposta a rapimenti, massacri, incendi di proprietà e stupri di donne e ragazze, tra le altre atrocità.

La popolazione è alle prese con un periodo economicamente difficile, caratterizzato da un costo della vita in ascesa. I beni essenziali continuano ad aumentare di prezzo, mentre il governo de facto di Ariel Henry assegna fondi significativi per finanziare bande e mercenari all’interno della Polizia Nazionale per mantenere la sua presa sul potere. La comunità internazionale, rappresentata dal BINUH, dal Core Group e dalle Nazioni Unite, persiste nel sostenere il governo de facto, adottando tattiche di ritardo per mantenere Ariel al potere, nonostante il diffuso malcontento pubblico e l’insoddisfazione per le istituzioni politiche. Ariel e le sue coorti hanno dichiarato la loro intenzione di rinunciare al potere dopo aver tenuto le elezioni, nonostante vari settori della vita nazionale propongano una soluzione haitiana alla crisi di Haiti. Sfortunatamente, nessun progresso è stato fatto mentre Ariel Henry ostacola tutte le iniziative volte a spostare il suo governo.

Per oltre due anni, Ariel Henry ha sostenuto le elezioni con la premessa che PHTK potrebbe rinnovarsi, condizionando negativamente la popolazione attraverso l’aumento delle tasse, l’aumento dei prezzi del carburante e la dispersione di fondi pubblici a programmi di assistenza sociale inefficaci. Dichiariamo enfaticamente che questa situazione è insostenibile, e dobbiamo sforzarci con veemenza a rovesciare il sistema e tutte le forze di supporto a spese del popolo.

In questo contesto, tutte le organizzazioni membri di “4 Je Kontre” approvano la proposta del Montana, sostenendo una rottura completa e l’istituzione di un governo di transizione a doppia testa, che dovrebbe durare tra i 18 e i 24 mesi. Questo governo mira a spianare la strada istituendo un consiglio elettorale imparziale, libero dall’influenza degli Stati Uniti e da qualsiasi interferenza della comunione internazionale. Inoltre, il governo di transizione dovrà garantire la sicurezza in tutto il territorio nazionale, consentendo la libera circolazione della popolazione.

4 Je Kontre” continuerà fermamente a sostenere tutte le azioni e le richieste positive di altri settori progressisti volti a rovesciare il governo de facto e i suoi alleati.

Lunga vita alla sovranità di Haiti!

Lunga vita alla battaglia del popolo per una soluzione haitiana per Haiti!

Lunga vita alla solidarietà tra tutte le organizzazioni progressiste in lotta per la giustizia sociale!”.


Coalizione Viv Ansanm / Living Together”. Movement – Vivere Insieme

‘Viv Ansanm non riconoscerà nessun governo risultante dalle proposte della Comunità e del Mercato Comune del Caribe (CARICOM)…E’ compito e responsabilità del popolo haitiano eleggere i propri leader che governino il paese…”.

La più grande prigione civile della Repubblica di Haiti è stata occupata da bande armate appartenenti del “Viv AnsannLiving Together”. Movement”, una coalizione di diversi gruppi armati nella capitale Port-au-Prince. Guidati da droni che li informavano della posizione della polizia, gli insorgenti hanno appiccato il fuoco nei dintorni del carcere e poi si sono diretti alla prigione. È diventato virale sui social un video ripreso da un drone con l’immagine del carcere conquistato.


HAITI Libertè

L8° vertice CELAC, tenutosi a Kingstown, Saint Vincent e Grenadine, 1 marzo 2024

La CELAC dovrebbe rivedere la sua posizione su Haiti

Secondo HaitiLibertè, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), ha pronunciato una grave decisione: “…è stato scioccante trovare nel documento finale del Summit Celac, il sostegno al piano di Washington di condurre una guerra contro il popolo haitiano per mantenere di fatto al potere il primo ministro Ariel Henry. La “Dichiarazione di Kingstown”, all’articolo 73, afferma: Chiediamo la rapida ed efficace attuazione della risoluzione 2699 (2023) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, inclusa la creazione delle condizioni di sicurezza necessarie ad Haiti come mezzo per mantenere la libertà ed elezioni eque ad Haiti e gettando le basi per uno sviluppo economico e sociale sostenibile a lungo termine nel paese, rafforzando la sicurezza e affrontando le cause strutturali alla base dell’attuale violenza e vulnerabilità…Questa aberrazione del vertice CELAC, potrebbe essere la conseguenza della posizione del Brasile sullo schieramento di una forza militare nell’isola…Nella sua dichiarazione al vertice, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato: ’Ad Haiti dobbiamo agire rapidamente per alleviare la sofferenza di una popolazione dilaniata dal caos sociale. Il Brasile afferma da anni che il problema di Haiti non è solo un problema di sicurezza, ma soprattutto un problema di sviluppo…’ Inoltre, va ricordato che Lula è stato purtroppo responsabile della guida brasiliana della Missione delle Nazioni Unite per stabilizzare Haiti (MINUSTAH) dal 2004 al 2017, un’occupazione militare straniera responsabile violenze, morti, inquinamento e di un’epidemia di colera ad Haiti… Fortunatamente, al vertice della CELAC, il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato chiaramente l’opposizione del suo paese all’intervento straniero ad Haiti, proprio come Hugo Chavez si era opposto alla MINUSTAH. ‘Non siamo d’accordo con nessun tipo di invasione nascosta, portando truppe da qui o da là. Questa non è la soluzione per Haiti…’. La CELAC dovrebbe rivedere immediatamente la “Dichiarazione di Kingstown” e rimuovere l’Articolo 73, che non fa altro che alimentare il piano di Washington di creare una forza per procura dalla faccia nera per occupare militarmente Haiti ancora una volta, per la terza volta in tre decenni. Il popolo haitiano respinge universalmente gli sforzi evidenti di Washington per salvare il suo burattino Ariel Henry, ora in esilio…”.

Anche Cuba, mantenendo prominente la sua statura politica e morale, con l’intervento del suo presidente Miguel Díaz-Canel Bermúdez, si è dissociato dalla posizione Celac su Haiti: “…Abbiamo tutti l’obbligo morale di offrire ad Haiti una cooperazione sostanziale e disinteressata, non solo per la ricostruzione di alcune aree, ma anche per promuovere in modo globale lo sviluppo sostenibile in tutto il Paese…Cuba parla qui con l’autorità morale che si è guadagnata per aver condiviso con quella nazione sorella, la più vicina geograficamente, grandi dolori e formidabili imprese nel corso dei secoli. Come si espresse nel 1998 il leader storico della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz, e cito: ‘Haiti non ha bisogno di truppe. Non ha bisogno di invasioni di truppe (…) Haiti ha bisogno di invasioni di medici. Haiti ha bisogno di invasioni di milioni di dollari per il suo sviluppo.

(Ricordo che Russia e Cina si erano astenute per l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel voto del 2 ottobre 2023 che autorizzava l’invio di militari nella Missione ad Haiti, ndr)


Partito Comunista del Kenya (CPK)

Combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”

“…Se il governo del Kenya procederà a dispiegare la sua polizia nella nazione caraibica, combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”, ha dichiarato al Peoples Dispatch, Booker Ngesa Omole, segretario nazionale del Partito Comunista del Kenya (CPK ) .

“Qualsiasi decisione da parte di qualsiasi organo o funzionario statale di inviare agenti di polizia ad Haiti… contravviene alla costituzione e alla legge, ed è quindi incostituzionale, illegale e non valida”, aveva stabilito l’Alta Corte del Kenya, il 26 gennaio.

La sentenza ha rappresentato una battuta d’arresto al previsto intervento sponsorizzato dagli Stati Uniti ad Haiti, al quale il Kenya dovrà dare un volto africano schierando un migliaio di agenti di polizia per guidare la missione, il cui obiettivo sarebbe di ripristinare la sicurezza liberando Haiti dalla minaccia delle bande criminali.

Il Kenia dovrebbe inviare un dispiegamento principale di oltre un migliaio di poliziotti, che Booker ha descritto come una “forza estremamente poco professionale, spesso utilizzata dai leader politici locali per svolgere attività criminali, compresi omicidi politici. Ribadiamo che il più grande killer dei giovani in Kenya, non è la malaria ma la polizia. Ogni giorno continuiamo a registrare l’uccisione di numerosi giovani poveri da parte della polizia keniana negli insediamenti della periferia di Nairobi. Questo è il tipo di polizia che gli Stati Uniti hanno scelto per guidare il loro intervento ad Haiti…, ha affermato il leader comunista keniota.

“…Se la polizia keniota avesse voluto seriamente eliminare le bande criminali, lo avrebbe fatto prima qui in Kenya, la polizia ha invece collaborato con bande che sono in contatto con i leader politici. C’è solo una linea sottile tra la polizia keniota e le bande criminali che continuano a terrorizzare i residenti, ad esempio, della provincia nord-orientale o dei quartieri poveri di Nairobi. Questa linea è ancora più sottile ad Haiti, dove molti gangster sono ex membri della polizia nazionale haitiana, che questa missione statunitense guidata dal Kenya, dovrebbe aiutare a ripristinare la legge e l’ordine. Una tale coalizione finirà solo per commettere ancora più crimini ad Haiti, sommandosi alla violenza che quel popolo sta già subendo…Ricordiamo a quei poliziotti che andranno, che devono essere pronti a pagare con la vita, se si lasciano sfruttare per scopi imperialisti da leader politici corrotti…Se pensano che entreranno e spareranno a qualche gangster, sono ingenui: non conoscono la storia di resistenza di Haiti all’imperialismo”, ha dichiarato Booker.


Fonti:

Haitiliberte, Fanmi Lavas, Living Together”. Movement, 4 Je Kontre, Radio Soleil

La aai campesina, BlackAllianceforPeace, Partito Comunista Kenia

A cura di Enrico Vigna, IniizativaMondoMultipolare/CIVG – 16 marzo 2024

Il discorso presidenziale di Putin all’Assemblea federale russa

Traduzione dall’inglese di Marco Pondrelli per Marx21.it

La stampa italiana ha riportato le proprie, scontate, impressioni sul discorso di Putin, presentandolo come l’ennesima minaccia all’Occidente. Nessuno però si è premurato di proporre integralmente il discorso del Presidente russo, per consentire a chi vuole informarsi di farsi una propria opinione. Come si può leggere Putin ha ricordato come la Russia abbia da tempo cercato il dialogo per fermare l’escalation bellica, a partire dalla richiesta di discutere l’accordo sulla prevenzione dello schieramento di armi nello spazio rispetto al quale gli Stati Uniti tacciono da 15 anni. Questo discorso è importante e prima di criticarlo andrebbe letto. Putin descrive un Paese che sta sviluppando una propria economia, incentivando l’industria e le PMI, quello che non si era riusciti a fare in passato lo si riesce a fare oggi in conseguenza all’aggressione occidentale. Inoltre come sottolinea Putin sta nascendo una nuova classe dirigente in Russia sarà questa l’élite che governerà la Russia nel prossimo futuro, gli anni ’90 sono definitivamente archiviati.

M.P.

29 febbraio 2024

Mosca

Vladimir Putin ha pronunciato il suo discorso all’Assemblea federale. La cerimonia si è svolta a Gostiny Dvor, Mosca.

Presidente della Russia Vladimir Putin: senatori, deputati della Duma di Stato,

Cittadini della Russia,

Lo scopo principale di ogni discorso all’Assemblea federale è offrire una prospettiva lungimirante. Oggi discuteremo non solo dei nostri piani a breve termine, ma anche dei nostri obiettivi strategici e delle questioni che, credo, sono determinanti per garantire uno sviluppo costante a lungo termine per il nostro Paese.

Questo programma d’azione e le misure concrete che esso comprende sono in gran parte il risultato dei miei viaggi nelle regioni e delle conversazioni che ho avuto con operai e ingegneri di impianti civili e di difesa, nonché con medici, insegnanti, ricercatori, volontari, imprenditori, famiglie numerose, con i nostri eroi in prima linea, volontari, soldati e ufficiali delle Forze armate russe. Naturalmente, è chiaro che queste conversazioni, questi incontri non nascono dal nulla: sono organizzati. Tuttavia, questi scambi offrono alle persone l’opportunità di parlare delle loro esigenze più urgenti. Molte idee sono arrivate dai principali forum della società civile e di esperti.

Le proposte presentate dal nostro popolo, le sue aspirazioni e speranze sono diventate il fondamento e il pilastro principale dei progetti e delle iniziative che verranno annunciati anche oggi, durante questo discorso. Spero che la discussione pubblica su questi argomenti continui, poiché solo insieme possiamo realizzare tutti i nostri piani. In effetti, abbiamo davanti a noi compiti importanti.

Abbiamo già dimostrato di poter raggiungere gli obiettivi più impegnativi e rispondere a qualsiasi sfida, anche quella più formidabile. Ad esempio, c’è stato un tempo in cui respingevamo l’aggressione terroristica internazionale e preservavamo la nostra unità nazionale, evitando che il nostro Paese venisse fatto a pezzi.

Abbiamo sostenuto i nostri fratelli e le nostre sorelle; abbiamo sostenuto la loro decisione di stare con la Russia e quest’anno ricorre il decimo anniversario della leggendaria Primavera russa. Ma anche adesso, l’energia, la sincerità e il coraggio dei suoi eroi – il popolo della Crimea, di Sebastopoli e del ribelle Donbass – il loro amore per la Patria, che hanno portato avanti per generazioni, rende orgogliosi. Questo certamente ci ispira e rafforza la nostra fiducia che supereremo qualsiasi cosa, che saremo in grado di fare qualsiasi cosa insieme.

È così che, con tutte le nostre forze, siamo riusciti a eliminare la minaccia mortale della pandemia di Covid-19 proprio di recente. Inoltre, così facendo, abbiamo anche mostrato al mondo che valori come la compassione, il sostegno reciproco e la solidarietà prevalgono nella nostra società.

E oggi, quando la nostra Patria difende la sua sovranità e sicurezza, difendendo la vita dei nostri compatrioti in Donbass e Novorossiya, i nostri cittadini stanno giocando un ruolo decisivo in questa giusta lotta: la loro unità e devozione al nostro Paese e la nostra responsabilità condivisa per il suo futuro.

Hanno dimostrato chiaramente e inequivocabilmente queste qualità fin dall’inizio dell’operazione militare speciale, quando è stata sostenuta dalla maggioranza assoluta dei russi. Nonostante le prove più dure e le perdite amare, le persone sono rimaste irremovibili nella loro scelta e la stanno riaffermando cercando di fare tutto il possibile per il proprio Paese e per il bene comune.

Le industrie russe stanno lavorando su tre turni per lanciare tutti i prodotti di cui il fronte ha bisogno. L’intera economia, che fornisce le basi industriali e tecnologiche per la nostra vittoria, ha dimostrato flessibilità e resilienza. Vorrei ringraziare tutti gli imprenditori, gli ingegneri, gli operai e gli agricoltori per il loro duro e responsabile lavoro nell’interesse della Russia.

Milioni di persone hanno aderito alla campagna ‘Siamo Insieme’ e al progetto del ‘Fronte Popolare Russo Tutto per la Vittoria’! Negli ultimi due anni, le aziende russe hanno donato miliardi di rubli a organizzazioni di volontariato e fondazioni di beneficenza che sostengono i nostri soldati e le loro famiglie.

Le persone inviano lettere e pacchi, vestiti caldi e reti mimetiche al fronte; donano i loro risparmi, a volte molto modesti. Ancora una volta, questo tipo di assistenza è inestimabile: rappresenta il contributo di tutti alla vittoria comune. I nostri eroi in prima linea, in trincea, dove è più difficile, sanno che tutto il Paese è con loro.

Desidero ringraziare la Fondazione Difensori della Patria, il Comitato dei Guerrieri delle Famiglie della Patria e altre associazioni pubbliche per i loro instancabili sforzi. Invito le autorità a tutti i livelli a continuare a fornire un sostegno costante alle famiglie dei nostri eroi, compresi i loro genitori, coniugi e figli, che attendono con ansia il ritorno dei loro cari sani e salvi.

Sono grato ai partiti parlamentari per essersi uniti attorno agli interessi nazionali. Il sistema politico russo costituisce uno dei pilastri della sovranità del nostro Paese. Continueremo a promuovere le istituzioni democratiche e a resistere a qualsiasi interferenza esterna nei nostri affari interni.

Il cosiddetto Occidente, con le sue pratiche coloniali e la sua propensione a incitare conflitti etnici in tutto il mondo, non solo cerca di ostacolare il nostro progresso, ma immagina anche una Russia che sia uno spazio dipendente, in declino e morente dove possono fare ciò che vogliono. In effetti, vogliono replicare in Russia ciò che hanno fatto in numerosi altri paesi, tra cui l’Ucraina: seminare discordia nelle nostre case e indebolirci dall’interno. Ma si sbagliavano, questo è diventato evidente ora che si sono scontrati con la ferma determinazione e determinazione del nostro popolo multietnico.

I nostri soldati e ufficiali – cristiani e musulmani, buddisti e seguaci dell’ebraismo, persone che rappresentano diverse etnie, culture e regioni – hanno dimostrato con le loro azioni, che sono più forti di mille parole, che la coesione e l’unità secolari del popolo russo sono valide. una forza formidabile e invincibile. Tutti loro, fianco a fianco, stanno combattendo per la nostra Patria.

Insieme, come cittadini della Russia, saremo uniti in difesa della nostra libertà e del nostro diritto a un’esistenza pacifica e dignitosa. Tracceremo il nostro percorso, per salvaguardare la continuità delle generazioni, e quindi la continuità dello sviluppo storico, e affrontare le sfide che il Paese deve affrontare sulla base della nostra visione del mondo, delle nostre tradizioni e credenze, che trasmetteremo ai nostri figli .

Amici,

La difesa e il rafforzamento della sovranità procedono a tutti i livelli, principalmente in prima linea, dove le nostre truppe combattono con determinazione ferma e altruista.

Sono grato a tutti coloro che combattono per gli interessi della Patria, che sopportano il crogiuolo dei processi militari e mettono a rischio la propria vita ogni giorno. L’intera nazione nutre il più profondo rispetto per la vostra impresa, piange i morti e la Russia ricorderà sempre i suoi eroi caduti.

(Un momento di silenzio.)

Le nostre Forze Armate hanno acquisito molta esperienza, anche in termini di coordinamento di tutte le ali militari, nonché di padronanza delle tattiche e dei metodi di guerra più recenti. Questo impegno ci ha dato così tanti comandanti talentuosi ed esperti che hanno a cuore i loro uomini e sono diligenti nello svolgere le loro missioni, sanno come utilizzare le nuove attrezzature e sono efficaci nell’adempiere ai loro incarichi. Vorrei sottolineare che ciò sta accadendo a tutti i livelli, dai plotoni alle unità operative fino al comando più alto.

Siamo consapevoli delle sfide che dobbiamo affrontare. Esistono. Detto questo, sappiamo anche cosa è necessario fare per affrontarli. C’è uno sforzo continuo e incessante in corso sia in prima linea che nelle retrovie a questo riguardo, al fine di migliorare la potenza d’attacco dell’Esercito e della Flotta, per renderli più esperti di tecnologia ed efficaci.

Le Forze Armate hanno ampliato notevolmente le loro capacità di combattimento. Le nostre unità hanno preso l’iniziativa e non rinunceranno. Stanno avanzando con sicurezza in diversi teatri operativi e liberando territori.

Non siamo stati noi a iniziare la guerra nel Donbass, ma, come ho già detto molte volte, faremo di tutto per porvi fine, sradicare il nazismo e raggiungere tutti gli obiettivi dell’operazione militare speciale, nonché difendere sovranità e garantire la sicurezza del nostro popolo.

Le forze nucleari strategiche sono in piena allerta e la capacità di utilizzarle è assicurata. Abbiamo già realizzato o stiamo per realizzare tutti i nostri piani in termini di armi, in linea con quanto ho affermato nel mio Discorso del 2018.

Kinzhal, il complesso ipersonico lanciato dall’aria, non solo è entrato in servizio di combattimento, ma è stato efficace nell’effettuare attacchi contro obiettivi critici durante l’operazione militare speciale. Per lo stesso motivo, Zircon, un complesso missilistico ipersonico basato su una nave, ha già prestato servizio in combattimento. Non è stato nemmeno menzionato nel discorso del 2018, ma anche questo sistema missilistico è entrato in servizio di combattimento.

Anche i missili balistici intercontinentali ipersonici Avangard, così come i complessi laser Peresvet, sono entrati in servizio di combattimento. Il Burevestnik, un missile da crociera con portata illimitata, sta per completare la fase di test, così come il Poseidon, un veicolo sottomarino senza pilota. Questi sistemi hanno dimostrato di soddisfare gli standard più elevati e non sarebbe esagerato affermare che offrono funzionalità uniche. Le nostre truppe hanno ricevuto anche i primi missili balistici pesanti Sarmat prodotti in serie. Presto ve li mostreremo durante il loro servizio di allerta in combattimento nelle aree del loro schieramento.

Gli sforzi per sviluppare diversi altri nuovi sistemi d’arma continuano e ci aspettiamo di sentire ancora di più sui risultati dei nostri ricercatori e dei produttori di armi.

La Russia è pronta al dialogo con gli Stati Uniti su questioni di stabilità strategica. Tuttavia, è importante chiarire che in questo caso abbiamo a che fare con uno Stato i cui ambienti dominanti stanno intraprendendo azioni apertamente ostili nei nostri confronti. Quindi, intendono seriamente discutere con noi questioni di sicurezza strategica e allo stesso tempo cercare di infliggere una sconfitta strategica alla Russia sul campo di battaglia, come dicono loro stessi.

Ecco un buon esempio della loro ipocrisia. Recentemente hanno avanzato accuse infondate, in particolare contro la Russia, riguardo ai piani per lo schieramento di armi nucleari nello spazio. Tali false narrazioni, e questa storia è inequivocabilmente falsa, sono progettate per coinvolgerci nei negoziati alle loro condizioni, che andranno solo a beneficio degli Stati Uniti.

Allo stesso tempo hanno bloccato la nostra proposta che era sul tavolo da oltre 15 anni. Mi riferisco all’accordo sulla prevenzione dello schieramento di armi nello spazio, che abbiamo redatto nel 2008. Non c’è stata alcuna reazione. Non è assolutamente chiaro di cosa stiano parlando.

Pertanto, ci sono ragioni per sospettare che l’interesse dichiarato dall’attuale amministrazione statunitense a discutere con noi di stabilità strategica sia semplicemente demagogia. Vogliono semplicemente mostrare ai propri cittadini e al mondo, soprattutto nel periodo precedente alle elezioni presidenziali, che continuano a governare il mondo, che parleranno con i russi quando ciò andrà a loro beneficio e che non c’è nulla di cui parlare e cercheranno di sconfiggerci. Tutto come al solito, come si suol dire.

Ma questo è inaccettabile, ovviamente. La nostra posizione è chiara: se si vogliono discutere questioni di sicurezza e stabilità che sono fondamentali per l’intero pianeta, ciò deve essere fatto con un pacchetto che includa, ovviamente, tutti gli aspetti che hanno a che fare con i nostri interessi nazionali e che hanno un impatto diretto sulla sicurezza del nostro Paese, la sicurezza della Russia.

Siamo anche consapevoli dei tentativi occidentali di trascinarci in una corsa agli armamenti, così esaurendoci, rispecchiando la strategia adottata con successo con l’Unione Sovietica negli anni ’80. Permettetemi di ricordarvi che nel 1981-1988 la spesa militare dell’Unione Sovietica ammontava al 13% del PIL.

Il nostro attuale imperativo è rafforzare la nostra industria della difesa in modo tale da aumentare le capacità scientifiche, tecnologiche e industriali del nostro Paese. Dobbiamo allocare le risorse nel modo più giudizioso possibile, promuovendo un’economia efficiente per le Forze Armate e massimizzando il rendimento di ogni rublo della nostra spesa per la difesa. Per noi è fondamentale accelerare la risoluzione dei problemi sociali, demografici, infrastrutturali e di altro tipo che affrontiamo, migliorando contemporaneamente la qualità delle attrezzature per l’esercito e la marina russa.

Ciò vale principalmente per le forze generali, affinando i principi della loro organizzazione e schierando sistemi avanzati di attacco senza pilota, sistemi di difesa aerea e guerra elettronica, ricognizione e comunicazioni, armi ad alta precisione e altri tipi di armi alle truppe.

Dobbiamo rafforzare le forze nel teatro strategico occidentale per contrastare le minacce poste dall’ulteriore espansione della NATO verso est, con l’adesione di Svezia e Finlandia all’alleanza.

L’Occidente ha provocato conflitti in Ucraina, in Medio Oriente e in altre regioni del mondo, diffondendo costantemente falsità. Ora hanno l’audacia di dire che la Russia nutre intenzioni di attaccare l’Europa. Potete crederci? Sappiamo tutti che le loro affermazioni sono del tutto infondate. E allo stesso tempo stanno selezionando gli obiettivi da colpire sul nostro territorio e contemplando i mezzi di distruzione più efficienti. Ora hanno iniziato a parlare della possibilità di schierare contingenti militari della NATO in Ucraina.

Ma ricordiamo cosa è successo a coloro che già una volta hanno inviato i loro contingenti nel territorio del nostro Paese. Oggi, qualsiasi potenziale aggressore dovrà affrontare conseguenze molto più gravi. Devono capire che disponiamo anche di armi – sì, lo sanno, come ho appena detto – capaci di colpire obiettivi sul loro territorio.

Tutto ciò che stanno inventando ora, spaventando il mondo con la minaccia di un conflitto che coinvolga armi nucleari, che potenzialmente significa la fine della civiltà, se ne rendono conto? Il problema è che si tratta di persone che non hanno mai affrontato profonde avversità; non hanno idea degli orrori della guerra. Noi, anche la generazione più giovane di russi, abbiamo sopportato tali prove durante la lotta contro il terrorismo internazionale nel Caucaso e ora nel conflitto in Ucraina. Ma continuano a considerarlo una sorta di cartone animato d’azione.

In effetti, proprio come qualsiasi altra ideologia che promuove il razzismo, la superiorità nazionale o l’eccezionalismo, la russofobia è accecante e stupefacente. Gli Stati Uniti e i loro satelliti hanno infatti smantellato il sistema di sicurezza europeo creando rischi per tutti.

Chiaramente, un nuovo quadro di sicurezza uguale e indivisibile deve essere creato in Eurasia nel prossimo futuro. Siamo pronti per una discussione approfondita su questo argomento con tutti i paesi e le associazioni che potrebbero essere interessate. Allo stesso tempo, vorrei ribadire (penso che sia importante per tutti) che nessun ordine internazionale duraturo è possibile senza una Russia forte e sovrana.

Ci sforziamo di unire gli sforzi della maggioranza globale per rispondere alle sfide internazionali, come la turbolenta trasformazione dell’economia mondiale, del commercio, della finanza e dei mercati tecnologici, quando gli ex monopoli e gli stereotipi ad essi associati stanno crollando.

Ad esempio, nel 2028, i paesi BRICS, tenendo conto dei nuovi membri, creeranno circa il 37% del PIL globale, mentre i numeri del G7 scenderanno al di sotto del 28%. Queste cifre sono piuttosto significative perché la situazione era completamente diversa solo 10 o 15 anni fa. Mi avete già sentito dirlo pubblicamente. Queste sono le tendenze. Queste sono le tendenze globali e non è possibile sfuggirle poiché sono una realtà oggettiva.

Guardate, la quota dei paesi del G7 nel PIL globale in termini di PPP era pari al 45,7% nel 1992, mentre i paesi BRICS (questa associazione non esisteva nel 1992) rappresentavano solo il 16,5%. Nel 2022, tuttavia, il G7 rappresentava il 30,3%, mentre i BRICS il 31,5%. Entro il 2028, la percentuale si sposterà ancora di più a favore dei BRICS, con il 36,6%, e la cifra prevista per il G7 è del 27,8%. Non è possibile allontanarsi da questa realtà oggettiva, e rimarrà tale indipendentemente da ciò che accadrà dopo, anche in Ucraina.

Continueremo a lavorare con i paesi amici per creare corridoi logistici efficaci e sicuri, basandoci su soluzioni all’avanguardia per costruire una nuova architettura finanziaria globale che sia libera da qualsiasi interferenza politica. Ciò è particolarmente importante considerando che l’Occidente ha minato le proprie valute e il sistema bancario tagliando letteralmente il ramo su cui è seduto.

I principi di uguaglianza e rispetto per gli interessi reciproci ci guidano nelle nostre interazioni con i nostri partner. Questo è il motivo per cui sempre più paesi sono stati proattivi nel cercare di far parte delle attività dell’EAEU, della SCO, dei BRICS e di altre associazioni che coinvolgono la Russia. Vediamo molte promesse nel progetto di costruzione di un grande partenariato eurasiatico e di allineamento dei processi di integrazione all’interno dell’Unione economica eurasiatica e dell’iniziativa cinese Belt and Road.

Il dialogo tra Russia e ASEAN ha registrato uno slancio positivo. I vertici Russia-Africa hanno rappresentato una vera svolta, con il continente africano che è diventato sempre più assertivo nel perseguire i propri interessi e nel godere di un’autentica sovranità. Sosteniamo sinceramente queste aspirazioni.

La Russia ha relazioni positive e di lunga data con gli stati arabi, che hanno una propria civiltà unica e vivace che si estende in tutto il Nord Africa e nel Medio Oriente. Siamo convinti che dobbiamo trovare nuovi punti di convergenza con i nostri amici arabi e approfondire le nostre partnership a tutti i livelli. La stessa visione guiderà le nostre relazioni con l’America Latina.

In una nota separata, vorrei chiedere al governo di stanziare maggiori finanziamenti per programmi internazionali per la promozione della lingua russa e della nostra cultura multietnica, principalmente nello spazio della CSI ma anche in tutto il mondo.

Per inciso, amici e colleghi, sono sicuro che molti di voi sono stati alla mostra sulla Russia. Le persone vanno lì per vedere quanto è ricca e vasta la nostra patria e per mostrarlo ai propri figli. Lì è stato lanciato l’Anno della Famiglia. I valori dell’amore, del sostegno reciproco e della fiducia vengono tramandati di generazione in generazione, proprio come la nostra cultura, le nostre tradizioni, la nostra storia e i nostri principi morali.

Ma lo scopo principale della famiglia è avere figli, procreare, crescere i figli e quindi garantire la sopravvivenza della nostra nazione multietnica. Possiamo vedere cosa sta accadendo in alcuni paesi in cui gli standard morali e la famiglia vengono deliberatamente distrutti e intere nazioni vengono spinte verso l’estinzione e la decadenza. Abbiamo scelto la vita. La Russia è stata e rimane una roccaforte dei valori tradizionali su cui poggia la civiltà umana. La nostra scelta è supportata dalla maggior parte delle persone nel mondo, inclusi milioni di persone nei paesi occidentali.

È vero, oggi i tassi di natalità stanno diminuendo in Russia e in molti altri paesi. I demografi affermano che questa sfida è legata ai cambiamenti nelle percezioni sociali, economiche, tecnologiche, culturali e di valore in tutto il mondo. I giovani ricevono un’istruzione, cercano di fare carriera e migliorano le loro condizioni di vita, lasciando i figli per dopo.

È ovvio che l’economia e la qualità del settore sociale non sono gli unici fattori che influenzano la demografia e il tasso di natalità. Anche le scelte di vita incoraggiate in famiglia e dalla nostra cultura ed educazione hanno un impatto enorme. Tutti i livelli di governo, della società civile e del clero di tutte le nostre religioni tradizionali devono contribuire a questo.

Il sostegno alle famiglie con bambini è la nostra scelta morale fondamentale. Una famiglia con più figli deve diventare una norma, la filosofia sociale sottostante e il fulcro della strategia statale. (Applausi.) Mi unisco ai vostri applausi.

Dobbiamo garantire una crescita sostenibile del tasso di natalità entro i prossimi sei anni. Con questo obiettivo, prenderemo ulteriori decisioni riguardanti il sistema educativo e lo sviluppo regionale ed economico. Parlerò del sostegno alle famiglie e del miglioramento della qualità della loro vita in quasi tutte le parti del Discorso. Per favore abbiate pazienza, perché ho appena iniziato. Anche tutto quello che ho già detto è importante, ma ora parlerò delle questioni più importanti.

Inizierò con un problema importante, per usare un eufemismo, ovvero i redditi bassi sperimentati da molte famiglie numerose. Nel 2000, più di 42 milioni di russi vivevano al di sotto della soglia di povertà, ma da allora la situazione è cambiata radicalmente. Alla fine dello scorso anno, il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è sceso a 13,5 milioni, un numero comunque elevato. Ma siamo costantemente concentrati sulla ricerca di una soluzione a questo problema.

In tempi relativamente recenti sono state adottate diverse misure. Ad esempio, il 1° gennaio 2023 è stato introdotto un assegno mensile unico per le famiglie a basso reddito. È dovuto dal momento in cui la madre rimane incinta fino al compimento dei 17 anni del figlio. L’anno scorso l’hanno ricevuto più di 11 milioni di persone.

Abbiamo semplificato drasticamente la procedura per la conclusione di un contratto sociale, dando priorità alle famiglie numerose. Ora, una domanda per un contratto sociale può essere presentata tramite il sito web Gosuslugi (servizi governativi) con un insieme minimo di documenti. Lavoreremo per espandere la disponibilità di questo servizio, che richiederà finanziamenti aggiuntivi per un importo di 100 miliardi di rubli. Questi soldi sono già stati accantonati. In generale, tutte le spese aggiuntive che menzionerò sono state preventivate.

Per ribadire, la povertà rimane un problema acuto che ora colpisce direttamente più del 9% della popolazione. Secondo gli esperti, il tasso di povertà tra le famiglie con molti figli è di circa il 30%. Dobbiamo stabilire obiettivi chiari e raggiungerli costantemente. Entro il 2030, il tasso di povertà complessivo in Russia dovrà essere inferiore al 7% e, per le famiglie numerose, non dovrà essere superiore al 12% o inferiore alla metà dell’attuale 30%. Dobbiamo cioè porre un’enfasi particolare sullo sforzo volto a ridurre la povertà, in primo luogo per le famiglie con molti figli.

So che superare la povertà non è facile ed è uno sforzo assolutamente sistemico e multi-vettore. Pertanto, per ribadirlo, è importante assicurarsi che tutto ciò che facciamo in quest’area e ogni strumento che utilizziamo siano efficaci ed efficienti e produca risultati reali e tangibili per le nostre persone e le nostre famiglie.

Ciò di cui abbiamo bisogno è uno sforzo ininterrotto volto a migliorare la qualità della vita delle famiglie con bambini e a sostenere il tasso di natalità. Per raggiungere questo obiettivo, lanceremo un nuovo progetto nazionale intitolato “Famiglia”.

Parlerò ora di una serie di iniziative specifiche.

In primo luogo, oltre ai programmi federali, le regioni russe stanno implementando le proprie misure a sostegno delle famiglie con bambini. Soprattutto, vorrei ringraziare i miei colleghi per questo lavoro e proporre di fornire ulteriore assistenza alle regioni in cui il tasso di natalità è inferiore alla media nazionale. Ciò è particolarmente importante per la Russia centrale e nordoccidentale. Nel 2022, 39 regioni avevano un tasso di fertilità totale inferiore alla media nazionale. Entro la fine del 2030 destineremo almeno 75 miliardi di rubli a queste regioni in modo che possano aumentare i loro programmi di sostegno alle famiglie. I fondi inizieranno a essere erogati l’anno prossimo.

In secondo luogo, l’anno scorso in Russia sono stati costruiti più di 110 milioni di metri quadrati di abitazioni, ovvero il 50% in più rispetto al livello più alto dell’era sovietica, raggiunto nel 1987. All’epoca furono costruiti 72,8 milioni di metri quadrati e ora il risultato è 110 milioni.

Ancora più importante, negli ultimi sei anni, milioni di famiglie russe si sono trasferite in alloggi più grandi o migliori; oltre 900.000 di loro hanno approfittato del programma di mutui familiari, lanciato nel 2018. Nel corso del tempo abbiamo costantemente ampliato l’idoneità a questo programma, dalle famiglie con due o più figli alle famiglie con un figlio di oggi. Il programma proseguirà fino a luglio 2024. Propongo di estenderlo ulteriormente fino al 2030 mantenendone i parametri di base. Particolare attenzione dovrebbe essere prestata alle famiglie con bambini sotto i sei anni; il tasso di interesse preferenziale sul prestito rimarrà al 6% per queste famiglie.

C’è qualcos’altro. Attualmente il governo sovvenziona 450.000 rubli di mutuo per una famiglia che ha un terzo figlio. Propongo inoltre di estendere questa misura fino al 2030. Quest’anno questo piano di sostegno richiederà quasi 50 miliardi di rubli; l’importo aumenterà ulteriormente, ma abbiamo i soldi per farlo.

Il nostro obiettivo più ampio è rendere gli alloggi attualmente in costruzione maggiormente accessibili per le famiglie e garantire un rinnovamento a livello di sistema del patrimonio immobiliare nel paese.

In terzo luogo, in Russia ci sono oltre due milioni di famiglie con tre o più figli. Inutile dire che siamo molto orgogliosi di queste famiglie.

Ecco cosa volevo dire a questo proposito. Guardate questi numeri : sono cifre del mondo reale. Tra il 2018 e il 2022, il numero di famiglie con molti bambini in Russia è aumentato del 26,8%, il che è un risultato positivo.

Ho firmato un ordine esecutivo che crea uno status nazionale unico per le famiglie con molti figli. Questo è quello che il popolo ha chiesto. Dobbiamo dare seguito alle disposizioni adottando decisioni federali e regionali concrete, in linea con le aspirazioni popolari, ovviamente.

Le famiglie con molti figli hanno così tante questioni di cui occuparsi, quindi i genitori devono avere più risorse a disposizione per affrontare le sfide quotidiane. Suggerisco di raddoppiare la detrazione fiscale che i genitori ottengono quando hanno il secondo figlio a 2.800 rubli al mese e di aumentare questo beneficio per il terzo e ogni figlio consecutivo a 6.000 rubli.

Cosa significa questo? Faccio un esempio: in questo modo una famiglia con tre figli potrà risparmiare 1.300 rubli al mese. Suggerisco inoltre di aumentare il reddito annuo computato ai fini di questa detrazione da 350.000 a 450.000 rubli. E questa misura di sostegno deve applicarsi automaticamente senza che le persone debbano richiederla.

In una nota separata vorrei menzionare l’indennità di capitale di maternità. Oggi i genitori possono ricevere 630.000 rubli quando nasce il loro primo figlio e quando arriva il secondo la famiglia riceve altri 202.000 rubli. Abbiamo regolarmente adeguato questo vantaggio all’inflazione. Per il momento, il programma di capitale di maternità scadrà entro l’inizio del 2026, ma suggerisco di estenderlo almeno fino al 2030.

Colleghi,

Vorrei ringraziare le fondazioni di beneficenza e le organizzazioni no-profit di servizio alla comunità che aiutano gli anziani, le persone affette da varie malattie e i bambini con disabilità. Hanno fatto molto per sollevare la questione dell’assistenza a lungo termine a livello nazionale. Erano loro a sollevare costantemente questi problemi.

Credo che dobbiamo stanziare più fondi federali per questo sistema e seguire un unico ed elevato standard di cura. Ciò include il miglioramento della disponibilità per circa mezzo milione di russi che hanno bisogno di questo tipo di assistenza.

Entro il 2030 dobbiamo garantire che il 100% delle persone che necessitano di questo tipo di assistenza a lungo termine possano trarne beneficio.

Attualmente l’aspettativa di vita media in Russia ha superato i 73 anni. Siamo tornati al livello a cui eravamo prima della pandemia di COVID-19. Entro il 2030, l’aspettativa di vita in Russia dovrebbe essere di almeno 78 anni e in futuro, come avevamo pianificato, raggiungeremo il livello di oltre 80 anni.

Particolare attenzione dovrebbe essere prestata alle aree rurali e alle regioni in cui l’aspettativa di vita è ancora inferiore alla media della Russia. Il progetto nazionale Long and Active Life si concentrerà sul raggiungimento di questi obiettivi. È particolarmente importante prolungare il periodo sano e attivo nella vita di una persona, in modo che possa godersi le attività familiari, stare con i propri cari, figli e nipoti.

Continueremo ad attuare progetti federali per combattere le malattie cardiovascolari, il cancro e il diabete.

Inoltre, propongo di lanciare un nuovo programma globale per proteggere la maternità e aiutare i bambini e gli adolescenti a mantenere una buona salute, compresa la salute riproduttiva, garantendo che i bambini nascano sani e crescano fino a diventare adulti sani e producano bambini sani in futuro.

Le priorità del nuovo programma dovrebbero includere l’espansione della rete nazionale di cliniche sanitarie femminili e il potenziamento dei centri prenatale, delle cliniche pediatriche e degli ospedali. In totale, nei prossimi sei anni stanzieremo inoltre più di un trilione di rubli solo per la costruzione, la riparazione e l’equipaggiamento delle strutture sanitarie.

Inoltre. Il numero di russi che praticano attività sportive regolarmente è aumentato in modo significativo negli ultimi anni. Questo è uno dei nostri principali risultati. Dobbiamo incoraggiare le persone ad assumersi la responsabilità della propria salute. Già dal prossimo anno introdurremo detrazioni fiscali per coloro che si sottopongono regolarmente a visite mediche programmate, nonché superano con successo il test di idoneità fisica standard GTO.

Ricordate questo slogan popolare? Tutti ricordano quella battuta: “Smetti di bere, inizia a sciare!” Sembra che sia così, il momento è adesso. A proposito del bere abbiamo ottenuto un risultato notevole e positivo. In effetti, abbiamo ridotto significativamente il consumo di alcol, principalmente alcolici forti, senza imporre restrizioni estreme, il che dovrebbe sicuramente migliorare la salute della nazione.

Suggerisco di incanalare i fondi federali nella costruzione di almeno 350 impianti sportivi aggiuntivi ogni anno nelle regioni, principalmente nelle piccole città e nelle aree rurali. Ciò potrebbe includere luoghi polivalenti, nonché strutture che possono essere costruite rapidamente per essere utilizzate da bambini, adulti e famiglie. A tal fine stanzieremo circa 65 miliardi di rubli in denaro federale nei prossimi sei anni.

Anche le università, gli istituti professionali, le scuole e gli istituti prescolari devono creare le condizioni per praticare sport. A proposito, molti dei nostri asili sono stati aperti già in epoca sovietica e hanno bisogno di essere ristrutturati. L’anno prossimo lanceremo un importante programma di ristrutturazione per loro. Ho sentito parlare di questo problema dalle persone con cui parlo continuamente.

Per quanto riguarda le scuole, circa 18.500 edifici necessitano di importanti riparazioni. Aiuteremo le regioni a gestire l’arretrato di problemi in questo settore in modo che possano passare dalle riparazioni urgenti a quelle pianificate. A giudicare da quanto realizzato finora, siamo sulla strada giusta. Nel complesso, stanzieremo oltre 400 miliardi di rubli per intraprendere importanti riparazioni negli asili e nelle scuole.

Oltre a ciò, propongo di rinnovare o aprire sale mediche nelle scuole che necessitano di questo tipo di servizio. Oggi, intendo dire nel 2022-2023, solo il 65% delle 39.000 scuole che abbiamo (e abbiamo 39.440 scuole in totale) disponevano di strutture mediche, il che significa che abbiamo margine di miglioramento

C’è un altro argomento importante. Molte grandi città sono in rapida espansione, il che a sua volta aumenta il peso sui servizi sociali. Molte scuole hanno dovuto passare a turni doppi o addirittura tripli. Naturalmente, questa è una sfida e dobbiamo affrontarla. Dovremo impegnare risorse federali per risolvere questo problema costruendo almeno 150 scuole e oltre 100 asili nido nelle città più colpite che si trovano ad affrontare istituti scolastici sovraffollati.

Colleghi,

I sogni e le realizzazioni dei nostri antenati sono alla nostra portata e possiamo essere orgogliosi di questi risultati, mentre sono le aspirazioni delle nostre generazioni più giovani a determinare il futuro del nostro Paese. La loro maturità, i loro successi, le loro linee guida morali, che possono resistere a qualsiasi sfida, sono le garanzie più importanti della sovranità della Russia e della continuazione della nostra storia.

Propongo di consolidare l’esperienza positiva che abbiamo ottenuto con la nostra politica giovanile e di lanciare quest’anno un nuovo progetto nazionale, la Gioventù di Russia. Questo progetto dovrebbe concentrarsi sul futuro del nostro Paese e lavorare verso quel futuro. Questo è ciò che i nostri insegnanti vedono come la loro chiamata, la loro grande missione, quando si rendono conto di essere responsabili delle generazioni più giovani e siamo loro grati per il loro lavoro altruistico.

I mentori svolgono un ruolo importante nel far sentire i bambini parte di una squadra unita e nel fornire loro supporto nella vita. Propongo di istituire un sussidio federale mensile di 5.000 rubli per i consulenti dei direttori che che li aiutano nello sviluppo dei bambini nelle scuole e nelle università, con data di lancio il 1° settembre 2024. Questa sarà una nuova misura di sostegno. Propongo inoltre di implementare misure di sostegno per gli insegnanti di classe nelle scuole, nonché per i supervisori di gruppo, sia nelle università che nelle scuole tecniche, nelle comunità con una popolazione inferiore a 100.000 persone. Tali comunità necessitano di un’attenzione speciale e, infatti, la maggior parte delle piccole città e dei villaggi di tutta la Russia rientrano in questa categoria. Pertanto, dal 1° marzo 2024, propongo di raddoppiare il pagamento federale per la gestione delle classi e la supervisione dei gruppi agli operatori didattici idonei portandolo a 10.000 rubli.

C’è un’altra cosa che vorrei aggiungere. Nel 2018, gli ordini esecutivi di maggio stabiliscono i requisiti per la retribuzione degli insegnanti e di altri dipendenti del settore pubblico sulla base del reddito medio mensile derivante da un impiego in una particolare regione della Russia. Queste disposizioni dei cosiddetti ordini esecutivi di maggio devono continuare a essere rigorosamente rispettate. Allo stesso tempo, dobbiamo migliorare il sistema di remunerazione nel settore pubblico e aumentare i redditi dei suoi dipendenti.

La retribuzione media nell’economia varia da regione a regione, il che significa che i redditi delle persone nel settore pubblico a volte sono molto diversi anche nelle entità vicine della federazione. Ma il lavoro di insegnanti e medici è difficile e richiede che accettino un’estrema responsabilità, indipendentemente da dove si trovino. Senza dubbio, questa grande differenza negli stipendi tra le regioni è ingiusta.

So che si tratta di una questione vecchia, complicata e ad alta intensità di capitale, se posso affrontarla in questo modo. Ne ho discusso con i miei colleghi delle agenzie federali, i capi delle regioni, insegnanti, medici e altri professionisti. Ed è chiaro che dobbiamo fare qualcosa al riguardo.

Non entrerò ora nei dettagli, ma è sicuramente una questione complicata. I parlamentari e il governo sanno di cosa sto parlando. Chiedo al governo di coordinare nel 2025 un nuovo sistema di pagamento per i dipendenti del settore pubblico nell’ambito dei progetti pilota esistenti nelle regioni e di adottare una decisione finale per l’intero paese nel 2026.

Una questione a parte riguarda la creazione di incentivi aggiuntivi per attirare giovani professionisti nelle scuole dove vedranno opportunità professionali e di carriera. A tal fine, approveremo stanziamenti mirati di oltre 9 miliardi di rubli dal bilancio federale per il miglioramento dell’infrastruttura delle università di formazione pedagogica.

Il nostro sistema di istruzione scolastica è sempre stato famoso per i suoi insegnanti innovativi e metodi di insegnamento unici. Sono i team di tali insegnanti che prenderanno parte alla creazione di scuole lungimiranti. La costruzione delle prime scuole di leadership di questo tipo inizierà quest’anno nelle regioni di Ryazan, Pskov, Belgorod, Nizhny Novgorod e Novgorod. Successivamente verranno costruiti in tutti i distretti federali, in Estremo Oriente, in Siberia e nel Donbass. Nel complesso, apriremo 12 scuole di questo tipo entro il 2030.

Per quanto riguarda i contenuti educativi, il carico di lavoro dei nostri figli deve essere ragionevole ed equilibrato. E decisamente non va bene quando ai bambini viene insegnata una cosa durante le lezioni e vengono chieste cose completamente diverse durante gli esami. Questa discrepanza, per usare un eufemismo, tra il programma di studio e le domande poste durante gli esami, che purtroppo accade, costringe i genitori ad assumere tutor privati, cosa che non tutte le famiglie possono permettersi. Chiedo ai nostri colleghi del governo di collaborare con insegnanti e genitori per risolvere questo problema evidente.

A questo proposito vorrei spendere qualche parola sull’Esame di Stato Unificato. che è una questione di ampia discussione e dibattito pubblico, come tutti sappiamo. È vero che il meccanismo dell’esame unificato deve essere migliorato.

Cosa suggerisco in questa fase? Propongo di fare un ulteriore passo dando una seconda possibilità ai diplomati. In particolare, avranno la possibilità di sostenere nuovamente un esame in una delle materie d’esame unificate prima della fine del periodo di iscrizione all’università in modo da poter inviare nuovamente i nuovi voti. Tali questioni possono sembrare banali, ma in realtà sono piuttosto importanti per le persone.

Colleghi,

L’anno scorso, l’economia russa è cresciuta più velocemente dell’economia mondiale e abbiamo sovraperformato non solo i principali paesi dell’UE, ma anche tutte le economie del G7. Ecco cosa vorrei sottolineare a questo proposito: le massicce riserve create negli ultimi decenni hanno avuto molto a che fare con questo.

La quota delle industrie non legate alle materie prime nella struttura di crescita è ora ben superiore al 90%, il che significa che l’economia è diventata più complessa e tecnologica e quindi molto più sostenibile. La Russia è la più grande economia europea in termini di prodotto interno lordo e parità di potere d’acquisto, nonché la quinta economia mondiale.

Il ritmo e, soprattutto, la qualità della crescita rendono possibile sperare e persino affermare che saremo in grado di fare un altro passo avanti nel prossimo futuro e di diventare la quarta economia mondiale. Questo tipo di crescita dovrebbe avere un effetto diretto sui redditi delle famiglie.

La quota dei salari nel PIL nazionale dovrebbe aumentare entro i prossimi sei anni. Stiamo adeguando il salario minimo ai tassi di inflazione e ai tassi di crescita salariale medi nell’economia. A partire dal 2020, il salario minimo è aumentato del 50%, da 12.000 a 19.000 rubli al mese. Entro il 2030, il salario minimo sarà quasi raddoppiato, arrivando a 35.000 rubli, il che farà sicuramente la differenza nel numero di benefici sociali e salari nei settori pubblico ed economico.

Siamo consapevoli dei rischi e dei fattori che potrebbero portare a un rallentamento della crescita economica e del nostro progresso in generale. Questi includono, principalmente, la carenza di personale qualificato e della nostra tecnologia avanzata e persino la totale mancanza di essa in alcune aree. Dobbiamo essere proattivi a questo riguardo, quindi oggi discuterò in dettaglio questi due argomenti strategicamente importanti.

Inizierò con il personale. La Russia ha una numerosa generazione di giovani. Stranamente, stiamo affrontando problemi demografici legati alla crescita della popolazione, ma abbiamo ancora una generazione giovane piuttosto numerosa. Nel 2030, questo paese avrà 8,3 milioni di persone di età compresa tra i 20 e i 24 anni, e 9,7 milioni, ovvero 2,4 milioni in più, nel 2035. Senza dubbio, questo è il risultato delle misurazioni demografiche degli anni precedenti, tra le altre cose.

È importante sottolineare che gli adolescenti di oggi dovrebbero diventare professionisti pronti a lavorare nell’economia del 21° secolo. Questo è il focus del nuovo progetto nazionale del Personale.

Ne abbiamo discusso molto, ma dobbiamo davvero rafforzare il collegamento tra tutti i livelli di istruzione, dalla scuola all’università. Dovrebbero funzionare insieme per ottenere un risultato comune. Naturalmente, il coinvolgimento dei futuri datori di lavoro è importante. Quest’anno è stato lanciato un sistema di orientamento professionale in tutte le scuole a livello nazionale. Gli alunni dalla prima media in su possono acquisire familiarità con diverse specialità.

Ora esorto i capi delle imprese, dei centri di ricerca e dei centri medici a incoraggiare gli scolari a visitarli. Far vedere loro i workshops, come mi è stato offerto di fare durante uno dei miei viaggi, i musei e i laboratori. Assicurati di partecipare a questo sforzo.

La promozione di una stretta collaborazione tra le istituzioni educative e l’economia reale ci ha guidato nel progetto Professionalitet per la promozione della formazione professionale. Ci ha permesso di aggiornare i programmi formativi per i settori dell’aviazione, della costruzione navale, farmaceutico, dell’elettronica e della difesa, tra gli altri.

Dovremo formare circa un milione di lavoratori altamente qualificati per questi settori entro il 2028, assicurandoci al tempo stesso che il sistema di formazione professionale nel suo insieme passi a questi approcci, anche in termini di sviluppo delle risorse umane per le scuole, gli ospedali, gli ambulatori, i servizi settore, turismo, istituzioni culturali e industrie creative.

In una nota separata, sto dando istruzioni al governo di collaborare con le regioni su un programma per rinnovare e attrezzare gli istituti di formazione professionale. Questo sforzo deve andare oltre il rinnovamento delle strutture educative e coprire anche le strutture sportive, nonché i dormitori degli studenti che servono queste scuole e università di formazione professionale. Assegneremo 120 miliardi di rubli in finanziamenti federali per questi scopi nel prossimo periodo di sei anni.

Inoltre, spenderemo altri 124 miliardi di rubli per effettuare importanti riparazioni in circa 800 dormitori universitari nei prossimi sei anni.

Per quanto riguarda l’istruzione superiore in generale, il nostro compito è sviluppare centri di ricerca e formazione in tutto il nostro Paese. Per questo costruiremo 25 campus universitari entro il 2030. Ne abbiamo già parlato, ma vale la pena ripeterlo. Suggerisco di espandere questo programma per costruire almeno 40 campus studenteschi di questo tipo.

Per fare ciò, dovremo stanziare circa 400 miliardi di rubli dal bilancio federale per garantire che studenti, laureati, docenti e giovani famiglie abbiano tutto ciò di cui hanno bisogno per studiare, lavorare e crescere i propri figli.

Nel complesso, dobbiamo esaminare tutte le diverse situazioni che le giovani madri o i giovani genitori affrontano nella loro vita e utilizzare queste informazioni per perfezionare e migliorare i servizi pubblici, il settore sociale, l’assistenza sanitaria, nonché le infrastrutture urbane e rurali. Chiedo al governo e alla regione di prestare la dovuta attenzione quando si lavora su questo programma.

Andando avanti, nel discorso dell’anno scorso, ho annunciato importanti cambiamenti nel modo in cui funziona il nostro sistema di istruzione superiore e ho parlato della necessità di utilizzare le migliori pratiche nazionali. Le basi per il futuro successo in una professione vengono gettate nei primi anni di università, quando vengono insegnate le materie fondamentali. Credo che dobbiamo offrire a coloro che insegnano queste materie salari più alti. Pertanto, chiedo al governo di suggerire modalità specifiche per realizzare ciò e di lanciare un progetto pilota a partire dal 1° settembre.

Ciò richiederà risorse aggiuntive. Secondo le stime preliminari, ciò ammonterebbe a circa 1,5 miliardi quest’anno e a 4,5 miliardi in futuro. Abbiamo preso in considerazione questi importi nelle nostre proiezioni.

Per noi è importante rafforzare le capacità e la qualità del sistema nazionale di istruzione superiore, per sostenere le università che lottano per lo sviluppo. Questi obiettivi vengono raggiunti dal nostro programma Priorità 2030. I finanziamenti per questo scopo sono stati stanziati fino alla fine di quest’anno. Propongo certamente di prorogarlo per altri sei anni e di stanziare altri 190 miliardi di rubli.

I criteri di efficienza per le università partecipanti dovrebbero includere progetti relativi al personale e alla tecnologia con le regioni, le industrie e il settore sociale della Russia, la creazione di aziende e start-up innovative ed efficaci con la capacità di attrarre studenti stranieri. Inoltre, valuteremo sicuramente tutte le università, i college e le scuole tecniche russe in base alla domanda di laureati dal mercato del lavoro e alla crescita delle loro retribuzioni.

Amici,

Vorrei spendere alcune parole sulle basi tecnologiche dello sviluppo e qui la scienza è certamente la pietra angolare. In un incontro con gli scienziati dell’Accademia russa delle scienze, che quest’anno ha celebrato il suo 300° anniversario, ho affermato che, anche durante i periodi più difficili, la Russia non ha mai rinunciato ad affrontare i suoi imperativi fondamentali, ha sempre pensato al futuro e dobbiamo fare lo stesso adesso. È un dato di fatto, stiamo cercando di fare esattamente questo.

Ad esempio, nessun altro paese al mondo dispone di una così vasta gamma di megastrutture scientifiche come quella della Russia oggi. Questi centri offrono opportunità uniche ai nostri scienziati e ai nostri partner, ricercatori di altri paesi, che invitiamo a collaborare.

L’infrastruttura scientifica della Russia rappresenta il nostro forte vantaggio competitivo, sia nel contesto della ricerca fondamentale che nella creazione di innovazioni per i prodotti farmaceutici, la biologia, la medicina, la microelettronica, i prodotti chimici e i nuovi materiali, nonché per i programmi spaziali.

Credo che dovremmo più che raddoppiare gli investimenti pubblici e privati totali nella ricerca e nello sviluppo, fino al 2% del PIL entro il 2030. Ciò dovrebbe garantire alla Russia il posto di una delle principali potenze scientifiche del mondo.

Vorrei ribadire che le imprese private dovrebbero contemporaneamente aumentare gli investimenti nella scienza, almeno raddoppiando i programmi attuali entro il 2030. Resta inteso che questi fondi dovrebbero essere spesi in modo efficace e dovrebbero essere determinanti per ottenere un risultato specifico in ogni specifico progetto di ricerca. A questo proposito, dobbiamo sfruttare l’esperienza positiva dei nostri programmi di ricerca federali in genetica e agricoltura, nonché i progetti promossi dalla Fondazione scientifica russa.

Alla luce degli obiettivi e delle sfide attuali, abbiamo adattato la strategia russa per lo sviluppo scientifico e tecnologico che utilizziamo come punto di partenza per lanciare nuovi progetti nazionali di sovranità tecnologica. Vi fornirò un elenco delle aree principali.

In primo luogo, dobbiamo essere indipendenti e possedere tutte le chiavi tecnologiche in aree sensibili, come la tutela della salute pubblica e la garanzia della sicurezza alimentare.

In secondo luogo, dobbiamo raggiungere la sovranità tecnologica in ambiti critici che determinano la resilienza della nostra economia in generale, come i mezzi di produzione e le macchine utensili, la robotica, tutte le modalità di trasporto, i sistemi aerei senza pilota, subacquei e di altro tipo, l’economia dei dati, i materiali innovativi e la chimica.

In terzo luogo, dobbiamo creare prodotti competitivi a livello globale basati su innovazioni nazionali uniche, tra cui le tecnologie spaziali, nucleari e delle nuove energie. Dobbiamo iniziare a lavorare ora per creare un ambiente giuridico che promuova le industrie e i mercati del futuro, per generare una domanda a lungo termine – almeno fino alla fine dell’attuale decennio – per prodotti ad alta tecnologia in modo che le aziende abbiano regole coerenti con cui agire.

È inoltre imperativo creare catene di cooperative interne e piattaforme tecnologiche internazionali, avviare la produzione in serie delle proprie attrezzature e componenti e guidare l’esplorazione geologica verso la ricerca di terre rare e altre materie prime per la nuova economia. Abbiamo tutto questo.

Per ribadire, stiamo parlando di un punto d’appoggio strategico per il futuro, quindi utilizziamo tutti gli strumenti e i meccanismi di sviluppo disponibili per raggiungere questi obiettivi e per garantire un finanziamento di bilancio prioritario. Invito il Governo e l’Assemblea federale a tenerne conto durante la stesura del bilancio. Ti preghiamo di considerare sempre questo aspetto come una priorità assoluta.

I progetti di sovranità tecnologica dovrebbero diventare un motore per rinnovare il nostro settore e aiutare l’intera economia a raggiungere un livello avanzato di efficienza e competitività. Propongo di fissare l’obiettivo di aumentare la quota di beni e servizi high-tech nazionali sul mercato interno del 150% entro i prossimi sei anni e di aumentare il volume delle esportazioni non di materie prime e non energetiche di almeno due terzi.

Citerò qualche altra cifra. Nel 1999, la quota delle importazioni nel nostro paese ha raggiunto il 26% del PIL, il che significa che le importazioni rappresentavano quasi il 30% del nostro mercato. L’anno scorso era pari al 19% del PIL, ovvero a 32 trilioni di rubli. Entro il 2030, dobbiamo raggiungere un livello di importazioni non superiore al 17% del PIL.

Ciò significa che dobbiamo produrre noi stessi molti più beni di consumo e di altro tipo, tra cui medicinali, attrezzature, macchine utensili e veicoli. Non siamo in grado di produrre tutto e non ne abbiamo bisogno, ma il governo sa su cosa deve lavorare.

Vorrei sottolineare che nei prossimi sei anni il valore aggiunto lordo nel settore manifatturiero dovrebbe aumentare almeno del 40% rispetto al 2022. Questo sviluppo industriale accelerato implica la creazione di migliaia di nuove imprese e di posti di lavoro moderni e altamente retribuiti.

Abbiamo già preparato una sorta di “menu” industriale. Le aziende che realizzano progetti industriali potranno scegliere misure di sostegno adeguate, accordi sulla protezione e sugli incentivi degli investimenti, contratti di investimento speciali, una piattaforma di investimento cluster e simili. Abbiamo ideato e stiamo già implementando molti di tali strumenti. E svilupperemo ulteriormente questi meccanismi.

Nei prossimi sei anni stanzieremo inoltre 120 miliardi di rubli per sovvenzionare progetti aziendali di ricerca e sviluppo e per rafforzare il sistema dei mutui industriali. Utilizzeremo questo programma anche per costruire e rinnovare ulteriormente oltre 10 milioni di metri quadrati di superficie industriale.

Vorrei aggiungere quanto segue a scopo di confronto, oltre al ritmo che abbiamo già raggiunto.

Quindi, facciamo alcuni confronti. Oggi in Russia costruiamo ogni anno circa quattro milioni di metri quadrati di superficie industriale. Si tratta di un indicatore sostanziale dell’ammodernamento delle nostre capacità industriali; inoltre, come ho detto, costruiremo 10 milioni di metri quadrati.

Successivamente, investiremo 300 miliardi di rubli nel Fondo per lo sviluppo industriale. Quasi raddoppieremo il suo capitale e concentreremo la sua attenzione sul sostegno a progetti ad alta tecnologia. Nell’ambito di una piattaforma di innovazione verranno inoltre stanziati almeno 200 miliardi di rubli per sovvenzionare i tassi di interesse per progetti che realizzano prodotti industriali prioritari.

Propongo di aumentare la base di calcolo degli ammortamenti per stimolare la modernizzazione degli impianti industriali nel settore manifatturiero. Ammonterà al 200% della spesa per attrezzature e ricerca e sviluppo di fabbricazione russa. Può sembrare noioso, ma spiegherò cosa significa. Se un’azienda acquista torni di fabbricazione russa per 10 miliardi di rubli, può ridurre la propria base imponibile di 20 milioni di rubli. Si tratta di un’assistenza sostanziale.

Continueremo a sviluppare parchi tecnologici industriali focalizzati sulle piccole e medie imprese negli ambiti tecnologici prioritari. È importante sfruttare i vantaggi dell’approccio cluster, quando le aziende crescono insieme ai loro subappaltatori e fornitori la loro cooperazione avrà un effetto benefico su tutte le parti. Vorrei sottolineare al Governo che dobbiamo creare almeno 100 piattaforme di questo tipo entro il 2030. Fungeranno da punti di crescita su tutto il territorio nazionale e incoraggeranno gli investimenti.

Abbiamo fissato l’obiettivo di aggiungere il 70% agli investimenti nei settori chiave entro il 2030. A proposito, qui abbiamo avuto buone dinamiche; molto buone, direi. Bene.

Nel 2021, la crescita cumulativa degli investimenti è stata dell’8,6%, contro un obiettivo del 4,5%. Nel 2022 era del 15,9%, con un obiettivo del 9,5%. Nei primi nove mesi del 2023, l’aumento è stato del 26,6%, quando il piano per l’anno era del 15,1%. Dobbiamo continuare ad andare avanti rispetto al piano.

Il nostro sistema bancario e il mercato azionario devono garantire pienamente l’afflusso di capitali nell’economia e nel settore reale, anche attraverso progetti e finanziamenti azionari. Nei prossimi due anni progetti industriali per un valore di oltre 200 miliardi di rubli saranno sostenuti attraverso fondi azionari. In sostanza, ciò significa che la VEB.RF Development Corporation e diverse banche commerciali entreranno nel capitale azionario delle società high-tech e le assisteranno durante la fase di crescita più attiva.

Ho già impartito istruzioni per introdurre uno speciale regime IPO per le aziende dei settori prioritari ad alta tecnologia. Vorrei sottolineare ai miei colleghi del Ministero delle Finanze e della Banca Centrale che dobbiamo accelerare il lancio di questo meccanismo, compreso il risarcimento dei costi della società associati ai titoli fluttuanti. Ciò deve essere fatto senza indugio.

Ancora una volta, il mercato azionario russo deve svolgere un ruolo maggiore come fonte di investimenti. La sua capitalizzazione dovrebbe raddoppiare entro il 2030, passando dal livello attuale al 66% del PIL. Allo stesso tempo, è importante che gli individui abbiano l’opportunità di contribuire allo sviluppo della nazione, beneficiando allo stesso tempo dell’investimento dei propri risparmi in progetti a basso rischio.

È già stata presa una decisione: gli investimenti volontari in fondi pensione non statali fino a 2,8 milioni di rubli saranno assicurati dallo Stato, il che significa che il rendimento è garantito.

Inoltre, i conti di investimento individuali a lungo termine saranno assicurati fino a 1,4 milioni di rubli. Estenderemo la detrazione fiscale unificata ai singoli investimenti in strumenti finanziari a lungo termine fino a 400.000 rubli all’anno.

Allo stesso tempo, ritengo opportuno lanciare un nuovo strumento denominato certificato di risparmio. Acquistando questo prodotto, gli individui depositeranno i propri risparmi nelle banche per più di tre anni. Il certificato sarà irrevocabile; pertanto, le banche offriranno ai propri clienti un tasso di interesse migliore. Inoltre, i detentori di certificati di risparmio avranno il loro denaro assicurato dallo Stato fino a 2,8 milioni di rubli, ovvero il doppio rispetto alla normale assicurazione sui depositi bancari.

Vorrei sottolineare che tutte le misure di sostegno statale agli investimenti e la creazione e modernizzazione di strutture industriali dovrebbero portare a salari più alti, migliori condizioni di lavoro e pacchetti sociali per i dipendenti.

Naturalmente, in linea di principio, le aziende russe devono operare all’interno della nostra giurisdizione nazionale e astenersi dal trasferire i propri fondi all’estero dove, a quanto pare, si può perdere tutto. Quindi ora, io e i miei colleghi della comunità imprenditoriale dobbiamo tenere sessioni di brainstorming per trovare modi per aiutarli a recuperare i loro soldi. In primo luogo, non trasferire i vostri soldi lì. In questo modo, non dovremo capire come recuperarli.

Le imprese russe devono investire le proprie risorse in Russia, nelle sue regioni, nello sviluppo di aziende e nella formazione del personale. Il nostro Paese forte e sovrano offre loro una protezione senza rivali per i loro beni e il loro capitale.

La stragrande maggioranza dei leader aziendali dà priorità agli interessi nazionali e sono patrioti. Pertanto, le aziende che lavorano qui in Russia devono beneficiare dell’inviolabilità garantita delle loro proprietà, dei beni e dei nuovi investimenti. Naturalmente, gli investimenti nazionali e la protezione degli investimenti vanno di pari passo con la difesa dei diritti degli imprenditori ed è nostro compito rendere questo una realtà. Ciò servirà ai nostri interessi nazionali e alla società in generale, così come ai milioni di persone che lavorano per aziende private, siano esse grandi aziende o PMI.

Lo dico da sempre, ma lasciatemelo ripetere: nessuno, nessun funzionario governativo o agente delle forze dell’ordine, ha il diritto di molestare le persone, infrangere la legge o utilizzarla per obiettivi personali ed egoistici. Dobbiamo essere presenti per le persone, per i nostri imprenditori: sto parlando proprio di loro adesso. Sono loro che creano posti di lavoro, danno lavoro alle persone e pagano gli stipendi. Essere presenti e aiutarli è la missione del governo.

Colleghi,

Le piccole e medie imprese svolgono un ruolo sempre più importante nel guidare la crescita economica. Oggi rappresentano oltre il 21% dei settori manifatturiero, turistico e informatico. Centinaia di marchi russi hanno dimostrato risultati eccezionali. L’anno scorso in Russia sono state registrate 1,2 milioni di nuove PMI.

Permettetemi di attirare la vostra attenzione sul fatto che si tratta del massimo quinquennale. Le persone vogliono avviare un’attività in proprio e credere in se stesse, nel proprio Paese e nel proprio successo. Vorrei sottolineare che il numero di giovani imprenditori sotto i 25 anni è aumentato del 20% nel 2023. Oggi sono oltre 240.000.

Dobbiamo assicurarci di sostenere queste iniziative creative e orientate ai risultati al fine di garantire che il reddito medio dei lavoratori delle PMI superi la crescita del PIL nei prossimi sei anni. Ciò significa che queste aziende devono migliorare la propria efficienza e fare un salto di qualità nelle proprie prestazioni.

Ho già detto che dobbiamo eliminare le situazioni in cui l’espansione delle operazioni diventa una situazione perdente per le aziende perché devono passare da un quadro fiscale snello con le sue aliquote vantaggiose a un regime fiscale generale. Quando ciò accade significa che lo Stato sta sostanzialmente promuovendo la frammentazione aziendale o costringendo le imprese a utilizzare altri mezzi per ottimizzare le proprie passività fiscali.

Chiedo al governo di collaborare con i parlamentari sui termini di un’amnistia per le PMI che non avevano altra scelta che fare affidamento su schemi di ottimizzazione fiscale mentre espandevano le loro attività.

È importante sottolineare che queste aziende dovrebbero evitare la pratica di frazionamento artificiale, essenzialmente fraudolento, delle attività e abbracciare operazioni civili e trasparenti. Per ribadire, non ci saranno multe, penalità, sanzioni, né ricalcolo delle imposte per i periodi precedenti. Questo è lo scopo dell’amnistia.

Inoltre, incarico il governo di introdurre un meccanismo per un aumento graduale e non brusco del carico fiscale per le aziende che stanno passando dalla procedura fiscale semplificata a quella generale a partire dal prossimo anno.

Successivamente, abbiamo deciso di introdurre una moratoria temporanea sulle ispezioni. Questa misura si è pienamente giustificata. Le aziende che garantiscono la qualità dei propri prodotti e servizi e agiscono in modo responsabile nei confronti dei propri consumatori possono e devono godere della nostra fiducia.

Pertanto, dal 1° gennaio 2025, credo che potremo revocare le moratorie temporanee sulle ispezioni aziendali e invece, basandoci sulla nostra esperienza, passare completamente a un approccio basato sul rischio e sancirlo nella legge. Se non ci sono rischi, dovremmo utilizzare misure preventive e quindi ridurre al minimo il numero di ispezioni.

C’è dell’altro. Propongo di concedere speciali agevolazioni fino a sei mesi una volta ogni cinque anni alle piccole e medie imprese, senza incidere sulla loro storia creditizia.

Ancora una volta, dobbiamo creare condizioni adeguate affinché le piccole e medie imprese possano crescere in modo dinamico e migliorare la qualità di questa crescita attraverso forme di produzione ad alta tecnologia. In generale, il regime fiscale per le piccole e medie imprese manifatturiere dovrebbe essere allentato.

Invito il governo a presentare proposte specifiche al riguardo. Ne abbiamo discusso molte volte. Per favore, fatelo. Le proposte sono state articolate.

Vorrei sottolineare il lavoro delle piccole e medie imprese nelle zone rurali, nel settore agricolo. Ora siamo completamente autosufficienti in termini di cibo e la Russia è leader sul mercato globale del grano. Siamo tra i 20 principali esportatori di prodotti alimentari. Ringrazio i lavoratori agricoli, gli agricoltori e gli specialisti impegnati nell’agricoltura in generale per le loro prestazioni impressionanti.

Entro il 2030, la produzione del complesso agroindustriale russo dovrebbe crescere di almeno un quarto rispetto al 2021 e le esportazioni dovrebbero aumentare del 50%. Continueremo sicuramente a sostenere il settore e il programma di sviluppo rurale integrato, compresa la ristrutturazione e l’ammodernamento degli uffici postali.

Utilizzeremo una soluzione speciale per lo sviluppo delle regioni costiere. Permettimi di ricordarti che abbiamo una regola della “quota per la chiglia”. Deve essere seguita rigorosamente. Come alcuni di voi sanno, stiamo parlando di aziende che ottengono quote per la produzione di frutti di mare a fronte dell’obbligo di acquistare nuovi pescherecci di fabbricazione russa e di rinnovare la flotta.

Allo stesso tempo, quest’anno il bilancio federale ha ricevuto una notevole quantità di denaro – circa 200 miliardi di rubli – dalla vendita delle quote di prodotti ittici. Il signor Siluanov è qui e siamo arrivati a un accordo. Propongo che parte di questi fondi sia destinata allo sviluppo sociale dei comuni, che costituiscono la base della nostra industria della pesca.

Colleghi,

Nelle condizioni odierne, l’aumento dell’efficienza in tutti gli ambiti della produttività del lavoro è direttamente collegato alla digitalizzazione e all’uso della tecnologia AI, come ho detto. Tali soluzioni ci consentono di creare piattaforme digitali per semplificare l’interazione tra persone, imprese e Stato nel miglior modo possibile.

Dobbiamo quindi creare una piattaforma che aiuti le persone a utilizzare le capacità del nostro sistema sanitario per tenere sotto controllo la propria salute e rimanere in buona salute per tutta la vita. Ad esempio, potranno utilizzare i dati delle loro identità digitali per richiedere e ricevere consigli da remoto da specialisti presso centri medici federali, mentre i medici di medicina generale potranno formare un quadro completo della salute di un paziente, prevedendo possibili malattie, prevenire complicazioni, e scegliere un trattamento individuale più efficace.

Tutto ciò che dico non è l’immagine di un futuro lontano. Queste pratiche vengono introdotte oggi nei nostri principali centri medici. L’obiettivo è applicarli in tutto il Paese e renderli accessibili a tutti.

Credo che entro il 2030 dobbiamo formulare piattaforme digitali in tutti i principali settori economici e nella sfera sociale. Questi e altri compiti globali saranno affrontati nel quadro del nuovo progetto nazionale The Economy of Data. Stanzieremo almeno 700 miliardi di rubli per attuarlo nei prossimi sei anni.

Tali tecnologie e piattaforme di integrazione offrono grandi opportunità per la pianificazione economica e lo sviluppo di singoli settori, regioni e città, nonché per la gestione efficiente dei nostri programmi e progetti nazionali. La cosa più importante è che possiamo continuare a concentrare gli sforzi di tutti i livelli di governo sugli interessi di ogni individuo e di ogni famiglia e a fornire in modo proattivo servizi statali e municipali alle nostre persone e alle nostre imprese in una forma conveniente e il più rapidamente possibile.

La Russia è già in realtà uno dei leader mondiali nei servizi governativi digitali. Molti paesi, compresi quelli europei, devono ancora raggiungere il nostro livello. Ma non abbiamo intenzione di rallentare.

L’intelligenza artificiale è un elemento importante delle piattaforme digitali. Anche in questo caso la Russia deve essere autosufficiente e competitiva. È già stato firmato un decreto esecutivo che approva la versione aggiornata della Strategia nazionale per lo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Il documento stabilisce nuovi obiettivi, inclusa la necessità di garantire la sovranità tecnologica in campi rivoluzionari come l’intelligenza artificiale generativa e i grandi modelli linguistici. L’applicazione pratica di tali sistemi promette di produrre una vera svolta nella sfera economica e sociale, e così sarà. Per questo dobbiamo aumentare le nostre risorse informatiche. Entro il 2030, la capacità totale dei supercomputer domestici dovrebbe essere almeno 10 volte maggiore. Questo è un obiettivo del tutto realistico.

Dobbiamo aggiornare l’intera infrastruttura dell’economia dei dati. Vorrei chiedere al Governo di proporre misure specifiche per sostenere le aziende e le start-up che producono apparecchiature per l’archiviazione e il trattamento dei dati e sviluppano software. Gli investimenti nell’IT domestico dovrebbero crescere almeno due volte più velocemente della crescita economica complessiva.

È necessario creare le condizioni per consentire ai russi di sfruttare la tecnologia digitale non solo nelle megalopoli, ma anche nelle città più piccole, nelle comunità rurali e nelle aree remote, lungo le arterie federali e regionali, nonché sulle strade locali. Mi riferisco alla necessità di fornire l’accesso a Internet ad alta velocità quasi ovunque in Russia entro il prossimo decennio. Per affrontare questo compito dovremo espandere considerevolmente la nostra costellazione di satelliti, per la quale stanzieremo 116 miliardi di rubli.

Colleghi,

A questo punto vorrei soffermarmi sullo sviluppo regionale. Quali sono i miei suggerimenti su questo argomento? La nostra priorità è ridurre il peso del debito delle regioni russe. Credo che dovremmo cancellare i due terzi del debito che le regioni hanno con i cosiddetti prestiti di bilancio. Secondo le nostre proiezioni, ciò consentirà loro di risparmiare circa 200 miliardi di rubli all’anno tra il 2025 e il 2028.

Permettetemi di attirare la vostra attenzione sul fatto che questi risparmi devono essere utilizzati per uno scopo specifico: le regioni dovrebbero incanalarli nel sostegno a progetti di investimento e infrastrutturali. Colleghi, vorrei attirare la vostra attenzione su questo punto.

Andando avanti, nel 2021, abbiamo lanciato un programma del valore di 500 miliardi di rubli per emettere prestiti di bilancio per le infrastrutture e abbiamo continuato ad espanderlo fino a trilioni di rubli. Come ricorderete, le regioni beneficiano di un tasso di interesse del 3% su questi prestiti con una durata fino a 15 anni. Un ottimo strumento di sviluppo. Questi fondi vanno a progetti di sviluppo e le regioni hanno apprezzato questo meccanismo per la sua efficacia. Non ci saranno cancellazioni per questi prestiti, ma quest’anno le regioni inizieranno a rimborsarli. Suggerisco di reinvestire il denaro restituito al bilancio federale nelle regioni emettendo nuovi prestiti di bilancio per le infrastrutture. Nel complesso, a partire dal 2025, espanderemo il nostro portafoglio di prestiti per le infrastrutture per le regioni della Russia di almeno 250 miliardi di rubli all’anno.

Credo inoltre che le regioni debbano avere maggiore influenza quando si tratta di gestire i fondi a loro disposizione per realizzare progetti nazionali.

Lasciate che ti faccia un esempio: una regione riqualifica un ambulatorio e fa un buon lavoro ristrutturandolo. Se non spendesse tutti i fondi stanziati per questo, non dovrebbe restituire la parte rimanente al bilancio federale. Può invece utilizzarli per acquistare attrezzature per la clinica rinnovata o per altri scopi.

Naturalmente, sosterremo le regioni per consentire loro di liberare il proprio potenziale lanciando progetti nell’economia reale e nello sviluppo delle infrastrutture come motori di sviluppo per questi territori.

Oggi, dieci regioni della Federazione che hanno una bassa capacità fiscale stanno portando avanti programmi di sviluppo socioeconomico su misura. Chiedo al governo di rinnovare questi programmi per un altro mandato di sei anni.

Entro il 2030, tutte le nostre regioni devono raggiungere l’autosufficienza economica. Vorrei ripetere che questa è una questione di giustizia e di offrire alle persone pari opportunità, oltre a garantire elevati standard di vita in tutto il Paese.

Colleghi,

Come potete vedere, i grandi progetti richiedono grandi spese. Verranno effettuati investimenti sociali, demografici ed economici su larga scala, nonché investimenti in scienza, tecnologia e infrastrutture.

A questo proposito, vorrei discutere del sistema fiscale. Inutile dire che deve garantire il flusso di risorse per affrontare gli obiettivi nazionali e attuare i programmi regionali. È progettato per ridurre le disuguaglianze non solo nella società, ma anche nello sviluppo socioeconomico delle entità costituenti della Federazione e per prendere in considerazione i redditi individuali e le entrate aziendali.

Suggerisco di sviluppare approcci per modernizzare il sistema fiscale e distribuire in modo più equo il carico fiscale verso coloro che hanno redditi individuali e entrate aziendali più elevati.

Occorre, al contrario, ridurre il carico fiscale sulle famiglie, anche attraverso le detrazioni, di cui ho parlato prima. Dobbiamo incentivare le imprese che investono nella crescita e in infrastrutture e progetti sociali. È altrettanto importante colmare le lacune utilizzate da alcune aziende per evitare le tasse o sottostimare le proprie entrate imponibili. Invito la Duma di Stato e il governo a presentare una serie specifica di proposte per affrontare al più presto queste questioni. In futuro, tenendo conto delle modifiche adottate, propongo di bloccare i parametri fiscali chiave fino al 2030 per garantire un ambiente stabile e prevedibile per l’attuazione di qualsiasi progetto di investimento, compresi quelli a lungo termine. Questo è ciò che la comunità imprenditoriale chiede durante i nostri contatti diretti.

Colleghi,

Le decisioni relative al sostegno finanziario per le regioni e alla crescita economica dovrebbero essere progettate per migliorare la qualità della vita in tutte le entità costituenti della Federazione. Abbiamo già rinnovato fino al 2030 programmi speciali per lo sviluppo di regioni come il Caucaso settentrionale e la regione di Kaliningrad, Donbass e Novorossiya, Crimea e Sebastopoli, l’Artico e l’Estremo Oriente. Sono stati elaborati piani generali di sviluppo per 22 città e aree metropolitane dell’Estremo Oriente e lo stesso lavoro è in corso per le comunità artiche.

Ora dobbiamo fare il passo successivo. Propongo di stilare un nuovo elenco di oltre 200 città e paesi, con un piano generale da sviluppare e attuare per ciascuno di essi. Nel complesso, il programma di sviluppo dovrebbe estendersi a circa 2.000 comunità, compresi villaggi e piccole città. In questi casi dovrebbero applicarsi tutte le politiche di sostegno alle regioni che ho menzionato oggi, compresi i prestiti per le infrastrutture.

Vorrei rivolgermi adesso ai capi delle regioni. Queste risorse dovrebbero essere utilizzate, tra le altre cose, per espandere le capacità dei comuni. Ricordo di aver incontrato i capi di alcuni comuni al loro forum qui a Mosca. Il livello di governo locale ha un ruolo e una speciale responsabilità. Comprende le agenzie e gli organismi a cui i russi si rivolgono per le loro necessità quotidiane. Vorrei ringraziare i nostri sindaci, capi di distretto e deputati locali per il loro lavoro, per la loro attenzione ai bisogni delle persone. E vorrei ringraziare in modo particolare il personale dei comuni che lavora nelle immediate vicinanze della zona di combattimento e condivide tutte le avversità con i residenti locali.

I residenti locali dovrebbero infatti essere co-creatori dei loro piani di sviluppo urbano locale. I comuni devono intensificare l’uso di meccanismi in cui i residenti possono votare per progetti, strutture o problemi che richiedono finanziamenti prioritari. Propongo di aumentare il cofinanziamento federale e regionale di progetti popolari come questo.

Estenderemo inoltre, fino al 2030, il concorso nazionale per i migliori progetti per creare un ambiente urbano confortevole nelle piccole città e nelle comunità storiche.

In totale, miglioreremo più di 30.000 spazi pubblici in Russia nei prossimi sei anni. Vorrei chiedere al Governo di fornire ulteriore sostegno alle regioni che stanno rinnovando argini, parchi, giardini e centri storici locali. Stanzieremo 360 miliardi di rubli per grandi progetti paesaggistici e di miglioramento.

Vecchi edifici, tenute e chiese sono l’incarnazione visibile della nostra identità nazionale, un legame inestricabile tra generazioni. Vorrei chiedere al governo, al parlamento e alle commissioni competenti del Consiglio di Stato di coinvolgere il pubblico e rivedere il quadro normativo per la protezione e l’uso dei siti del patrimonio culturale. Eventuali requisiti ovviamente ridondanti o contraddittori devono essere eliminati. In alcuni casi, un pezzo di patrimonio culturale potrebbe crollare proprio davanti ai nostri occhi, ma formalmente, tali normative imperfette rendono impossibile adottare misure tempestive per salvarlo.

Suggerisco di sviluppare un programma a lungo termine per preservare i siti del patrimonio culturale russo e spero che copra un periodo di 20 anni e includa misure di sostegno per persone, aziende e associazioni pubbliche disposte a investire lavoro, tempo e denaro nel ripristino dei monumenti storici .

Quest’anno testeremo questi meccanismi come parte di un progetto pilota portato avanti dall’istituto di sviluppo DOM.RF che copre cinque regioni: il territorio del Trans-Baikal, Novgorod, Ryazan, Smolensk e Tver. Il nostro obiettivo è riparare almeno un migliaio di siti del patrimonio culturale in tutto il Paese entro il 2030, dando loro una nuova prospettiva di vita in modo che possano servire le persone e abbellire le nostre città e i nostri villaggi.

Ci assicureremo di mantenere attivi i principali progetti legati alla cultura continuando a finanziarli. Intraprenderemo aggiornamenti delle infrastrutture per musei, teatri, biblioteche, club, scuole d’arte e cinema. Progetti creativi cinematografici, online e sui social media nei settori dell’istruzione, della sensibilizzazione, della storia e in altri settori riceveranno oltre 100 miliardi di rubli nei prossimi sei anni.

Suggerisco di espandere il programma Pushkin Card, che consente agli studenti e ai giovani di accedere gratuitamente a proiezioni di film, musei, teatri e mostre, offrendo allo stesso tempo alle istituzioni culturali un incentivo per espandere le proprie attività e lanciare nuovi progetti, anche raggiungendo il settore privato settore. Chiedo al governo di elaborare ulteriori proposte in tal senso.

Oltre a ciò, nel 2025 lanceremo un programma chiamato Operatore culturale rurale, sulla stessa falsariga dei programmi Insegnante rurale e Dottore rurale. Le persone continuano a sollevare questo problema durante i nostri incontri. Uno specialista che si trasferisce in una zona rurale o in una piccola città avrà diritto a un sussidio una tantum di 1 milione di rubli o il doppio, ovvero 2 milioni di rubli, se si trasferisce nell’Estremo Oriente russo, nel Donbass o nella Novorossiya.

C’è un’altra decisione aggiuntiva su cui dobbiamo lavorare e adottare. Chiedo al governo di offrire condizioni di prestito speciali per i mutui familiari nelle piccole città, così come nelle regioni che non costruiscono molti condomini o non ne costruiscono affatto. Dobbiamo farlo il più rapidamente possibile e definire i termini principali per questi prestiti, compresi l’acconto e i tassi di interesse. Vi sto chiedendo di tenere tutto questo sul vostro radar; Attendo con ansia le vostre proposte.

D’altra parte, rinnoveremo programmi mirati di mutui ipotecari con un tasso di interesse del 2% per l’Estremo Oriente russo, l’Artico, il Donbass e la Novorossiya. Anche i partecipanti alle operazioni militari speciali e i veterani avranno diritto a questi prestiti agevolati.

Forniremo un sostegno separato per le aree di sviluppo integrato, la costruzione di aree residenziali ricche di infrastrutture nelle regioni con livelli inadeguati di sviluppo socioeconomico, dove molte delle nostre solite proposte non funzionano. Per questi territori accantoneremo ulteriori 120 miliardi di rubli.

A questo proposito, ci troviamo di fronte a un’altra sfida a livello di sistema. Con il sostegno federale, molte regioni hanno aumentato in modo significativo il ritmo di trasferimento dei residenti da condomini fatiscenti. Un totale di 1,73 milioni di persone si sono trasferite in nuovi appartamenti negli ultimi 16 anni ed è importante non perdere questo slancio nei prossimi sei anni. Invito il governo a elaborare e lanciare un nuovo programma per il trasferimento dei residenti da edifici fatiscenti e strutturalmente non sicuri.

Per quanto riguarda gli alloggi e i servizi, accelereremo il ritmo di aggiornamento dell’infrastruttura dei servizi. Per questi scopi fino al 2030 verranno stanziati complessivamente 4,5 trilioni di rubli, compresi i fondi privati.

Continueremo a implementare il progetto Clean Water. L’acqua pulita è una priorità assoluta per molte delle nostre aree urbane e rurali. Stiamo parlando principalmente di una fornitura affidabile di acqua potabile di alta qualità.

La distribuzione del gas è un argomento a parte. I nostri piani includono la fornitura di questo carburante ecologico alle città e ai distretti di Yakutia e Buriazia, nonché ai territori di Khabarovsk, Primorye e Trans-Baikal, alle regioni di Murmansk e Amur, all’area autonoma ebraica, alla Carelia e alla principale città russa di Krasnoyarsk. . Forniremo GNL anche al territorio della Kamchatka e ad alcune altre regioni.

Naturalmente, ciò consentirà di estendere il programma sociale di fornitura di gas, già utilizzato per costruire gratuitamente l’infrastruttura di distribuzione del gas, alle linee immobiliari di 1,1 milioni di terreni. Le richieste continuano ad essere accettate e stiamo aiutando gruppi di cittadini aventi diritto, comprese le famiglie di coloro che partecipano all’operazione militare speciale, a installare linee di gas all’interno dei loro appezzamenti di terreno.

In una nota a parte, esistono partenariati orticoli non commerciali all’interno dei confini di molte comunità dotate di reti del gas. Per anni, a volte di generazione in generazione, le persone si sono prese cura dei propri terreni e ora stanno costruendo case adatte a vivere tutto l’anno, ma non sono in grado di collegarsi alla rete perché queste partnership non sono incluse nel Social Gas Programma di sviluppo delle infrastrutture.

Questo problema colpisce milioni di famiglie e deve essere risolto nell’interesse dei nostri cittadini, il che significa che il programma di sviluppo delle infrastrutture sociali del gas dovrebbe essere ampliato per includerli e la rete dovrebbe essere estesa fino ai confini dei partenariati.

Verranno supportati anche i residenti nei territori remoti del nord e dell’estremo oriente, dove il gas di rete non sarà disponibile a breve. Oggi riscaldano le loro case con carbone o legna. Ora, con i sussidi statali, potranno acquistare attrezzature moderne, prodotte internamente e rispettose dell’ambiente. Le famiglie più bisognose dovrebbero essere supportate per prime. Assegneremo ulteriori 32 miliardi di rubli per questi scopi.

Svilupperemo il trasporto pubblico considerando gli standard ambientali odierni e abbasseremo l’età media. Le regioni russe riceveranno altri 40.000 autobus, filobus, tram e autobus elettrici entro il 2030. Stanzieremo ulteriori 150 miliardi di rubli dal bilancio federale per questo programma di rinnovamento dei trasporti pubblici.

Sostituiremo inoltre la flotta di scuolabus a una velocità di almeno 3.000 veicoli all’anno, il che è particolarmente importante per le piccole città e le aree rurali. Ne parlano sia i residenti che i capi dei comuni e delle regioni. Questo programma è davvero molto importante. Pertanto, stanzieremo ulteriori 66 miliardi di rubli per l’acquisto di scuolabus. E, naturalmente, devono essere interamente realizzati in Russia o con un elevato grado di localizzazione.

Come sapete, siamo riusciti a ridurre le emissioni nocive nell’atmosfera in 12 centri industriali della Russia nell’ambito del progetto Clean Air, al quale altre 29 città hanno aderito l’anno scorso. Il volume delle emissioni nocive nell’atmosfera in tutto il paese deve essere dimezzato. Ci muoveremo verso questo obiettivo passo dopo passo. Verrà creato un sistema completo di monitoraggio della qualità ambientale per valutare i risultati.

Negli ultimi cinque anni, migliaia di chilometri di fiumi e sponde sono stati ripuliti e il deflusso sporco nel Volga è stato quasi dimezzato. Ora propongo di fissare l’obiettivo di dimezzare l’inquinamento dei principali corpi idrici della Russia.

Negli ultimi cinque anni sono state bonificate 128 grandi discariche nelle città e 80 siti di danni ambientali accumulati che stavano letteralmente avvelenando la vita delle persone in 53 regioni della Russia. I territori della discarica di Krasny Bor, della cartiera e della cartiera Baikal e di Usolye-Sibirskoye sono stati portati in uno stato sicuro.

A questo proposito, colleghi, vorrei sottolineare che finora in questi siti sono state attuate solo le misure più urgenti, ma non è ancora finita. In nessun caso dovranno essere lasciati nelle condizioni in cui si trovano adesso. Dobbiamo completare questo lavoro e creare lì tutta l’infrastruttura necessaria.

Nel complesso, continueremo a ripulire i siti più pericolosi dai danni ambientali accumulati. Nei prossimi sei anni almeno 50 di questi siti dovranno essere bonificati.

È necessario creare incentivi per le imprese, introdurre tecnologie verdi e passare a un’economia circolare. Inoltre, abbiamo di fatto creato da zero un settore avanzato di gestione dei rifiuti: sono state create 250 imprese per trattare e smaltire i rifiuti. L’obiettivo entro il 2030 è quello di differenziare tutti i rifiuti solidi e tutto ciò che necessita di essere differenziato e riutilizzarne almeno un quarto. Assegneremo finanziamenti aggiuntivi per questi progetti e insieme alle imprese costruiremo circa 400 nuovi impianti di gestione dei rifiuti e otto parchi ecoindustriali.

Cos’altro voglio dire? Negli incontri in Estremo Oriente, in Siberia e in altre regioni, si è parlato molto della necessità di preservare la nostra ricchezza di foreste, affrontare il disboscamento illegale e proteggere le nostre foreste. Questo problema ha una forte risonanza tra il pubblico. È importante per quasi ogni persona. Tutti noi stiamo unendo gli sforzi e la situazione sta gradualmente cambiando.

Un traguardo molto importante: dal 2021, la Russia ha ripristinato più foreste di quante ne abbia abbattute. Vorrei ringraziare tutti i volontari, gli studenti delle scuole e dell’università e tutti coloro che hanno piantato alberi e preso parte ad attività ambientali e, naturalmente, le aziende che hanno sostenuto tali progetti. Continueremo sicuramente a ripristinare foreste, parchi e giardini, compresi quelli che circondano le aree metropolitane e i centri industriali.

Suggerisco di prendere una decisione separata sull’aumento degli stipendi degli specialisti impegnati nel settore forestale, nella meteorologia e nella protezione ambientale, tutti coloro che si occupano delle questioni più importanti della sostenibilità ambientale. Dobbiamo ammettere francamente che svolgono un lavoro fondamentale ma la loro retribuzione è molto modesta.

Per sostenere le iniziative civili di tutela dell’ambiente credo sia necessario istituire un fondo per progetti ecologici e ambientali. Inizierà con sovvenzioni per un totale di un miliardo di rubli all’anno.

Continueremo a lavorare per preservare aree naturali particolarmente protette, nonché proteggere e ripristinare le popolazioni di specie di flora e fauna rare e in via di estinzione. Suggerisco di prendere in considerazione l’apertura di una rete di centri per la riabilitazione degli animali selvatici feriti e confiscati.

Entro il 2030, creeremo infrastrutture per il turismo ambientale in tutti i parchi nazionali del Paese, compresi eco-sentieri e percorsi escursionistici turistici, tour del fine settimana per scolari, aree ricreative all’aperto, musei e centri visita.

Costruiremo strutture moderne e sicure anche vicino a corsi d’acqua, compreso il Lago Baikal. Un resort aperto tutto l’anno verrà aperto lì entro il 2030. È importante aderire rigorosamente al principio dell’inquinamento zero, ovvero garantire che nel lago non entrino rifiuti o liquami non trattati di alcun tipo. La costruzione del resort Baikal farà parte del grande progetto Five Seas.

Complessi alberghieri moderni appariranno anche sulle coste del Mar Caspio, del Mar Baltico, del Mar d’Azov, del Mar Nero e del Mar del Giappone. Solo questo progetto consentirà di aggiungere altri 10 milioni di turisti all’anno.

Si prevede che il numero dei turisti raddoppierà praticamente fino a raggiungere i 140 milioni di persone all’anno entro il 2030 nell’intero paese, considerando lo sviluppo dinamico di centri turistici come Altai, Kamchatka, Kuzbass, il Caucaso settentrionale, la Carelia e il Nord della Russia. È importante sottolineare che anche il contributo del turismo al PIL russo raddoppierà, raggiungendo il 5%. Presto elaboreremo ulteriori decisioni su questo problema.

Le infrastrutture di trasporto sono cruciali per lo sviluppo del turismo e della regione nel suo insieme. Il traffico automobilistico ad alta velocità tra Mosca e Kazan è già stato aperto; quest’anno estenderemo la tratta a Ekaterinburg e l’anno prossimo a Tyumen. In futuro, un’arteria di trasporto moderna e sicura attraverserà l’intero paese fino a Vladivostok.

Inoltre, in Russia dovrebbero essere costruite più di 50 tangenziali urbane nei prossimi sei anni. Un altro progetto stradale significativo è sicuramente l’autostrada Dzhubga-Sochi. Ridurrà il tempo di viaggio dalla M-4 Don a Sochi di tre quarti (fino a un’ora e mezza) e promuoverà lo sviluppo della costa del Mar Nero.

Devo dirlo subito – ho raggiunto un accordo con il governo e voglio dirlo pubblicamente – che si tratta di un progetto complesso e ad alta intensità di capitale. Comprende molti tunnel e ponti; è un progetto costoso. Tuttavia, vorrei chiedere al governo di sviluppare un accordo di finanziamento per questo. Risolvetelo.

Abbiamo già riparato le strade federali russe e quasi l’85% delle strade nelle principali aree metropolitane. È essenziale continuare così. Allo stesso tempo, nei prossimi anni, porremo particolare enfasi sul miglioramento delle strade regionali.

I viaggi aerei dovrebbero diventare più convenienti. Dobbiamo aumentare la cosiddetta mobilità aerea dei russi. Entro il 2030, i volumi dei servizi aerei in Russia dovrebbero aumentare del 50% rispetto allo scorso anno.

A tal fine, prevediamo di accelerare lo sviluppo dei viaggi aerei intra e interregionali. A questo proposito, il governo ha istruzioni molto specifiche: modernizzare le infrastrutture di almeno 75 aeroporti, ovvero più di un terzo degli aeroporti russi, nei prossimi sei anni, stanziando almeno 250 miliardi di rubli in finanziamenti diretti a questo scopo. .

Le flotte aeree delle nostre compagnie aeree necessitano sicuramente di aggiornamenti aggiungendo i nostri aerei di fabbricazione russa. Questi nuovi aerei devono soddisfare tutti i requisiti moderni di qualità, comodità e sicurezza, il che è un compito impegnativo. Prima compravamo troppi aerei all’estero invece di sviluppare la nostra produzione interna.

Anche gli sviluppi avanzati russi nell’ingegneria meccanica, nell’edilizia, nelle comunicazioni e nei sistemi digitali saranno estremamente necessari nella costruzione delle ferrovie ad alta velocità. Vorrei spendere qualche parola al riguardo.

La prima linea ferroviaria ad alta velocità tra Mosca e San Pietroburgo passerà attraverso Tver e la nostra antica capitale, Velikij Novgorod. Successivamente costruiremo linee simili per Kazan e gli Urali, per Rostov sul Don, per la costa del Mar Nero, per Minsk, la nostra fraterna Bielorussia e altre destinazioni popolari.

La modernizzazione totale dell’hub dei trasporti centrale continuerà. I Diametri Centrali di Mosca, le nuove linee metropolitane di superficie, entreranno a far parte di una rete che collegherà la regione di Mosca con Yaroslavl, Tver, Kaluga, Vladimir e altre regioni attraverso moderni percorsi ad alta velocità.

È inoltre fondamentale potenziare la rete delle principali vie navigabili interne. Ciò dovrebbe garantire ulteriori effetti economici per quanto riguarda il turismo, l’industria, nonché lo sviluppo di alcune regioni sensibili che sono molto importanti per noi, comprese le regioni dell’estremo nord.

Cosa posso aggiungere a questo? Le infrastrutture moderne offrono valore aggiunto e aumentano la capitalizzazione di mercato per tutte le risorse nazionali e le regioni che servono flussi turistici in transito, contribuendo allo stesso tempo allo sviluppo di strutture manifatturiere e agricole, incoraggiando le persone a costruire case unifamiliari per le proprie famiglie e a creare un ambiente di vita migliore per loro. Ciò significa anche nuove opportunità di business, anche sui mercati esteri.

In questo contesto c’è una questione speciale di cui abbiamo discusso durante uno degli incontri che ho avuto. Sto parlando dei tempi di attesa ai posti di frontiera. Questa è diventata una questione urgente nell’Estremo Oriente russo. Secondo i nostri standard, lo sdoganamento deve durare 19 minuti, ma in realtà i camionisti di solito devono aspettare ore per attraversare il confine.

I nostri colleghi del Ministero dei Trasporti hanno l’obiettivo specifico di ridurre i tempi di sdoganamento per il trasporto di merci al confine in modo che non superino i 10 minuti. Le più recenti soluzioni tecnologiche possono far sì che ciò accada.

Questi requisiti sono essenziali anche affinché il corridoio di trasporto Nord-Sud sia efficace. Questa rotta collegherà la Russia ai paesi del Medio Oriente e dell’Asia e farà affidamento su autostrade e collegamenti ferroviari senza soluzione di continuità dai nostri porti nel Mar Baltico e nel Mar di Barents fino al Golfo Persico e all’Oceano Indiano. Aumenteremo inoltre la capacità di carico delle nostre ferrovie in direzione sud per sfruttare meglio i nostri porti nel Mar d’Azov e nel Mar Nero.

Lo sforzo di espandere il dominio operativo orientale copre la linea principale Baikal-Amur e la ferrovia Transiberiana. Stiamo per lanciare la terza fase. Ad un certo punto abbiamo rallentato, se permettete questa espressione. In effetti, non siamo riusciti ad agire quando avremmo dovuto, ma va bene così: ora dobbiamo recuperare il ritardo e lo faremo. Queste due ferrovie aumenteranno la loro capacità di trasporto annuale da 173 a 210 milioni di tonnellate entro il 2030. Allo stesso tempo, ci sarà uno sforzo per espandere i porti di Vanino e Sovetskaya Gavan.

Lo sviluppo della rotta del Mare del Nord merita un’attenzione particolare. Invitiamo le società logistiche straniere e i paesi stranieri a utilizzare questo corridoio di trasporto globale. L’anno scorso il volume delle merci lungo questa rotta ha raggiunto i 36 milioni di tonnellate. Colleghi, vorrei attirare la vostra attenzione sul fatto che questo supera di cinque volte il limite massimo dell’era sovietica. Renderemo operativa la rotta del Mare del Nord tutto l’anno e amplieremo i nostri porti settentrionali, compreso lo snodo dei trasporti di Murmansk. Ciò include, ovviamente, uno sforzo per espandere la nostra flotta artica.

La Severny Polyus (Polo Nord), una piattaforma rompighiaccio di ricerca unica, è salpata l’anno scorso. Quest’anno, il cantiere navale Baltic ha iniziato a costruire il Leningrad, un nuovo rompighiaccio nucleare. L’anno prossimo inizieremo a costruire la Stalingrado, che appartiene alla stessa classe di navi. Per quanto riguarda il cantiere navale Zvezda, nell’Estremo Oriente russo, sta costruendo il Lider (Leader), un rompighiaccio di nuova generazione che avrà il doppio della potenza dei suoi predecessori.

I cantieri navali russi miglioreranno gran parte della nostra flotta commerciale, comprese le petroliere, le navi gasiere e le navi portacontainer. Si prevede che questo sforzo consentirà alle aziende russe di snellire le proprie operazioni commerciali considerando il mutevole ambiente logistico e i cambiamenti radicali nell’economia globale.

Concittadini, amici,

Vorrei fare una menzione speciale. Incontro regolarmente i partecipanti all’operazione militare speciale, compresi il personale militare di carriera e i volontari, nonché le persone con professioni civili che sono state mobilitate per il servizio militare. Tutti hanno preso le armi e si sono sollevati in difesa della nostra Patria.

Sapete, guardo questi uomini coraggiosi, a volte molto giovani e, senza esagerare, posso dire che il mio cuore trabocca di orgoglio per il nostro popolo, per la nostra nazione e per queste persone in particolare. Senza dubbio, persone come loro non si arrenderanno, non falliranno o non tradiranno.

Dovrebbero assumere posizioni di leadership nel sistema di istruzione e di educazione dei giovani, nelle associazioni pubbliche, nelle aziende statali e private, nell’amministrazione federale e municipale. Dovrebbero essere a capo delle regioni e delle imprese, nonché dei grandi progetti nazionali. Alcuni di questi eroi e patrioti sono piuttosto discreti e riservati nella vita di tutti i giorni. Non si vantano dei loro risultati né parlano in grande. Ma nei momenti cruciali della storia, queste persone vengono alla ribalta e si assumono la responsabilità. Alle persone che pensano al Paese e vivono come un tutt’uno con esso può essere affidato il futuro della Russia.

Sapete che la parola “élite” ha perso gran parte della sua credibilità. Coloro che non hanno fatto nulla per la società e si considerano una casta dotata di diritti e privilegi speciali, soprattutto coloro che hanno approfittato di tutti i tipi di processi economici negli anni ’90 per riempirsi le tasche, non sono sicuramente l’élite. Per ribadire, coloro che servono la Russia, grandi lavoratori e militari, persone affidabili e degne di fiducia che hanno dimostrato la loro lealtà alla Russia con i fatti, in una parola, le persone dignitose sono la vera élite.

A questo proposito vorrei annunciare una nuova decisione che, credo, sia importante. A partire da domani, 1 marzo 2024, i veterani delle operazioni militari speciali, nonché i soldati e gli ufficiali che attualmente combattono in unità attive, potranno presentare domanda per partecipare alla prima classe di un programma di addestramento speciale del personale. Chiamiamolo Tempo degli Eroi. A dire il vero, questa idea mi è venuta quando ho incontrato gli studenti di San Pietroburgo che hanno prestato servizio nell’operazione militare speciale. Questo programma sarà costruito secondo gli standard dei nostri migliori progetti, vale a dire la Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione, nota anche come “scuola dei governatori”, e il concorso Leader della Russia. I loro laureati tendono a raggiungere posizioni elevate in molti ambiti e persino a diventare ministri e capi di regioni.

I membri militari attivi e i veterani con titoli universitari ed esperienza manageriale saranno i benvenuti, indipendentemente dal loro grado o posizione. Ciò che conta è che quegli individui abbiano mostrato le loro migliori qualità, abbiano dimostrato di sapere come guidare i loro compagni.

Il percorso di studi avrà inizio nei prossimi mesi. Il primo gruppo di partecipanti sarà guidato da alti funzionari del governo, dell’ufficio esecutivo presidenziale, dei ministeri e delle agenzie federali, dei capi delle regioni e delle nostre aziende più grandi. In futuro amplieremo tali programmi di formazione del personale, lanceremo corsi di gestione presso l’Accademia presidenziale dell’economia nazionale e della pubblica amministrazione e ritengo opportuno elevare lo status dell’Accademia a livello legislativo.

Inoltre, i veterani e i partecipanti all’operazione militare speciale avranno il diritto prioritario di partecipare ai programmi di istruzione superiore nelle specialità civili presso le nostre principali università.

Vorrei chiedere al Ministero della Difesa e a tutti i comandanti delle unità di sostenere l’interesse dei propri soldati e ufficiali ad aderire al nuovo programma di formazione del personale, per dare loro l’opportunità di presentare domanda e di frequentare fisicamente le lezioni. Vorrei sottolineare che i partecipanti alle operazioni militari speciali, inclusi semplici soldati, sergenti e ufficiali di combattimento, sono già la spina dorsale delle nostre forze armate. E, come ho detto, coloro che intendono continuare la carriera militare avranno priorità di promozione, iscrizione a corsi di comando, scuole e accademie militari.

Amici,

Indipendenza, autosufficienza e sovranità devono essere dimostrate e riaffermate ogni giorno. Questa è la nostra responsabilità per il presente e il futuro della Russia, qualcosa che nessun altro può fare tranne noi. Si tratta della nostra Patria, la Patria dei nostri antenati, e nessuno ne avrà mai cura e ne farà tesoro come facciamo noi, tranne i nostri discendenti, ai quali dobbiamo lasciare un paese forte e prospero.

Negli ultimi anni abbiamo costruito con successo un sistema di gestione e implementato i nostri progetti nazionali facendo affidamento su grandi quantità di dati e moderne tecnologie digitali. Ciò ci ha permesso di aumentare l’efficienza, gestire i rischi, sfruttare l’intera quantità di informazioni disponibili e perfezionare continuamente i nostri progetti e programmi facendo affidamento sul feedback del nostro personale.

Vorrei ringraziare i miei colleghi del governo, delle agenzie e delle regioni che hanno meticolosamente costruito questo sistema in tutti questi anni, durante la pandemia e di fronte all’aggressione sanzionatoria contro la Russia. So che si è trattato di un lavoro impegnativo e difficile, ma il punto principale è che sta già dando i suoi frutti. Lo vediamo nei risultati.

Continueremo a seguire proprio questa logica. È necessario sostenere e coordinare tra loro tutti i progetti nazionali di cui ho parlato oggi. Vorrei sottolineare ancora una volta che questi non sono progetti di dipartimenti separati. Dovrebbero lavorare per obiettivi comuni a livello di sistema e per i nostri obiettivi di sviluppo nazionale. Detto questo, vorrei chiedere al Fronte popolare russo di continuare a monitorare l’attuazione delle decisioni a tutti i livelli di governo.

Vorrei sottolineare che il risultato principale dei nostri programmi non si misura in tonnellate, chilometri o denaro speso. La cosa principale è che le persone vedano cambiamenti in meglio nella loro vita. La portata delle sfide storiche che la Russia deve affrontare richiede un lavoro estremamente chiaro e coordinato da parte dello Stato, della società civile e della comunità imprenditoriale.

Ritengo necessario non solo preparare un progetto di bilancio per i prossimi tre anni, ma anche pianificare tutte le spese e gli investimenti più importanti fino al 2030. In altre parole, dobbiamo elaborare un piano sessennale in prospettiva per il nostro sviluppo nazionale che sicuramente integreremo con nuove iniziative. Naturalmente, la vita apporterà i propri aggiustamenti.

Stiamo delineando piani a lungo termine nonostante questo periodo complicato, nonostante le prove e le difficoltà attuali. Il programma che ho esposto nel discorso di oggi si basa sui fatti e affronta questioni fondamentali. Si tratta del programma di un paese forte e sovrano che guarda al futuro con fiducia. Disponiamo sia di risorse che di enormi opportunità per raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati.

Ma ora sottolineerò la cosa principale. Oggi, il rispetto di tutti questi piani dipende direttamente dai nostri soldati, ufficiali e volontari, tutto il personale militare che ora combatte al fronte. Dipende dal coraggio e dalla risolutezza dei nostri compagni d’armi che difendono la Patria, che passano all’offensiva, avanzano sotto il fuoco e si sacrificano per il bene nostro, per il bene della Patria. Sono i nostri combattenti che creano oggi le condizioni assolutamente essenziali per il futuro del Paese e del suo sviluppo.

Avete il nostro più profondo rispetto, ragazzi.

Vorrei ringraziare tutti voi, colleghi e tutti i cittadini russi per la loro solidarietà e affidabilità. Siamo una grande famiglia; restiamo uniti e per questo motivo faremo tutto ciò che progettiamo, desideriamo e sogniamo.

Ho fiducia nelle nostre vittorie, nei nostri successi e nel futuro della Russia!

Grazie.

(Suona l’inno nazionale della Federazione Russa.)

FONTE: https://www.marx21.it/internazionale/discorso-presidenziale-allassemblea-federale/

L’Europa sconfitta cerca l’unità nella guerra

Foto di Mediamodifier da Pixabay

di Piero Bevilacqua  (storico e saggista)

L’Unione Europea deve fronteggiare, in questo momento, le due più gravi sconfitte storiche subite da quando esiste. Due disfatte in parte intrecciate e che si condizionano a vicenda.

La prima è in conseguenza dello scacco inflitto dalla Russia alla Nato in Ucraina, la seconda si racchiude nel bilancio fallimentare delle politiche economiche ordoliberistiche su cui l’Unione è nata, che continuano a ispirare la condotta degli Stati membri.

Negli ultimi due anni quasi tutti i governi europei si sono messi a servizio degli USA e della Nato per sostenere la cosiddetta resistenza ucraina contro l’invasione russa. Hanno inviato armi e sostegni di vario genere, imposto sanzioni con cui danneggiavano anche le proprie economie, e sottratto risorse economiche alle proprie attività produttive e al welfare.

L’Europa, poi, ha continuato e addirittura rafforzato il proprio impegno a favore delle operazioni della Nato, anche quando la vera ragione di quella guerra è apparsa pienamente manifesta: sconfiggere la Russia, disgregare il corpo composito della Federazione, con i suoi 24 Stati e circa 200 etnie, effettuare un cambio di regime, poter controllare quell’immenso Paese senza dover rischiare un conflitto atomico, per poi aprire la partita definitiva con la Cina.

Ora l’esito di due anni di guerra – da cui la Russia emerge militarmente vittoriosa, rafforzata sotto il profilo economico, rinsaldata sia nel suo gruppo dirigente sia nel collante nazionalistico che rende coesa la popolazione (vistasi minacciare di invasione da tutto l’Occidente) – mette a nudo l’errore strategico compiuto dai Paesi UE al carro della Nato e conferma, in modo drammatico, la pochezza della politica estera dell’Unione Europa.

Sul piano economico il gigante UE, arrivato a 28 Stati prima della Brexit, che aspirava a risultati straordinari di sviluppo, oggi mostra un non diverso bilancio fallimentare. Anche solo utilizzando il parzialissimo indicatore del Prodotto interno lordo (PIL) vediamo che la sua crescita è stata volatile e modesta, non oltre il 3% a partire dal 2000, con fasi di forte ristagno dal 2008 al 2012, e con marcati squilibri al suo interno. Se la Germania con la sua sleale politica commerciale si è notevolmente rafforzata, l’Italia, com’è noto, è stata trascinata in un conclamato declino. Naturalmente l’economia non si esaurisce nel solo andamento numerico di un indicatore astratto, essa è metafisica senza la società. E, dovremmo aggiungere, senza l’ambiente e il calcolo dei danni a esso inflitto. Qui, però, non c’è spazio per affrontare il tema.

La società europea ha assistito, negli ultimi 30 anni, a fenomeni devastanti: il declassamento del ceto medio, base storica della sua stabilità sociale; la crescita lacerante delle disuguaglianze a livello di ceti sociali e di territori; l’esplosione del precariato e la ricomparsa del lavoro povero, come agli inizi della rivoluzione industriale. Nelle campagne è rinato il lavoro schiavile o semi schiavile. Un esercito di dannati, immigrati dai più diversi Paesi, che consente i prezzi relativamente bassi dei generi alimentari e i profitti dei giganti dell’agrobusiness e delle catene di distribuzione. Le temperature in costante ascesa e il caos climatico accrescono poi, di anno in anno, i danni agli habitat del territorio continentale (incendi, alluvioni, eccetera).

Queste due evidenti sconfitte, la seconda manifesta ormai da tempo, hanno un evidente impatto di impopolarità sulle élites dirigenti che hanno governato sin qui il vecchio Continente.

E i partiti da essi rappresentati (la CDU tedesca, il PD, il PPE spagnolo, i vari partiti francesi, dal 2017 con En Marche di Macron, eccetera) hanno visto rafforzata la loro politica moderata anche con il convergere sulle loro posizioni di gran parte dei partiti socialisti e sedicenti di sinistra (su tutti la SPD tedesca).

Grazie alla crescente evanescenza politico-ideologica dei socialisti negli ultimi anni, il Parlamento UE ha trovato delle forme davvero sinistre di unità. Quando ad esempio ha ratificato, con aperta disonestà intellettuale, l’equiparazione del comunismo al nazismo; allorché ha votato l’appoggio militare all’Ucraina e quando si è opposto al cessate il fuoco a Gaza. Una indistinzione di posizioni che fa di queste élites un corpo unico su cui, assai facilmente, si sta sollevando da tempo un vasto fronte oppositivo tanto della società civile che delle forze politiche, che a ragione lo individuano come il responsabile unico dei fallimenti di cui ragioniamo.

Quali sono queste forze, qual è la loro cultura, qual è il loro indirizzo politico, quali le loro prospettive? Non è facile in un breve articolo (ammesso che ne possieda la competenza) dare un’idea, sia pure sommaria. Quel che si può dire con una certa sicurezza è che, in altre condizioni storiche, una élite che ha così clamorosamente fallito su tutti i piani presi in considerazione sarebbe stata tolta rapidamente di scena, forse anche in forme violente.

Quel che sta accadendo mostra i segni di un altro scenario: l’avanzata a tutto campo delle formazioni di destra e di estrema destra. Formazioni con cui, molto probabilmente, i partiti responsabili di 25 anni di politica UE si accorderanno per una strategia dagli esiti ancora incerti. Esiti sicuramente nefasti per le condizioni sociali dell’Europa e per i suoi progetti progressisti: in primis le politiche dell’immigrazione e i programmi ambientalisti del Green New Deal. La drammatica frantumazione dei partiti e partitini della sinistra, ancora impegnati a lacerarsi, incapaci di comprendere che una qualunque forma compromissoria di unità varrebbe mille volte più di qualunque intransigente purezza programmatica, mostra in largo anticipo che la più grave crisi dell’Europa dalla Seconda guerra mondiale non avrà, al momento, uno sbocco progressista e di avanzamento della democrazia.

E’ necessario, perciò, interrogarsi, nella ristretta economia di queste note, su quali possono essere le linee di azione delle forze politiche che vorranno contrastare lo scenario emergente dalle elezioni europee del 6 giugno 2024. Ricordiamo che la sconfitta in Ucraina diventa il pretesto per una politica di riarmo generale del vecchio Continente. Il 10 febbraio 2024 il Consiglio e il Parlamento europeo hanno approvato il nuovo Patto di stabilità che prevede l’aumento delle spese militari di tutti gli Stati membri, come programma obbligatorio soggetto a sanzioni. La Germania, il Paese origine e agente di due guerre mondiali, progetta un riarmo atomico. La SPD, capeggiata da Olaf Scholz, un nano politico che si è fatto umiliare dagli USA, e ha trascinato la Germania nella più grave crisi economica degli ultimi decenni, fa ritornare il suo partito ai fasti dei crediti di guerra del 1914, varati per finanziare l’esercito destinato al massacro del primo conflitto mondiale.

Credo – anche se i governi sono divisi su questa strategia – che la conversione al bellicismo nasconda intenzioni e finalità non dette. Intanto, è una forma propagandistica di riscatto di fronte all’umiliazione anche tecnologico militare subita in Ucraina. È probabilmente un avvio – camuffato, per non impensierire troppo le amministrazioni USA – di una politica di difesa europea indipendente dalla Nato. L’incombenza della ipotetica rielezione di Donald Trump alla presidenza degli USA, del resto pare renderlo necessario. Tuttavia, come già osserviamo, queste élites – sinora divise, incapaci di una politica estera comune, assolutamente prive di senso morale e mancanti di visione generale – cercheranno la loro unità e il consenso presso l’opinione pubblica continentale trasformando l’immaginario collettivo con una campagna informativa, senza precedenti, di retoriche belliciste. In Italia si sta facendo già nella pubblicità televisiva, nelle scuole, nel confronto politico corrente, eccetera.

Credo che questa nuovo atteggiamento militaresco, nefasto e pericoloso offra, tuttavia, una grandissima occasione di ricomposizione nel Continente del fronte progressista. Una sinistra popolare, liberata dai settarismi novecenteschi, può ovviamente trovare largo consenso di massa denunciando l’assurdo di una crescente spesa per la guerra a fronte del disinvestimento nella sanità, nella scuola, eccetera. Tutto l’arcipelago dei movimenti ambientalisti può essere coinvolto in un ampio fronte pacifista, al fine di denunciare i governi che costruiscono mezzi di annientamento degli uomini e di distruzione della natura, sottraendo risorse agli impegni per fronteggiare gli squilibri ambientali e il riscaldamento climatico.

Infine, ricordiamo un’altra potenzialità politica che la drammatica virata militarista dell’UE offre. È noto che si tenterà di costruire non solo una difesa europea, che sarebbe accettabile, ma anche un esercito europeo. Ebbene, una volta tanto, anche la sinistra potrà mettere in campo, nel discorso pubblico, l’arma potente della paura. Potrà denunciare che alle nuove generazioni, a cui è stata tolta la stabilità del lavoro, a cui viene messa in forse la speranza di poter vivere in un pianeta abitabile, viene ora prospettata la minaccia dell’arruolamento militare, l’avvenire fosco di una nuova guerra in territorio europeo. Noi possiamo dunque urlare alle famiglie del Continente che le attuali élites della UE preparano ai propri figli, dopo tante promesse di magnifiche e progressive sorti, un avvenire di morte in trincea.

Foto di Mediamodifier da Pixabay

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?

Riarmo italiano, chi ci guadagna

di Gianni Alioti

Leonardo, la maggiore impresa militare italiana con oltre il 70% del settore, è ormai una multinazionale integrata alle compagnie Usa, dedita all’export (75% dei ricavi), al centro di complessi reticoli azionari. Fa affari d’oro, ma detiene una quota relativamente bassa dell’occupazione manifatturiera italiana.

“Bei tempi per gli azionisti e i manager dell’industria militare” o meglio “Good times for the Military-Industrial Complex”, si può dire, parafrasando John Adam Tooze. In realtà lo storico inglese, professore alla Columbia University e direttore dell’European Institute, Adam Tooze, ha scritto nel dicembre 2023 sulla sua Chartbook newsletter, una frase ben peggiore:”Good times for the merchants of death“, commentando i dati del Financial Times sull’aumento del portafoglio ordini delle aziende del settore e della loro crescita in Borsa. E in effetti gli ordinativi di armamenti, munizioni e nuovi sistemi ad uso militare sono ai massimi storici. 

Una recente analisi del Financial Times su 15 gruppi multinazionali che producono per il settore militare, tra cui i maggiori appaltatori statunitensi – la britannica BAE Systems, l’italiana Leonardo e la sudcoreana Hanwha Aerospace – ha rilevato che alla fine del 2022 – l’ultimo per il quale sono disponibili dati sull’intero anno – il loro portafoglio ordini complessivo era 777,6 miliardi di dollari, ben più nutrito rispetto ai 701,2 miliardi di dollari di soli due anni prima. 

La crescita degli ordini e dei profitti per le aziende del settore, dovuti all’aumento esponenziale delle spese militari nel mondo, hanno gonfiato le quotazioni di Borsa. Fatto 100 il valore azionario al 15 settembre 2021 di Leonardo, questo è cresciuto al 15 dicembre 2023 del 210 per cento. Nello stesso periodo il valore azionario di BAE Systems, Thales e Lockheed Martin è cresciuto, rispettivamente del 193, 180 e 132 per cento1. “Bei tempi per gli azionisti e i manager dell’industria militare”, appunto.

Se questo è il contesto nel quale si trova a operare l’industria militare italiana, lo scopo di questo articolo è delinearne il profilo e la dimensione, soffermandoci solo sulle due maggiori imprese.

La prima cosa che balza agli occhi è, infatti, il grado di concentrazione del fatturato dell’industria militare in poche aziende e la posizione dominante di Leonardo (ex Finmeccanica) in campo aeronautico, elettronico e degli armamenti terrestri, e di Fincantieri nella costruzione navale. Si tratta di due grandi imprese multinazionali (13° e 46° posto nella classifica SIPRI delle prime 100 aziende per fatturato militare) in cui lo Stato ha mantenuto una quota di controllo. I loro ricavi nelle produzioni militari (2022) raggiungono i 15,3 miliardi di dollari Usa, pari al 12% del giro d’affari del settore in Europa e a circa il 2,6% di quello mondiale. In Italia, concentrano insieme intorno all’80% del fatturato dell’industria militare. Una parte importante di questo fatturato è realizzato all’estero: per Leonardo in Usa, Regno Unito, Polonia e Israele, per Fincantieri in Usa2

Il lavoro più sistematico di mappatura e documentazione su questo universo è stato realizzato da The Weapon Watch, Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei 3 con sede a Genova, che ha prodotto l’«Atlante delle aziende in Italia operanti nel settore aerospazio e difesa». 

Incrociando le 874 aziende censite nell’Atlante con i dati della “Relazione annuale al Parlamento ai sensi della Legge 185 del 1990”, The Weapon Watch ha identificato 212 imprese che, negli ultimi sei anni, hanno avuto l’autorizzazione a esportare armamenti. Queste rappresentano il “primo livello” del complesso militare-industriale italiano. Il fatturato complessivo di queste 212 aziende è stato negli ultimi tre anni rispettivamente di 22,5 miliardi di euro nel 2019, di 20,1 miliardi nel 2020 e di 22,9 miliardi nel 2021. Complessivamente il numero degli occupati in Italia è di 77-78 mila unità (oltre 40 mila nel militare).

Al vertice del complesso militare italiano, oltre Leonardo e Fincantieri, troviamo per fatturato militare e per valore delle autorizzazioni all’export4 le seguenti aziende: Avio Aero5, Thales Alenia Space Italia6, Avio Space Propulsion7, MBDA Italia8, Iveco Defence Vehicles9, ELT Elettronica10, Rheinmetall11, Fabbrica d’Armi Pietro Beretta. Sommate insieme, queste prime 10 aziende concentrano intorno al 90% del fatturato complessivo in campo militare. La posizione dominante di Leonardoè confermata dalla sua partecipazione nell’azionariato e nei CdA di quattro di queste aziende (Thales Alenia Space, Avio Space, MBDA e ELT) e in joint-venture con altre due (Orizzonte Sistemi Navali con Fincantieri e Iveco-Oto Melara con Iveco DV).

Altre informazioni sull’industria militare in Italia provengono dalla Federazione aziende Italiane per l’aero-spazio, la difesa e la sicurezza – AIAD collegata a Confindustria, che associa 180 imprese.

Il Centro Studi AIAD in collaborazione con Prometeia12 ha pubblicato un rapporto con i dati del settore, presentato nel febbraio 2023 dal presidente di AIAD13 in un intervento alla Commissione Esteri e Difesa del Senato. Nel 2021 l’ammontare totale dei ricavi nell’industria aerospaziale e della difesa risultava, intorno ai 16,5 miliardi di euro, di cui il 58% in ambito militare (9,6 miliardi di euro pari allo 0,5% del PIL) e il restante 42% sui mercati civili. L’AIAD stima un’occupazione diretta totale nel settore di quasi 52 mila. In campo militare corrisponde a una stima intorno ai 30 mila occupati diretti, pari allo 0,8% dell’occupazione nell’industria manifatturiera in Italia. 


Leonardo

Nata dall’accorpamento realizzato in Finmeccanica tra gli anni Novanta e gli anni Duemila della maggior parte dell’industria militare italiana – a partire dalle molte aziende a partecipazione statale14, Leonardo negli ultimi vent’anni è cresciuta nel militare espandendosi sul piano internazionale con acquisizioni e investimenti esteri15. Nel 2022 il gruppo ha acquisito il 25,1% delle azioni della tedesca Hendsoldt 16, al 51° posto della classifica SIPRI delle 100 maggiori imprese militari, con oltre 1,7 miliardi di dollari di fatturato, quasi tutti in campo militare. Nello stesso anno, attraverso la controllata statunitense Leonardo DRS ha rilevato il controllo del 100% dell’azienda israeliana Rada Electronic Industries. 

Leonardo a livello globale ha 51.391 occupati (2022) distribuiti il 63% in Italia, il 15% nel Regno Unito, il 14% negli Usa, lo 0,5% in Israele e il 2,5% nel resto del mondo. 32.327

ll gruppo è attualmente organizzato su otto aree di attività: elettronica, elicotteri, aerei, cyber & security, spazio, droni, aero-strutture, automazione. Ha una posizione di forza internazionale nel comparto elicotteri e nell’elettronica per la difesa; mentre in campo aeronautico opera principalmente come sub-fornitore di primo livello per i grandi produttori di aerei militari degli Stati Uniti. Il gruppo è ancora attivo nella produzione di armamenti navali e terrestri (ex-Oto Melara e consorzio con Iveco DV) e nel comparto navale subacqueo (ex-Wass). 

In campo terrestre Leonardo ha firmato, recentemente, un accordo di cooperazione europea con il gruppo franco-tedescoKNDS per la progettazione e produzione di un nuovo carro armato, e per la costruzione e la manutenzione dei nuovi Leopard 2 tedeschi, incluso l’inserimento di strumentazioni elettroniche made in Italy

In campo aeronautico Leonardo e il governo italiano, ancora una volta uscendo dal perimetro dei programmi europei 17, hanno deciso di partecipare al programma Tempest- in sigla Gcap – per un caccia di sesta generazione, lanciato dalla britannica BAE Systems. Al programma, al quale avevano aderito Leonardo e la svedese Saab, nel dicembre 2023 si è unita anche la giapponese Mitsubishi Heavy Industries.

Il principale azionista è il ministero dell’Economia e Finanze (30,2%), che detiene una “golden share” data l’importanza strategica della società, ma un ruolo sempre più decisivo nella sua gestione lo giocano i fondi istituzionali, che per il 53% sono nord-americani e inglesi. Tra questi investitori istituzionali più figurano diversi colossi americani della finanza: Dimensional Fund Advisors LP, The Vanguard Group, Norges BankInvestment, T. Rowe Price International Ltd Management, Goldman Sachs Asset Management, BlackRock Fund Advisors, Goldman Sachs Asset Management International e DNCA Finance SA. 

In Italia Leonardo controlla oltre il 70% delle produzioni militari e le esportazioni (intorno al 75%) rappresentano la parte più importante dei suoi ricavi. La componente militare rappresenta ormai l’83% del fatturato dell’azienda. Tale strategia ha avuto effetti fortemente negativi sull’occupazione. La Figura 1 mostra che negli ultimi 15 anni il gruppo Leonardo ha registrato un calo del numero totale degli occupati in Italia del 24% e una perdita secca del 17% di posti di lavoro nel comparto aeronautico. 

Figura 1

Loccupazione in Leonardo in Italia dal 2007 al 2022

Sul totale degli occupati, nel periodo considerato, hanno inciso soprattutto le dismissioni dall’ex-Finmeccanica di Ansaldo Energia e del comparto dei trasporti metro-ferroviari ceduto ai giapponesi di Hitachi, non compensate dalle nuove acquisizioni 18. Mentre nel settore aeronautico, il cui perimetro societario è rimasto invariato, si sono persi oltre duemila posti di lavoro. Ciò si è verificato nonostante Leonardo stia partecipando alla produzione dei nuovi caccia F35, un programma che era stato approvato da Camera e Senato con illusorie promesse del governo e dell’Aeronautica militare italiana di creazione di nuovi 10 mila posti di lavoro. In realtà si tratta di acquisizioni dagli Stati Uniti con limitati effetti sulle produzioni italiane.

Nel complesso, Leonardo si presenta come una multinazionale militare (con il controllo dello Stato italiano), subordinata in molti campi alle strategie tecnologiche e produttive delle grandi imprese Usa, che si è allontanata dai progetti di co-produzioni europee, che opera sulla base di logiche finanziarie e che ha largamente abbandonato le possibilità di sviluppare produzioni civili. Un esempio di strategia d’impresa che punta a guadagni di breve periodo anziché allo sviluppo di tecnologie e mercati diversificati, e di cattiva politica industriale da parte dei governi italiani di questi anni.


Fincantieri

Fincantieri ha mantenuto la continuità con la storica azienda a partecipazione statale con il controllo dei maggiori cantieri navali del Paese. È la maggiore impresa occidentale di costruzioni navali, ha una forte attività nelle navi da crociera, ma negli ultimi due anni ha aumentato la quota di produzioni di navi da guerra dal 20 al 36% del fatturato totale, con 2.820 milioni di dollari di fatturato militare nel 2022, arrivando al 46° posto nella classifica SIPRI delle 100 maggiori imprese militari. 

Fincantieri ha oltre 20 mila addetti nel mondo, di cui 10.445 in Italia (52%) e 9.640 all’estero, occupati in 20 cantieri navali, di cui 9 in Italia, 5 in Norvegia, 2 in Romania, 2 in Usa, 1 in Brasile e 1 in Vietnam. 

Leader nelle navi da crociera, Fincantieriproduce anche piattaforme offshore, navi posa cavi, traghetti veloci e grandi yacht, oltre alle diverse tipologie di navi militari: portaerei, cacciatorpediniere, fregate, corvette, pattugliatori, navi anfibie, unità di supporto logistico, navi multi-ruolo e da ricerca, navi speciali, sommergibili. Nel settore militare Fincantieri gestisce (con il 51% delle azioni) insieme a Leonardo (49%) l’azienda italiana “Orizzonte Sistemi Navali”, con sede a Genova.

Nel 2023 Fincantieri ha acquisito nuovi ordini per 5,5 miliardi di euro, di cui 4 si riferiscono alla cantieristica navale (militare e crociere) e 1,5 all’offshore e alle navi posa-cavi. Il portafoglio d’ordini totale ha raggiunto i 22 miliardi (+23% rispetto al 2022). L’utile lordo del gruppo è in aumento del 60% rispetto al 2022. 

Nel febbraio del 2024 la Fincantieri e il gruppo Edge (Emirati Arabi Uniti) hanno dato vita a una joint venture per la produzione di navi militari. Nella joint venture, che avrà sede ad Abu Dhabi, la Edge deterrà il controllo con il 51% mentre alla Fincantieri è affidata la direzione gestionale.

Un settore in espansione internazionale è quello delle attività subacquee e, in questo ambito, Fincantieri è parte con Leonardo del polo nazionale guidato dalla Marina Militare Italiana a Spezia. Il settore della subacquea non significa solo sommergibili, ma anche esplorazione dei fondali e monitoraggio-sicurezza dei cavidotti e delle infrastrutture energetiche e di telecomunicazione sottomarine. Questo spiega la recente acquisizione della Remazel Engineering, un’azienda ingegneristica con esperienza nei gasdotti e oleodotti sottomarini.

Il capitale sociale di Fincantieri è detenuto per il 71,32% da Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Il restante 28,61% è mercato azionario indistinto e solo lo 0,07% sono azioni proprie di Fincantieri.

La struttura occupazionale della cantieristica si è trasformata nell’ultimo decennio con un grandissimo utilizzo di imprese di subfornitura e subappalto impegnate all’interno dei grandi cantieri per attività specifiche. Accanto ai 10.445 dipendenti diretti di Fincantieri, ci sono 28.240 occupati nelle ditte di appalto (indiretti di primo livello) e altri 22.585 occupati nelle moltissime ditte di subappalto (per un totale di 61.270 persone). Tali imprese si sono sviluppate sulla base delle spinte verso una continua riduzione dei costi di produzione, e sono caratterizzate da una larghissima presenza di lavoratori immigrati, spesso con bassi salari e condizioni di lavoro e di vita particolarmente disagiate.


Conclusioni

Nel complesso, l’industria militare italiana, con un’occupazione stimata dall’AIAD in poco più di 30 mila addetti nelle produzioni militari (oltre 40 mila secondo l’Atlante di The Weapon Watch), ha un rilievo modesto nel sistema manifatturiero del Paese. Le due maggiori imprese – Leonardo e Fincantieri, a controllo pubblico – sono diventate, negli ultimi 20 anni, multinazionali con una ragguardevole presenza estera e, specie Leonardo, con un forte orientamento finanziario. 

Sul piano tecnologico e produttivo, l’industria militare italiana ha assunto con Leonardo un ruolo di integrazione subalterna nelle strategie degli Stati Uniti e ha largamente abbandonato la strada delle co-produzioni europee. Numerose imprese sono diventate filiali di multinazionali straniere, integrate nei loro sistemi produttivi sul mercato delle commesse militari italiane. Le esportazioni di armi sono una componente rilevante delle produzioni realizzate in Italia. 

Con queste caratteristiche, l’attuale aumento della spesa per acquisto di armamenti in Italia e in Europa può offrire un relativo allargamento delle commesse e del portafoglio ordini, ma è difficile immaginare una crescita significativa (e autonoma) dell’industria militare italiana nelle tecnologie aeronautiche, elettroniche, navali e spaziali più avanzate. In questi ambiti le principali acquisizioni di armamenti e nuovi sistemi d’arma da parte delle Forze Armate italiane, continueranno a essere caratterizzate – com’è avvenuto per i caccia F35 – da importazioni di prodotti finiti e/o componenti strategici dagli Usa e/o dai principali paesi europei (Francia, Germania e Regno Unito) con cui sono in corso accordi tecnologici e produttivi.

Le scelte di politica industriale dei passati governi e le strategie produttive di Leonardo e degli altri protagonisti del settore hanno portato a più alte quotazioni di Borsa e a maggiori dividendi per gli azionisti, ma fanno delle produzioni militari un “cattivo affare” per l’economia e l’occupazione in Italia. In Italia come in Europa, un allargamento del “complesso militare industriale” non fa che alimentare il riarmo e i rischi di estensione dei conflitti. 

Al contrario, lo sviluppo di produzioni civili, con strategie di diversificazione e riconversione, potrebbe consentire una maggior espansione delle capacità tecnologiche e dell’innovazione della nostra industria, con ricadute positive sia in termini di produttività e qualità sull’insieme del sistema economico e manifatturiero, sia con un aumento di investimenti destinati alla messa in sicurezza del territorio e del patrimonio artistico e culturale, al miglioramento del sistema sanitario ed educativo, alla transizione ecologica e digitale. 


NOTE:

1 Philippe Leymarie, La guerra in Ucraina alimenta la corsa agli armamenti, Le Monde Diplomatique il manifesto gennaio 2024

2 Nelle attività civili il gruppo è presente anche in Norvegia, Romania, Brasile e Vietnam.

3 https://www.weaponwatch.net/chi-siamo/

4 Nel 2022 le prime 5 aziende per valore complessivo di autorizzazioni all’export sono state: Leonardo con 1.802,3 milioni di euro, Iveco Defence Vehicles con 593,3 milioni, MBDA Italia con 304,8 milioni, Elettronica con 167,1 milioni e Avio Aero (GE Aerospace) con 140,2 milioni.

5 Motori e sistemi di propulsione aeronautici, di proprietà dell’americana GE Aerospace.

6 Settore aerospaziale, controllata dalla francese Thales con una partecipazione di Leonardo.

7 Propellenti per settore spaziale, partecipata da Leonardo.

8 Missili ed elettronica per sistemi missilistici, controllata da Airbus, BAE Systems e Leonardo.

9 Veicoli blindati, divisione di Iveco Group controllato dal gruppo finanziario Exor della famiglia Agnelli.

10Specializzata in guerre elettroniche è partecipata da Leonardo.

11 Il gruppo tedesco Rheinmentall, leader europeo negli armamenti terrestri e nel munizionamento, è presente con Rheinmetall Italia (ex-Contraves) e con RWM Italia.

12 Azienda di consulenza e ricerca economica con sede a Milano.

13 Intervento Presidente AIAD – Ing. Giuseppe Cossiga, Commissione Esteri e Difesa Senato, Roma 14 Febbraio 2023

14 Nel 1994 Finmeccanica acquisisce le aziende della difesa dell’EFIM: Agusta (elicotteri), Breda Meccanica Bresciana (artiglieria navale e terrestre), Breda Costruzioni Ferroviarie (treni), Officine Galileo (sistemi elettro-ottici), OTO Melara (armamenti terrestri e navali), SMA (radar navali e terrestri), BredaMenarinibus (autobus). Nel 1995 acquisisce da FIAT la Whitehead (produzioni siluri), che fondendosi con Alenia-Elsag Sistemi Navali dà vita alla Wass. Con l’apporto delle nuove società, si concentra oltre il 70% dell’industria nazionale a produzione militare in Finmeccanica, che controlla già il gruppo Alenia operativo nei comparti dell’aerospazio e dell’elettronica per la difesa. Questo processo di concentrazione in Italia in campo militare si rafforza negli anni successivi con le ulteriori acquisizioni di Aermacchi, Ote e la divisione della Marconi Italiana operante nei sistemi di difesa. Contemporaneamente inizia il processo di dismissioni in campo civile con la vendita in ordine cronologico di EsaOte Biomedica, di Elsag Bailey Process Automation (leader mondiale nell’automazione industriale) e delle controllate nella robotica e automazione di fabbrica, di ST Microelettronics e degli asset inerenti l’energia eolica.

15 Il primo mattone del processo di internazionalizzazione di Leonardo (allora Finmeccanica) è la nascita nel 2000 del consorzio Agusta-Westland in campo elicotteristico con il gruppo britannico GKN. Nel 2004 acquisisce il 100% di AgustaWestland e nel 2005 gli asset britannici di BAE Systems nell’avionica e comunicazioni. Il Regno Unito diventa il secondo mercato domestico del gruppo. Nel 2008 Finmeccanica acquisisce la statunitense DRS Technologies attiva nell’elettronica per la difesa. Gli Stati Uniti diventano il terzo mercato domestico. Nel 2009 è la volta dell’azienda polacca produttrice di elicotteri e aerostrutture, ad essere acquisita. La Polonia, quindi, diventa per Leonardo il quarto mercato domestico. 

16 Il gruppo Hensoldt, con un fatturato nel 2022 di 1.795 milioni di dollari ha un’occupazione di 6.500 persone a livello mondiale, di cui 4.700 in Germania. Nel dicembre 2023 ha acquisito la tedesca ESG Elektroniksystem- und Logistik, che impiega 1.380 persone in Germania, Olanda e Stati Uniti con un fatturato di circa 330 milioni di euro.

17 La francese Dassault Aviation e la società europea Airbus (Francia, Germania, Spagna) svilupperanno congiuntamente, in alternativa al Tempest, il progetto FCAS – Future Combat Air System.

18 Leonardo (ex-Finmeccanica), nel periodo considerato, ha effettuato le seguenti acquisizioni e dismissioni, modificando in Italia il perimetro industriale e l’occupazione del Gruppo. Acquisizioni: Datamat (2007), Sistemi Dinamici (2016), Vitrociset (2018), Alea (2021). Dismissioni: Ansaldo Energia (2013), Ansaldo Breda, Ansaldo Sts, Breda Menarini bus (2014), Electron Italia (2017).

FONTE: https://sbilanciamoci.info/riarmo-italiano-chi-ci-guadagna/

Unione Europea: flussi migratori interni e fabbisogno strutturale di lavoro

In uno scenario tendenziale, nei prossimi trenta anni  tutti gli stati membri della UE avranno un fabbisogno di lavoratori stranieri che per la UE sarà pari a 117 milioni. Gli stati che offrono condizioni lavorative migliori attrarranno lavoratori anche dagli altri stati membri, un fenomeno già evidente per il nostro paese. Ciò provocherà inevitabilmente un pari aumento del nostro fabbisogno di lavoratori extracomunitari. Michele Bruni suggerisce quindi che per ridurre il fabbisogno di lavoratori stranieri le prime misure da adottare dovrebbero mirare a migliorare  le condizioni salariali e lavorative del nostro paese. 

di Michele Bruni

Di quanti lavoratori avrà bisogno l’Unione Europea nel prossimo trentennio?

Nei prossimi trenta anni i 27 paesi UE saranno tutti caratterizzati da una carenza strutturale di manodopera che genererà inevitabilmente flussi migratori ad essa proporzionali. Possiamo stimare il fabbisogno di lavoratori stranieri come la somma  di due componenti, una componente demografica ed una componente economica. La prima è  dovuta al calo della popolazione in età lavorativa (PEL), la seconda  alla variazione del livello occupazionale. Queste due componenti  possono essere stimate  in maniera approssimata:

1) La prima come il numero di persone necessarie per mantenere inalterato il livello della popolazione in età lavorativa (PEL) e quindi l’offerta di lavoro, supponendo che il loro tasso  di attività totale sia almeno uguale a quello della popolazione autoctona.

2) La seconda come il  numero di persone necessarie per coprire i posti di lavoro aggiuntivi creati nell’intervallo considerato, ipotizzando che il loro tasso di attività sia dell’80%.

I flussi migratori attivati dalla carenza strutturale di lavoro risulteranno pertanto maggiori del numero di posti di lavoro che le forze di lavoro locali non potranno ricoprire in quanto le precedenti ipotesi ipotizzano, credo realisticamente, che essi siano accompagnati da una percentuale del 25, 30 % di famigliari.

Ricordo anche che i posti aggiuntivi sono stati stimati assumendo che il numero degli occupati vari al tasso medio annuo registrato nel periodo 2002-2022.

La Tabella 1 riporta i risultati delle stime per la UE,  per i 5 stati membri più popolosi e per gli altri 22 presi congiuntamente. Nei prossimi 30 anni la PEL della UE diminuirà di 63,5 milioni e, in uno scenario tendenziale, il fabbisogno economico dovrebbe essere di 53,8 milioni. Ciò porta ad un fabbisogno complessivo di circa 117 milioni di immigrati.

Il fabbisogno totale dei 5 grandi paesi è pari al 71% del fabbisogno UE con la Germania che pesa per quasi un quarto (22,4%), la Spagna per il 14,5 e gli altri tre per valori compresi tra il 12,1% dell’Italia e il 10,9% della Polonia, e la Francia in una posizione intermedia (11,6%).

Il ruolo delle due componenti varia notevolmente da paese a paese. Se a livello UE la componente demografica pesa per il 54,1% e nei piccoli paesi per il 58,2%, nei cinque grandi paesi il suo peso è massimo in Italia dove tocca 81,1% e minimo in Francia dove spiega solo il 30,6%. In Germania e in Polonia le due componenti hanno quasi lo stesso peso, mentre i valori della Spagna sono in linea con la media europea. Si noti che un peso prevalente della componente demografica rende più problematico risolvere il problema della carenza strutturale di lavoro, in quanto richiede necessariamente un aumento della fecondità, cosa non solo difficilissima da realizzare, ma i cui primi effetti sul mercato del lavoro si possono avvertire non prima di 20-25 anni.


Se la UE rappresenta un formidabile attrattore per i giovani di paesi con un eccesso strutturale di lavoro, è altresì evidente che i singoli paesi dell’Unione possono attrarre anche i giovani di paesi membri nei quali esistano eccessi relativi di offerta dovuti, come in Italia, alla presenza di una domanda di lavoro insufficiente per certe professioni o che comunque si esplica con condizioni non competitive a livello europeo. Tali flussi lasciano immutato il fabbisogno dell’Unione, ma modificano quello dei singoli paesi.

I dati sulle iscrizioni e le cancellazioni utilizzati dall’Istat per valutare i flussi migratori da e per l’Italia stimano per il decennio 2012-2021 un saldo migratorio dei cittadini italiani negativo, e pari ad una media annua di 58.000 unità. Sempre secondo la stessa fonte, i giovani andati all’estero sono in possesso di un titolo di studio medio per il 31% e di almeno la laurea per il 23%.

Vi sono tuttavia forti evidenze che il numero di italiani espatriati nell’ultimo decennio sia stato molto più elevato. Un progetto ISTAT, basato su un utilizzo integrato dei dati amministrativi per individuare quella parte delle iscrizioni e cancellazioni “per altri motivi” che potrebbero essere considerate come movimenti migratori con l’estero2, giunge ad una stima del saldo migratorio negativo medio annuo di 72,000 persone per il periodo 2012-2020. Ancora più drastiche le conclusioni raggiunte da un recente studio della Fondazione Nord Est2. Incrociando i dati dell’ISTAT con quelli degli uffici statistici degli altri paesi dell’UE, lo studio giunge alla conclusione che gli espatri di giovani tra i 20 ed i 34 anni sarebbero stati tre volte quelli stimati dall’ISTAT3.

Le informazioni disponibili non sono sufficienti per formulare proiezioni affidabili del saldo migratorio verso gli altri paesi della UE per il prossimo trentennio. Tuttavia, esse giustificano l’ipotesi di un saldo migratorio negativo medio annuo con il resto della UE di 50.000 giovani, il che comporterebbe una crescita del nostro fabbisogno demografico di 1,5 milioni nel prossimo trentennio.

In sostanza, in un contesto nel quale tutti i paesi della UE saranno caratterizzati da una massiccia carenza strutturale di lavoro, sarà inevitabile che i giovani dei paesi nei quali stipendi e condizioni di lavoro non sono competitivi, vengano attratti dai paesi che offrono condizioni di gran lunga migliori, provocando così un aumento della carenza strutturale di lavoro extracomunitario dei loro paesi.

Sembrerebbe quindi ragionevole che il governo italiano, prima di cercare di aiutare in maniera del tutto velleitaria i paesi africani a casa loro, aiutasse l’Italia a casa sua con misure volte ad aumentare la produttività e sperabilmente i salari, oggi tra i più bassi d’Europa, così da ridurre il nostro fabbisogno di immigrati.


Note

1 Tucci E., L’emigrazione dall’Italia attraverso l’integrazione e l’analisi di rilevazioni statistiche e fonti ufficiali, Tesi di dottorato, Roma (2019); Di Fraia G., Tucci E., Tomeo V., Basevi M., Corsetti G., Licari F., Simone M., Bonifazi C., Strozza S., Una misura delle emigrazioni italiane attraverso l’integrazione e l’analisi di dati amministrativi, (2022); Enrico Tucci, Corrado Bonifazi e Gennaro Di Fraia, Una nuova misura delle migrazioni italiane, Neodemos, 21 Marzo 2023.

2 Latmiral L., Paolazzi L., Rosa B, Lies, Damned Lies, and Statistics: un’indagine per comprendere le reali dimensioni della diaspora dei giovani italiani, Fondazione Nord Est, ottobre 2023

3 Le cause della sottostima sarebbero da individuare nelle diverse motivazioni che i giovani hanno nel cancellarsi in Italia ed iscriversi all’estero.

FONTE: https://www.neodemos.info/2024/02/16/unione-europea-flussi-migratori-interni-e-fabbisogno-strutturale-di-lavoro/


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L’Euro, il Lavoro, la Sinistra

Euro.

di Massimo D’Antoni

L’euro è stato lo strumento per contenere le richieste sindacali e attrarre capitali per il finanziamento del commercio estero. Perché la sinistra ha aderito in modo acritico a una scelta che indeboliva la sua base sociale? L’odierna illusione che sia sufficiente una vera unione fiscale.

Nel 1992, sollecitato sul tema della costituenda unione monetaria dal giornalista Mario Pirani, in un’intervista per la Repubblica, il prof. Frank Hahn, autorevole economista di Cambridge, affermava che «l’unione monetaria va contro tutto quello che sappiamo di economia».

Il vero obiettivo dell’euro, il controllo della classe lavoratrice

Si riferiva chiaramente all’analisi delle aree valutarie ottimali. È noto infatti che la condivisione di una valuta – ma il discorso vale anche per forme più limitate di coordinamento valutario, quale l’adozione un regime di cambi fissi – richiede per ben funzionare una serie di condizioni, tra le quali particolarmente rilevante è la mobilità dei fattori produttivi. Hahn spiegava che, in una situazione come quella europea, di limitata mobilità dei fattori, una volta bloccata la valvola di sfogo rappresentata dal tasso di cambio, il ruolo di stabilizzatore rispetto agli squilibri della bilancia dei pagamenti sarebbe toccato al mercato del lavoro. Data la rigidità dei salari, il riequilibrio richiesto avrebbe determinato fluttuazioni nel livello di disoccupazione: «I cambi fissi sostituiscono le fluttuazioni del cambio con quelle dell’occupazione». A giudizio di Hahn, queste conclusioni, benché note agli economisti, erano ignorate dai decisori politici a causa di un’eccessiva preoccupazione per la stabilità dei prezzi. Nel corso degli anni Ottanta l’obiettivo di controllo dell’inflazione aveva finito per prevalere sulla lotta alla disoccupazione. Hahn, studioso di equilibrio economico generale, tutt’altro che un eterodosso su piano scientifico e di orientamento politico liberale, arrivava ad affermare in quell’intervista che «il vero motivo per sostenere i cambi fissi è, in effetti, il controllo della classe lavoratrice».

C’era una volta il PCI

Consapevolezza del fatto che tra irrigidimento del cambio e piena occupazione ci fosse un potenziale conflitto aveva del resto mostrato il PCI quando, nel 1978, si era opposto all’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo. Durante la discussione alla Camera, l’allora on. Napolitano aveva evidenziato come l’adesione allo SME, in presenza di una “tendenza” della lira a svalutarsi rispetto al marco tedesco, avrebbe determinato la necessità di adottare politiche restrittive: «il rischio è quello di veder ristagnare la produzione, gli investimenti e l’occupazione invece di conseguire un più alto tasso di crescita».

Un quindicennio dopo, agli inizi degli anni Novanta, la posizione delle forze politiche, anche quelle di sinistra, è ben diversa. Nel frattempo molte cose sono del resto cambiate, sul piano politico economico e culturale. Il decennio segnato dall’egemonia reaganiana e thatcheriana ha segnato profondamente gli orientamenti di politica economica in tutti i paesi. Il vecchio modello di crescita, caratterizzato dall’aumento dei consumi di massa trainato dalla crescita dei salari è ormai un ricordo, lo si è sostituito con l’invito ad arricchirsi, a sfruttare le opportunità offerte dallo sviluppo dei mercati finanziari, dalla mobilità dei capitali. La crescita delle diseguaglianze non è percepita come un problema, ma semmai come un ostacolo al perseguimento dell’efficienza e all’ampiamento dei margini di profitto. Di questo nuovo modello, che incoraggia l’indebitamento privato, si vedrà l’esito con la crisi finanziaria del 2007.

Poi venne Maastricht, la moneta senza Stato

È in questo contesto culturale che viene definita l’architettura dell’Unione europea e vengono disegnate le istituzioni che porteranno all’Unione monetaria e all’adozione dell’euro. Il Trattato di Maastricht è figlio di quest’epoca e si vede.

Alla Banca centrale europea, concepita sul modello della Bundesbank. viene assegnato un mandato limitato al perseguimento della stabilità dei prezzi. Una differenza non marginale rispetto alla “cugina” americana, visto che alla Federal Reserve persegue l’obiettivo di controllo dell’inflazione congiuntamente a quello di massimizzare l’occupazione. Un mandato definito in modo così ristretto è del resto una logica conseguenza del fatto che la BCE viene costituita come istituzione sovranazionale, in assenza di una vera controparte politica dotata di un’autonoma capacità fiscale. L’euro nasce come esperimento di “moneta senza Stato”.

Si può ben argomentare che la natura tecnica della BCE sia in realtà una finzione. All’interno del direttorio il peso politico degli stati conta eccome e del resto non potrebbe essere altrimenti, essendo del tutto fantasiosa l’idea di una politica monetaria che non abbia, per l’appunto, un carattere fortemente politico. La vernice “tecnica” che si dà all’istituzione di Francoforte ha semmai l’effetto di renderne l’indirizzo politico meno trasparente, funzione di rapporti di forza che riflettono il grado di “ricattabilità” dei paesi in funzione della loro esposizione alle pressioni dei mercati finanziari. Nella intervista già citata, Frank Hahn aveva affermato che è «difficile pensare a una istituzione politicamente più destabilizzante» di una Banca centrale europea in assenza di un governo federale.

L’imperativo della mobilità dei capitali

Nel sottolineare questi aspetti non vorremmo dare l’impressione che l’impianto del Trattato di Maastricht e della moneta unica sia stato definito nella totale inconsapevolezza dei protagonisti dell’epoca. Le scelte di quegli anni arrivarono dopo quasi due decenni di tentativi di trovare una nuova definizione dei rapporti tra valute dopo la fine del sistema di Bretton Woods. Nell’ambito di tale sistema la stabilità dei cambi veniva assicurata dalle limitazioni dei movimenti dei capitali e della possibilità di aggiustamenti concordati del cambio in presenza di squilibri fondamentali tra le economie. Vent’anni dopo il problema era ulteriormente complicato dalla progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, realizzata nel corso degli anni Ottanta e fissata come uno dei cardini, una delle “quattro libertà” che segnavano il passaggio dalla Comunità economica all’Unione europea. È noto come fissità del cambio, mobilità dei capitali e conduzione di un’autonoma politica monetaria rappresentino una “triade impossibile”: delle tre, almeno una deve essere necessariamente abbandonata. Dopo la difficile esperienza del Sistema monetario europeo, culminata per il nostro paese con l’uscita forzata dopo la svalutazione traumatica del settembre 1992, sembrò che la soluzione fosse quella di rilanciare: la moneta unica avrebbe escluso la possibilità di ripetere tale esperienza rendendo il cambio immodificabile e avrebbe consentito di recuperare una relativa capacità di gestione della politica monetaria a livello sovranazionale. La verità è che si era affermata la convinzione, di impronta monetarista, che le politiche di stabilizzazione macroeconomica dovessero avere un ruolo ben più limitato di quanto indicato dall’impianto teorico keynesiano. Anche per questo sembrò che il prezzo da pagare, la rinuncia all’utilizzo della leva monetaria, fosse modesto.

Venne scartata l’alternativa del cambio flessibile. Si diceva che un cambio flessibile avrebbe comportato ostacoli al commercio intracomunitario, ma nessun economista internazionale darebbe credito a un’argomentazione del genere. È invece chiaro che il cambio flessibile avrebbe ostacolato la mobilità dei capitali, che evidentemente non si voleva in alcun modo sacrificare.

Il modello tedesco e la cura degli squilibri a colpi di austerità

Il modus operandi della BCE era ispirato, lo abbiamo detto, a quello della Bundesbank, con il suo orientamento “conservatore” e una nozione estrema di indipendenza dalla politica (indipendenza che, come abbiamo detto, non esclude che le scelte della banca centrale avessero una rilevante dimensione politica). La storia monetaria della Germania federale racconta l’utilizzo della leva monetaria come strumento di contenimento delle richieste sindacali, e quindi della competitività attraverso il contenimento dei costi, nonché di promozione di una moneta forte in grado di attrarre capitali da impiegare nel finanziamento del commercio estero.

La creazione dell’euro nei fatti era coerente con l’estensione all’intera area del “modello tedesco”, di un’economia orientata all’export, che non esita a contenere la domanda interna per mantenere un avanzo di parte corrente.  Anche da questo punto di vista l’unione si presentava come una sfida alla ragione economica. Il compianto Marcello De Cecco, che pure non ha mai ritenuto che vi fossero alternative all’adesione all’euro, sottolineava un poco “invidiabile” primato storico della zona euro: «è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla.»

La speranza, o l’illusione, di coloro che vedevano nell’unione monetaria un’occasione per attuare, liberati dal vincolo della difesa della valuta, politiche espansive e favorevoli alla crescita, doveva scontrarsi con la realtà dei rapporti di forza interni all’UE. Come è stato reso evidente dalla risposta alla crisi dei debiti sovrani, nell’Europa dell’euro ha sempre prevalso l’idea che gli squilibri andassero curati a colpi di austerità e che il problema fossero l’eccesso di indebitamento e la crescita della spesa pubblica.

Vincolo esterno, scelte impopolari e prive di sostegno democratico

Ma non è nostra intenzione caricare di eccessive responsabilità la Germania. Il tema del rapporto tra Europa e lavoro ha molto a che vedere anche con il modo in cui l’appartenenza all’Unione è stata interpretata dalla classe politica nazionale. L’idea del «vincolo esterno» capace di far apparire come necessarie scelte impopolari e prive di sostegno democratico è stata oggetto di numerose analisi.

In un saggio scritto insieme a Lucio Baccaro [Baccaro e D’Antoni, 2022] abbiamo provato a capire in che misura l’utilizzo del vincolo europeo possa essere alla base della stagnazione economica italiana a partire da metà anni Novanta. La nostra tesi è che il vincolo sia stato utilizzato per «forzare» un insieme di riforme di impronta neoliberale che, nelle intenzioni dei proponenti, avrebbero dovuto realizzare la modernizzazione economica del Paese, liberando il sistema dai vincoli di natura ideologica (incarnati dalle tradizioni “popolari” cattolica e comunista) e istituzionale che frenavano un pieno dispiegamento delle forze della concorrenza.

Nello studio prendiamo in esame l’utilizzo del vincolo esterno dal punto di vista delle politiche di bilancio, di quelle industriali e delle politiche del lavoro, mostrando come in ciascuno di questi ambiti gli effetti siano stati ben diversi, probabilmente di segno contrario, rispetto a quanto preventivato. L’analisi può arrivare a giustificare la conclusione che sarebbe stato meglio ritardare o addirittura evitare l’ingresso del Paese nella moneta unica.

La progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro

Con riferimento specifico al mercato del lavoro, ovvero l’aspetto che più da vicino rileva per questo intervento, l’adesione alla moneta unica ha favorito e giustificato la progressiva deregolamentazione del mercato del lavoro, iniziata con le «riforme Treu» a fine anni Novanta, e proseguita fino alla riforma dell’art. 18 attuata dal governo Renzi, passando per il progressivo allentamento dei vincoli all’utilizzo dei contratti temporanei da parte dei governi Berlusconi. L’effetto della riduzione delle garanzie a tutela del lavoro è stato quello di aumentare l’incidenza di forme precarie di occupazione. L’adozione del vincolo esterno del cambio super-fisso ha costretto alla rimozione del «vincolo interno» del mercato del lavoro, consentendo la creazione di lavori a basso costo e bassa tutela. Ciò ha consentito a molte imprese di sopravvivere in una situazione di perdita di competitività, ma ha anche scoraggiato gli investimenti per la creazione di lavoro qualificato. In una situazione di elevata sostituibilità del lavoratore e accorciamento dell’orizzonte temporale dell’impiego in una stessa impresa, né impresa né lavoratore hanno incentivo a investire in capitale umano. La modesta dinamica della produttività osservata dall’adozione dell’euro in poi nel nostro Paese trova qui una spiegazione ben più convincente rispetto ad altre interpretazioni che puntano il dito sulla mancanza di meritocrazia o altri mali antichi del nostro Paese.

I peccati di ingenuità della sinistra

Il nostro sommario richiamo ad aspetti che sono ormai noti nel dibattito lascia aperti diversi interrogativi. Alcuni relativi al passato. Perché la sinistra ha aderito in modo così acritico a un processo di integrazione attuato con modalità che indebolivano la sua base sociale di riferimento? Perché il mondo culturale e accademico progressista non ha saputo mettere insieme elementi e conclusioni consolidate nell’analisi economica, così da evidenziare per lo meno sui rischi cui si stava andando incontro? Naturalmente, la dimensione economica è solo un aspetto della questione. L’ampio consenso con il quale sono stati accolti i passaggi che hanno portato prima al mercato comune, poi alla comunità economica e infine all’unione economica e monetaria, sono stati giustificati, in particolare a sinistra, con l’idea che il governo dei processi di globalizzazione e la protezione dalle turbolenze dei mercati finanziari e valutari rendessero necessaria una dimensione adeguata, ben superiore a quella degli stati nazionali. Ora vediamo più chiaramente che anche da questo punto di vista si è peccato, quanto meno, di ingenuità: lungi dal rappresentare una protezione, l’Unione europea è diventata in molte occasioni veicolo di quelle stesse forze dalle quali avrebbe dovuto fornire protezione.

L’illusione di «correggere» con una «vera» unione politica e fiscale

Una seconda e più fondamentale domanda riguarda le prospettive. Quali sono gli spazi per attenuare i vincoli descritti e tornare a proporre politiche favorevoli al lavoro e in grado di limitare l’erosione dei sistemi di welfare? Una risposta a questa domanda appare particolarmente difficile. Se da un lato è irrealistico immaginare di tornare indietro, smantellando l’architettura creata in questi trent’anni, dall’altro appare ugualmente velleitaria la prospettiva di chi immagina di «correggere» tale architettura completandola con una vera unione politica e fiscale. Per tale obiettivo mancano infatti le condizioni minime. Ingredienti base sarebbero sul piano fiscale un meccanismo di trasferimento e redistribuzione comunitario analogo a quello di un vero stato federale, sul piano politico un cambiamento istituzionale radicale, che sostituisca l’approccio intergovernativo con forme di partecipazione politica e democratica a livello di Unione che non si vedono all’orizzonte. Non basterebbe infatti un’operazione di ingegneria istituzionale, sarebbe necessario creare un vero «demos» europeo. Qualcosa che appare tano meno probabile quanto più l’unione si allarga per includere paesi distanti culturalmente e per collocazione geo-politica.

Il nodo della collocazione geopolitica

Se non è possibile andare né avanti né indietro, in termini pragmatici ciò che si può fare è cercare di conquistare, nel contesto presente, quanto più spazio è possibile per la difesa delle ragioni del lavoro e della giustizia sociale. In questo senso, comprendere la natura dei vincoli e dei processi che li hanno generati può essere un passo importante per non farsi trovare impreparati e non ripetere in futuro gli stessi errori. Del resto, la situazione è ben lungi dall’essere immobile. Non ci sembra azzardato affermare che le dinamiche puramente economiche hanno oggi meno rilevanza che nel passato prossimo e sembrano invece piegarsi alla logica di trasformazioni di altra natura. Prima fra tutte il ridisegno dei rapporti internazionali, con la probabile fine del modello unipolare che ha caratterizzato il periodo successivo all’implosione del blocco sovietico. Da questo punto di vista, una capacità di lettura della realtà che non si limiti alle categorie economiche ma le integri con una conoscenza interdisciplinare, che tenga adeguatamente conto della dimensione geo-politica, appare quanto mai urgente.

FONTE: https://fuoricollana.it/leuro-il-lavoro-la-sinistra/

MARIO DRAGHI: La globalizzazione ha fallito

Il discorso tenuto da Mario Draghi al Nabe, Economic Policy Conference di Washington è utile oggetto di lettura e di riflessione. Possibilmente senza restare avvinghiati dalla terminologia liturgica (d’obbligo per Draghi) dell’economia mainstream. Tentando quindi di estrarre dal lungo e in molte parti condivisibile ragionamento le questioni essenziali che possono anche essere riepilogate con un altro linguaggio, più comprensibile e svincolato dallo schema ideologico approntato nei territori del “miliardo d’oro” per attraversare la declinante epoca post-globale: quella per cui, come sostiene Mario Draghi, si dovrebbero preservare i valori alla base della civiltà occidentale evitando che le spinte interne ed esterne mettano definitivamente al tappeto questa costruzione.

Al netto dunque, dell'”ingratitudine” con cui Cina e altri paesi emergenti hanno colto il meglio di ciò che potevano ricevere dalla globalizzazione neoliberista senza venire abbagliati e penetrati dal complesso di valori che dovevano andare a braccetto con essa e conservando le architetture – autoritarie… – proprie degli altri mondi; al netto del fatto che la loro apertura all’occidente è stata solo utilitaristica e non ha consentito “l’esportazione della democrazia”; al netto cioè delle espressioni di natura ideologica a cui evidentemente ci si deve continuare ad aggrappare, tuttavia il discorso di Mario Draghi fotografa lo stato dell’arte di questi ultimi decenni in un modo che fino ad ora non aveva azzardato. E i consigli che dispensa senza remore sembrano essere un messaggio forte alle elites politiche e finanziarie, in parte ancora immerse nel sogno di un mercato che se la può cavare anche senza la politica, o meglio, orientando, come loro meglio aggrada, la dimensione politica nazionale e continentale europea.

Draghi taglia la storia in un prima (di cui è stato uno dei massimi interpreti) e un dopo (in cui sembra aspirare a mantenere quantomeno un ruolo di suggeritore di rango): l’epoca di prima è finita ed è fallita rispetto ai suoi obiettivi; ne è arrivata un’altra, che necessita di una impalcatura molto diversa, soprattutto per l’indispensabile funzione di riequilibrio che la politica dovrà svolgervi se non si vuole che il fallimento si trasformi in sconfitta definitiva.

La politica, nella nuova fase, è chiamata a garantire la riproduzione del territorio – spaziale e valoriale – dell’ Occidentale (una sorta di arrocco preservativo), ma soprattutto a riprodurre concrete condizioni di egemonia all’interno di questo spazio; vale a dire le condizioni materiali per cui gli abitanti/produttori/consumatori/elettori che lo abitano possano garantire il consenso necessario alla sua stabilizzazione. Altrimenti la creatura andrà in fumo, attratta, come sarà, dalle sirene dell’autoritarismo o di altre prospettive e aggredita da una frantumazione ideale e culturale.

Depurato dai suoi elementi ideologici, il discorso propone alcune correzioni al modello: recupera approcci di riequilibrio tra mercato e politica, (con la prevalenza della seconda che dovrebbe caratterizzare l’epoca in cui siamo entrati), di riequilibrio tra flussi di capitale (da sottrarre alla speculazione e riorientare verso gli investimenti), di riequilibrio nella distribuzione della ricchezza (con adeguate politiche salariali, fiscali e monetarie) in modo tale che le spinte disgregative vengano contenute e ricomposte.

Si tratta di una sorta di manuale di politica interna allo spazio occidentale e ai singoli paesi che lo compongono: i quali dovrebbero quindi attrezzarsi alla modifica sostanziale degli approcci prevalenti seguiti fino ad ora, con il passaggio dall’orientamento all’export che ha consentito enormi surplus solo ad alcuni paesi guida della fase di globalizzazione (e alle loro grandi imprese multinazionali, non citate), ad un ri-orientamento al/ai mercati interni tale da migliorarne le condizioni di vita e ambientali.

Un nuovo modello di competizione quindi, che dovrebbe recuperare la logica dei “massimi e migliori sistemi”, (inevitabilmente analoga al tempo della guerra fredda) che è al tempo stesso competizione culturale, organizzativa e redistributiva, quindi competizione ideale che deve essere corroborata da evidenti e concreti risultati ben percepibili dalle masse.

In tutto il discorso Draghi non cita, se non indirettamente quando accenna alle delocalizzazioni e alla competizione sul costo del lavoro, il ruolo centrale delle grandi imprese globali che sono state i soggetti reali della globalizzazione e i veri percettori dei sui vantaggi, come si evince dai picchi di ricchezza raggiunti e accumulati in sempre meno mani: ciò che in senso traslato definiamo “i mercati”. Ma si capisce che il bersaglio sono proprio loro. Non l’astratta globalizzazione ha fallito, ma queste grandi imprese hanno fallito nella loro presunzione di regolare il mondo e gli stessi Stati con gli annessi popoli che li abitano.

E allo stesso tempo, a parte le ovvie e necessitate invettive sull’autoritarismo, sembra di cogliere il riconoscimento di una superiorità verificabile di quei paesi che hanno mantenuto o potenziato la funzione della politica come centro decisivo di progettazione e programmazione economica e sociale: la Cina, da questo punto di vista è certamente l’esempio principe, nella sua capacità di aver utilizzato tutte le opportunità offerte dalla globalizzazione sottraendosi però alla reclamata (da USA & C.) permeabilità totale dei flussi di capitale, a meno che non fossero destinati o destinabili agli investimenti. Ma è proprio il mancato rispetto di queste “regole” di libertà di scorazzare dei flussi di capitale internazionale ad aver consentito il grande sviluppo della Cina, poiché il loro orientamento produttivo ha permesso con successive messe a punto, un sensibile miglioramento delle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone. (Cosa che non ha fatto in maniera adeguata l’Occidente).

In questa competizione tra modelli e sistemi, tra grandi gruppi monopolistici e Stato, sembrano aver fallito i primi e aver vinto il secondo. Dunque, da quanto si coglie dal discorso, bisognerebbe seguire il modello vincente; rivisto e corretto sulla base dei principi costitutivi dello spazio occidentale.

Che questa scelta debba necessariamente implicare un nuovo keynesismo di guerra con massicci investimenti sulla “sicurezza” militare non viene detto. Forse è una variabile implicita dell’approccio proposto. O forse no. La questione, è che ciò che è da salvaguardare non è un generico e impersonale Occidente, ma i suoi attori reali (che continuano ad essere in primis le grandi imprese globali non citate). Il discorso di Draghi puntualizza cioè il perimetro del confronto tra le elìtes di questa parte di mondo e della vaga Europa.


Discorso integrale di Mario Draghi al Nabe, Economic Policy Conference di Washington, durante il conferimento del premio Paul A. Volcker Lifetime Achievement Award

Tutti i governi, fino a non molto tempo fa, nutrivano grandi aspettative sulla globalizzazione, intesa come integrazione dinamica dell’economia mondiale. Si pensava che la globalizzazione avrebbe aumentato la crescita e il benessere a livello mondiale, grazie a un’organizzazione più efficiente delle risorse mondiali. Man mano che i Paesi sarebbero diventati più ricchi, più aperti e più orientati al mercato, si sarebbero diffusi i valori democratici insieme allo Stato di diritto. E tutto ciò avrebbe reso le economie emergenti più produttive nelle istituzioni multilaterali, legittimando ulteriormente l’ordine globale. Lo stato d’animo prevalente è stato ben colto da George H.W. Bush nel 1991, quando ha affermato che “nessuna nazione sulla Terra ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee alla frontiera”.

Questo circolo virtuoso porterebbe anche a una “uguaglianza per difetto”, nel senso che non sarebbe necessaria alcuna politica governativa specifica per raggiungerla. Piuttosto, avremmo una convergenza armoniosa verso standard di vita più elevati, valori universali e stato di diritto internazionale. Non c’è dubbio che alcune di queste aspettative si siano realizzate. L’apertura dei mercati globali ha portato decine di Paesi nell’economia mondiale e ha fatto uscire dalla povertà milioni di persone – 800 milioni solo in Cina negli ultimi 40 anni. Ha generato il più ampio e rapido miglioramento della qualità della vita mai visto nella storia. Ma il nostro modello di globalizzazione conteneva anche una debolezza fondamentale. La persistenza del libero scambio fra Paesi necessita che vi siano regole internazionali e regolamenti delle controversie recepite da tutti i Paesi partecipanti. Ma in questo nuovo mondo globalizzato, l’impegno di alcuni dei maggiori partner commerciali a rispettare le regole è stato ambiguo fin dall’inizio. A differenza del mercato unico dell’Ue, dove il rispetto delle regole è intrinseco e avviene attraverso la Corte di giustizia europea, le organizzazioni internazionali create per supervisionare l’equità del commercio globale non sono mai state dotate di indipendenza e poteri equivalenti. Pertanto, l’ordine commerciale mondiale globalizzato è sempre stato vulnerabile a una situazione in cui qualsiasi Paese o gruppo di Paesi poteva decidere che il rispetto delle regole non sarebbe servito ai propri interessi a breve termine.

Per fare solo un esempio, nei primi 15 anni di adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), la Cina non ha notificato all’Omc alcun sussidio del governo sub-centrale, nonostante la maggior parte dei sussidi sia erogata dai governi provinciali e locali. Questa inadempienza era nota da anni: già nel 2003 si era notato che gli sforzi della Cina per l’attuazione dell’Omc avevano “perso un notevole slancio”, ma l’indifferenza ha prevalso e non è stato fatto nulla di concreto per affrontarla. Le conseguenze di questa scarsa conformità a regole condivise sono state economiche, sociali e politiche.

La globalizzazione ha portato a grandi squilibri commerciali, ed i responsabili politici hanno tardato a riconoscerne le conseguenze. Questi squilibri sono sorti in parte perché l’apertura del commercio avveniva tra Paesi con livelli di sviluppo molto diversi, il che ha limitato la capacità dei Paesi più poveri di assorbire le importazioni da quelli più ricchi e ha dato loro la giustificazione per proteggere le industrie domestiche nascenti dalla concorrenza estera. Ma riflettono anche scelte politiche deliberate in ampie parti del mondo per accumulare avanzi commerciali e limitare l’aggiustamento del mercato.

Dopo la crisi del 1997, le economie dell’Asia orientale hanno utilizzato le eccedenze commerciali per accumulare grandi riserve valutarie e autoassicurarsi contro gli shock della bilancia dei pagamenti, soprattutto impedendo l’apprezzamento dei tassi di cambio, mentre la Cina ha perseguito una strategia deliberata a lungo termine per liberarsi dalla dipendenza dall’Occidente per i beni capitali e la tecnologia. Dopo la crisi dell’eurozona del 2011, anche l’Europa ha perseguito una politica di accumulo deliberato di avanzi delle partite correnti, anche se in questo caso attraverso le errate politiche fiscali procicliche sancite dalle nostre regole che hanno depresso la domanda interna e il costo del lavoro. In una situazione in cui i meccanismi di solidarietà dell’Ue erano limitati, questa posizione poteva persino essere comprensibile per i paesi che dipendevano dai finanziamenti esterni. Ma anche quelli con posizioni esterne forti, come la Germania, hanno seguito questa tendenza. Queste politiche hanno fatto sì che le partite correnti dell’area dell’euro siano passate da un sostanziale equilibrio prima della crisi a un massimo di oltre il 3% del Pil nel 2017. A questo picco, si trattava in termini assoluti del più grande avanzo delle partite correnti al mondo. In percentuale del Pil mondiale, solo la Cina nel 2007-08 e il Giappone nel 1986 hanno registrato un avanzo più elevato.

L’accumulo di eccedenze ha portato a un aumento del risparmio globale in eccesso e a un calo dei tassi reali globali, un fenomeno rilevato da Ben Bernanke già nel 2005. A questo non è corrisposto un aumento della domanda di investimenti. Gli investimenti pubblici sono diminuiti di quasi due punti percentuali nei Paesi del G7 dagli anni ’90 al 2010, mentre gli investimenti del settore privato si sono bloccati una volta che le imprese hanno ridotto la leva finanziaria dopo la grande crisi finanziaria. Questo calo dei tassi reali ha contribuito in modo sostanziale alle sfide incontrate dalla politica monetaria negli anni 2010, quando i tassi di interesse nominali sono stati schiacciati sul limite inferiore. La politica monetaria è stata ancora in grado di generare occupazione attraverso misure non convenzionali e ha prodotto risultati migliori di quanto molti si aspettassero. Ma queste misure non sono state sufficienti per eliminare completamente il rallentamento del mercato del lavoro. Le conseguenze sociali si sono manifestate in una perdita secolare di potere contrattuale nelle economie avanzate, poiché i posti di lavoro sono stati spostati dalla delocalizzazione o le richieste salariali sono state contenute dalla minaccia della delocalizzazione.

Nelle economie del G7, le esportazioni e le importazioni totali di beni sono aumentate di circa 9 punti percentuali dall’inizio degli anni ’80 alla grande crisi finanziaria, mentre la quota di reddito del lavoro è scesa di circa 6 punti percentuali in quel periodo. Si è trattato del calo più marcato da quando i dati relativi a queste economie sono iniziati nel 1950. Ne sono seguite le conseguenze politiche. Di fronte a mercati del lavoro fiacchi, investimenti pubblici in calo, diminuzione della quota di manodopera e delocalizzazione dei posti di lavoro, ampi segmenti dell’opinione pubblica dei Paesi occidentali si sono giustamente sentiti “lasciati indietro” dalla globalizzazione. Di conseguenza, contrariamente alle aspettative iniziali, la globalizzazione non solo non ha diffuso i valori liberali, perché la democrazia e la libertà non viaggiano necessariamente con i beni e i servizi, ma li ha anche indeboliti nei Paesi che ne erano i più forti sostenitori, alimentando invece l’ascesa di forze orientate verso l’interno.

La percezione dell’opinione pubblica occidentale è diventata quella che i cittadini comuni stessero giocando in un gioco imperfetto, che aveva causato la perdita di milioni di posti di lavoro, mentre i governi e le imprese rimanevano indifferenti. Al posto dei canoni tradizionali di efficienza e ottimizzazione dei costi, i cittadini volevano una distribuzione più equa dei benefici della globalizzazione e una maggiore attenzione alla sicurezza economica. Per ottenere questi risultati, ci si aspettava un uso più attivo dello “statecraft” (l’arte di governare), che si trattasse di politiche commerciali assertive, protezionismo o redistribuzione. Una serie di eventi ha poi rafforzato questa tendenza. In primo luogo, la pandemia ha sottolineato i rischi di catene di approvvigionamento globali estese per beni essenziali come farmaci e semiconduttori. Questa consapevolezza ha portato al cambiamento di molte economie occidentali verso il re-shoring delle industrie strategiche e l’avvicinamento delle catene di fornitura critiche.

La guerra di aggressione in Ucraina ci ha poi indotto a riesaminare non solo dove acquistiamo i beni, ma anche da chi. Ha messo in luce i pericoli di un’eccessiva dipendenza da partner commerciali grandi e inaffidabili che minacciano i nostri valori. Ora, ovunque vediamo che la sicurezza degli approvvigionamenti – di energia, terre rare e metalli – sta salendo nell’agenda politica. Questo cambiamento si riflette nell’emergere di blocchi di nazioni che sono in gran parte definiti dai loro valori comuni e sta già portando a cambiamenti significativi nei modelli di commercio e investimento globali. Dall’invasione dell’Ucraina, ad esempio, il commercio tra alleati geopolitici è cresciuto del 4-6% in più rispetto a quello con gli avversari geopolitici. Anche la quota di Ide che si svolge tra Paesi geopoliticamente allineati è in aumento. E, nel frattempo, è aumentata l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico. Raggiungere lo zero netto in tempi sempre più brevi richiede approcci politici radicali in cui il significato di commercio sostenibile viene ridefinito.

L’Inflation Reduction Act degli Stati Uniti e, in prospettiva, il Carbon Border Adjustment Mechanism dell’Ue danno entrambi la priorità agli obiettivi di sicurezza climatica rispetto a quelli che in precedenza erano considerati effetti distorsivi sul commercio. Questo periodo di profondi cambiamenti nell’ordine economico globale comporta sfide altrettanto profonde per la politica economica. In primo luogo, cambierà la natura degli shock a cui sono esposte le nostre economie. Negli ultimi trent’anni, le principali fonti di disturbo della crescita sono state gli shock della domanda, spesso sotto forma di cicli del credito. La globalizzazione ha causato un flusso continuo di shock positivi dell’offerta, in particolare aggiungendo ogni anno decine di milioni di lavoratori al settore commerciale delle economie emergenti. Ma questi cambiamenti sono stati per lo più fluidi e continui. Ora, con l’avanzamento della Cina nella catena del valore, non sarà sostituita da un altro esportatore di rallentamento del mercato del lavoro globale. Al contrario, è probabile che si verifichino shock negativi dell’offerta più frequenti, più gravi e anche più consistenti, mentre le nostre economie si adattano a questo nuovo contesto.

È probabile che questi shock dell’offerta derivino non solo da nuovi attriti nell’economia globale, come conflitti geopolitici o disastri naturali, ma ancor più dalla nostra risposta politica per mitigare tali attriti. Per ristrutturare le catene di approvvigionamento e decarbonizzare le nostre economie, dobbiamo investire un’enorme quantità di denaro in un orizzonte temporale relativamente breve, con il rischio che il capitale venga distrutto più velocemente di quanto possa essere sostituito. In molti casi, stiamo investendo non tanto per aumentare lo stock di capitale, quanto per sostituire il capitale che viene reso obsoleto da un mondo in continua evoluzione. Per illustrare questo punto, si pensi ai terminali di Gnl costruiti in Europa negli ultimi due anni per alleviare l’eccessiva dipendenza dal gas russo. Non si tratta di investimenti destinati ad aumentare il flusso di energia nell’economia, ma piuttosto a mantenerlo. Gli investimenti nella decarbonizzazione e nelle catene di approvvigionamento dovrebbero aumentare la produttività nel lungo periodo, soprattutto se comportano una maggiore adozione della tecnologia. Tuttavia, ciò implica una temporanea riduzione dell’offerta aggregata mentre le risorse vengono rimescolate all’interno dell’economia. Il secondo cambiamento chiave nel panorama macroeconomico è che la politica fiscale sarà chiamata a svolgere un ruolo maggiore, il che significa – mi aspetto – deficit pubblici persistentemente più elevati.

Il ruolo della politica fiscale è classicamente suddiviso in allocazione, distribuzione e stabilizzazione, e su tutti e tre i fronti è probabile che le richieste di spesa pubblica aumentino. La politica fiscale sarà chiamata a incrementare gli investimenti pubblici per soddisfare le nuove esigenze di investimento. I governi dovranno affrontare le disuguaglianze di ricchezza e di reddito. Inoltre, in un mondo di shock dell’offerta, la politica fiscale dovrà probabilmente svolgere anche un ruolo di stabilizzazione maggiore, un ruolo che in precedenza avevamo assegnato principalmente alla politica monetaria. Abbiamo assegnato questo ruolo alla politica monetaria proprio perché ci trovavamo di fronte a shock della domanda che le banche centrali sono in grado di gestire. Ma un mondo di shock dell’offerta rende più difficile la stabilizzazione monetaria. I ritardi della politica monetaria sono in genere troppo lunghi per frenare l’inflazione indotta dall’offerta o per compensare la contrazione economica che ne deriva, il che significa che la politica monetaria può al massimo concentrarsi sulla limitazione degli effetti di secondo impatto.

Pertanto, la politica fiscale sarà naturalmente chiamata a svolgere un ruolo maggiore nella stabilizzazione dell’economia, in quanto le politiche fiscali possono attenuare gli effetti degli shock dell’offerta sul Pil con un ritardo di trasmissione più breve. Lo abbiamo già visto durante lo shock energetico in Europa, dove i sussidi hanno compensato le famiglie per circa un terzo della loro perdita di benessere – e in alcuni Paesi dell’Ue, come l’Italia, hanno compensato fino al 90% della perdita di potere d’acquisto per le famiglie più povere. Nel complesso, questi cambiamenti indicano una crescita potenziale più bassa man mano che si svolgono i processi di aggiustamento e una prospettiva di inflazione più volatile, con nuove pressioni al rialzo derivanti dalle transizioni economiche e dai persistenti deficit fiscali. Inoltre, abbiamo un terzo cambiamento: se stiamo entrando in un’epoca di maggiore rivalità geopolitica e di relazioni economiche internazionali più transazionali, i modelli di business basati su ampi avanzi commerciali potrebbero non essere più politicamente sostenibili. I Paesi che vogliono continuare a esportare beni potrebbero dover essere più disposti a importare altri beni o servizi per guadagnarsi questo diritto, pena l’aumento delle misure di ritorsione. Questo cambiamento nelle relazioni internazionali inciderà sull’offerta globale di risparmio, che dovrà essere riallocato verso gli investimenti interni o ridotto da un calo del Pil. In entrambi gli scenari, la pressione al ribasso sui tassi reali globali che ha caratterizzato gran parte dell’era della globalizzazione dovrebbe invertirsi.

Questi cambiamenti comportano conseguenze ancora molto incerte per le nostre economie. Un’area di probabile cambiamento sarà la nostra architettura di politica macroeconomica. Per stabilizzare il potenziale di crescita e ridurre la volatilità dell’inflazione, avremo bisogno di un cambiamento nella strategia politica generale, che si concentri sia sul completamento delle transizioni in corso dal lato dell’offerta, sia sullo stimolo alla crescita della produttività, dove l’adozione estesa dell’IA (intelligenza artificiale) potrebbe essere d’aiuto. Ma per fare tutto questo in fretta sarà necessario un mix di politiche appropriato: un costo del capitale sufficientemente basso per stimolare la spesa per gli investimenti, una regolamentazione finanziaria che sostenga la riallocazione del capitale e l’innovazione, e una politica della concorrenza che faciliti gli aiuti di Stato quando sono giustificati. Una delle implicazioni di questa strategia è che la politica fiscale diventerà probabilmente più interconnessa alla politica monetaria. A breve termine, se la politica fiscale avrà uno spazio sufficiente per raggiungere i suoi vari obiettivi dipenderà dalle funzioni di reazione delle banche centrali.

In prospettiva, se la crescita potenziale rimarrà bassa e il debito pubblico ai massimi storici, la dinamica del debito sarà meccanicamente influenzata dal livello più elevato dei tassi reali. Ciò significa che probabilmente aumenterà la richiesta di coordinamento delle politiche economiche, cosa non implicita nell’attuale architettura di politica macroeconomica. In effetti, questa architettura ha volutamente assegnato diverse importanti funzioni politiche ad agenzie indipendenti, che operano a distanza dai governi, in modo da essere isolate dalle pressioni politiche – e questo ha senza dubbio contribuito alla stabilità macroeconomica a lungo termine. Tuttavia, è importante ricordare che indipendenza non significa necessariamente separazione e che le diverse autorità possono unire le forze per aumentare lo spazio politico senza compromettere i propri mandati. Lo abbiamo visto durante la pandemia, quando le autorità monetarie, fiscali e di vigilanza bancaria hanno unito le forze per limitare i danni economici dei blocchi e prevenire un crollo deflazionistico. Questo mix di politiche ha permesso a entrambe le autorità di raggiungere i propri obiettivi in modo più efficace.

Allo stesso modo, nelle condizioni attuali una strategia politica coerente dovrebbe avere almeno due elementi. In primo luogo, deve esserci un percorso fiscale chiaro e credibile che si concentri sugli investimenti e che, nel nostro caso, preservi i valori sociali europei. Ciò darebbe maggiore fiducia alle banche centrali che la spesa pubblica corrente, aumentando la capacità di offerta, porterà a una minore inflazione domani. In Europa, dove le politiche fiscali sono decentralizzate, possiamo anche fare un passo avanti finanziando più investimenti collettivamente a livello dell’Unione. L’emissione di debito comune per finanziare gli investimenti amplierebbe lo spazio fiscale collettivo a nostra disposizione, alleggerendo alcune pressioni sui bilanci nazionali. Allo stesso tempo, dato che la spesa dell’Ue è più programmatica – spesso si estende su un orizzonte di più anni – la realizzazione di investimenti a questo livello garantirebbe un impegno più forte affinché la politica fiscale sia in ultima analisi non inflazionistica, cosa che le banche centrali potrebbero riflettere nelle loro prospettive di inflazione a medio termine. In secondo luogo, se le autorità fiscali dovessero definire percorsi di bilancio credibili in questo modo, le banche centrali dovrebbero assicurarsi che l’obiettivo principale delle loro decisioni siano le aspettative di inflazione.

Nei prossimi anni la politica monetaria si troverà ad affrontare un contesto difficile, in cui dovrà più che mai distinguere tra inflazione temporanea e permanente, tra spinte alla crescita salariale e spirali che si autoavverano, e tra le conseguenze inflazionistiche di una spesa pubblica buona o cattiva. In questo contesto, una misurazione accurata e un’attenzione meticolosa alle aspettative di inflazione sono il modo migliore per garantire che le banche centrali possano contribuire a una strategia politica globale senza compromettere la stabilità dei prezzi o la propria indipendenza. Questo obiettivo permette di distinguere con precisione gli shock temporanei al rialzo dei prezzi, come gli spostamenti dei prezzi relativi tra settori o l’aumento dei prezzi delle materie prime legato a maggiori investimenti, dai rischi di inflazione persistente. Abbiamo bisogno di spazio politico per investire nelle transizioni e aumentare la crescita della produttività. Le politiche economiche devono essere coerenti con una strategia e un insieme di obiettivi comuni. Ma trovare la strada per questo allineamento politico non sarà facile. Le transizioni che le nostre società stanno intraprendendo, siano esse dettate dalla nostra scelta di proteggere il clima o dalle minacce di autocrati nostalgici, o dalla nostra indifferenza alle conseguenze sociali della globalizzazione, sono profonde.

E le differenze tra i possibili risultati non sono mai state così marcate. Ma i cittadini conoscono bene il valore della nostra democrazia e ciò che ci ha dato negli ultimi ottant’anni. Vogliono preservarla. Vogliono essere inclusi e valorizzati al suo interno. Spetta ai leader e ai politici ascoltare, capire e agire insieme per progettare il nostro futuro comune.

Unione europea: torna il patto stupido

di Roberto Musacchio

Definito, ad un certo punto e a danni fatti, stupido dallo stesso Romano Prodi, il patto di stabilità è stato sospeso durante la lunga crisi del Covid. A confermare che non era così intelligente da risultare utile durante una crisi molto grave, e che anzi andava messo da parte per non nuocere al da farsi.

Ora invece torna in vigore, nella versione voluta da Germania e Francia e “accettata” anche dagli ex sovranisti del governo italiano. Una versione che conferma l’abracadabra del monetarismo, quella ideologia che insieme a mercatismo e liberismo forma il ricettario magico di Maastricht, l’ordoliberismo.

Definisco spesso questa Unione europea come “Europa Reale”, a significare una impalcatura rigida scevra di ogni “falsificazione”, per dirla con il liberale Popper, o verifica dei fatti, per stare sul popolare. Una cosa così assomiglia per forza a un regime, per altro ancien perché privo degli elementi che definiscono le democrazie liberali a partire dal famoso motto “no taxation without representation”.

Infatti la Ue, con Maastricht e il braccio armato del patto e delle regole della austerità, definisce praticamente il tutto delle allocazioni delle risorse dei cittadini. E lo fa attraverso un sistema intergovernativo che prescinde dai parlamenti.

Ma torniamo al patto. Oltre ad essere figlio di una ideologia, esso si fonda su un metodo, il funzionalismo, che inverte i criteri democratici storici partendo non dal soggetto, i cittadini, ma dalla funzione ideologica, per creare non una identità condivisa ma regole meccaniche. Trattati e non Costituzione. Obiettivi ideologici e non diritti. Patto di stabilità e non politiche economiche e sociali. Ne viene fuori una sorta di “mostruosità” post e ademocratica, la Ue, deprivata dei connotati tipici delle stesse democrazie liberali.

La gestione della moneta “comune” è un esempio macroscopico di tale difformità, tanto più significativo visto il ruolo di unificazione che le è stato delegato. Ebbene questa moneta è gestita da una sorta di Banca Stato, la Bce, che non ha nessuna delle caratteristiche proprie di una banca centrale, ad esempio la Fed degli Usa. Non solo perché non risponde a nessuno se non all’ideologia, ma perché quella ideologia fa sì che non esistano politiche economiche e sociali (che dovrebbero essere il fine delle monete) ma solo conti, in astratto, e mercati. Una moneta che, di fatto, in questo modo non è unica perché in realtà ha valori diversi a seconda degli Stati (e dei soggetti economici) cui viene “prestata”.

L’esistenza degli spread certifica questi dati di fatto, perché è come se il dollaro costasse di più al Texas che alla California: un assurdo. E il più grande processo di redistribuzione delle ricchezze verso imprese e finanza del trentennio è avvenuto non a caso nell’Unione europea.

A falsificare l’ideologia di Maastricht e dei suoi funzionalismi, a partire dal patto, c’è ormai una verifica che parte dal 1992. Ebbene, in 32 anni non è proceduta nessuna armonizzazione sociale, anzi. I debiti si sono accumulati nonostante ci siano Paesi che, come l’Italia, abbiano prodotto quasi sempre ingenti attivi primari che sono finiti a remunerare i veri signori di Maastricht e cioè il capitale finanziario, i profitti e i surplus esportativi tedeschi (vietati dai trattati ma accettati).

Anche durante la sospensione del patto le politiche contro le crisi, sanitaria ma economica e sociale, hanno favorito finanza e profitti. Come avvenuto con l’austerità che ha ripagato i debiti delle banche e innalzato la gabbia dell’austerità. E avviene con le guerre che si pagheranno con gli sforamenti consentiti dal nuovo patto e che poi saranno risarciti dai cittadini.

A complemento di questa mostruosità nella gestione della moneta c’è il Mes, una sorta di banco privato dotato però di “poteri di pignoramento”. Una assurdità, che sarebbe impensabile negli Usa, che invece dalla Banca di Stato si vada da un organismo a statuto privatistico. Una mostruosità post statuale che chiama mostruosità post politiche. Per cui i sovranisti di Meloni firmano il ritorno del patto che costerà all’Italia lacrime e sangue (ancora) e il partito di Maastricht, il Pd, chiede il Mes.

D’altronde, se l’Italia ha il peggior trend salariale d’Europa qualche responsabilità la politica che ha prodotto i tanti governi tecnici ce l’ha per forza. E l’attacco alla Costituzione arriva non a caso da lontano.

Sarebbe ora di finirla col cavallo ruffiano del conflitto tra “europeisti” e “sovranisti” prendendo atto che purtroppo nell’Unione europea sono in realtà molto, troppo uniti. E riproporre finalmente la dialettica tra democrazia socialmente connotata e ideologismo mercatista (e bellico).

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-01-2024/3017-unione-europea-torna-il-patto-stupido-di-roberto-musacchio

Il Toni Negri meno conosciuto e il sindacato

di Francesco Barbetta

Ho avuto l’onore di conoscere Toni Negri, ed è molto importante ricordare la sua figura di comunista su un giornale legato alla Cgil. Toni era molto attento alle novità e alle proposte provenienti da questa organizzazione. Seguiva con molta attenzione gli scioperi e le vertenze del nostro paese. Negli ultimi anni era rimasto particolarmente colpito, ad esempio, dalla vertenza dell’ex Gkn, di cui mi chiedeva costanti aggiornamenti.

Credo sia giusto ricordarlo a partire dalla sua sterminata riflessione teorica, in particolare dall’argomento dello sciopero e della sua necessaria reinvenzione nell’epoca del capitalismo cognitivo. Partirò dal volume collettivo “Sindacalismo sociale. Lotte e invenzione istituzionali nella crisi europea” (a cura di A. De Nicola e B. Quattrocchi, DeriveApprodi 2016).

Per Negri lo sciopero è un’astensione dallo sfruttamento capitalistico che assume la forma di un attacco diretto alla valorizzazione capitalista. Si tratta sempre di un’azione volta a fare del male al padrone, una diserzione dal capitale. Tuttavia non è sempre uguale, perché il soggetto che sciopera e il comando capitalista sono storicamente determinati.

Oggi, davanti ai processi d’automatizzazione e l’affermazione del lavoro cognitivo, come dobbiamo trasformare lo sciopero? Bisogna partire dai processi produttivi che rendono sempre più “astratto” il lavoro e che sono figli di un’organizzazione cooperativa sempre più autonoma e determinata dal lavoratore ma parassitata dal capitale. Questa è una differenza decisiva rispetto ai processi cooperativi imposti dal padrone e analizzati da Marx. Il padrone diventa, progressivamente, una figura politica che vigila sull’estrazione del valore, e tenta di ingabbiare quegli algoritmi e quei linguaggi nati dalla cooperazione dei lavoratori.

In questo contesto emerge il concetto di sciopero sociale. Si tratta di una sottrazione dal lavoro in un contesto in cui il capitale parassita delle relazioni produttive create dal lavoratore. Scioperare, però, nel momento in cui si è sempre al lavoro perché tutta la nostra vita viene messa a valore, non può tradursi solo in questo modo. Negri afferma che bisogna recuperare quell’indipendenza propria di queste relazioni e anticipare un futuro libero dalla miseria e dal comando capitalista. Questo processo intreccia inevitabilmente la classica lotta per l’appropriazione di una parte del profitto e quella per modificare gli attuali modelli di riproduzione della società. In poche parole, oltre agli aumenti del salario bisogna tenere contro del welfare e della sua reinvenzione. Parliamo del terreno su cui si sviluppano proposte centrali per il nostro futuro, come un reddito universale di base.

In “Assemblea” (M. Hardt e A. Negri, Ponte alle Grazie 2018) chiarisce il concetto come segue: “Il sindacalismo sociale rovescia il rapporto tradizionale tra lotte economiche e lotte politiche, che costituiscono un’altra versione del rapporto tra strategia e tattica. Normalmente si considerano le lotte economiche e sindacali (specialmente quelle sul salario) come parziali e tattiche e quindi bisognose di un’alleanza e di una guida da parte delle lotte politiche guidate dal partito, che si pensava avessero un respiro strategico e complessivo. L’alleanza tra lotte economiche e politiche proposta dal sindacalismo sociale rimescola i compiti di strategia e tattica, dal momento che movimenti economici non si mettono in relazione con un potere costituito ma con un potere costituente, non con un partito politico ma con un movimento sociale. Una simile alleanza dovrebbe favorire i movimenti sociali consentendogli di appoggiarsi alla struttura organizzativa stabile e sviluppata del sindacato, dando alle lotte dei poveri, dei precari e dei disoccupati una portata sociale e una continuità che altrimenti non avrebbero. In cambio, l’alleanza non dovrebbe solo allargare la sfera sociale dei sindacati, estendendo le lotte sindacali oltre i salari e il luogo di lavoro per affrontare tutti gli aspetti della vita della classe lavoratrice, concentrando l’attenzione dell’organizzazione sindacale sulla forma di vita della classe, ma anche rinnovare i ‘metodi’ dei sindacati, permettendo alle dinamiche antagoniste dell’attivismo dei movimenti sociali di rompere le strutture sclerotiche delle gerarchie sindacali e le loro logore forme di lotta”.

Una riflessione molto utile per discutere insieme dei rapporti tra Cgil e movimenti, come avrebbe voluto Toni.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-01-2024/3023-il-toni-negri-meno-conosciuto-e-il-sindacato-di-francesco-barbetta

L’ampliamento dei Brics ulteriore passo in avanti nella ridefinizione degli assetti geopolitici e geoeconomici internazionali – parte I°

di Andrea Vento

Il Bric: da aggregato geoeconomico a soggetto geopolitico

La genesi dell’acronimo Bric viene ricondotta all’economista inglese Jim O’Neil quando a fine 2001 in un documento1, redatto in qualità di Chief Economist della Banca di investimenti Goldaman Sachs, identificò il nuovo aggregato geoeconomico composto da Brasile, Russia, India e Cina come il gruppo di Paesi che, in base a caratteristiche comuni, avrebbero verosimilmente dominato l’economia mondialedel secolo appena iniziato. Pertanto, secondo O’Neil, agli Stati Uniti per poter mantenere la leadership globale anche nel XXI secolo sarebbe stato dunque necessario inglobarli nella governance economica e finanziaria mondiale egemonizzata fino a quel momento dal sistema occidentale.

I quattro paesi risultavano, infatti, accomunati da alcune caratteristiche simili da consentir loro nell’arco di alcuni lustri di posizionarsi nei piani alti della graduatoria delle potenze economiche mondiali: la condizione di economie in via di sviluppo, una popolazione numerosa, un vasto territorio, abbondanti risorse naturali strategiche e prospettive di forte crescita del PIL e della quota nel commercio mondiale.

La tesi sostenuta da O’Neal non venne, tuttavia, pienamente percepita nella sua portata strategica negli ambienti di Washington, in quegli anni, peraltro, impegnati nella ridefinizione dell’assetto geopolitico mediorientale con gli interventi militari in Afghanistan e Iraq. Finì, invece, per fornire un inaspettato input aggregativo per i quattro paesi che fino ad allora avevano scarsamente cooperato dal punto di vista economico2 e geopolitico, i quali, a partire dal settembre 2006, iniziarono ad effettuare annualmente riunioni informali a margine dell’Assemblea generale dell’Onu.

Il primo incontro ufficiale dei Bric a livello di Capi di Stato e di governo, che sancì il varo dell’aggregato geoecomico, si tenne a Toyako in Giappone il 9 luglio 2008 a margine del vertice del G8, allora comprendente anche la Russia. Le successive riunioni ufficiali ai massimi livelli di rappresentanza si tennero a Ekaterinburg in Russia il 16 giugno 2009 e a Brasilia il 15 aprile 2010, gettando le basi per la graduale trasformazione del BRIC da semplice aggregato geoconomicoin raggruppamento geopolitico caratterizzato dall’attuazione di strategie condivise.

Tale processo evolutivo prese le mosse dalla prima rilevante posizione comune assunta in ambito ufficiale internazionale: l’astensione in sede di Consiglio di Sicurezza sulla Risoluzione 1730 sulla Libia dell’11 marzo 20113. Infatti, oltre a Russia e Cina membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, vi erano presenti, fra i 10 a rotazione, anche Brasile e India risultando, insieme alla Germania, i 5 paesi ad astenersi sulla Risoluzione. La quale con forzature interpretative da parte francese, britannica e statunitense avrebbe a breve portato all’intervento della Nato contro le forze armate di Gheddafi e alla destrutturazione dello stato libico.

L’adesione del Sudafrica

Nel settembre 2010, le quattro potenze emergenti hanno convenuto di invitare la Repubblica Sudafricanaa partecipare alle riunioni del BRIC, per offrire rappresentatività anche al continente africano nel contesto del gruppo che aspirava a porsi alla guida del Sud globale. A partire dal successivo vertice di Sanya in Cina del 14 aprile 2011 si è aggiunto quindi il Sudafrica, determinando l’evoluzionedell’acronimo in BRICS e fornendo nuova linfa al processo di trasformazione.

Fin dalle prime riunioni ai vertici è emerso che tali potenze emergenti non condividevano solamente lo status economico comune di potenze emergenti ma che le loro finalità avrebbero assunto anche carattere geopolitico. Infatti, facendo leva sul crescente ruolo rivestito nel contesto dell’economia mondiale, il raggruppamento ha iniziato a rivendicare la necessità di realizzare un nuovo equilibrio interno all’ordine economico-finanziario mondiale che superasse quello imposto dagli Stati Uniti tramite gli Accordi di Bretton Wood del 1944. I quali sancirono, fra le varie, il ruolo centrale del Dollaro nelle transazioni internazionali e la fondazione delle due istituzioni finanziarie mondiali a guida occidentale: Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e Banca Mondiale (Bm).

L’ampliamento ha permesso al gruppo di acquisire una maggiore rappresentatività geografica e consapevolezza geopolitica, accentuando in tal modo il suo carattere dinamico e multipolare. Tuttavia, interpretare il BRICS come un blocco con caratteristiche omogenee non sarebbe risultato corretto né un decennio fa, agli inizi della loro ascesa, né tanto meno oggi in piena fase di ampliamento. Nel 2012 sussistevano, al pari di oggi, significative differenze non solo nella potenza economica (Pil totale), con la Cina già al secondo posto della graduatoria mondiale dal 2010 e il Sudafrica, a causa del suo peso demografico limitato, posizionata la 29° posto a sensibile distanza dagli altri quattro, ma anche nella superficie con India e Sudafrica distanti dagli altri tre, veri e propri sub-continenti (tabella 1). Oltre a diversità nel modello economico, nel livello di sviluppo economico (Pil pro capite) e tecnologico e in campo militare, in quest’ultimo con ruolo nettamente prevalente della Russia.

Tabella 1: potenza e livello di sviluppo economico dei Brics (Fonte Fmi) e quota di Pil, superficie e popolazione mondiale (Fonte Bm e Onu) nel 2012

Potenza e livello di sviluppo economico Fonte: FmiComparazione nel contesto mondiale Fonte: Bm, Onu
StatoPil mld $Pil pro capite in $% di Pil mondiale% superficie terrestre% popolazione terrestre
Cina8.221 (2°)6.80710,57,219,3
Brasile2.250 (7°)11.2083,56,52,8
Russia2.014 (9°)14.6122,712,62,0
India1.841 (10°)1.4992,62,317,8
Sudafrica384 (29°)6.6180,60,90,7
Totale Brics 19,929,542,7

A livello militare nel 2012 i Brics non risultavano in grado di proiettare una propria potenza a livello militare e il gap con i soli Stati Uniti assumeva dimensioni considerevoli visto che la loro quota di spesa militare mondiale, nell’anno in questione, secondo il Sipri rappresentava il 19,5% del totale, al cospetto del 39% di Washington.

I progetti infrastrutturali: strumento d’espansione dell’influenza

Nel 2012, come d’altronde oggi, sussistevano alcuni fattori di divergenza soprattutto fra i membri asiatici. Russia, Cina e India evidenziavano, infatti, aspirazioni di espansione della loro influenza su porzioni del continente asiatico le quali, col tempo, sono andate consolidandosi ed anche interconnettendosi: Mosca in Asia Centrale, in Siria e in parte del Mondo arabo e in Africa, mentre Pechino, negli anni, è riuscita ha stringere un’alleanza strategica col Pakistan e ha ampliato il raggio della propria influenza con il grande progetto infrastrutturale delle Nuove vie della seta (Bri – Belt and Road Initiative) lanciato da Xi Jimping nel 2013, nel cui contesto rientra anche il corridoio Cina-Pakistan (carta 1). New Delhi invece, in ritardo rispetto alle altre due potenze emergenti asiatiche, a partire dal 2015 ha progressivamente intensificato i rapporti con Teheran con l’obiettivo di creare una sinergia infrastrutturale in grado di aggirare via mare il Pakistan, suo storico avversario, e di raggiungere l’Asia centrale via terra. In particolare la sinergia indo-iraniana ha inizialmente portato alla progettazione del corridoio India-Afghanistan-Iran4 incentrato sul porto iraniano di Chabahar sul mar Arabico (carta 1).

Carta 1: corridoio Cina Pakistan e i porti di Gwadar e Chabahar terminali di progetti concorrenziali

L’origine della collaborazione infrastrutturale euro-asiatica risale addirittura al maggio 2002 quando India, Iran e Russia hanno sottoscritto il North South Corridor Trasporter (Nsct) al quale successivamente si sono aggiunti altri 10 stati: Azerbaigian, Armenia, Bielorussia, Turchia, Kazakistan, Oman, Tagikistan, Kirghizistan, Siria, Ucraina (che probabilmente abbandonerà) e la Bulgaria come paese osservatore.

Parallelamente al processo di ampliamento del Nsct, nel 2016 è entrato in vigore l’Accordo di Ashgabat5 finalizzato allo sviluppo di una rotta di trasporto fra il mar Arabico e l’Asia centrale che è stato sottoscritto da Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Kazakistan e Oman, al quale ha aderito anche l’India nel 2018.

La convergenza strategica fra i due progetti, a seguito anche dell’accelerazione impressa dell’escalation del conflitto in Ucraina nel febbraio 2022 e delle misure restrittive che hanno isolato la Russia a Occidente, è sfociata nella realizzazione dell’International North South Corridor Trasporter (Insct)6. Un progetto infrastrutturale multimediale, navale, ferroviario e stradale, che si estende per 7.200 km tra India, Iran Azerbaigian, Asia Centrale, Russia ed Europa, interconnesso alla rotta ferroviaria meridionale della Via della seta cinese (carta 2).

Il percorso è principalmente incentrato sul trasferimento di merci lungo l’asse strategico India – Iran – Azerbaigian – Russia, in alternativa alla più lunga e costosa rotta del Canale di Suez, assumendo particolare valenza geopolitica e geostrategica per Russia e Iran, entrambi soggetti alle sanzioni statunitensi.

Carta 2: la 3 rotte dell’Insct e la rotta ferroviaria meridionale della Via della seta terrestre cinese.

Il Corridoio Internazionale di Trasporto Nord – Sud è diventato operativo dal 7 luglio 2022, quando la società russa RZD Logistic ha annunciato di aver effettuato con successo il suo primo trasporto di merci in India per mezzo di questa infrastrutturale multimediale che offre, in base ad uno studio condotto dalla Federazione delle associazioni degli spedizionieri in India (FFFAI), un risparmio del 30% in termini di costi ed è del 40% più breve rispetto alla rotta di Suez7 (carta 2).

Come emerso dagli sviluppi della collaborazione infrastrutturale, si era, dunque, inizialmente in presenza di potenze emergenti fra loro potenzialmente competitive, le cui comuni prospettive geopolitiche col tempo hanno spinto per il superamento delle divergenze e delle controversie a favore di una crescente cooperazione strategica, pur mantenendo i rispettivi progetti di sviluppo nazionali.

Verso un Nuovo ordine internazionale

Sin dalla sua strutturazione, il percorso evolutivo del Brics ha indubbiamente beneficiato degli sviluppi delle dinamiche internazionali sia di carattere economico che geopolitico-militare.

L’aumento della loro rilevanza nel contesto dell’economia mondiale, oltre che da fattori strutturali come i più alti tassi di crescita che fisiologicamente caratterizzano le economie in via di sviluppo rispetto a quelle avanzate, è stato favorito anche da fenomeni contingenti. In primis la crisi economica, innescata dalla bolla dei mutui subprime sul mercato finanziario statunitense, la quale se da un lato ha investito, nel biennio 2008-2009, gli Stati Uniti, l’Eurozona, gli altri Paesi europei e il Giappone spingendoli nella più grave recessione dal 1929 (grafico 1), dall’altro ha solo parzialmente colpito i paesi del Bric. Nello specifico, se Sudafrica e, soprattutto, Russia, sono scese in terreno negativo, Cina e India hanno subito solo un rallentamento nella crescita (grafico 2).

Grafico 1: variazione percentuale del Pil in Cina, Usa, Eurozona e Giappone fra 2006 e 2020

Grafico 2: tasso di variazione annua del Pil dei paesi del Brics fra il 2006 e il 2015

Grafico 3: ripartizione delle quote di Prodotto Lordo Mondiale fra G7 e Brics fra 1992-2024

Tale divergente dinamica economica ha inciso sulla rimodulazione della distribuzione del Prodotto Lordo Mondiale a beneficio del Brics, la cui quota nel 2014 era arrivata al 22%, quando nel 2008 risultava del 15% e nel 2002 del 9%.

Mentre i paesi del G7 dal 63% del 2002 erano già discesi al 52% nel 2008 e ripiegati ulteriormente al 47% nel 2014 (grafico 3), a seguito anche della crisi del debito sovrano dei paesi periferici dell’Eurozona (2012-2014) che, gestito con politiche di austerità fiscali dai “rigoristi” di Bruxelles, ha causato una nuova recessione nell’Eurozona nel 2012 e in Grecia, Italia, Spagna e in Francia anche nel 2013 (grafico 4).

Grafico 4: tasso di variazione annua del Pil in Francia, Germania, Grecia, Italia e Spagna 1999-2013

Nuove istituzioni finanziari internazionali

Parallelamente, pure le dinamiche di carattere geopolitico e militare hanno impresso una significativa accelerazione sia al processo di integrazione del Brics, che all’ampliamento dei propri obiettivi.

In particolare, le vicende legate alla crisi Ucraina del 2014, sfociate nel colpo di stato di piazza Maidan ai danni del presidente Yanukovich, la revoca dell’autonomia agli Oblast del Donbass da parte di Kiev poi sfociata in conflitto armato e l’annessione russa della Crimea con le conseguenti nuove sanzioni economiche comminate a Mosca dall’Occidente, compresa la sospensione dal G8, hanno fornito elementi di riflessione e spinto ad importanti decisioni riguardanti persino l’architettura economico-finanziaria internazionale. Infatti, nel successivo vertice di Fortaleza in Brasile del luglio 2014 i paesi del Brics hanno affrettato i tempi procedendo alla fondazione della Nuova Banca per lo Sviluppo (New Developement Bank Brics – Ndb Brics) e di un fondo di riserva. La decisione di realizzare istituzioni finanziarie alternative rispetto a quelle create a Bretton Woods, Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e Banca mondiale (Bm), era già stata assunta nel precedente vertice di Durban in Sudafrica del marzo 2013, a seguito del rifiuto dei paesi del G7 di riformare il Fmi attuando una più equa distribuzione delle quote di voto a beneficio dei paesi emergenti.

La questione dello scontro in seno al Fmi fra Cina e Stati Uniti è risultata paradigmatica della contrapposizione strategica che si svilupperà negli anni seguenti fra le prime due economie mondiali. In breve i fatti.

Risale al 2010 l’ultima volta che il Fmi aveva modificato il sistema delle quote, queste ultime consistenti nelle partecipazioni azionarie dei vari stati al capitale del Fondo, che grosso modo corrispondono ai relativi diritti voto e, in linea teorica, avrebbero dovuto essere proporzionali al peso8 di ciascun stato nell’economia mondiale. Tuttavia, in una fase di trasformazioni degli equilibri geoeconomici globali, nel 2010 nonostante la Cina ricoprisse, in termini di Pil nominale, il 9% dell’economia mondiale, le venne assegnata solo una quota del 6,08% a causa della strenua opposizione degli Stati Uniti. Washington, infatti, risultò irremovibile nel suo intento di far rimanere come secondo possessore di quote in seno al Fmi il Giappone col 6,14%, quantunque la sua economia corrispondesse nel 2010 al 6,80% di quella mondiale.

Nonostante nominalmente le quote sarebbero dovute essere aggiornate ogni 5 anni9, la Cina continua a mantenere invariata la sua quota del 6,08% dal 2010, anche se la sua economia in rapida ascesa è arrivata nel 2023 a rappresentare il 18% di quella mondiale. Tale immobilismo è dovuto al fatto che gli Stati Uniti, pur essendo sottorappresentati in termini di diritti di voto rispetto al suo ruolo nell’economia mondiale, circa il 25%10, con il suo 16,5% detiene un sostanziale diritto di veto sulle decisioni più importanti del Fondo, le quali necessitano della maggioranza qualificata dell’85% dei voti11. In tal modo gli Stati Uniti hanno continuato sino ad oggi a bloccare l’ascesa della Cina e di altri paesi emergenti in seno al Fmi, a beneficio del Giappone e dei paesi europei.

Una situazione che ha scatenato recenti forti tensioni fra XI Jimping e Lula, da un lato, e gli Stati Uniti, dall’altro, nel round negoziale iniziato nel 2023, il quale, nonostante tutto, il 7 novembre scorso è scaturito in un accordo in seno al Consiglio esecutivo del Fondo che prevede un aumento del 50% della quota contributiva di ciascun membro, senza tuttavia modificare i rapporti di partecipazione preesistenti. La delibera dovrà passare al vaglio dell’approvazione con una maggioranza dell’85% dei voti ma, dati i rapporti di forza esistenti, sussistono pochi dubbi sul fatto che venga respinta. Una decisione che sta alimentando ulteriori tensioni fra Washington e i Brics e che ignora le richieste del Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres, il quale senza mezzi termini aveva invitato ad un riallineamento delle quote alle mutate condizioni geoeconomiche mondiali, essendo a suo dire necessario “riformare un’architettura finanziaria internazionale che è obsoleta, disfunzionale e ingiusta”12.

La mission strategica delle nuove Istituzioni finanziare internazionali, si legge nel sito della Ndb13, è quella di “finanziare progetti e trovare soluzioni su misura per contribuire a costruire un futuro più inclusivo, resiliente e sostenibile per il pianeta” tramite la creazione di partnership al fine di “integrare gli sforzi istituzioni finanziarie multilaterali e regionali per sostenere la crescita e lo sviluppo globali”.

La grande innovazione introdotta dalle nuove istituzioni, tuttavia, è costituita dal diverso approccio nell’erogazione dei finanziamenti che, infatti, vengono concessi sia ai paesi emergenti che alle altre economie sviluppate, individuandone di concerto gli obiettivi, in genere infrastrutturali, ma, soprattutto, senza subordinarli all’imposizione di vincoli e di politiche neoliberiste, le quali fino ad oggi hanno contribuito al peggioramento delle condizioni economiche e soprattutto sociali dei paesi “beneficiari”. L’Argentina ne costituisce un fulgido esempio sia in relazione ai prestiti concessi durante la presidenza Menem, in cambio del cosiddetto “Washington Consensus”14, poi sfociati nel default del 200115, sia quello del 2018 sotto la presidenza Macri di ben 45 miliardi di $, il più imponente della storia del Fmi, che ha spianato la strada all’attuale crisi economico-sociale e all’ascesa del populista di estrema destra, Milei alla guida del Paese.

La sede della Ndb è stata stabilita fin dalla fondazione a Shangai, in virtù della maggior contribuzione di capitale da parte della Cina, ed è divenuta operativa l’anno successivo nel 2016, con grandi prospettive e attese da parte dei paesi in via di sviluppo, anche alla luce della dotazione di un capitale autorizzato16 di 100 miliardi di $.

Il fondo di riserva, attivato in parallelo con Ndb, ha assunto la denominazione di Contingent Reserve Arrangement (Cra) ed ha come obiettivo primario la riduzione della dipendenza dei paesi Brics da fonti esterne di finanziamento, cercando di offrire un’alternativa al Fmi in qualità di prestatore di ultima istanza17. In sostanza, fornisce due tipi strumenti, di liquidità e precauzionali, per far fronte a pressioni a breve termine, reali o potenziali, sulla bilancia dei pagamenti.

Il Cra, prevede un impegno finanziario di 100 miliardi di $, al quale la Cina contribuisce per 41 miliardi, Russia, India e Brasile per 18 miliardi e Sudafrica per 518 (tabella 2). Tuttavia, l’accesso massimo ai fondi che i membri possono richiedere è della metà del capitale conferito per la Cina (21 miliardi), corrispondente per Russia, India e Brasile (18 miliardi) e del doppio per il Sudafrica (10 miliardi).

Tabella 2: Contingent Reserve Arrangement: capitale versato, accesso massimo ai fondi e diritti di voto19.

PaeseApporto di capitale 
(miliardi di $)
Accesso ai fondi
(miliardi di $)
Diritti di voto (%) 
 Brasile181818.10
 Cina412139,95
 India181818.10
 Russia181818.10
 Sudafrica5105,75
Somma totale10085100,00

Il carattere plurilaterale ed inclusivo delle nuove istituzioni emerge anche dalle finalità strategiche prefissate dai fondatori che risultano, non tanto di apportare una semplice rottura nell’ordine finanziario internazionale a guida statunitense, quanto di creare una possibile alternativa sia a livello di gestione dei prestiti che in merito al Sistema Monetaria Internazionale (Sim) incentrato sull’egemonia del dollaro. Contemplano, inoltre, un significativo sforzo per promuovere l’integrazione economica e la cooperazione tra le economie emergenti in un ottica di sviluppo delle relazioni internazionali all’interno di un quadro multipolare.

Andrea Vento – 6 gennaio 2023

Gruppo Insegnanti di geografia Autorganizzati

NOTE:

1 “The World Needs Better Economic BRICs” nella serie “Global Economic Paper” di Goldman Sachs, sulle quattro economie emergenti “BRIC”: Brasile , Russia , India e Cina 

2 L’interscambio commerciale fra i Paesi del Brics nel 2002 ammontava a soli 27,3 miliardi di $, nel 2021 era aumentato di 10 volte a 282 e nel 2015 addirittura 500.

3 https://it.wikipedia.org/wiki/Risoluzione_1973_del_Consiglio_di_sicurezza_delle_Nazioni_Unite

4 https://www.aljazeera.com/economy/2016/5/24/indian-iran-and-afghanistan-sign-trade-corridor-deal

https://www.agi.it/rubriche/asia/iran_accordo_per_corridoio_commerciale_con_india_e_afghanistan-801298/news/2016-05-24/

5 https://en.wikipedia.org/wiki/Ashgabat_Agreement

6 https://en.wikipedia.org/wiki/International_North%E2%80%93South_Transport_Corridor

L’AMBIZIOSO PROGETTO DEL CORRIDOIO NORD-SUD: la cooperazione Russia-India-Iran in risposta all’Occidente

7 https://www.tehrantimes.com/news/474677/INSTC-A-sanction-proof-route-with-great-economic-prospects

8Diritti Speciali di Prelievo – DSP (Special Drawing Rights, SDR), ovvero nell’unità di conto del FMI (determinata secondo un paniere ponderato di cinque valute: dollaro USA, Euro, Yen, Sterlina, Renminbi).

9 Fonte: Ministero degli affari esteri – https://www.esteri.it/it/politica-estera-e-cooperazione-allo-sviluppo/organizzazioni_internazionali/fora-organizzazioni-economiche-internazionali/fondomonetariointernazionale/

10 https://www.visualcapitalist.com/100-trillion-global-economy/

11 Gli Usa: 17,43% del capitale e 16,50% dei voti  Giappone (6,14% dei voti), Cina (6,08%), Germania (5,31%), Francia, Regno Unito (4,03% entrambi), Italia (3,02%), India (2,63%), Russia (2,59%) e Brasile (2,22%) sono i dieci Paesi più rappresentati nel voto. https://www.imf.org/en/About/executive-board/members-quotas

12 https://www.agenzianova.com/a/654b32202629a2.85252497/4650775/2023-11-08/fmi-approvata-proposta-di-revisione-quote-partecipative

13 https://www.ndb.int/

14 L’espressione Washington consensus è stata coniata nel 1989 dall’economista John Wiliamson per descrivere un insieme di 10 direttive di politica economica neoliberista che egli considerava come il pacchetto standard da destinare ai paesi in via di sviluppo che si fossero trovati in crisi economica. Queste direttive erano promosse da organizzazioni internazionali con sede a Washington, come Fmi e Banca mondiale Bm e anche dal  Dipartimento del Tesoro Usa. Tra le direttive del “pacchetto” standard, vi sono riforme nella stabilizzazione macroeconomica, l’apertura agli investimenti e alle attività commerciali, e l’espansione del mercato nell’economia del paese che avesse richiesto l’aiuto di una delle tre organizzazioni https://it.wikipedia.org/wiki/Washington_consensus

15 https://startingfinance.com/approfondimenti/la-terribile-crisi-argentina-del-2001/

16 Il capitale autorizzato rappresenta la quantità massima di capitale che una società è autorizzata a raccogliere attraverso l’emissioni di azioni ai suoi azionisti e costituisce un fattore importante per valutare la salute finanziaria e la stabilità dell’organizzazione. Ad esempio, se una società ha un capitale autorizzato di un milione di $ ma ha ricevuto solo 500.000 $ come capitale versato dai suoi azionisti, ciò significa che può raccoglierne altri 500.000 se necessario

17https://fastercapital.com/it/contenuto/Integrazione-finanziaria–BRICS–creare-una-piu-forte-integrazione-finanziaria.html

18 https://www.bancaditalia.it/footer/glossario/index.html?letter=c&dotcache=refresh

19 https://en.wikipedia.org/wiki/BRICS_Contingent_Reserve_Arrangement

L’amara “vittoria” cilena nel secondo referendum costituzionale

di Marco Consolo

Domenica scorsa, per la seconda volta in pochi mesi, il popolo cileno è stato chiamato alle urne per decidere se approvare o meno una proposta di testo costituzionale, dopo anni di tentativi di trasformare la Magna Carta del Paese ereditata dalla dittatura civile e militare di Pinochet.

Il nuovo testo è stato respinto con il 55,7% dei voti e ciò significa che rimane in vigore la Costituzione di Pinochet, varata nel 1980 e parzialmente emendata dai governi di centro-sinistra post-dittatura. La partecipazione è stata dell’84,5%, con il 5% di schede nulle o bianche. C’è da sottolineare che il nuovo testo era addirittura peggiore dell’attuale, nonostante un apparente maquillage su alcuni punti.


Un passo indietro

Come si è arrivati a questo paradossale risultato ? A questa “vittoria” che lascia la bocca amara a chi si è battuto in tutti questi anni, pagando un alto prezzo di morti, di centinaia di persone con danni oculari irreversibili, di carcere e repressione ?

Come si ricorderà, dopo la “rivolta sociale” iniziata nel 2019 e la formazione di una “Convenzione costituzionale” eletta dal popolo cileno, il primo tentativo di approvare una nuova Costituzione marcatamente “di sinistra” è stato sonoramente bocciato nel 2022 dal 62% degli elettori. Naufragato il primo tentativo, i partiti presenti in Parlamento hanno raggiunto un accordo per iniziare un nuovo processo, questa volta non attraverso una “Convenzione costituzionale”, ma con l’elezione di un organo molto più ristretto, un “Consiglio costituzionale” di 51 persone, con il compito di redigere la nuova proposta oggi sottoposta a referendum.

In quella occasione, con la reintroduzione del voto obbligatorio, il partito più votato è stato il Partito Repubblicano (35,4 %), un’organizzazione neo-fascista guidata dall’ex candidato presidenziale José Antonio Kast, un nostalgico della dittatura di Pinochet. Insieme al 21 % dei voti delle altre formazioni di destra (Uniòn Democratica Independiente, Renovaciòn Nacional, Evopoli, Democratas), ciò ha permesso una schiacciante maggioranza neo-fascista e di centro-destra nel Consiglio Costituzionale. Sull’analisi di quel voto, rimando a quanto scritto in precedenza [1].

Quella maggioranza ha scritto una proposta costituzionale ancor più reazionaria, privatizzatrice, religiosa, mercantilista. Un testo che approfondiva il modello neoliberale adottato dalla dittatura di Augusto Pinochet (e “migliorato” dal centro-sinistra nella post-dittatura) e che rifletteva gli interessi espressi dalla maggioranza del Consiglio Costituzionale. Una sorta di “Costituzione Pinochet 2.0.”, con una particolare enfasi sulla difesa della proprietà privata, l’identità nazionale, la famiglia. Per quanto riguarda i diritti delle donne, la legge che oggi consente l’aborto (limitato a tre motivi) avrebbe potuto essere annullata. Nell’ambito della sanità, costituzionalizzava l’attuale sistema sanitario privato, mentre sulle pensioni riproponeva il sistema pensionistico privato. E sul versante dei diritti del lavoro, limitava il diritto di sciopero con un enorme passo indietro per i lavoratori e le lavoratrici. Negazionista sulla necessità di affrontare il cambiamento climatico e il riscaldamento globale, il testo lo era allo stesso modo nei confronti dei diritti delle popolazioni originarie e la necessità di concedere loro un serio riconoscimento costituzionale.

A questo quadro si aggiunga il fatto che in campagna elettorale hanno regnato apatia, disinformazione e disaffezione. La critica diffusa alla campagna è stata quella di essere mediocre, violenta, disinformativa, elementare, di trattare più l’attualità che le questioni costituzionali.

Sul risultato ha influito non poco la rabbia e la stanchezza di un settore di cittadini, soprattutto nei confronti della politica, dello “strabismo istituzionalista”, dei problemi economici (la difficoltà di arrivare a fine mese), della corruzione, della crescente criminalità e di una ondivaga gestione delle questioni migratorie. Ed ècosì che, al di là dello “zoccolo duro” della base sociale di alcuni partiti, rabbia e stanchezza si sono concretizzati in un voto estremamente volatile, di cui non è chiaro il perimetro, ma che certamente fa la differenza.

La destra ha fatto di tutto per trasformare il referendum sulla proposta di testo costituzionale in un voto contro il governo, cercando di trarre vantaggio dalle difficoltà in cui si trova l’esecutivo. Una strategia aggressiva di scontro che, in questa occasione, non ha pagato.


Qualche doloroso paradosso

Questo voto lascia dietro di sé una lunga lista di paradossi.

Il più grave è che, nonostante una immensa mobilitazione popolare della cosiddetta “rivolta sociale” del 2019, nonostante la repressione ed il tributo di sangue pagato, il Paese ritorna alla casella di partenza, come se non fosse successo quasi nulla.  O meglio, come se tutto questo non fosse servito a nulla, con il risultato di una enorme frustrazione nei settori più coscienti.

Il secondo paradosso è che quest’ultimo processo costituzionale è stato guidato dalla destra neo-fascista e da quella tradizionale, ovvero da chi non aveva nessuna intenzione di cambiare la Costituzione di Pinochet e di dare maggiori diritti al popolo cileno.

Il terzo è che tra i “vincitori” del processo elettorale di domenica 17 dicembre ci sono le destre e l’oligarchia cilena, in uno schema “win-win” a loro esclusivo vantaggio. Infatti, se fosse passato il nuovo testo avrebbero vinto la lotteria, ma anche con questa “sconfitta” rimane in vigore quella di Pinochet. Un risultato non da poco, che le destre, nonostante la sconfitta, cercano di rivendere, con notevole faccia tosta, come un voto di appoggio all’attuale Costituzione della dittatura.

Il quarto è che con questo voto si chiude la porta del processo costituente per un lungo periodo. Sia il Presidente Boric, che le forze di governo (compreso il Partito Comunista), hanno dichiarato senza mezzi termini che non ci sarà un terzo processo costituzionale durante i due anni che mancano alla fine del mandato di questo governo. La loro lettura è che la popolazione è stanca dei temi costituzionali, lo ha vissuto come “tempo perso” e i problemi quotidiani che deve affrontare segnano un’urgenza che ammette poco altro.

E più che a vincere, il voto è servito a difendere la debole democrazia nel Paese e i diritti ottenuti dalla fine della dittatura.


I contraccolpi immediati

La sconfitta della proposta costituzionale sta già provocando malumori e tensioni interne all’opposizione, con l’intensificarsi della disputa egemonica tra i partiti della destra tradizionale di Chile Vamos (UDI, RN, Evópoli), il Partito Repubblicano ed altri gruppi di estrema destra.

Ciò potrebbe avere un impatto anche nelle alleanze per le prossime elezioni amministrative dell’ottobre 2024 e in quelle presidenziali del 2025.

L’intransigenza dei repubblicani di Kast e la loro sconfitta di fatto ne indeboliscono il capitale politico, favorendo altre candidature interne alle destre. Tuttavia, nonostante la sconfitta, il risultato del 44,2% rappresenta un importante bagaglio di voti che permette all’estrema destra neo-fascista di rimanere in gioco.

Per quanto riguarda i due grandi blocchi delle forze di governo, ovvero Apruebo Dignidad (Partido Comunista, Frente Amplio, Acción Humanista, Federación Regionalista Verde) ed il Socialismo Democrático (Partido Socialista, Partido por la Democracia, Partido Radical, Partido Liberal) si tratta di una boccata d’ossigeno in una fase complicata e tutta in salita.

Prima della scadenza elettorale, il Presidente Boric aveva invitato a diffondere le “buone notizie”, dato che “abbiamo buone ragioni per essere ottimisti… ma sembra che le buone notizie non abbiano rating”. “In Cile non tutto è negativo”, e lo ha esemplificato con la distruzione di 25.000 armi sequestrate, il recupero di spazi pubblici alla criminalità organizzata, i progressi di un impianto di desalinizzazione a Coquimbo, il successo dei Giochi panamericani e Para-panamericani da poco svoltisi in Cile, oltre all’aumento del salario minimo a 500.000 pesos (circa 520 euro), l’approvazione del Bilancio 2024, l’azzeramento dei ticket sanitari.

In queste ore, i dirigenti dei partiti al governo affermano di voler ripartire dall’agenda sociale, di insistere in un programma di trasformazioni, di difesa dei diritti sociali, di cambiamenti nell’economia, di approfondire la democrazia e fermare l’avanzata dell’estrema destra. Ma le destre, che hanno la maggioranza nel parlamento cileno, non hanno nessuna intenzione di fare sconti ed hanno già annunciato una dura opposizione su tutti i fronti.

Nel frattempo, in attesa di tempi migliori, la battaglia costituzionale è sospesa.

[1]  https://marcoconsolo.altervista.org/cile-cronaca-di-una-sconfitta-annunciata/

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/una-vittoria-amara-in-cile/

L’egemonia statunitense e lo spettro del mondo multipolare

di Marco Consolo

Il mondo sta cambiando ad una velocità mai conosciuta prima verso una nuova e accelerata riorganizzazione multipolare.

Non c’è dubbio che la fase aperta con l’implosione della URSS e la caduta del muro di Berlino stia rapidamente volgendo al termine.  In questa accelerata transizione si sta chiudendo la fase in cui gli Stati Uniti erano l’unica superpotenza mondiale, con una indiscutibile egemonia planetaria. Ma come ricordava il nostro Antonio Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati[1] e in questa transizione in chiaroscuro nascono i mostri. La crisi di governance planetaria è squadernata davanti ai nostri occhi.

In un mondo in aperta transizione, una delle differenze con il passato è la presenza di una crisi globale multifattoriale, soprattutto economica, ambientale e alimentare. Si tratta di una crisi di lunga data, notevolmente aggravata prima con la pandemia e poi con la guerra in Ucraina.

Nessun Paese ne è indenne e il continente latino-americano è tra i più esposti, per vari motivi. La Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite (CEPAL) prevede un tasso di crescita di appena l’1% nel 2023. In un quadro di leggi fiscali fortemente regressive e in assenza di riforme profonde del sistema fiscale, le risorse disponibili (e il margine di manovra) per politiche pubbliche in grado di ridurre il divario sociale sono quindi fortemente ridotte.

Il baricentro della geo-politica si sta inesorabilmente spostando verso il continente asiatico.


Fascismo e guerra

Come nel caso della crisi del 1929, il capitale cerca di superare le proprie crisi attraverso due strumenti complementari: il fascismo (che oggi riprende fiato seppur con caratteristiche diverse dal passato) e la guerra. Entrambi appaiono come i mostri del giorno d’oggi (e dell’immediato futuro).

La guerra è presente in quasi tutti i continenti e, dopo quella nella ex-Jugoslavia, nel cuore dell’Europa la guerra in Ucraina è un altro importante tassello di questo sconvolgimento globale. La narrazione occidentale non è più egemone sulle cause e sulle responsabilità della guerra che non sono condivise a livello mondiale. Viceversa, la visione che si fa avanti è quella di una guerra degli Stati Uniti e della NATO alla Russia (ed all’Europa?), come ammettono gli stessi dirigenti politici che, da prima dello scoppio del conflitto, dichiarano di volere la caduta del governo Putin. Ed il fallimento della controffensiva ucraina contro la Russia rappresenta una sconfitta della strategia della NATO, che in questa guerra è coinvolta sin da prima che iniziasse.

Mentre scrivo questo pezzo, sulle sponde del Mediterraneo è in atto l’ennesima carneficina contro il popolo palestinese, un tentativo di “pulizia etnica” per mano del governo di Israele. Una situazione che non può essere definita di guerra, vista anche la sproporzione di forze in campo. Ed anche in questo caso, la narrazione occidentale a difesa di Israele perde forza ed egemonia di fronte al genocidio in atto a Gaza.

Negli Stati Uniti (anche se una guerra in appoggio a Israele ha maggiore consenso di quella ucraina), affrontare la lunga campagna elettorale per le presidenziali, con due conflitti aperti o sulle spalle, non è certamente la migliore opzione, né per Biden, né per il Partito Democratico. La paziente tessitura messa in piedi da Washington per ricucire i rapporti tra Israele, Arabia Saudita ed altri Paesi arabi (con i cosiddetti “Accordi di Abramo”), si è dissolta come neve al sole. Nei Paesi musulmani è riemerso il mai sopito sentimento anti-USA, identificati come i protettori di Israele.

Nel frattempo, nel quadrante dell’Asia-Pacifico e dei suoi importanti corridoi marittimi, cresce la tensione e gli Stati Uniti sperimentano ballon d’essai per preparare il conflitto con il pretesto di Taiwan.

Questa tendenza di fondo alla guerra (e quindi all’instabilità), di cui la NATO è la principale locomotiva, si intreccia fortemente con la crisi degli equilibri planetari usciti dalla IIa guerra mondiale e con il tentativo dell’Occidente globale di impedirne a tuti i costi la modifica.

Dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, la globalizzazione neo-liberista ha esteso su scala planetaria i rapporti socio-economici capitalistici ed accentuato il predominio dei Paesi occidentali e in particolare degli Stati Uniti. Mentre con la presidenza Trump avevamo assistito a un certo ripiegamento “deglobalizzante” verso l’interno, viceversa l’amministrazione Biden ha riproposto il ruolo centrale ed egemone degli Stati Uniti sullo scacchiere globale. Allo stesso tempo, ha approfondito il sistema delle cosiddette “sanzioni” (più correttamente “misure coercitive unilaterali” fuori dal sistema ONU), tra cui quelle contro la Russia nel quadro della guerra in Ucraina.

Le attuali élite al potere negli Stati Uniti e nei suoi satelliti sono i principali beneficiari dell’instabilità globale che usano per ricavarne profitto, con una chiara strategia di destabilizzazione. Sono i colpi di coda di un impero in fase di declino commerciale, economico e politico che farà l’impossibile per non perdere i propri privilegi come superpotenza globale. Gli Stati Uniti non sono disposti ad accettarlo e cercano viceversa di preservare ed estendere il loro dominio, perché ritengono che questo caos li aiuterà a contenere e destabilizzare i loro rivali geopolitici, ovvero i nuovi poli di crescita globale, integrati da Paesi sovrani indipendenti, non più disposti a inginocchiarsi nel ruolo di maggiordomi.

Allo stesso tempo,  l’irresistibile ascesa della Cina (prima economica, ora sempre più politica e in parte anche militare), il paradossale rafforzamento della Russia e il suo nuovo protagonismo, l’emergere di vari organismi internazionali basati su questi due Paesi, come la Shangai Cooperation Organization (SCO) [2] e soprattutto i BRICS+ (con  l’ingresso di altri importanti Paesi) stanno contribuendo a mettere in discussione l’egemonia degli USA, e a creare un forte contrappeso assente da decenni, con una modifica profonda dei rapporti di forza mondiali.


Uno spettro si aggira per il mondo: i Brics+

Da parte sua, l’Occidente ha sbandierato una serie di successi, come l’allargamento della Nato in Europa (ed in America Latina con la Colombia come “alleato strategico”) ed il presunto isolamento della Russia nello scacchiere mondiale. In realtà, il conflitto in Ucraina, ha rafforzato il multipolarismo e la crescita di diversi attori internazionali non in linea con la narrativa occidentale.

In questo nuovo quadro in transizione, un fantasma si aggira per il mondo: l’alleanza dei Paesi Brics. Un nuovo blocco economico e politico, alternativo al “giardino europeo” (Josep Borrell dixit) ed occidentale, in cerca di un nuovo ordine mondiale e un maggior equilibrio economico e geo-politico. Sul versante non occidentale è la realtà più solida. L’alleanza BRIC, formata nel 2009 (inizialmente da Brasile, Russia, India, Cina), si è ingrandita con il Sudafrica nel 2010 prendendo il nome di BRICS. Nel loro ultimo vertice a Johannesburg (agosto 2023), i Brics hanno deciso di espandersi ulteriormente con l’entrata di Arabia Saudita, Iran, Etiopia, Egitto, Argentina [3] ed Emirati Arabi Uniti, a partire dal gennaio 2024 (dando vita ai Brics+). Un “evento storico” secondo il Presidente cinese Xi Jinping, che viene al culmine di un processo maturato lentamente, ma che paradossalmente la guerra in Ucraina ha accelerato ed ampliato, con la presenza di più di 60 Paesi invitati.

I BRICS+ sono quindi un’alleanza delle maggiori potenze economiche non occidentali e dei principali Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente, che ridisegna i rapporti di forza planetari. Come ha ricordato il presidente brasiliano Lula da Silva, “rappresenteranno il 36% del Pil mondiale e il 47% della popolazione dell’intero pianeta”. Ed “a questa prima fase se ne aggiungerà un’altra di ulteriore ampliamento” verso un nuovo ordine mondiale che appare sempre più affrancato da Stati Uniti e NATO. Oggi, alla porta dei Brics+ bussano più di 20 Paesi interessati a far parte di una organizzazione capitanata dalla Cina (avversario strategico degli Stati Uniti e della Nato) e di cui nel 2024 la Russia avrà la presidenza.

Come è del tutto evidente, i Brics+ sono Paesi molto diversi tra loro, ma uniti dall’obiettivo comune della cooperazione economica e della lotta all’unilateralismo. Lungi dall’essere una debolezza (come vociferano i suoi detrattori), la eterogeneità politica dei suoi governi ne rappresenta la forza intrinseca, non basata su una sintonia ideologica. Una parte importante dei Paesi del Sud globale non è più disposta a farsi impoverire dall’Occidente e dalle condizioni capestro delle sue istituzioni (a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dal Club di Parigi). Questi Paesi ritengono che il loro sviluppo economico e sociale non possa dipendere principalmente (o quasi esclusivamente) dal rapporto con l’Occidente ed propongono una politica concreta di cooperazione mondiale alternativa alla globalizzazione a trazione statunitense ed occidentale.

Allo stesso tempo, i Brics si appellano all’ONU per riforme politiche e un maggiore dialogo, mentre sostengono una redistribuzione del potere nella governance globale, monetaria e politica, affinché il Sud globale sia equamente rappresentato.

Su quale debba essere il ruolo politico dei Brics (e dei Brics+), il dibattito interno è comunque aperto. Al momento prevale la visione di chi pensa più a un blocco non allineato per favorire gli interessi economici dei “Paesi in via di sviluppo”, più che a una alleanza politica di sfida aperta all’Occidente. La stessa Cina continua ad avere un atteggiamento prudente e pragmatico, mentre lavora incessantemente per il suo rafforzamento. Nonostante ciò, i Brics+ hanno buone possibilità di cambiare la direzione della Storia, e già oggi sono parte attiva di una nuova architettura politica, economica e finanziaria ancora in nuce, ma che sta provando a chiudere la fase del mondo unipolare a trazione Usa. L’obiettivo è avanzare verso un mondo multipolare, per sua natura obbligato al dialogo.

Data la complessiva potenza economica, industriale e tecnologica di questa alleanza e le immense risorse naturali a disposizione, l’emergere dei BRICS+ segna l’accelerazione del declino dell’unipolarismo statunitense, favorisce la transizione ad un ordine mondiale multipolare ed accelera il processo di de-dollarizzazione.


Sganciarsi dal dollaro

Lo strapotere occidentale e più di recente la guerra hanno obbligato questi Paesi a tessere una rete di rapporti diversificati, rafforzando la messa a punto di modalità di commercio alternative a quelle esistenti con la divisa statunitense, incrementandone la possibilità di perdere la sua posizione di valuta di scambio e di riserva internazionale.

Infatti, è bene ricordare che dagli accordi di Bretton Woods del 1944 fino ad oggi, il dollaro è stata la moneta di gran lunga più utilizzata nel commercio internazionale. Il suo ruolo dominante è stato rafforzato dall’avere anche avuto la funzione di valuta di riserva internazionale.  Un dominio accresciuto dopo il 1971, quando l’amministrazione statunitense di Richard Nixon ha abolito la convertibilità (e rimborsabilità) del dollaro in oro (il cosiddetto Gold standard) secondo un rapporto di cambio fisso. In altri termini, dal 1971 ciò ha significato una vantaggiosa posizione di rendita in quanto gli Stati Uniti erano liberi di stampare la moneta usata a livello mondiale senza garanzia, cioè senza l’obbligo di possedere una quantità d’oro pari ai biglietti verdi in circolazione e senza doverne rispondere. Un privilegio esclusivo che ha permesso agli Stati Uniti di comprare (e consumare) merci prodotte altrove senza rispondere dei propri debiti, ma semplicemente stampando dollari, ed inondandone il mondo, in base alle loro necessità.

Sul versante monetario, seppure fino ad oggi i Brics non hanno una loro valuta autonoma, cresce nel blocco la volontà di un progressivo sganciamento dal dollaro, con l’utilizzo di valute locali, di unità di conto monetarie, di misure di compensazione.  Come ha dichiarato a Johannesburg il Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, i governi dei Brics “hanno incaricato i loro ministri delle Finanze e governatori delle Banche centrali, di considerare la questione di valute locali, strumenti di pagamento e piattaforme e di riferire agli stessi leader dei Brics nel prossimo vertice”.

Nel frattempo, i governi dei Paesi Brics non sono stati con le mani in mano e ormai da qualche anno commerciano utilizzando valute diverse dal dollaro.

Non c’è da stupirsi se, sin dall’inizio di questo percorso, i media occidentali hanno fatto a gara per cercare di minimizzarne l’impatto sul monopolio del biglietto verde. Ma, al contrario di quanto affermano, il lancio di una moneta comune da parte dei Brics+ potrebbe significare la fine dell’egemonia del dollaro ed un terremoto mondiale, con contraccolpi innanzitutto negli Stati Uniti.

Come si ricorderà, è stato proprio l’ennesimo rifiuto degli Stati Uniti di cedere una parte del potere nella gestione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) a far traboccare il vaso e nel 2014 i Brics decisero di creare una propria banca, la Nuova Banca di Sviluppo, autonoma ed alternativa al FMI. Alla sua guida c’è oggi Dilma Roussef, ex-Presidente del Brasile. In altre parole, da quella data i Brics hanno lavorato per costruire una alternativa concreta alle istituzioni economiche internazionali, gestite da Washington e dai suoi alleati occidentali, anche in campo finanziario, di esclusivo predominio anglo-statunitense dalla fine del secondo conflitto mondiale.


Da Marco Polo alla Nuova via della Seta

Nel 2023 compie dieci anni l’iniziativa della Repubblica Popolare Cinese nota come One Belt, One Road Initiative, o anche come “Nuova Via della Seta”, lanciata da Xi Jinping nel 2013.

La Nuova Via della Seta è volta a migliorare i corridoi commerciali internazionali esistenti e a crearne di nuovi. Comprende diverse aree come, tra le altre, la Cintura economica della Via della Seta e la Via della Seta marittima. Il suo obiettivo iniziale era quello di costruire infrastrutture e collegare i Paesi eurasiatici, ma tra i più recenti obiettivi dichiarati c’è anche quello di garantire la sicurezza e la stabilità nel continente.

Come si ricorderà, il percorso della Belt and Road è iniziato con il primo Forum di cooperazione internazionale tenutosi a Pechino nel maggio 2017. Il secondo Forum si è svolto nella capitale cinese due anni dopo (aprile 2019), con un crescendo di presenze di capi di Stato e di governo. Dopo la pausa obbligata della pandemia del Covid19, il terzo Forum della Belt and Road si è di nuovo riunito a Pechino (17-18 ottobre 2023). In questa ultima occasione hanno partecipato delegazioni di oltre 140 Paesi e di più di 30 organizzazioni internazionali, e il numero di partecipanti ha superato le 4.000 presenze [4].


Risultati dell’iniziativa cinese

Il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha recentemente pubblicato un “Libro bianco sull’attuazione dell’Iniziativa della Nuova Via della Seta” [5].

Secondo il Libro bianco, negli ultimi 10 anni l’iniziativa ha attirato quasi 1.000 miliardi di dollari di investimenti e ha dato vita a più di 3.000 progetti di cooperazione congiunta. Secondo Pechino, ha creato 420.000 posti di lavoro di aziende cinesi nei Paesi lungo la Belt and Road. Nell’iniziativa sono coinvolti in totale più di 150 Paesi e più di 30 organizzazioni internazionali, con cui la Cina ha firmato circa 200 accordi di cooperazione, oltre a 28 “Trattati di Libero Commercio” tra la Cina ed altrettanti Paesi e regioni.

Il Libro bianco sostiene che l’iniziativa Belt and Road rende i Paesi partecipanti più attraenti per gli investimenti delle grandi imprese globali. Ad esempio, i flussi di investimenti diretti transfrontalieri nel Sud-est asiatico, in Asia centrale e in altre regioni, dove la maggior parte degli Stati ha aderito all’iniziativa cinese, sono in costante aumento. Nel 2022 gli investimenti diretti esteri (IDE) nel Sud-est asiatico hanno rappresentato il 17,2% del totale globale, con un aumento del 9% rispetto al 2013.

Sempre secondo Pechino, il commercio tra i Paesi partecipanti sta crescendo: dal 2013 al 2022, il valore totale delle importazioni e delle esportazioni tra la Cina e gli altri Paesi aderenti al progetto ha raggiunto i 19,1 trilioni di dollari, con un tasso di crescita medio annuo del 6,4% [6].

E secondo il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, il “Fondo per la Via della Seta”, che si occupa dell’attuazione dell’iniziativa, ha firmato accordi su 75 progetti.

Uno dei risultati concreti raggiunti negli anni è stato il lancio del treno container Cina-Europa, con un percorso che collega più di 20 Paesi [7].


Quali prospettive ?

Ci troviamo quindi di fronte a una situazione internazionale che obbliga a ripensare le strategie di partenariato globali e regionali e ad attribuire maggiore rilevanza ai legami Sud-Sud nel commercio, negli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e nella cooperazione.

È chiara l’importanza che ha la Cina per l’economia globale. Il gigante asiatico è diventato il primo esportatore e il secondo importatore al mondo. Secondo la Banca Mondiale [8], nonostante le sue politiche rigorose, l’economia cinese è piuttosto aperta al commercio estero, un settore che negli ultimi anni ha rappresentato circa il 35% del suo Prodotto Interno Lordo, e i suoi principali partner commerciali sono attualmente gli Stati Uniti, Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Australia e Germania. I suoi principali prodotti di esportazione includono apparecchiature elettriche ed elettroniche, macchinari vari, reattori nucleari, produzione di pannelli solari, edifici prefabbricati, plastica, tessuti confezionati, strumenti tecnici e medici e veicoli.

Le importazioni comprendono apparecchiature elettriche ed elettroniche, carburanti, minerali, oli, prodotti di distillazione.

La crescente presenza della Cina nell’economia mondiale e la sua ascesa come potenza globale continuano a generare diverse preoccupazioni e più di una tensione nelle relazioni commerciali con gli Stati Uniti e le altre economie occidentali.

In effetti, il rafforzamento della presenza cinese rappresenta sempre più una sfida allo status quo internazionale ed alle potenze egemoniche esistenti in quanto al controllo di importanti aree del mondo. Il reclamo territoriale sulle isole nel Mar Cinese Meridionale e l’uso di vecchie e nuove rotte commerciali attraverso la “Nuova via della Seta” sono sfide “non dichiarate” a questo ordine mondiale e parte delle attuali tensioni con gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda gli aspetti puramente economici e commerciali, l’evoluzione dell’apparato produttivo cinese negli ultimi anni ha permesso alle sue aziende di inserirsi nelle diverse filiere produttive globali. Così, sono passate da una produzione iniziale a scarso valore aggiunto a competere con successo nei settori più sofisticati e ad alta intensità tecnologica. È in questo processo che la Cina è diventata, per gli Stati Uniti e l’Unione Europea, un’economia rivale, dando così inizio ai diversi capitoli di una guerra commerciale [9].  Come afferma Broggi (2021) [10], i dati sono conclusivi: “nell’ultimo decennio, la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come principale fornitore nella maggior parte dei Paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’Europa e del Sud America”. Appare chiaro che, più prima che poi, un nuovo ordine internazionale dovrà adattarsi a questa nuova realtà.

Anche se oggi siamo lontani dal periodo di crescita a due cifre, la posizione della Cina come potenza economica globale ha continuato a consolidarsi. Questo nonostante la battuta d’arresto rappresentata dalla pandemia e dalle politiche di forti restrizioni e di “Covid zero” che il governo di Xi Jinping ha applicato, chiudendo intere province che sono importanti centri economici, come Shanghai, Shenzhen e Chengdu.

In questo quadro complesso dobbiamo considerare anche gli impatti economici della guerra in Ucraina che ha rafforzato i rapporti con la Russia di Putin.

Il risultato del 2022 vede l’economia cinese crescere del 3%, uno dei valori più bassi degli ultimi decenni, mentre per il 2023 si prevede una crescita tra il 5% e il 6% [11]. Queste proiezioni si basano sulla ripresa dei consumi interni, con la crescita del credito, sugli investimenti infrastrutturali e su vari stimoli fiscali. Tuttavia, sarà necessario monitorare l’evoluzione del Covid e le risposte del governo cinese a un’eventuale sua ripresa.

Sul fronte esterno, oltre a uno scenario complicato in cui i suoi principali partner commerciali continueranno a rallentare le loro economie con politiche di contrazione della domanda, la Cina continuerà ad affrontare una guerra commerciale guidata dagli Stati Uniti, caratterizzata da forti restrizioni all’accesso alla tecnologia e da vari meccanismi di protezione. Ma nonostante questo scenario, è chiaro che la strategia di espansione della Cina continuerà a godere di un importante sostegno finanziario statale che garantirà una notevole autonomia.

In questo contesto generale, piaccia o meno, l’economia mondiale continuerà a dipendere in larga misura dal motore economico cinese.


E l’Europa ?

Per l’Europa il futuro è incerto, debole e pieno di ombre, nella misura in cui è in balia dei poteri forti e dei governi a loro alleati.

A partire dalla guerra in Ucraina, le “sanzioni” economiche, la rottura delle relazioni commerciali tra l’Unione Europea e la Russia, insieme all’attentato ad hoc al gasdotto North Stream, hanno pesantemente penalizzato l’economia europea e in particolare quella tedesca, che aveva, come uno degli elementi della sua competitività, l’approvvigionamento di materie prime a basso costo. Ma anche nel “Belpaese” le imprese italiane hanno subito forti perdite, in particolare per quanto riguarda l’export tricolore di prodotti chimici, alimentari, macchinari, abbigliamento e mobili, con pesanti crolli di fatturato [12].

Invece di seguire il cammino pragmatico dell’integrazione euro-asiatica e rafforzare i vincoli economici mutuamente vantaggiosi con la Russia e con la Cina, la UE si è imbarcata in una missione suicida per conto dei suoi curatori (fallimentari ?) di Washington nel tentativo, condannato al fracasso, di indebolire la Russia e contenere la Cina. Oggi l’Unione Europea si trova economicamente indebolita, senza un forte baricentro di governo, più divisa che nel passato e maggiormente subalterna alla volontà degli Usa.

Dopo essere stati condannati all’irrilevanza politica sullo scacchiere mondiale, i Paesi europei sono chiamati a pagare il conto delle ambizioni imperiali degli Stati Uniti e a fornire assistenza militare, visto che la strategia militare di Washington non dispone di mezzi sufficienti per farsene carico autonomamente [13].  E le “politiche di difesa e sicurezza” dell’Unione Europea sono sempre più una fotocopia di quelle della NATO (di cui ormai è un’appendice) che fa pressioni per destinare almeno il 2% del PIL dei diversi Paesi alla spesa militare.

Lungi dall’essere un attore geo-politico indipendente o una “potenza geo-politica” (nonostante i deliri di onnipotenza della sig.ra Von der Leyen e di Borrell), la attuale UE ha significato la riduzione del potere degli Stati membri con l’erosione delle proprie sovranità nazionali, in modo da non rappresentare una sfida per gli interessi ed il potere degli Stati Uniti.

I segnali di una profonda crisi del progetto di integrazione europea si sono moltiplicati e la Brexit è stata solo il segnale più evidente. Il potenziale di crescita economica sembra esaurito (almeno in questa fase) e la maggioranza dei membri del blocco hanno un cronico deficit di bilancio ed un debito eccessivo. Il livello di vita (ed il potere d’acquisto) delle popolazioni continua ad abbassarsi, mentre le promesse di prosperità e benessere del “giardino europeo” appartengono al passato. Cresce, quindi, la disillusione e lo scontento tra la popolazione.

E nella profonda crisi di identità europea, nell’insicurezza e la paura del presente, nell’incertezza del futuro, cresce anche il neo-fascismo del XXI° secolo, con caratteristiche diverse dal passato. Un fenomeno che trascende le frontiere europee e con cui l’orizzonte dell’Utopia dovrà fare i conti.


Note

[1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere (Q 3, §34, p. 311)

[2] http://eng.sectsco.org/

[3] Nel caso dell’Argentina, l’entrata nei BRICS era stata decisa dal governo di Alberto Fernandez. Ma la vittoria nel novembre 2023 di Javier Milei, fino ad oggi fortemente contrario, potrebbe segnare una battuta d’arresto. D’altra parte, Brasile, Cina e India rappresentano quasi il 30% dell’export totale argentino.

[4] https://sputniknews.lat/20231017/las-claves-del-tercer-foro-de-cooperacion-internacional-de-la-franja-y-la-ruta-en-pekin-1144799870.html

[5] https://english.www.gov.cn/archive/whitepaper/202310/10/content_WS6524b55fc6d0868f4e8e014c.html

[6] Ibidem

[7] https://it.euronews.com/2022/07/31/treno-merci-cina-europa-primo-viaggio-hefei-budapest

[8] https://www.worldbank.org/en/country/china/publication/china-economic-update-december-2022

[9] Nel 2018, l’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi su una serie di prodotti cinesi.

[10] Brasó Broggi, Carles (2021): Algunas causas de la guerra comercial entre China y Los Estados Unidos. Universitá Oberta de Catalunya. Barcelona.

[11] https://www.worldbank.org/en/news/press-release/2023/06/14/priority-reforms-key-for-sustaining-growth-and-achieving-china-s-long-term-goals-world-bank-report

[12] https://www.infomercatiesteri.it/scambi_commerciali.php?id_paesi=88#

[13] https://www.rand.org/pubs/commentary/2023/11/inflection-point-how-to-reverse-the-erosion-of-us-and.html

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/legemonia-statunitense-e-lo-spettro-del-mondo-multipolare/

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