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Libertà accademica I ragazzi lo sanno: la ricerca va decolonizzata (cioè de-sionizzata)

di IAIN C HAMBERS

Forse, di fronte a uno Stato che persegue la pulizia etnica con intenzioni genocide, che rifiuta il diritto internazionale e si considera al di sopra delle decisioni delle Nazioni unite comportandosi come uno «Stato canaglia», è giunto il momento di parlare di come affrontare direttamente Israele. Se appartiene all’Occidente moderno e democratico, come sostiene, ha bisogno di una seria riforma o altrimenti di essere messo in quarantena.

La questione non deve essere semplicemente dominata dalle relazioni internazionali, richiede una risposta etica e democratica. Siamo chiari. Il sionismo, in quanto impresa esplicitamente coloniale – e i suoi fondatori non hanno avuto remore a riconoscerlo – non può essere democratico nelle sue intenzioni. La protezione del suo dominio etnocratico richiede la purezza razziale e l’apartheid, ora incarnati nel suo apparato giuridico e nella sua costituzione.

L’opposizione a questa critica di Israele, invariabilmente etichettata come antisemitismo, è essa stessa un attacco alla democrazia e alla ricerca della giustizia storica nell’analisi sociale e politica.

In questo momento, l’ideologia sionista e la sua occupazione militare della Palestina stanno perseguendo, come in tutti i colonialismi, l’eliminazione dei nativi, proprio come in precedenza nell’imperium anglofono del Nord America, dell’Australia e del Sudafrica.

La formazione violenta delle identità occidentali produce storie taciute e geografie dimenticate. Tuttavia, come ci insegnano i palestinesi, queste storie resistono e persistono.

All’Orientale di Napoli il 23 aprile scorso si è tenuto un importante seminario su «Israele, l’industria delle armi e il ruolo dell’università». Tra i contributi, c’era la presentazione dell’accademica israeliana Nurit Peled el-Hanan sul genocidio simbolico dei palestinesi nei libri scolastici israeliani. In questi testi, controllati e approvati dal ministero dell’Istruzione israeliano, non ci sono singoli palestinesi, ma solo una categoria anonima e disumanizzata chiamata arabi.

Tra i palestinesi non ci sono scienziati, artisti, accademici o politici, ma solo un gruppo etnicamente distinto che minaccia la vita di Israele con il suo sottosviluppo e il suo terrorismo: il nemico del moderno Israele e del progetto sionista di civiltà occidentale. Questa semiotica pedagogica, come ha illustrato in dettaglio Nurit Peled el-Hanan, è centrale nei meccanismi di razzializzazione di uno Stato di apartheid, nella sua educazione fascista (parole sue) e nel suo dominio militare sui colonizzati. Dire la verità al potere in questo modo ha un prezzo.

Nurit Peled el-Hanan è stata recentemente sospesa dal suo incarico universitario. Oggi le università israeliane si dichiarano esplicitamente sioniste. Insistono sul fatto che il loro ruolo è quello di difendere il sionismo e la narrativa dello Stato etnonazionalista. Alla faccia della scientificità e della neutralità accademica.

Ora, questa narrazione non è limitata a un piccolo ma potentissimo Stato del Mediterraneo orientale. È stata adottata per decenni in tutto l’Occidente. Anzi, è stata storicamente coltivata fin dalle prime mappature del mondo all’inizio del XIX secolo, soprattutto da parte della Londra imperiale.

Quello che l’intellettuale palestinese Edward Said, formatosi a Princeton e Harvard, ha definito in tempi più recenti «orientalismo», si è sedimentato nel senso comune dei pronunciamenti politici e culturali in Europa e Nord America: dalla Casa Bianca agli studi televisivi e ai giornali. Contestare questa configurazione di conoscenza e la sua gestione del globo significa inevitabilmente impegnarsi in una discussione con la nostra società e con la creazione di noi stessi.

Come ha detto acutamente James Baldwin: «Proprio nel momento in cui inizi a sviluppare una coscienza, devi trovarti in guerra con la tua società».
Mi piace pensare che questo sia un riassunto preciso di quello che è il lavoro critico e analitico. È anche il momento in cui si devono fare i collegamenti impensabili, ormai che la cortina di fumo liberale evapora e assistiamo all’esercizio brutale del potere nudo, tra il campo di sterminio di Gaza e l’esecuzione giuridica dei migranti nel Mediterraneo.

La conclusione è che le istituzioni occidentali, gli enti governativi, le agenzie di ricerca e le università, insieme alla più ovvia partecipazione dei produttori di armi, delle aziende tecnologiche e dei servizi finanziari, sono parte integrante di un apparato coloniale. Se la trasformazione del conflitto in capitale è una cosa, sostenuta in modo ipocrita dalla ricerca del benessere economico, la sua analisi critica è un’altra. Gli studenti qui in Italia e, soprattutto, nei campus americani, stanno giustamente insegnando ai loro insegnanti e amministratori quest’ultima prospettiva. Per evocare Hannah Arendt, stanno tirando fuori dai denti della storia ufficiale una narrazione più onesta e democratica della condizione umana.

FONTE: Il Manifesto del 27.04.2024

Nuova Patto di stabilità EU: “Serve una vera Liberazione, contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari”

di MARCO BERSANI

«L’ Europa è preoccupata? Se vinciamo noi è finita la pacchia!». Così urlava Giorgia Meloni all’ultimo comizio elettorale del settembre 2022. Siamo nell’aprile 2024, Meloni ha vinto e l’Unione Europea ha approvato il “nuovo” patto di stabilità dopo la sospensione triennale post pandemia.
Guardando le misure introdotte, si può dire che Meloni avesse ragione dal punto di vista letterale, ma avendo invertito soggetti attivi e soggetti passivi dell’affermazione.

Perché la pacchia -peraltro mai pervenuta dalle parti delle fasce deboli e medie della popolazione- è davvero finita e ritorna in grande stile la gabbia del debito e delle politiche di austerità.

Cosa prevede infatti il nuovo patto di stabilità? Intanto ripropone i numeri magici (60% rapporto debito/Pil e 3% rapporto deficit/Pil) i cui stessi ideatori dichiararono a più riprese di averli letteralmente inventati senza alcuna base scientifica. Su come raggiungerli e sulle procedure d’infrazione nel caso di mancato risultato, i mass media e le elite politiche si sbracciano per dire che c’è un allentamento rispetto alle misure previste in passato. Ma il focus è ancora una volta sbagliato.

Vediamo i dettagli. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil, i Paesi con un debito tra il 60% e il 90% del Pil dovranno ridurlo dello 0,5% ogni anno, mentre i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil (è il caso dell’Italia) dovranno ridurlo dell’1% annuo. Se è vero che il patto di stabilità precedente prevedeva un rientro del 5% all’anno, è altrettanto vero che prima tutti i Paesi erano consapevoli della totale impossibilità di un rientro così drastico, mentre ora il risultato è esigibile e quindi con conseguenze reali in termini di impatto economico e sociale. Per quanto riguarda il deficit, le nuove misure sono drasticamente peggiorative, perché, pur mantenendo il 3% come tetto non soggetto a procedura d’infrazione, spinge i Paesi ad arrivare all’1,5%, in modo da avere una più cogente stabilità finanziaria che consenta di affrontare eventi straordinari (vedi pandemia) senza mai superare il mitico 3%.

E come si raggiunge questo risultato? Con un miglioramento del saldo primario strutturale (entrate maggiori delle uscite) del 0,4% annuo del Pil nel caso di un percorso di aggiustamento di quattro anni o del 0,25% annuo del Pil nel caso il percorso sia di sette anni. Come riporta uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces) basato sui calcoli del centro studi Bruegel (https://www.etuc.org/en/pressrelease/100bn-cuts-next-year-under-council-aust erity-plan), si tratta per l’Italia di tagli al bilancio di 25,4 mld/anno (percorso quadriennale) o di 13,5 mld/anno (percorso settennale). E se il buongiorno si vede dal mattino, segniamoci la data del 19 giugno (post-elezioni) perché sarà allora che si aprirà la prima procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per il deficit eccessivo registrato nel 2023.

Non di soli numeri si parla nel “nuovo” patto di stabilità, bensì anche di democrazia. Già perché l’altra novità è che per i Paesi con debito alto sarà direttamente Bruxelles “a indicare la traiettoria di riferimento della spesa primaria netta”, ovvero a decidere quanti soldi andranno alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica, mentre un occhio di riguardo nei conteggi sarà riservato per tutti gli investimenti che riguardano il bilancio della Difesa e le spese militari.

Torna la gabbia, dunque, e la ridicola astensione al voto da parte della maggioranza di governo di destra, così come quella del Pd, hanno il sapore della foglia di fico pre-elettorale.

Oggi più che mai serve una vera Liberazione: contro il fascismo politico, ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari.

FONTE: Il Manifesto del 27 Aprile 2024

Yanis Varoufakis: Il discorso che mi ha fatto bandire dalla Germania

Olaf Kosinsky, CC BY-SA 3.0 DE , via Wikimedia Commons

Oggi, a Yanis Varoufakis è stato vietato non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a videoconferenze sulla politica ospitate in Germania. Ecco l’appello per l’umanità e la giustizia in Palestina che lo ha portato al bando.

di Yanis Varoufakis

Oggi, il ministero degli Interni tedesco ha emesso contro di me un “betätigungsverbot”, un divieto di qualsiasi attività politica, non solo di visitare la Germania, ma anche di partecipare a eventi Zoom ospitati nel paese. Non posso nemmeno avere un mio video registrato riprodotto agli eventi tedeschi.

I problemi sono iniziati sul serio ieri, quando la polizia tedesca ha fatto irruzione in una sede di Berlino per sciogliere il nostro congresso sulla Palestina, ospitato dal Movimento per la Democrazia in Europa 2025 (DiEM25). Giudicate voi stessi che tipo di società sta diventando la Germania se la sua polizia mette al bando i sentimenti riportati di seguito.

Congratulazioni e ringraziamenti di cuore per essere qui – nonostante le minacce, nonostante la polizia corazzata fuori da questa sede, nonostante la panoplia della stampa tedesca, nonostante lo Stato tedesco, nonostante il sistema politico tedesco che ti demonizza per essere qui.

“Perché un congresso palestinese, signor Varoufakis?” mi ha chiesto recentemente un giornalista tedesco. Perché, come disse una volta Hanan Ashrawi, “non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che sono messi a tacere ci parlino della loro sofferenza”.

Oggi, la ragione di Ashrawi è diventata tristemente più forte, perché non possiamo fare affidamento sul fatto che coloro che vengono messi a tacere, anch’essi massacrati e affamati, ci parlino dei massacri e della fame.

Ma c’è anche un’altra ragione: perché un popolo orgoglioso e rispettabile, il popolo tedesco, viene condotto lungo una strada pericolosa verso una società senza cuore, essendo costretto ad associarsi a un altro genocidio compiuto in suo nome, con la sua complicità.

Non sono né ebreo né palestinese. Ma sono incredibilmente orgoglioso di essere qui tra ebrei e palestinesi – per unire la mia voce per la pace e i diritti umani universali con le voci ebraiche per la pace e i diritti umani universali, con le voci palestinesi per la pace e i diritti umani universali. Essere qui insieme oggi è la prova che la convivenza non solo è possibile, ma che esiste già.

“Perché non un congresso ebraico, signor Varoufakis?” mi ha chiesto lo stesso giornalista tedesco, immaginando che facesse il furbo. Ho accolto con favore la sua domanda.

Perché se un singolo ebreo viene minacciato, ovunque, solo perché è ebreo, indosserò la Stella di David sul bavero e offrirò la mia solidarietà, qualunque sia il costo, qualunque sia il costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Quindi cerchiamo di essere chiari: se gli ebrei fossero sotto attacco, in qualsiasi parte del mondo, sarei il primo a sollecitare un congresso ebraico in cui registrare la nostra solidarietà.

Allo stesso modo, quando i palestinesi vengono massacrati perché sono palestinesi – secondo il dogma secondo cui per essere morti e palestinesi devono essere stati Hamas – indosserò la mia kefiah e offrirò la mia solidarietà a qualunque costo, a qualunque costo.

I diritti umani universali o sono universali oppure non significano nulla.

Con questo in mente, ho risposto alla domanda del giornalista tedesco con alcune delle mie:

  • Due milioni di ebrei israeliani, che furono cacciati dalle loro case e rinchiusi in una prigione a cielo aperto ottant’anni fa, sono ancora tenuti in quella prigione a cielo aperto, senza accesso al mondo esterno, con cibo e acqua minimi, senza alcuna possibilità? di una vita normale o di viaggiare ovunque, pur essendo bombardato periodicamente per questi ottant’anni? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono fatti morire di fame intenzionalmente da un esercito di occupazione, mentre i loro figli si contorcono sul pavimento, urlando dalla fame? NO.
  • Ci sono migliaia di bambini ebrei feriti senza genitori sopravvissuti che strisciano tra le macerie di quelle che erano le loro case? NO.
  • Gli ebrei israeliani vengono bombardati dagli aerei e dalle bombe più sofisticati del mondo? NO.
  • Gli ebrei israeliani stanno vivendo un totale ecocidio di quella piccola terra che possono ancora chiamare propria, senza un solo albero sotto il quale possano cercare ombra o di cui possano gustare i frutti? NO.
  • I bambini ebrei israeliani vengono uccisi oggi dai cecchini per ordine di uno stato membro delle Nazioni Unite (ONU)? NO.
  • Oggi gli ebrei israeliani vengono cacciati dalle loro case da bande armate? NO.
  • Israele sta lottando per la propria esistenza oggi? NO.

Se la risposta a una qualsiasi di queste domande fosse sì, oggi parteciperei a un congresso di solidarietà ebraica.

Oggi ci sarebbe piaciuto avere un dibattito dignitoso, democratico e reciprocamente rispettoso su come portare la pace e i diritti umani universali a tutti – ebrei e palestinesi, beduini e cristiani – dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo con persone che la pensano diversamente da noi. noi.

Purtroppo l’intero sistema politico tedesco ha deciso di non permetterlo. In una dichiarazione congiunta alla quale partecipano non solo la CDU-CSU (Unione Cristiano-Democratica-Unione Cristiano-Sociale della Baviera) e il FDP (Partito Democratico Libero), ma anche l’SPD (Partito Socialdemocratico), i Verdi e, sorprendentemente, due leader del partito Die Linke (La Sinistra), lo spettro politico tedesco ha unito le forze per garantire che un dibattito così civile, sul quale possiamo essere piacevolmente in disaccordo, non abbia mai luogo in Germania.

Dico loro: volete metterci a tacere, metterci al bando, demonizzarci, accusarci. Pertanto non ci lasci altra scelta se non quella di rispondere alle tue ridicole accuse con le nostre razionali accuse. Hai scelto questo, non noi.

Ci accusate di odio antisemita. Ti accusiamo di essere il migliore amico dell’antisemita equiparando il diritto di Israele a commettere crimini di guerra con il diritto degli ebrei israeliani a difendersi.

Ci accusate di sostenere il terrorismo. Ti accusiamo di equiparare la legittima resistenza a uno stato di apartheid alle atrocità contro i civili che ho sempre e sempre condannerò, chiunque le commetta: palestinesi, coloni ebrei, la mia stessa famiglia, chiunque. Vi accusiamo di non riconoscere il dovere del popolo di Gaza di abbattere il muro della prigione a cielo aperto in cui è stato rinchiuso per ottant’anni – e di equiparare questo atto di abbattere il muro della vergogna, che non è più difendibile di fu il Muro di Berlino, con atti di terrore.

Ci accusate di banalizzare il terrorismo di Hamas del 7 ottobre. Vi accusiamo di banalizzare gli ottant’anni di pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele e l’erezione di un ferreo sistema di apartheid in tutto Israele-Palestina. La accusiamo di banalizzare il sostegno a lungo termine di Benjamin Netanyahu a Hamas come mezzo per distruggere la soluzione dei due Stati che lei sostiene di favorire. Vi accusiamo di banalizzare il terrore senza precedenti scatenato dall’esercito israeliano sulla popolazione di Gaza, in Cisgiordania. e Gerusalemme Est.

Lei accusa gli organizzatori del congresso di oggi di essere, cito testualmente, “non interessati a parlare delle possibilità di coesistenza pacifica in Medio Oriente nel contesto della guerra a Gaza”. Sei serio? Hai perso la testa?

Vi accusiamo di sostenere uno Stato tedesco che è, dopo gli Stati Uniti, il più grande fornitore delle armi che il governo Netanyahu usa per massacrare i palestinesi come parte di un grande piano per realizzare una soluzione a due Stati e una coesistenza pacifica tra ebrei e Palestinesi, impossibile. La accusiamo di non aver mai risposto alla domanda pertinente a cui ogni tedesco deve rispondere: quanto sangue palestinese dovrà scorrere prima che il suo giustificato senso di colpa per l’Olocausto venga lavato via?

Cerchiamo quindi di essere chiari: siamo qui a Berlino con il nostro congresso palestinese perché, a differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li sta perpetrando. Perché ci opponiamo all’apartheid nella terra di Israele-Palestina, non importa chi abbia il sopravvento, proprio come ci siamo opposti all’apartheid nel Sud americano o in Sud Africa. Perché sosteniamo i diritti umani universali, la libertà e l’uguaglianza tra ebrei, palestinesi, beduini e cristiani nell’antica terra di Palestina.

A differenza del sistema politico tedesco e dei media tedeschi, noi condanniamo il genocidio e i crimini di guerra indipendentemente da chi li perpetra.

E così abbiamo ancora più chiare le domande, legittime e maligne, a cui dobbiamo essere sempre pronti a rispondere:

Condanno le atrocità di Hamas?

Condanno ogni singola atrocità, chiunque ne sia l’autore o la vittima. Ciò che non condanno è la resistenza armata a un sistema di apartheid concepito come parte di un programma di pulizia etnica a combustione lenta ma inesorabile. In altre parole, condanno ogni attacco ai civili e, allo stesso tempo, celebro chiunque rischi la propria vita per abbattere il muro.

Israele non è forse impegnato in una guerra per la sua stessa esistenza?

No non lo è. Israele è uno stato dotato di armi nucleari con forse l’esercito tecnologicamente più avanzato del mondo e con la panoplia della macchina militare statunitense alle sue spalle. Non c’è simmetria con Hamas, un gruppo che può causare gravi danni agli israeliani ma non ha alcuna capacità di sconfiggere l’esercito israeliano, o anche solo di impedire a Israele di continuare ad attuare il lento genocidio dei palestinesi sotto il sistema di apartheid che è stato eretto con sostegno di lunga data da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea.

Gli israeliani non sono forse giustificati a temere che Hamas voglia sterminarli?

Certo che lo sono! Gli ebrei hanno subito un Olocausto che è stato preceduto da pogrom e da un radicato antisemitismo che ha permeato per secoli l’Europa e le Americhe. È naturale che gli israeliani vivano nel timore di un nuovo pogrom se l’esercito israeliano dovesse piegarsi. Tuttavia, imponendo l’apartheid ai propri vicini e trattandoli come subumani, lo Stato israeliano sta alimentando il fuoco dell’antisemitismo e rafforzando palestinesi e israeliani che vogliono solo annientarsi a vicenda. Alla fine, le sue azioni contribuiscono alla terribile insicurezza che divora gli ebrei in Israele e nella diaspora. L’apartheid contro i palestinesi è la peggiore autodifesa degli israeliani.

E l’antisemitismo?

È sempre un pericolo chiaro e presente. E deve essere sradicato, soprattutto tra le fila della sinistra globale e tra i palestinesi che lottano per le libertà civili palestinesi in tutto il mondo.

Perché i palestinesi non perseguono i loro obiettivi con mezzi pacifici?

Loro fecero. L’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) riconobbe Israele e rinunciò alla lotta armata. E cosa hanno ottenuto in cambio? Umiliazione assoluta e pulizia etnica sistematica. Questo è ciò che ha nutrito Hamas e lo ha elevato agli occhi di molti palestinesi come l’unica alternativa a un lento genocidio sotto l’apartheid israeliano.

Cosa si dovrebbe fare adesso? Cosa potrebbe portare la pace in Israele-Palestina?

  • Un cessate il fuoco immediato.
  • Il rilascio di tutti gli ostaggi: quelli di Hamas e le migliaia detenuti da Israele.
  • Un processo di pace, sotto la guida delle Nazioni Unite, sostenuto dall’impegno della comunità internazionale a porre fine all’apartheid e a salvaguardare pari libertà civili per tutti.
  • Per quanto riguarda ciò che dovrà sostituire l’apartheid, spetta a israeliani e palestinesi decidere tra la soluzione dei due Stati e la soluzione di un unico Stato federale laico.

Amici, siamo qui perché la vendetta è una forma pigra di dolore.

Siamo qui per promuovere non la vendetta ma la pace e la coesistenza in tutto Israele-Palestina.

Siamo qui per dire ai democratici tedeschi, compresi i nostri ex compagni di Die Linke, che si sono coperti di vergogna abbastanza a lungo – che due errori non fanno una cosa giusta – e che permettere a Israele di farla franca con i crimini di guerra non migliorerà la situazione l’eredità dei crimini della Germania contro il popolo ebraico.

Al di là del congresso di oggi, in Germania abbiamo il dovere di cambiare il discorso. Abbiamo il dovere di persuadere la stragrande maggioranza dei tedeschi perbene che ciò che conta sono i diritti umani universali. Questo mai più significa mai più per nessuno. Ebrei, palestinesi, ucraini, russi, yemeniti, sudanesi, ruandesi: per tutti, ovunque.

In questo contesto, sono lieto di annunciare che il partito politico tedesco MERA25 di DiEM25 sarà sulla scheda elettorale delle elezioni del Parlamento Europeo del prossimo giugno, cercando il voto degli umanisti tedeschi che desiderano un membro del Parlamento Europeo che rappresenti la Germania e che chieda all’UE complicità nel genocidio, una complicità che è il più grande dono dell’Europa agli antisemiti in Europa e oltre.

Saluto tutti voi e suggerisco di non dimenticare mai che nessuno di noi è libero se uno di noi è in catene.

DISCORSO DEL DR. GHASSAN ABU SITTAHALLA SUA NOMINA DI RECTOR DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW

Dr. Ghassan Abu-Sittah during his address at the University of Glasgow following his landslide victory as Rector with 80% of the vote, April 11, 2024. (Photo: The University of Glasgow)

L’11 aprile, il dottor Ghassan Abu-Sittah è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione schiacciante con l’80% dei voti.

Di seguito è riportata una trascrizione del discorso del Dr. Abu-Sittah.

“Ogni generazione deve scoprire la sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”.

Frantz Fanon, I dannati della terra

Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria di 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati gli arti.
Hanno votato per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e 12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

All’inizio del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale globale sta esaminando la gestione delle popolazioni in eccesso.
Si sono schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da cecchino – usati in modo così subdolo ed efficiente a Gaza che una notte all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.

Quindi, in realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata ceduta da uno dei precedenti rettori dell’Università di Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico alla colonizzazione della Palestina da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rettore dell’Università di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920, mio nonno Sheikh Hussain costruì una scuola con i suoi soldi nel piccolo villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì ha gettato le basi per una relazione che ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio 1nonno furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.

L’anno dopo la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti della sua generazione, si è trasferito nel Golfo per aiutare a costruire il sistema sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.
E fu così che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone al freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come viene modellata la vita delle persone e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel 1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto il genocidio svolgersi.

Tutto quello che sapevo sulle guerre era paragonato a niente di quello che vedevo. Era la differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza, metà dei quali erano bambini. Dopo il mio coming out, gli studenti dell’Università di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come rettore. Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.

Che cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative, sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo. 400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori e presidi e due rettori di università.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto dell’iceberg è costituito da un asse di genocidio. Questo asse del genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari con il paracadute.
Ho anche scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.

  1. I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i quali i bambini palestinesi rimangono insopportabili. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla barbarie di Israele.
  2. Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel prendersi cura del proprio avanzamento personale”.
  3. I terzi sono gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera sull’apatia e non può esistere senza di essa”

Nell’aprile del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e devastare la natura.

Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.
Allora, qual è il nostro piano, questo “selvaggio” e i suoi complici?

Faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.
Il denaro del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.
Ci batteremo per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.
Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.
Combatteremo con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione del popolo palestinese.

Solo questa settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista antisionista ebreo, per antisemitismo.

Durante il volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complicato conta di più”.

90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?” Bene, la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro mondo per cui lottare.

È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari di domani. Domani sarà una giornata palestinese.

Nel 1984, quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo rettore nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid, sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.
Uno degli scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia famiglia possiamo piangere per i nostri cari.

Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla.

Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish, “Alla nostra terra, ed è un premio di guerra, la libertà di morire per il desiderio e l’incendio e la nostra terra, nella sua notte insanguinata, è un gioiello che brilla per il lontano sul lontano e illumina ciò che è al di fuori di esso…

Quanto a noi, dentro, soffochiamo di più!” E così voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby Sands, “La nostra vendetta sarà la risata dei nostri figli”.

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

FONTE: https://mondoweiss.net/2024/04/dr-ghassan-abu-sittah-tomorrow-is-a-palestinian-day/

La lunga notte della Repubblica

di Domenico Gallo

Da molto tempo il modello di democrazia che i costituenti hanno consegnato al popolo italiano, traendo lezione dalle dure esperienze della Storia, è percorso da una crisi di identità e di valore, sferzato da un vento di contestazione che punta ad immutare i caratteri originali e il volto stesso della Repubblica generata dalla lotta di liberazione.

Noi sappiamo quando è iniziata questa bufera: il 26 giugno del 1991, quando il  Presidente della Repubblica dell’epoca, Francesco Cossiga, mandò un formale messaggio alle Camere (ex art. 87, secondo comma della Costituzione) pressando il Parlamento ad attuare una profonda riforma della Costituzione, che avrebbe dovuto portare ad una modificazione della forma di Governo, della forma di Stato, del sistema dell’indipendenza della magistratura, il tutto con l’ ausilio di una riforma elettorale volta a superare il sistema proporzionale a favore di un sistema maggioritario.

Secondo Cossiga, il disegno di democrazia costituzionale delineato dai padri costituenti non funzionava perché aveva creato un’architettura dei poteri che, attraverso il ruolo centrale del Parlamento e l’autonomia delle istituzioni di garanzia (magistratura e Corte costituzionale), impediva la nascita di un “potere forte” e di un Governo “stabile” (per legge). Per raggiungere questo risultato occorreva modificare la natura del Parlamento e rafforzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale maggioritaria che facesse prevalere la “governabilità” sulla rappresentatività; era necessario, inoltre, mettere le briglie alla magistratura riportando la funzione del Pubblico Ministero nell’alveo dei poteri di maggioranza. La totale delegittimazione della Costituzione del 48 veniva suggellata dalla richiesta di un’Assemblea costituente che avrebbe dovuto dar vita ad un nuovo ordinamento.

Nei 33 anni che sono passati da quel messaggio, la profezia nera di Cossiga ha gettato la sua ombra sulla vita politico-istituzionale ed ha effettuato un percorso di attuazione che – tuttavia – è rimasto parzialmente incompiuto, grazie alle garanzie e ai meccanismi di resistenza interni al disegno costituzionale. Il primo passo verso la demolizione dell’edificio della democrazia costituzionale è avvenuto con l’introduzione del sistema elettorale maggioritario che è stato salutato dai suoi sostenitori come il passaggio alla “seconda Repubblica”.  L’espressione “seconda Repubblica”, pur nella sua ridondanza retorica, segnalava che il mutamento del sistema elettorale aveva incidenza diretta sulla Costituzione, modificando il quadro istituzionale. Il primo tentativo abortito di grande riforma, volto a immutare la forma di Stato e la forma di Governo, avvenne con la riforma Bossi Berlusconi, approvata dal Parlamento nel novembre 2005 e bocciata dal popolo italiano con il referendum   del 25/26 giugno 2006.

La sconfitta referendaria segnò solo una battuta d’arresto ma non fermò quel processo di verticalizzazione del potere che veniva da lontano e, non soltanto in Italia, insidiava le conquiste degli ordinamenti democratici nati dopo la Seconda guerra mondiale. Il peso crescente dei poteri finanziari e dei potentati economici, oltre a dettare l’agenda politica, ormai puntava direttamente alla delegittimazione delle Costituzioni.

Il capitolo più eclatante è  rappresentato dal documento di analisi economico-politica pubblicato il 28 maggio 2013  dalla JPMorgan. La società  con sede a New York, leader nei servizi finanziari globali, giudicava le Costituzioni antifasciste del sud dell’Europa osservando che: “. I sistemi politici dei paesi del sud e le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire un’ulteriore integrazione dell’area europea -questo perché -I sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». In particolare la JP Morgan identificava come caratteristiche negative “esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti…tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori.. . la licenza di protestare”. Il merito di questo documento è quello di identificare chiaramente il rapporto necessario fra la verticalizzazione del potere e la demolizione dei diritti sociali e quindi di dimostrare il nesso inscindibile fra lo Stato sociale, che promuove l’eguaglianza e i diritti, e l’ordinamento politico che garantisce il pluralismo e la distribuzione dei poteri. Riferito alla Costituzione italiana il nesso inscindibile è fra la prima parte che tratta i diritti civili, politici e sociali e la seconda parte che definisce l’architettura dei poteri.

L’insegnamento impartito da JP Morgan ha guidato le scelte del governo Renzi, che si è dedicato con pari zelo a smantellare i diritti sociali, aggredendo direttamente i diritti dei lavoratori attraverso il c.d. Job’s act. e a mutare la forma di Governo e la forma di Stato attraverso un’ambiziosa riforma della Costituzione, che introduceva una sorta di premierato assoluto, agevolato da una legge elettorale (l’Italicum) ricalcata sul modello della legge Acerbo. Anche in questo caso, le garanzie interne al sistema costituzionale hanno fatto fallire il progetto istituzionale di Renzi poiché il popolo italiano ha cancellato la riforma costituzionale con il referendum del 4 dicembre 2016 e la Corte costituzionale ha bocciato l’Italicum (con la sentenza n. 35/2017).

Tuttavia sono rimasti in vigore i provvedimenti che incidono sui diritti sociali, rispetto ai quali la CGIL, in questi giorni, ha attivato un rimedio costituzionale promuovendo 4 referendum abrogativi. Malgrado il chiaro risultato del 4 dicembre, non si sono fermati i venti di tempesta. Un’altra aggressione alla Repubblica è venuta da un’istanza politica, in origine agita, con riti istrioneschi, come progetto di secessione della “Padania”, ma successivamente incanalata in una dimensione più strettamente istituzionale, nascosta nelle pieghe della riforma del titolo V della Costituzione, approvata nel 2001 da un centro-sinistra inconsapevole delle sue molteplici implicazioni negative. Le mine, sepolte sotto la sabbia della riforma, hanno cominciato ad esplodere nel 2018 quando il 28 febbraio il Governo Gentiloni rimasto in carica per l’ordinaria amministrazione, a pochi giorni dalle elezioni politiche fissate per il 4 marzo, firmò un pre-accordo con le Regioni Veneto, Lombardia e Emilia-Romagna per la concessione dell’Autonomia differenziata.

Nel nuovo clima politico determinato dalle elezioni del 25 settembre del 2022, il ciclone dell’Autonomia differenziata, che punta alla rottura dell’unità della Repubblica e dell’eguaglianza dei diritti, e quello della verticalizzazione del potere, che punta alla instaurazione di una autocrazia elettiva, si sono rafforzati e hanno preso terra nel contesto di una nuova maggioranza animata da una cultura estranea e opposta ai valori costituzionali. Ed è proprio questo contesto politico culturale che ha reso possibile l’incontro fra questi due cicloni, apparentemente guidati da ragioni confliggenti. Si è creata così una situazione che i metereologi definiscono come una “tempesta perfetta”. Una “tempesta perfetta” con la quale coloro che hanno vissuto l’avvento della Costituzione repubblicana come frutto di una loro sconfitta storica possono vendicarsi di quella sconfitta e travolgere il frutto della lotta di liberazione, cancellando, con l’unità della Repubblica, l’architettura dei poteri e la garanzia dei diritti.

La Costituzione italiana, forte del suo impianto antifascista, ha resistito ad un’aggressione durata oltre trent’anni e ad una serie di riforme sbagliate che hanno sfigurato l’ordinamento democratico e minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni rappresentative, ma adesso siamo arrivati all’assalto finale.

Ci troviamo ad un appuntamento con la Storia. Dobbiamo mobilitare tutte le energie per difendere la cittadella della nostra democrazia. Altrimenti usciremo sconfitti tutti e sarebbero sconfitte la fede e le speranze, della gioventù europea che hanno animato la Resistenza. Dobbiamo chiederci, con Thomas Mann: “tutto ciò sarebbe stato invano? Inutile, sciupato il loro sogno e la loro morte?”

(Intervento al convegno del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che si è tenuto il 23 aprile a Roma. Un estratto è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano del 24 aprile con il titolo: Una tempesta perfetta contro la Costituzione)    

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/la-lunga-notte-della-repubblica/

Annotazioni su Black Marxism, con uno o due occhi sulla Sardegna

di Enrico Lobina

Avvertenza

Non ho una conoscenza organica e completa degli studi postcoloniali. Ritengo molto utile conoscerli e studiarli perché ci permettono di fare passi in avanti rispetto al “marxismo bianco”, che ha ancora di più ristretto la capacità di lettura della società di Marx ed Engels. La società ha bisogno di chiavi di lettura, e gli studi postcoloniali lo sono. Anche perché poi, noi, il mondo lo vogliamo cambiare, lo vogliamo più giusto rispetto ad oggi.

“Black marxism – genealogia della tradizione radicale nera” è un libro uscito in lingua inglese nel 1983, e pubblicato per la prima volta in lingua italiana nel 2023, dalla casa editrice Edizioni Alegre. L’autore è Cedric J. Robinson, docente universitario statunitense, e punto di riferimento dei “black studies”. Robinson è venuto a mancare nel 2016.

La traduzione del libro è di Emanuele Gianmarco, e la prefazione e postfazione sono di Miguel Mellino, il quale in questi decenni molto si è prodigato per popolarizzare gli studi postcoloniali in Italia.

Anche perché, proprio in Italia, per ragioni varie, gli studi postcoloniali non hanno suscitato l’interesse, accademico e non solo, registrato in altri paesi dell’Europa occidentale[1]. Rispetto ad un tema che nel libro viene trattato (il sistema schiavistico delle repubbliche marinare), per esempio, Mellino scrive: “non può non colpire, infatti, l’assenza in Italia, diversamente che negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, di una ricerca storica sul proprio coinvolgimento nella genesi e nello sviluppo del sistema schiavistico globale moderno. Difficile non interpretare oggi una simile assenza o rimozione, sulla traccia del lavoro di Gloria Wekker, come parte di una tradizionale innocenza bianca italiana”[2].

Il libro, di circa 700 pagine, reinterpreta la storia dell’Europa e degli Stati Uniti, ed in definitiva del mondo non asiatico, alla luce di elementi colpevolmente dimenticati, secondo l’autore, dal pensiero marxista fino a quel momento egemone.

Robinson struttura il libro in parti diverse. Una prima parte è dedicata alla nascita ed alle vicissitudini del radicalismo europeo, al cui interno colloca sicuramente il marxismo, ma anche il nazionalismo.

Già in questa prima parte appare un concetto fondamentale, che sarà una pietra miliare dell’analisi sociale, ancora oggi estremamente utile, per il quale rimarrà famoso probabilmente per sempre: il capitalismo razziale.

Prima di affrontare questo concetto, soffermiamoci su quello di razzialismo. Il razzialismo è una delle caratteristiche più profonde dell’ordinamento della società europea. Non è legato al colore della pelle, in quanto è stato rivolto a tanti popoli che si è inteso dominare e sfruttare, già a partire dal Medioevo. Determinate caste o classi hanno sfruttato ed espropriato i popoli più disparati in nome di una superiorità. Uno degli esempi più conosciuti è quello del popolo irlandese, ma ci potremmo soffermare su tanti altri contesti. Per Robinson:

“Ci sono almeno quattro momenti che dobbiamo tenere a mente nella storia del razzialismo europeo; per due di questi le origini vanno ricercate nella dialettica dello sviluppo europeo, per gli altri due no:

  1. L’ordinamento razziale della società europea a partire dal suo periodo formativo, che si estende nelle epoche medievali e feudali sotto forma di ‘sangue’, credenze e leggende razziali;
  2. La dominazione islamica (ovvero araba, persiana, turca e africana) della civiltà mediterranea e il conseguente ritardo della vita culturale e sociale europea: il Medioevo dei cosiddetti Secoli bui;
  3. L’incorporamento dei popoli africani e asiatici e del Nuovo mondo nel sistema globale emerso dal tardo feudalesimo e col capitalismo mercantile;
  4. La dialettica del colonialismo, della schiavitù piantocratica e della resistenza dal sedicesimo secolo in avanti, e la formazione della manodopera industriale e della manodopera di riserva.

Per convenzione si tende ormai a iniziare l’analisi del razzismo nelle società occidentali con il terzo momento; ignorando interamente il primo e il secondo e facendo i conti solo in parte col quarto”[3].

La necessità di aggiungere l’aggetto “razziale” al sostantivo “capitalismo” è dato dalla sostanziale sottovalutazione, da parte del marxismo bianco, di questi aspetti. Il capitalismo si impone perché è capitalismo razziale, e la schiavitù e la razzializzazione non sono orpelli di uno sviluppo capitalistico, bensì intrinseci alle dinamiche sia di accumulazione originaria che di espansione dello stesso.

Questo concetto arriva sino ai giorni nostri, a società razzializzate in cui la natura proteiforme della società, per riprendere alcuni termini di Franz Fanon, è razzializzata al suo interno, all’interno di quella che una volta era la “metropoli” della colonia. Oggi la segmentazione razziale del lavoro si vive nella ristorazione e nell’industria meccanica dell’Europa e degli Stati Uniti, nell’agricoltura e nella pastorizia. Il colonialismo è formalmente scomparso, ma la razzializzazione è onnipresente.

Il capitalismo senza razzializzazione non sarebbe stato. Il marxismo bianco, compreso quello italiano, quello togliattiano per intenderci, ha obliterano il tema, spesso con l’obiettivo di diventare “forza nazionale”[4].

Si tratta di arricchire e completare una analisi marxista. Come scrive Angela Davis, citata da Mellino nell’introduzione, “‘il termine ‘capitalismo razziale’ […] è stato proposto dal politologo Cedric Robinson come una critica alla tradizione marxista, fondata su quella che egli chiamava la tradizione radicale nera, io credo che tale concetto possa essere anche generativo per continuare a tenere queste due tradizioni intellettuali e attiviste che si sono storicamente intrecciate in una tensione davvero produttiva. Se il nostro scopo sarà cercare di mettere in luce i diversi modi in cui il capitalismo e razzismo si sono storicamente intrecciati, dalle epoche coloniali e dalla schiavitù fino al presente […], non staremo allora operando una semplice distensione del marxismo (per dirla con Fanon), bensì continuando a sviluppare in modo critico le sue intenzioni’. Da questo punto di vista, Black Marxim, soprattutto negli scenari europei, offre notevoli spunti per una decolonizzazione tanto del maxismo occidentale quanto dell’antirazzismo bianco”[5].

Questi ragionamenti sono utili alla Sardegna? Ne sono convinto. Se è vero che è stata prestata poca attenzione al razzismo intra-europeo, è altrettanto vero che, quanto meno a partire dal 1720, è stata prestata poca attenzione al razzismo piemontese verso la Sardegna e i sardi, ritenuti essere inferiori, sostanzialmente sub-umani e, quindi, oggetto di razzializzazione.

Saltando velocemente all’oggi, il politicamente corretto impone che questi termini non si utilizzino più, e che la razzializzazione produttiva si realizzi ma non entri in un discorso pubblico, ma il tema a mio parere rimane. L’Italia ha molti problemi, ed uno è questo: una unificazione nazionale che si è costruita con una sostanziale subordinazione del sud al nord, che oggi si esplica con una emigrazione massiccia di forza lavoro, qualificata e non, per la quale si sono spesi miliardi di euro al Sud e che, successivamente, va a creare plusvalore al Nord[6]. Con tanti saluti alle varie ideologie della CGIA di Mestre e dei loro amici ed alla ideologia del “residuo fiscale”, che oggi partorisce l’autonomia differenziata.

Ma torniamo al libro.

La seconda parte del volume “Le radici del radicalismo nero” è la parte in cui l’analisi storica è più consistente, soprattutto riguardo l’Europa, e su cui sicuramente i modernisti ed i medievalisti più potranno scrivere e dire. L’obiettivo centrale di Robinson, riuscito, è dimostrare che il pensiero radicale nero ha radici, origini, autonome e non dialoganti, quanto meno per secoli, con il pensiero radicale europeo, il quale ha tra le altre cose avuto come risultato il marxismo.

Robinson, anche qua con un aggiornamento necessario, dà voce a chi voce non aveva, gli schiavi e gli africani non schiavizzati, i quali sono stati categorizzati come “negri”, per affermare il loro carattere “sub-umano”.

Robinson passa in rassegna le forme massive di resistenza alla schiavitù, di cui si hanno tracce documentaria già a partire dal seicento, e le localizza territorialmente lungo il continente americano.

Emergono novità eclatanti, quanto meno per il sottoscritto, e mi limito a riportarne una:

“Di continuo, nei rapporti, nelle memorie, nei resoconti ufficiali, nelle testimonianze dirette, nelle vicende di ciascun episodio di questa tradizione, dal sedicesimo secolo fino agli eventi riportati sui quotidiani di un mese fa, di una settimana fa, un aspetto è sempre stato presente e ricorrente: l’assenza di una violenza di massa. Gli osservatori occidentali, spesso sinceri nella loro meraviglia, hanno rimarcato più e più volte come nei moltissimi avvicendamenti fra i neri e i loro oppressori […] i neri abbiano impiegato solo saltuariamente il livello di violenza che essi stessi (gli occidentali) ritenevano adatti all’occasione. Se pensiamo che nel Nuovo mondo del diciannovesimo secolo i circa sessanta bianchi rimasti uccisi nell’insurrezione di Nat Turner abbiano comportato uno degli episodi più gravi di tutto il secolo; se pensiamo che nelle enormi sollevazioni schiavili del 1831 in Giamaica – un paese in cui 300mila schiavi sopravvivevano al dominio di 30mila bianchi – furono accertate soltanto quattordici vittime bianche, quando paragoniamo rivolta dopo rivolta le fortissime e spesso indiscriminate rappresaglie di una civilissima classe padronale (l’impiego del terrore) alla scala di violenza adottata dagli schiavi (e dai loro discendenti oggi) si ha quantomeno l’impressione che in questi popoli così brutalmente oltraggiati esista un ordine diverso e condiviso delle cose”[7].

La seconda parte è propedeutica alla terza, “Radicalismo nero e teoria marxista”, in quanto “La memoria della renitenza nera alla schiavitù e ad altre forme di oppressione, più in dettaglio, è stata metodicamente rimossa o distorta a beneficio di storiografie egemoni razzializzanti ed eurocentriche. La summa di tutto questo è stata la disumanizzazione dei neri” e “la considerazione accordata alla politica rivoluzionaria delle masse nere ha la sua fonte nel radicalismo ‘bianco’”.

Tutta la terza parte è volta, tramite l’esame di alcuni intellettuali di riferimento, a smontare quest convinzione profonda, presente nel marxismo bianco e, più in generale, nelle organizzazioni di classe del XX secolo, ed anche del XXI sui due lati dell’oceano atlantico.

Gli intellettuali esaminati sono William Edward Brughardt Du Bois, abbreviato W.E.B. Du Bois, Cyrill Lionel Robert James, abbreviato C.L.R. James, e Richard Wright.

Robinson discute anche la parabola intellettuale di professori e dirigenti rivoluzionari, che abbracciarono il marxismo e spesso terminarono per acquisire una coscienza più profonda, un pensiero radicale nero.

Robinson lungo tutto il volume, e specialmente in questa terza parte, presenta il dato di fatto che l’élite nera accettò la razzializzazione dei neri, e la usò per potersi ritagliare uno spazio sociale, o di rendita o di intermediazione[8].

Du Bois è stato un grandissimo studioso, ed ha scritto parole non emendabili sulla schiavitù:

“Nelle primissime pagine di Black Reconstruction Du Bois individua subito quale sia per lui la contraddizione fondamentale di tutta la storia americana, quella che avrebbe sovvertito l’ideologia fondante del paese, distorto le sue istituzioni, traumatizzato i rapporti sociali e la formazione delle classi, fino a disorientarne, nel ventesimo secolo, anche i ribelli e rivoluzionari:

sin dal giorno della sua nascita l’anomalia della schiavitù ha infettato una nazione che affermava l’uguaglianza fra tutti gli uomini e ambiva a fondare ogni suo potere di governo sul consenso dei governati. In mezzo a questo coro di proclami vivevano più di mezzo milione di schiavi neri, quasi un quinto di tutti gli abitanti della giovane nazione.

È stato il lavoratore nero, pietra angolare del nuovo sistema economico e del mondo moderno, a portare la guerra civile nell’America del diciannovesimo secolo. Era lui la causa sottintesa, a prescindere da qualsiasi tentativo di individuare nel potere nazionale e in quello dell’Unione le radici del conflitto”[9].

Attraverso le figure dei tre intellettuali citati si esamina anche la storia del rapporto tra il comunismo ortodosso statunitense, ed il Comintern, e la questione nera, o negra, come scriveva allora proprio il Comintern.

Secondo Robinson, “Dopo il 1922, la tutela e la formazione dei quadri neri in Unione Sovietica vennero prese piuttosto seriamente”.

A fine 1928 la “questione negra americana” venne inserita nel rapporto congressuale dal titolo “tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e nelle semi-colonie”. Insomma, il comunismo “ufficiali”, si accetti questa definizione per semplificazione, si accorse della questione negra e la affrontò seriamente.

Ma non bastò. La Terza Internazionale, nel frattempo ideologicamente, politicamente ed organizzativamente egmonizzata dallo stalinismo, non compì quegli sforzi teorici e non ebbe la necessaria dose di coraggio che sarebbe stata necessaria per affrontare, per esempio, quanto scriveva C.L.R. James[10] riguardo Haiti. Nelle parole di Robinson

“Il capitalismo aveva prodotto la sua negazione storica e sociale in entrambi i due poli della sua espropriazione: l’accumulazione capitalistica aveva prodotto il proletariato nel centro manifatturiero; l’accumulazione originaria aveva posto le basi sociali per le masse rivoluzionarie della periferia. Ma ciò che distingueva le formazioni di queste due classi rivoluzionarie era la fonte dei loro sviluppi ideologici e culturali. Mentre il proletariato europeo si era formato attraverso le idee della borghesia  […] ad Haiti e presumibilmente altrove, fra le popolazioni schiave, gli africani avevano costruito la loro propria cultura rivoluzionaria:

E comunque non c’è bisogno di istruzione e di incoraggiamento per coltivare sogni di libertà. Nei riti notturni Voodoo, il loro culto africano, gli schiavi danzavano solitamente al ritmo del canto preferito: […]

Giuriamo di distruggere i bianchi e tutto ciò che posseggono; moriremo piuttosto che infrangere questo voto […]

Siamo davanti a qualcosa di lontanissimo dal modo in cui Marx ed Engels avevano concepito la forza trasformativa e razionalizzante della borghesia. Implicava (e James non se ne accorse) che la cultura, il pensiero e l’ideologia borghese fossero irrilevanti per lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria fra i neri e gli altri popoli del Terzo mondo. Significava rompere con la catena evoluzionistica implicita nel materialismo storico e nella sua dialettica chiusa”[11].

Il lavoro di Robinson, letto a 40 anni dalla sua pubblicazione, per un pubblico italiano oggettivamente lontano da quelle realtà e da quei dibattiti, è importante. Si destruttura la storiografia americana e occidentale. Si pone a critica la tradizione intellettuale socialista ed il marxismo, organizzato e non.

Il movimento radicale nero ha ricreato, con l’impatto con la schiavitù ed il dominio razziale, una chimica collettiva, e personale, che è diventato un movimento sociale (vedi i recenti movimenti Black lives Matter), i quali non affondano le loro radici nel radicalismo europeo.

La categoria di capitalismo razziale resta utilissima, innanzitutto in Europa, sia per il passato che per il presente: “Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale”[12].

Esiste, in altri termini, un vincolo strutturale tra capitalismo e razzismo, che per esempio l’antirazzismo borghese europeo, che poi è quello praticato dalle cosiddette sinistre, non vede.

Ciò non toglie che “Black marxism”, che è un libro del 1983, non vada aggiornato, soprattutto nelle sue analisi storiche, e non sono io in grado di farlo, riguardo ad una messe enorme di studi che hanno approfondito ed introdotto novità riguardo ad una miriade di fenomeni storici analizzati dalla studioso.

Per concludere sul libro ““Il capitalismo razziale appare qui come uno sviluppo del razzialismo, ovvero come il prodotto di una costruzione culturale gerarchica e medievale che le nazioni europee estenderanno a tutto il globo, come modello di sfruttamento, durante l’espansione coloniale, nello specifico con l’ascesa delle borghesie mercantili e dello stato-nazione assoluto moderno” […] “uno degli assunti di Black Marxism è che non vi potrà essere un capitalismo non razziale” e “la questione al cuore del testo: ciò che manca nel marxismo storico, si potrebbe dire, è un’interrogazione più radicale delle origini della civiltà occidentale, così come della sua appartenenza culturale, come movimento teorico-politico, al campo della filosofie europea”.[13]

Postilla – E l’Asia?

L’Asia è completamente assente dal libro di Robinson. È comprensibile. India, Cina, Viet Nam e Giappone, e l’insieme del continente (Russia esclusa) hanno vissuto tra settecento e novecento parabole coloniali diverse rispetto al capitalismo razziale dell’Africa e soprattutto delle Americhe. Non che a quei paesi non si possa adattare il concetto di capitalismo razziale, o che non siano paesi razzializzati, in modi completamente diversi rispetto a quanto possiamo immaginare[14].

La risposta durante il novecento, e questa forse è la ragione del silenzio di Robinson, il quale alla fine aveva comunque un tema ben definito da affrontare, del comunismo asiatico è stata nei fatti diversa rispetto a quella del comunismo ortodosso. In Cina e Viet Nam, infatti, da una parte si aveva una conformazione sociale molto diversa rispetto al capitalismo razzializzato nordamericano ed europeo, perché si aveva un regime coloniale molto duro e con un consenso largo, seppur passivo, tra le élite. Dall’altra, il comunismo cinese e vietnamita è riuscito a far sposare, convivere, e poi far vincere, le loro rispettive “tradizioni radicali” autoctone, con una elaborazione marxista originale, anch’essa autoctona. Da qua la loro vittoria e, probabilmente, la capacità di sopravvivere, insieme al Kerala ed altre realtà, alla caduta del Muro di Berlino



[1] E forse questa è anche una delle ragioni per cui, come da ultimo ha scritto Salvatore Cannavò su Jacobin, “La seconda repubblica si è mangiata la sinistra”. https://jacobinitalia.it/la-seconda-repubblica-si-e-mangiata-la-sinistra/

[2] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 772

[3] Idem, p. 168-169

[4] Per esempio Togliatti ed il PCI decisero di porre in secondo piano, e di non fare emergere come grande questione politica generale, i temi posti sia dall’occupazione delle terre a fine anni quaranta e durante gli anni cinquanta, sia le battaglie contro la emigrazione che, per esempio, vide in Calabria protagonista un gigante del comunismo italiano novecentesco italiano come Paolo Cinanni. Si preferì calcare la mano sul “vento del Nord”, e sostanzialmente non contrastare adeguatamente le emigrazioni di massa dei contadini, mezzadri e semi-proletari del sud Italia, i quali andarono a costituire un segmento lavorativo, parzialmente razzializzato, il quale costituì un serbatoio di manodopera fondamentale per il “miracolo economico italiano”. I “margini” non divennero centrali nell’intervento politico del PCI. Di Paolo Cinanni si veda “Che cos’è l’emigrazione – scritti di Paolo Cinanni”, edito dalla FILEF nel 2016, scaricabile al link https://filef.info/index.php/2017/07/04/che-cose-lemigrazione-scritti-di-paolo-cinanni-e-ora-scaricabile-on-line/

[5] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 18

[6] Sulla emigrazione giovanile qualificata sarda, con qualche riferimento ai costi dell’emigrazione dal sud Italia, cfr. http://www.enricolobina.org/wp/2018/02/04/emigrazione-giovanile-qualificata-in-sardegna-lo-studio/

[7] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 400

[8] Non è successa la stesa cosa per i sardi? La cosiddetta sinistra politica e sindacale sarda, e gli stessi Riformatori Sardi, non sono o aspirano ad essere una élite di mediazione, una membrana che media gli interessi capitalistici italiani per renderli digeribili ai sardi, al contrario della destra, la quale è molto più diretta nella gestione del potere?

Chiaramente questo tema andrebbe approfondito con molta attenzione, al di là dei riferimenti contemporanei. Varrebbe la pena utilizzare la lente di Robinson per discutere della razzializzazione, per esempio, nel settore delle miniere. Consiglio l’articolo di Andria Pili “Capitalismo globale e ordine bianco” rintracciabile qui: https://www.filosofiadelogu.eu/2022/capitalismo-globale-e-ordine-bianco-di-andria-pili/ e, più in generale, tutta l’elaborazione di Filosofia de Logu, https://www.filosofiadelogu.eu/.

[9] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 459.

[10] C.L.R. James è l’autore del libro “I giacobini neri”.

[11] Cedric J. Robinson, Black Marxism – Genealogia della tradizione radicale nera, Edizioni Alegre, Roma 2023, p. 614-615.

[12] Idem, p. 722

[13] Idem, pp. 733-735

[14] Chi ha studiato un po’ la Cina sa, anche senza aver studiato il cinese, che il termine straniero in cinese, “lao wai”, è un termine dispregiativo, l’equivalente di “barbaro straniero”.

FONTE: http://www.enricolobina.org/situ/annotazioni-su-black-marxism-con-uno-o-due-occhi-sulla-sardegna/

Gli Usa e il “metodo Giacarta”: il massacro delle popolazioni come politica estera

di Piero Bevilacqua

Chi legge il libro di Vincent Bevins, Il metodo Giacarta, La crociata anticomunista di Washington e il programma di omicidi di massa che hanno plasmato il nostro mondo (Einaudi, 2021) ne uscirà con una visione rovesciata della storia mondiale dopo il 1945, e con l’animo sconvolto. È successo anche a me, storico dell’età contemporanea, e testimone del mio tempo, a cui tanti fatti e vicende qui raccontate erano noti. L’autore è un prestigioso giornalista americano, che è stato corrispondente del Washington Post, del Los Angeles Times, del Financial Times, ha scritto per il New York Times e tanti altri giornali americani e inglesi. Già questa appartenenza al giornalismo USA, per quel che racconta di gravissimo in danno dei governi del proprio paese, costituisce una prima garanzia di imparzialità e obiettività. D’altra parte non sarebbe la prima volta. Quello dei giornalisti americani che scavano nelle carte segrete e denunciano le malefatte dei loro governanti è un fenomeno non raro, che fa onore a quei professionisti. È sintomatico dell’onestà di fondo dell’animo e della cultura antropologica di gran parte del popolo americano, comunque ormai ampiamente manipolati. È così clamorosa la contraddizione con gli ideali democratici della loro formazione, che non pochi giornalisti, allorché scoprono azioni omicide segrete del loro Stato, sono spinti a una ribellione morale che li porta a intraprendere vaste indagini e a scrivere libri come questi.

Ma l’autorevolezza del Metodo Giacarta si fonda sullo scrupolo scientifico di Bevins, sulla vastità e rilevanza documentaria delle sue fonti, che sono carte desecretate degli archivi americani e di vari paesi del mondo, pubblicazioni di altri studiosi, registrazioni dirette di riunioni segrete, telegrammi, testimonianze rese dai protagonisti e soprattutto dai sopravvissuti ai massacri ecc. Grazie a questi materiali l’autore ci fa entrare spesso direttamente nel tabernacolo del potere americano, facendoci assistere a conversazioni inquietanti, come quella del 1963, in cui John Kennedy ordina agli uomini della sua amministrazione, che lo informano sulla condotta non gradita del presidente del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem: «fatelo fuori». «Diem venne rapito insieme a suo fratello. I due vennero uccisi a colpi i pistola e a pugnalate nel retro di un furgone blindato». E non meno sconcertanti sono le informazioni che si ricevono su personaggi ai quali, ad esempio, è andata per decenni la nostra simpatia umana e politica. Non si può rimanere indifferenti quando si apprende che dopo il fallito tentativo USA di invadere Cuba alla Baia dei Porci, nel 1961, Robert Kennedy «suggerì di far esplodere il consolato americano per giustificare l’invasione».

Ma in che cosa consiste il rovesciamento della storia ufficiale, da tutti accettata, degli ultimi 70-80 anni di storia mondiale? In breve, a partire dal dopoguerra, gli USA mettono in atto una strategia sempre più perfezionata per controllare e dominare economicamente e militarmente il maggior numero possibile dei paesi che si stavano liberando del colonialismo della Gran Bretagna, della Francia e dell’Olanda. Giova ricordare che in quei paesi, quasi ovunque, si affermano in quegli anni forze politiche nazionaliste che tentano di recuperare e gestire le proprie risorse, con processi di nazionalizzazione, ad esempio delle compagnie petrolifere (come fa in Indonesia il presidente Sukarno), delle miniere, delle piantagioni ecc. A queste riforme di solito si accompagnano programmi di alfabetizzazione della popolazione, costruzione di scuole pubbliche, distribuzione delle terre ai contadini, riforme agrarie. Tali strategie riformatrici di governi che intendono affacciarsi allo sviluppo economico dopo la guerra, seguono una politica equidistante tra Washington e Mosca, anche se talora sono appoggiati dai partiti comunisti nazionali. Ma essi sono guardati con sospetto e ostilità dagli USA che tramano segretamente per il loro rovesciamento. Talora è proprio la scoperta di tale ostilità che porta i dirigenti nazionalisti a guardare con favore e a chiedere appoggio a Mosca o a diventare comunisti, come accadde a Fidel Castro, dopo la fallita invasione americana di Cuba nel 1961.

Spesso a dare il via ai progetti dei colpi di stato sono le pressioni sulle amministrazioni americane delle compagnie petrolifere, o dei grandi proprietari terrieri, che vedono anche semplicemente contrastato il loro vecchio modello di sfruttamento coloniale delle risorse locali. Nel 1954 in Guatemala è il caso della United Fruit Company, sospettata di frodare il fisco. La pretesa del Governo guatemalteco di far rispettare gli obblighi fiscali alla ditta monopolista costò cara al Guatemala. Dopo due falliti colpi di Stato, «la Cia piazzò casse di fucili con l’effige della falce e del martello in modo che fossero “scoperti” e costituissero la prova della infiltrazione dei sovietici». Da li cominciò l’ingerenza armata degli USA, con varie vicende e campagne di terrorismo psicologico, di diffamazione dei comunisti come agenti di Mosca, a cui qui non possiamo neppure accennare. Il colpo di Stato si concluse con l’insediamento di Castillo Armas, il favorito degli USA. «In Guatemala tornò la schiavitù. Nei primi mesi del suo governo, Castillo Armas istituì il Giorno dell’anticomunismo e catturò e uccise dai tre ai cinquemila sostenitori di Arbenz» (il presidente deposto, che aveva avviato la riforma agraria).

Qui davvero è impossibile dar conto delle trame ingerenze messe in atto da tutte le amministrazioni USA degli ultimi 70 anni per controllare i paesi che uscivano dalle antiche colonizzazioni europee, spesso con l’aiuto del Regno Unito, maestro secolare di dominio coloniale, che in tanti casi rese onore alla sua tradizione sanguinaria. Lo fecero spesso con colpi di Stato poche volte falliti, ma spesso ripetuti fino al finale cambio di regime: in Iran (1953), Guatemala (1954), Indonesia (1958 e 1965), Cuba (1961), Vietnam del Sud (1963), Brasile (1964), Ghana (1966), Cile (1973) e un numero incalcolabile di sabotaggi, uccisioni, condizionamenti delle politiche del vari governi. Senza mettere nel conto la guerra contro il Vietnam, scatenata con il falso pretesto dell’“incidente del Tonchino”, che provocò 3 milioni di morti, oltre ai vasti bombardamenti con gli elicotteri dei villaggi contadini «in Cambogia e Laos [dove] ne morirono molti di più». Ricordo che dopo il colpo di stato in Brasile non ci furono più elezioni per 25 anni e la violenta dittatura di Suharto, in Indonesia, durò 32 anni.

Gli strumenti di queste politiche erano – come scrive lapidariamente Bevins – «esercito e finanza». I capi di tanti eserciti nazionali si erano formati spesso nelle scuole militari degli USA, e comunque venivano corrotti da ingenti finanziamenti americani, donazioni e vendite di armi, manovrati dalla Cia. In tante realtà si creò una scissione tra i governi indipendenti, che spesso venivano economicamente strozzati dai sabotaggi commerciali e finanziari, e i sistematici finanziamenti segreti forniti agli eserciti. Ma il cemento ideologico più determinante, e forse in assoluto la leva più potente che rese possibile l’intero progetto, fu la propaganda anticomunista, con tutto il repertorio di orrori fasulli di cui venivano ritenute responsabili le forze che vi si ispiravano. La minaccia del comunismo, oltre ad essere una formidabile arma di controllo sociale interno dei gruppi dirigenti americani, fu il fondamento psicologico e culturale, potremmo definirlo egemonico, su cui i vari golpisti riuscirono a coinvolgere nei massacri anche pezzi di popolazione civile. Uno strumento di persuasione di massa reso possibile dal fatto che in quasi tutti i paesi “attenzionati” dagli USA, la stampa era in mano ai grandi proprietari terrieri, o alle compagnie petrolifere, ostili alle riforme agrarie e alle nazionalizzazioni, in grado di imbastire campagne di falsificazione su larga scala, fondate su racconti di storie inventate, riprese dalle radio, talora trasformati in film e documentari.

Che cosa è il Metodo Giacarta? In breve. L’Indonesia, il quarto paese più popoloso del pianeta, che ospitava il terzo più grande Partito comunista del mondo (PKI), sostenuto da milioni di militanti, non poteva restare indipendente. Dopo vari tentativi falliti, uno riuscì e fu il più sanguinoso dei piani messi in atto dagli USA. Il pretesto definitivo fu un oscuro episodio ancora oggi non chiarito. Alcuni militari sequestrarono cinque generali dell’esercito indonesiano che poi furono trovati uccisi. Fu lanciata allora una campagna su larga scala di terrore psicologico, attraverso la stampa, la radio, i comizi. Venne sparsa la voce che i cinque uomini fossero stati oggetto di sevizie, mutilati dei genitali e poi massacrati, mentre alcune donne danzavano nude intorno a loro, svolgendo riti satanici. Nel 1987, quando tutto era ormai dimenticato, venne alla luce che la storia era un falso, i generali, secondo l’autopsia fatta eseguire allora da Suharto, il golpista a servizio degli USA che estromise il presidente Sukarno, aveva rivelato che erano tutti morti per colpi di arma da fuoco, eccetto uno, ucciso da una lama di baionetta, probabilmente durante il sequestro nel suo appartamento. Quel che seguì a Giacarta e in tutte le isole dell’arcipelago, dopo quella provocazione e quella campagna di caccia ai terroristi comunisti, è difficile da immaginare e da raccontare: «Le persone non venivano ammazzate nelle strade, non venivano giustiziate ufficialmente, le famiglie non erano sicure che fossero morte: venivano arrestate e poi scomparivano nel cuore della notte». Solo giorni dopo, come si vide ad esempio nel fiume Serayu, «gli omicidi di massa divennero evidenti: i corpi ammassati erano così tanti da ostacolare il corso del fiume e il tanfo che emanavano era orribile». In proporzione agli abitanti, l’isola che che subì la quota maggiore di uccisioni fu Bali, il 5% della popolazione, oltre 80 mila persone finite a colpi di machete. Non andò bene alle indonesiane: «Circa il 15% delle persone prese prigioniere furono donne. Vennero sottoposte a violenze particolarmente crudeli e di genere», ad alcune «tagliarono i seni o mutilarono i genitali; gli stupri e la schiavizzazione sessuale erano diffusi ovunque». Alla fine i morti complessivi, secondo calcoli necessariamente sommari, si aggirarono tra 500 mila e 1 milione di persone, mentre un altro milione venne rinchiuso nei campi di concentramento. Il PKi, cui non poté essere addebitata nessuna sommossa o violenza, venne sterminato. A compiere i massacri furono i militari indonesiani, le squadre armate dei proprietari terrieri, bande di persone comuni assoldate o sobillate dalla propaganda. «Le liste delle persone da uccidere non furono fornite all’esercito indonesiano soltanto dai funzionari del governo degli Stati Uniti: alcuni dirigenti di piantagioni di proprietà americana diedero i nomi di sindacalisti e comunisti “scomodi” che poi furono uccisi». Più tardi il Tribunale internazionale del Popolo per il 1965 convocato all’Aja nel 2014, dichiarò i militari indonesiani colpevoli di crimini contro l’umanità, e stabili che il massacro era stato realizzato allo scopo di distruggere il Partito comunista e «sostenere un regime dittatoriale violento» e che esso venne realizzato con il supporto degli USA, del Regno Unito e dell’Australia. Dopo il 1965 il Metodo Giacarta venne teorizzato da molti dirigenti filoamericani dell’Asia e dell’America Latina e usato anche come parola d’ordine con cui venivano terrorizzati i dirigenti comunisti e i politici nazionalisti che proponevano riforme e nazionalizzazioni. Venivano minacciati facendo circolare la voce: «Giacarta sta arrivando» .

Alcune considerazioni per concludere. Noi conosciamo da tempo molte delle operazioni, spesso ben documentate, condotte dagli USA in giro per il mondo almeno a partire dal dopoguerra. Nel voluminoso William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti (Fazi, 2003, ed. orig. Killing Hope. U.S. Military and CIA Interventions Sine World War II, 2003, che meglio rispecchia contenuto del volume e intenzioni dell’autore), se ne trova, da oltre 20 anni, un repertorio vastissimo e di impeccabile serietà storiografica. Ma il libro di Bevins ha qualcosa in più. Esso non mostra soltanto come gli USA abbiano condotto una politica estera fondata sulla violazione sistematica del diritto internazionale, spesso calpestando il diritto alla vita di milioni di persone. Non è solo questo, che sarebbe sufficiente per illuminare di luce meridiana le ragioni dell’attuale “disordine” mondiale. Il Metodo Giacarta mostra che cosa ha prodotto quella guerra segreta, che ha impedito l’emancipazione dei popoli usciti dal dominio coloniale e la nascita di un terzo polo mondiale dei paesi cosiddetti “non allineati”: cioè equidistanti rispetto a Washington e Mosca. Il grande progetto di mutua cooperazione avviato con la Conferenza di Bandung nel 1955, di cui Sukarno era stato uno dei protagonisti, si dissolse. I paesi del Sud del mondo vennero ricacciati nella loro subalternità che in tanti casi si è protratta fino quasi ai nostri giorni.

Perciò Bevins può scrivere, alludendo ai colpi di stato in Brasile e Indonesia: «La cosa più sconvolgente, e la più importante per questo libro, è che i due eventi in molti altri paesi portarono alla creazione di una mostruosa rete internazionale volta allo sterminio di civili – vale a dire al loro sistematico omicidio di massa – e questo sistema ebbe un ruolo fondamentale nel costruire il mondo in cui viviamo oggi». È, infatti, il nostro tempo che questo libro rende comprensibile. Alla luce di quanto accaduto, le guerre intraprese dagli USA, da soli o con la Nato, ispirate alla retorica delle lotta al terrore o all’esportazione della democrazia, in Jugoslavia, Afganistan, Iraq, Libia, Siria e ora in Ucraina, non sono una svolta aggressiva della politica estera USA nel nuovo millennio, ma la continuazione coerente del perseguimento del proprio dominio globale, da mantenere con ogni possibile mezzo.

FONTE: https://volerelaluna.it/mondo/2024/04/22/gli-usa-e-il-metodo-giacarta-il-massacro-delle-popolazioni-come-politica-estera/

LE RICETTE FALLITE DEI 7 NANI E I DUE PESI SU IRAN E ISRAELE

di Elena Basile

Sembra un film distopico. I leader dei Sette Paesi, che un tempo erano i più sviluppati del mondo e oggi costituiscono una minoranza arroccata alla propria potenza militare e in declino economico, diffondono sui media la loro fotografia in una giornata di sole con lo sfondo dei Faraglioni di Capri. E noi abbiamo l’impressione che il genere umano sia ostaggio di politiche deliranti, senza veri scopi strategici, terribilmente dannose per i cittadini occidentali in quanto causano povertà, disparità sociale, recessione, distruzione dell’industria e della transizione verde, negazione dello stato sociale, guerra e rischio di conflitto nucleare.

Si sono riuniti per confermare la strategia che per due anni è risultata perdente: armare l’Ucraina per condurre la Russia a una “pace giusta”. Giusta per chi?
Per Zelensky o per le popolazioni russofone? Giusta per noi occidentali o per i russi? Che significa pace giusta? La pace è stata storicamente il risultato della diplomazia che ha dovuto necessariamente tenere in conto gli opposti interessi in gioco e le forze in campo. Era giusto considerare la Russia il perdente della Guerra fredda?
No, era una constatazione di fatto. Dal 1989 al 2007 Mosca ha dovuto ingoiare le prepotenze occidentali, inclusi i bombardamenti su Belgrado e due allargamenti della Nato. Poi ha rialzato la testa, notando che il mondo cominciava a cambiare e gli emergenti si organizzavano intorno alla Cina. Si è opposta al colpo di Stato ucraino di piazza Maidan e ha conservato le basi di Sebastopoli sul mar Nero annettendo la Crimea. Erano giusti il colpo di Stato a Kiev e la reazione russa di annettere la Crimea senza spargimenti di sangue?

La giustizia nelle relazioni internazionali è una categoria discutibile. Il diritto internazionale dal 1989 in poi, per non andare troppo indietro negli anni, è stato violato ripetutamente dagli Stati Uniti, da Israele e dall’Occidente con le guerre “umanitarie” (Bel grado, Afghanistan, Iraq, Siria, Libia). Come ricorda Piergiorgio Odifreddi, dal 1991 si contano 250 interventi militari Usa al di fuori dei loro confini. In tutto il mondo abbiamo 800 basi militari Usa (la Cina ne ha una sola a Gibuti). In Italia ve ne sono 35, anche nucleari. Come possono i politici delle democrazie europee balbettare parole senza senso che poco hanno a che vedere con la storia e con la realtà? Si creano categorie morali funzionali ai nostri interessi. L’opinione pubblica introietta luoghi comuni che distorcono le vere dinamiche internazionali.

Al G7, su proposta di Ursula von der Leyen – presidente della Commissione che dovrebbe incarnare il pilastro comunitario, la base dei sogni dei federalisti europei – si avallano nuove sanzioni all’Iran, colpevole dopo due attacchi terroristici con centinaia di morti e la violazione israeliana della loro rappresentanza diplomatica, di reagire simbolicamente, concordemente con la Cia, senza provocare morti. I difensori della democrazia liberale e dei diritti umani non impongono alcuna sanzione a Israele che, oltre a violare il diritto internazionale e umanitario, a rendersi colpevole di crimini di guerra a Gaza e in Cisgiordania, con l’attentato all’ambasciata iraniana di Damasco, ha confermato di avere un governo terrorista. Il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, artefice dell’attacco alla Libia, ha avuto la sfrontatezza di affermare che la risposta senza danni e morti di Teheran era sproporzionata rispetto all’attacco all’ambasciata iraniana in Siria con numerose vittime. Mai la classe dirigente è sembrata così lontana dal senso comune, dalla morale comune, come oggi.

Due italiani, Mario Draghi ed Enrico Letta – e dovremmo pure esserne fieri – hanno stilato vecchie proposte in nuovi documenti sul mercato comune, sugli investimenti nei beni comuni, sul debito comune, sulla politica industriale europea, sulla crescita di ricerca e sviluppo, sull’Europa della difesa. Un parziale scimmiottamento di quanto Mario Monti aveva già scritto e i “riformisti” dell’Europa hanno ripetuto per anni senza che nulla mutasse. Ma oggi la dissonanza è più grave. Essi hanno sbagliato previsioni sulla fine della guerra in Ucraina, sono complici del massacro dei diciottenni ucraini e della crisi economica europea, della fine di una voce in grado di proteggere le finalità europee in ambito Nato. A riprova che non esiste la responsabilità per le proprie azioni e i propri sbagli, ritornano sul palco per venderci il sogno di un’Europa unita, indipendente, in grado di investire nei beni comuni, nella sua industria, nella sua ricerca, nella sua difesa.
Già: la difesa in un quadro di autonomia strategica dagli Usa o come braccio armato degli interessi di oltreoceano? Domande ignorate da Tajani e dagli altri esponenti di una Ue che ha sdoganato il mostro fascio-nazista affinché, una volta al potere, si allinei ai voleri delle oligarchie.

FONTE: Il Fatto Quotidiano, 20 Aprile 2024

Regressione europea targata Draghi

di Barbara Spinelli

Già alcuni salutano festosi Mario Draghi, autore di uno dei tanti rapporti che l’esecutivo europeo affida a tecnici esterni, e cadendo subitamente in estasi lo incoronano re, per grazia ricevuta non da Dio o dall’Ue o magari dal popolo, ma dalla grande stampa italiana sempre bramosa di recitare in coro gli stessi copioni.
C’è chi canta fuori dal coro, come l’economista Fabrizio Barca su questo giornale, ma il boato degli osanna ne sommerge la voce. Ha fatto bene Giorgia Meloni a dire quello che dovrebbe essere ovvio: non è questo il momento di nominare il presidente della Commissione o del Consiglio europeo. Le elezioni europee devono ancora cominciare e il popolo elettore non conta niente nelle nomine, ma un pochettino magari sì, se il futuro Parlamento europeo oserà ascoltarlo.

Quanto a Draghi, non dice né sì né no: lui scende dalle stelle, non sa cosa sia il suffragio universale, già una volta disse – quando guidava la Banca centrale europea e in Italia irrompevano in Parlamento i 5 Stelle – che le votazioni vanno e vengono ma non importa, per fortuna c’è il “pilota aut o m at i c o ” che impone quel che s’ha da fare: austerità, privatizzazioni, compressione dei redditi, pareggio dei bilanci iscritto nella Costituzione come in Germania (la Germania già sembra pentita). Era il 2013 e un anno prima Draghi si era detto “pronto a fare qualsiasi cosa per preservare l’euro”. Il whatever it takes fu accolto come salvifico dagli incensatori, specialmente a Berlino. Il prezzo, tristissimo, lo pagò la Grecia che venne tartassata e umiliata .
Anni dopo, nel 2018, il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker riconobbe l’errore: “La dignità del popolo greco è stata calpestata” dall’Unione. Sono patemi estranei a chi si affida ai piloti automatici.

Forse per questo ora Draghi preconizza “cambiamenti radicali” e trasformazioni che “attraversino tutta l’economia europea”, e mette sotto accusa le strategie che fin qui hanno frammentato l’Unione, inducendo gli Stati membri a “ridurre i costi salariali l’uno rispetto all’altro”. Fa un po’ specie una denuncia simile (l’Europa ha sbagliato quasi tutto), come se negli ultimi decenni lui fosse vissuto sulla Luna, mentre è stato direttore generale del Tesoro responsabile delle privatizzazioni, managing director in Goldman Sachs, governatore della Banca d’Italia, presidente della Bce, capo del governo italiano. Forse vuol abbassare Ursula von der Leyen, cui potrebbe eventualmente succedere. Ma il discorso tenuto a Bruxelles non è diverso da quello di Von der Leyen.

La concorrenza fra le due persone è finta. A chi legga il discorso dell’ex presidente del Consiglio, tutto verrà in mente tranne che un pensatore e un protagonista politico. Draghi è un tecnico, impermeabile per via del pilota automatico alle sorprese di un voto nazionale o europeo. Nelle parole che dice e nel rapporto sulla competitività che presenterà a giugno, si mette al servizio di un’Europa-fortezza ineluttabilmente in guerra, e che lo sarà a lungo visto che le parole “pace” e “diplomazia” sono spettacolarmente assenti. Abbonda invece, sino a divenire filo conduttore, la parola “difesa”, che appare ben nove volte.

Prima di credere nel “cambiamento radicale” che Draghi promette, varrebbe la pena capire quel che intende quando suggerisce di competere più efficacemente con Stati Uniti e Cina, indossando gli abiti e le abitudini di un’Europa più compatta, economicamente, industrialmente e tecnologicamente. Se i Paesi rivali sono più forti, dice, è anche perché sono “soggetti a minori oneri normativi e ricevono pesanti sovvenzioni”. L’Europa soffre di troppe norme (immagino parli di clima, welfare, commercio) e le converrà adattarsi.

Passando alla crisi demografica, non è in vista alcun “cambio radicale”, ma l’accettazione condiscendente, passiva, dell’esistente: l’avanzata di una destra al tempo stesso sia neoliberista sia neoconservatrice. Ragion per cui è accettata per buona un’Europa che diventi fortezza non solo armandosi, ma anche chiudendosi a migranti e rifugiati. Draghi volonterosamente prende atto senza batter ciglio che la fortezza è ormai una realtà: “Con l’invecchiamento della società e un atteggiamento meno favorevole nei confronti dell’immigrazione , dovremo trovare queste competenze (lavoratori qualificati mancanti) al nostro interno”.

Dicono gli osannanti che Draghi è il glorioso erede dei padri fondatori dell’Europa, e infatti l’ex presidente del Consiglio promette una “ridefinizione dell’Unione europea non meno ambiziosa di quella operata dai Padri Fondatori”. Ma il suo non è un ritorno all’Europa della pianificazione industriale e dello Stato sociale, tanto è vero che l’Europa da “trasformare” viene da lui definita come “nuovo partenariato tra gli Stati membri” o come “sottoinsieme di Stati membri”, da cui sono esclusi coloro che non ci stanno: una Coalizione di Volonterosi insomma, formula usata nelle tante guerre di esportazione della democrazia.
Dopo la scomparsa della Comunità, scompare anche il termine che l’aveva sostituita: Unione. Un partenariato siffatto, una Difesa Comune senza politica estera europea e senza Stato europeo, è di fatto – e inevitabilmente – al servizio della Nato e della potenza politica Usa che la guida. L’Europa ai tempi della fondazione era innanzitutto un progetto di pace. Fingere di tornare a quei tempi è pura prestidigitazione. Si alleano fra loro i tecnici, le élite che mai si misurano alle urne. Sono loro ad aderire al cosiddetto ordine internazionale basato sulle regole (rules-based international order) propagandato da Washington da quando Unione europea e Nato son diventate sinonimi e hanno ufficialmente adottato l’economia di guerra contro la minaccia russa e cinese.

Secondo Draghi, tale ordine globale è stato corroso da forze esterne al campo euro-atlantico. “Credevamo nella parità di condizioni a livello globale e in un ordine internazionale basato sulle regole, aspettandoci che gli altri facessero lo stesso. Ma ora il mondo sta cambiando velocemente, e siamo stati colti di sorpresa“. Neanche un minuto il sorpresissimo Draghi è sfiorato dal sospetto che i primi a violare le regole internazionali, i patti sulla non espansione della Nato, le convenzioni sulla guerra, la tortura, il genocidio, sono stati gli occidentali, a partire dagli anni 90, e con loro lo Stato di Israele. Ci limitiamo agli ultimi casi: l’Amministrazione Usa che giudica “non vincolante” una risoluzione Onu sulla guerra di Gaza che è a tutti gli effetti un vincolo; le violazioni del diritto internazionale nelle ripetute guerre di regime change, la mancata condanna dell’assassinio di alti dirigenti militari iraniani nell’annesso consolare dell’ambasciata di Teheran in Siria, cioè in territorio iraniano (attentato terroristico a cui Teheran ha reagito con l’invio di droni e missili).
Da bravo tecnico, Draghi ignora volutamente queste quisquilie e resta convinto che le regole – non quelle Usa, ma le uniche globalmente legittime: quelle dell’Onu – non siamo mai stati noi a infrangerle.

FONTE: Il Fatto Quotidiano del 20 Aprile 2024

“Israele ha ucciso operatori umanitari a Gaza per fermarci”: il racconto di Oscar Camps (Open Arms) a Fanpage

Òscar Camps, fondatore e direttore della Ong Proactiva Open Arms, in un’intervista a Fanpage.it ripercorre il bombardamento con cui l’esercito israeliano ha ucciso sette operatori umanitari che stavano portando alimenti a Gaza. Ora i viaggi si sono fermati: “Non posso mettere a rischio la vita dei miei operatori, se non c’è un cessate il fuoco”.

A cura di Elena Marisol Brandolini

Òscar Camps è un soccorritore, attivista e imprenditore catalano, fondatore e direttore della Ong spagnola Proactiva Open Arms. Assieme alla Ong americana World Central Kitchen dello chef spagnolo José Andrés, Open Arms ha realizzato una missione a Gaza, aprendo per la prima volta, dopo trent’anni, un corridoio marittimo, per portare viveri alla popolazione palestinese. In questa occasione, sette attivisti della WCK sono rimasti uccisi sotto le bombe sganciate dagli israeliani, mentre portavano a termine l’operazione di sbarco dei viveri sulla Striscia. Ne parliamo con Camps, presso gli uffici della sua Ong, nel porto di Badalona.

Ci racconta la sua missione via mare a Gaza?

Pensavo che bisognasse fare qualche cosa per aiutare la popolazione palestinese, ma non sapevo come. Alla fine dello scorso novembre, mi telefonò José Andrés, con lui e la sua Ong, World Central Kitchen, avevamo fatto una missione in Ucraina al principio della guerra, partendo dalla Romania, attraversando il Mar Nero e risalendo il Danubio. Ed era andata molto bene, avevamo fatto quattro viaggi per portare viveri alla popolazione.

E nel caso di Gaza come avete operato?

Andrés voleva fare qualcosa anche a Gaza, mi disse che lì aveva 60 cucine con 300 persone che vi lavoravano per offrire pasti caldi. Era già intervenuto prima in occasione dell’attentato di Hamas e poi, quando sono cominciati i bombardamenti su Gaza, si era spostato sulla Striscia. Ma i camion di viveri non potevano entrare via terra e allora mi propose di allestire una via marittima. Cominciò quindi a muovere tuti i suoi contatti diplomatici, era stato consulente di Obama e ora lo è di Biden alla Casa Bianca, in materia alimentare; Andrés è una persona molto conosciuta, è stato presente in tutti i conflitti in giro per il mondo. Si mise quindi a cercare la maniera di ottenere i permessi per aprire una via marittima. Il 20 dicembre, il ministro degli Esteri israeliano annunciava l’apertura di un corridoio umanitario marittimo dal porto di Larnaca a Cipro fino a Gaza. Pensammo allora che avremmo potuto utilizzare quel corridoio per fare entrare i viveri nella Striscia e cominciammo a prepararci per il viaggio. Noi eravamo in Italia in quel momento, ci avevano bloccati da venti giorni a Crotone.

Cosa aveva mosso Israele ad annunciare l’apertura del corridoio?

Non era stato certo per i contatti di Andrés, capimmo solo più avanti come fosse andata. Appena ci lasciarono partire da Crotone, viaggiammo alla volta di Larnaca con tutti i viveri a bordo. Arrivati, chiedemmo del corridoio, parlammo col governo di Cipro, Andrés andò in Israele a incontrare il ministro degli Esteri. E ci rendemmo conto che era un corridoio finto, perché aveva un porto di uscita ma non di attracco a Gaza, ossia il corridoio non esisteva. E qui cominciò la prima difficoltà: dovevamo fare un progetto per sbarcare sulla spiaggia i viveri. Dal momento che noi siamo esperti di spiagge, abbiamo allestito un progetto di carico, trasporto e sbarco sulla spiaggia, che includeva la costruzione di un piccolo frangiflutti per poter portare una piattaforma flottante trainata da Open Arms con 200 tonnellate di viveri, accostarla al frangiflutti e da lì scaricare i viveri con i camion. Allora, mettemmo in campo tutta la pressione politica necessaria.

In che modo?

José Andrés andò in Giordania per incontrare il re, dicendogli che stavamo presentando un progetto per rendere effettivo il corridoio di Israele e chiedendone il sostegno. Andò a cercare l’appoggio anche degli Emirati Arabi e degli Stati Uniti, conseguendo una pressione diplomatica tale che Israele ci propose di presentargli il progetto. Ci furono molte riunioni, rimanemmo un mese a Larnaca per preparare tutto e alla fine Israele autorizzò la missione: d’altronde non potevano fare altrimenti, perché avevano annunciato il corridoio. Andrés, allora, inviò gente sua a Gaza per realizzare il frangiflutti, mentre Israele cercava di rendere difficile l’operazione con ispezioni continue, rallentando i tempi dei lavori. Magari pensavano che non ne saremmo stati capaci e invece ci riuscimmo.

Come si arriva all’attentato in cui vengono uccisi sette cooperanti della WCK?

Non appena Israele approva il progetto, Biden annuncia che una Ong e gli Stati Uniti avrebbero fatto un porto: rimaniamo molto sorpresi, perché il porto lo avevamo costruito noi… Allora, Ursula von del Leyen arriva a Cipro e, senza neppure passare a salutarci, informa in conferenza stampa che il corridoio umanitario europeo sarà presto in funzione… Ossia, tutti si ascrivono il merito dell’operazione. Facciamo il primo viaggio e rientriamo con l’idea di farne altri. A quel punto, gli Emirati Arabi affittano un’imbarcazione, la Jennifer, con 600 tonnellate di viveri per partecipare alla missione. Ovviamente, in una situazione del genere, conta molto l’elemento meteorologico, perché col mare cattivo diventa impossibile sbarcare i viveri. Appena il tempo si ristabilisce ci muoviamo tutti per il secondo viaggio, con l’Open Arms, la Jennifer e un altro rimorchiatore ad accompagnarci.

Prima però va rimesso a posto il frangiflutti che era stato danneggiato dal maltempo e Andrés invia dei lavoratori apposta a Gaza. Ricominciano le difficoltà messe in atto per rallentare i lavori da parte delle autorità israeliane, che ci avevano contingentato i tempi dell’operazione. Comunque ci riusciamo, la Jennifer rimane in acque internazionali e noi entriamo con la piattaforma a Gaza con i viveri, la svuotiamo e torniamo a ricominciare, per finire col trasportare tutte le tonnellate di cibo. Ossia, il corridoio comincia a essere aperto stabilmente, vi è la presenza di altri paesi, con una quantità di viveri consistente: a quel punto, credo che Israele si renda conto che è un processo che si va consolidando. Finiamo di scaricare i viveri e mentre ce ne stiamo andando verso le acque internazionali per un altro carico, cominciano a bombardare gli operatori della WCK che erano rimasti a terra, ammazzandoli tutti.

Avete assistito alla tragedia?

Non l’abbiamo vista ma l’abbiamo sentita, eravamo in mare, abbiamo sentito il bombardamento e le grida per radio, hanno sganciato tre bombe…

Hanno ucciso intenzionalmente?

Certo, hanno attaccato prima la terza macchina dove c’era il personale addetto alla sicurezza, erano state rispettate tutte le richieste avanzate dalla autorità israeliane, la rotta era stabilita, avevano i passaporti di tutti noi, tutto era in regola, eravamo in zona di controllo dell’esercito israeliano. Avrebbero potuto attaccare loro come noi, che eravamo molto vicini. Hanno bombardato la macchina come avrebbero potuto bombardare la nostra imbarcazione.

Perché lo hanno fatto?

Io credo che volessero fermare tutto. Aprire una via umanitaria per mare e non metterci un porto è già un modo per generare una falsa aspettativa, poi arrivano questi da Badalona e risolvono il tema del porto mancante, riescono a sbarcare i viveri nonostante le difficoltà una, due volte… Quando l’operazione si va consolidando, bombardano e finisce tutto.

Pensate di tornarci?

Non posso mettere a rischio la vita dei miei operatori, se non c’è un cessate il fuoco. Questa via non era la soluzione, era solo una via in più. La soluzione è un cessate il fuoco e la pace. E adesso è tutto fermo.

E la WCK?

Hanno fermato tutto. Loro a Gaza hanno dei collaboratori locali, il resto è tutto fuori ormai. E a Cipro io ho l’imbarcazione e ci sono ancora tonnellate di cibo non distribuito, dovremo vedere cosa farne.

Conosceva le persone che sono state uccise?

Sì, avevamo lavorato insieme. Eravamo a Cipro all’inizio per preparare tutto e poi avevamo viaggiato verso il frangiflutti. Quando erano a Gaza già non ci vedevamo più, ma ci parlavamo per telefono.

Le è parso sufficiente il cordoglio espresso dalle cancellerie europee e dagli Stati Uniti per la strage?

Non capisco come la presidente della Commissione possa venire a Larnaca ad annunziare che rappresentiamo la prova pilota del corridoio umanitario europeo e quando poi vengono uccisi gli operatori umanitari della prova pilota europea, si limiti a esprimere le condoglianze. Mi sembra un livello di ipocrisia così alto che mi defrauda.

Borrell ha detto che Israele sta utilizzando la fame come un’arma di guerra, che ne pensa?

Quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio pensato per eliminare il massimo di gente possibile, davanti alla passività degli Stati. Non posso capacitarmi che si ammazzino oltre 30.000 persone, che si permetta in pieno secolo XXI a uno Stato di comportarsi così. Ci sono norme che il diritto internazionale impone anche alle guerre.

Che ne pensa del cessate il fuoco che si sta discutendo all’Onu?

Credo che la situazione richieda un intervento, se non si arriva al cessate il fuoco. Va fermata immediatamente. La Spagna vende armi a Israele, tutti esprimono cordoglio ma vendono armi, c’è un alto grado di cinismo e di ipocrisia nella classe politica mondiale. Incriminare Netanyahu per crimini di guerra non è un’assurdità, a lui interessa far crescere il conflitto per mantenersi nel potere. La stessa società israeliana sarebbe dovuta intervenire. È una vergogna globale.

continua su: https://www.fanpage.it/politica/israele-ha-ucciso-operatori-umanitari-a-gaza-per-fermarci-il-racconto-di-oscar-camps-open-arms-a-fanpage/
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L’aziendalizzazione delle politiche di gestione del Servizio Idrico Integrato: il caso del Basso Valdarno

Il caso del Basso Valdarno dove Acque Spa, società a capitale pubblico-privato, gestisce il servizio con logiche manageriali tese alla massimizzazione dei profitti

di Andrea Vento

Il progressivo affermarsi delle politiche neoliberiste durante gli anni ’90 del XX secolo ha comportato per il nostro Paese, non solo una massiccia campagna di privatizzazione di aziende pubbliche strategiche (energetiche, bancarie, siderurgiche, meccaniche, telefoniche ecc..) ma ha anche determinato un graduale passaggio della fornitura di fondamentali servizi per la cittadinanza come rifiuti e acqua da una gestione pubblica al servizio della collettività, ad una caratterizzata da criteri manageriali con finalità di profitto. Questa profonda trasformazione ha praticamente accomunato, , le tre tipologie di società che in quegli anni avevano assunto la gestione del servizio idrico integrato nei neo costituiti Ambiti Territoriali Ottimali (ATO) in tutto il territorio nazionale1.

La gestione del servizio riguarda le infrastrutture: la proprietà dei beni costituenti la dotazione del Servizio Idrico appartiene allo Stato, alle Province e ai Comuni. Il gestore ne dispone per concessione gratuita e ne usufruisce del possesso.

Il comune può gestire il Servizio Idrico direttamente (in economia) oppure decidere di affidarlo, secondo quanto previsto dal decreto Sblocca Italia del governo Renzi del settembre 2014, per cui il Servizio idrico Integrato può essere assegnato in gestione attraverso:

• concessione a soggetti privati che abbiano vinto una gara di appalto;

• affidamento a società mista pubblico privato (con progressiva imposizione del gestore unico per ogni ATO, scelto tra coloro che già gestiscono il servizio del 25% della popolazione (art. 7 comma 1 lettera d e lettera i dello Sblocca Italia) vale a dire le grandi aziende e le multiutilities, anche appositamente create;

• affidamento a società per azioni a completo capitale pubblico partecipate dai comuni e/o da enti e società pubbliche locali;

• affidamento in house alla propria società a capitale interamente pubblico.

Ne consegue che il Servizio Idrico in Italia può essere gestito da società interamente pubbliche, da società private o da società miste pubblico/privato. La popolazione italiana nel 2018 risultava servita per:

• il 53% da società totalmente pubbliche;

• il 32% a maggioranza / controllo pubblici;

• il 12% da Comuni che gestiscono direttamente il servizio (cosiddetta «gestione in economia»);

• il 2% da società interamente privata;

• l’1% è da società miste a maggioranza privata2.

Soprattutto al Centro Italia, e in Toscana in particolare, il modello societario prescelto per la gestione è risultato quello delle società a capitale misto pubblico-privato ma con management espresso dalla parte privata, tramite affidamento diretto della gestione da parte dell’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale (AATO), l’Autorità Idrica Toscana3. Ciò, nonostante il primo referendum sul tema della acqua del giugno 2011 prevedesse, si legge sul sito del Ministero dell’Interno, “L’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali ad operatori privati”4. In sostanza lo schiacciante esito favorevole del 95%, espresso dal 55% degli aventi diritto al voto, che ha imposto il ritorno della gestione del servizio idrico integrato in mano pubblica e con criteri a beneficio della collettività è rimasto in pratica inapplicato, salvo alcune rare eccezione di amministratori locali virtuosi che hanno proceduto in tale direzione. Come nel caso della Giunta De Magistris a Napoli tramite la creazione di Acqua Bene Comune, sorta nel 2013 dalla trasformazione di ARIN, Spa totalmente partecipata dal comune di Napoli, in Azienda Speciale comunale5.

Ed appurato che il secondo quesito referendario relativo alla determinazione delle tariffe del servizio idrico integrato, anch’esso approvato con percentuali analoghe, contemplasse “L’abrogazione parziale delle norme che stabiliscono la determinazione della tariffa per l’erogazione dell’acqua, il cui importo prevede anche la remunerazione del capitale investito dal gestore”, vale a dire una rendita finanziaria garantita pari al 7% del capitale investito, benefit che non ha in pratica eguali in altri comparti, si sarebbe dovuto procedere alla sottrazione della determinazione delle tariffe dalle logiche del mercato e del profitto, a prescindere dalle tipologie di società che forniscono il servizio.

Il caso dell’Ato Toscana 2 del Basso Valdarno

Dalla nostra analisi relativa alle trasformazioni subite, dalla fine del secolo scorso, dal servizio idrico integrato (SII) del Basso Valdarno, emerge come a seguito del parziale processo di privatizzazione e soprattutto di passaggio alla gestione manageriale, siano stati introdotti profondi cambiamenti rivelatisi particolarmente penalizzanti per gli utenti. Infatti, da un servizio erogato con basse tariffe direttamente dalle amministrazioni comunali, la prima trasformazione è avvenuta con la creazione di società municipalizzate, vale adire Società per azioni controllate interamente dai Comuni. Per poi procedere al successivo passaggio in direzione della radicale trasformazione della finalità gestionali, con la creazione della società a capitale misto pubblico-privato e l’assegnazione diretta del servizio a partire dal 1 gennaio 2002, senza gara di appalto ad Acque Spa.

Acque Spa: cenni storici e composizione societaria

Acque Spa è una società a capitale misto pubblico-privato alla quale, dall’inizio del 2002, l’Autorità di Ambito Territoriale Ottimale ha affidato in forma esclusiva la gestione del servizio idrico integrato di 55 comuni del Basso Valdarno (ATO Toscana 2) distribuiti su 5 province, Pisa, Firenze, Pistoia, Lucca e Siena, ai quali da allora fornisce i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione ad una popolazione che attualmente ammonta a circa 800.000 persone.

La società monopolista sorse il 17 dicembre 2001 dalla concentrazione di cinque società pubbliche operanti su di un vasto territorio che dall’entroterra della Toscana settentrionale arriva fino alla costa tirrenica: Gea di Pisa, Publiservizi di Empoli (Fi), Cerbaie di Pontedera (Pi), Coad di Pescia (Pt) e Acqapur di Capannori (Lu), prevedendo l’ingresso nel capitale sociale di soggetti privati con una importante quota di minoranza. In linea con gli impegni stabiliti dalla convenzione di affidamento del servizio, Acque Spa nel 2003 ha espletato, a suo dire, una gara ad evidenza pubblica a livello europeo per la selezione di un partner privato, che si è conclusa con l’aggiudicazione del 45% del capitale sociale da parte di Abab SpA. Società, con sede a Roma in piazzale Ostiense 2, costituita appositamente in data 21 dicembre 2003 da Acea S.p.A., Ondeo Services Società Anonima di diritto francese (ora Suez Environnement S.A.), Monte dei Paschi di Siena S.p.A., SILM Società Italiana per Lavori Marittimi S.p.A., Ondeo Degremont S.p.A. (ora Degremont S.p.A.) e dal Consorzio Toscano Costruzioni C.T.C. s.c.a.r.l. e, come si apprende dalla visura camerale6, avente per “oggetto l’assunzione e la gestione della partecipazione di minoranza di Acque Spa”.

Carta 1: il territorio dell’ATO Toscana 2 del Basso Valdarno

Il capitale sociale di Abab spa, che nel 2024 ammonta ad 8 milioni di euro, dopo varie modifiche registrate negli anni, attualmente, secondo il sito ufficiale di Acque Spa7, risulta controllato da Acea Spa, Suez Italia Spa, Vianini Lavori Spa e CTC Società Cooperativa.

Senza lasciarsi fuorviare dalla poetica denominazione di Abab spa, acronimo di “Acque blu basso Valdarno”, la società ha come classificazione della propria attività economica (Ateco) “Attività delle società di partecipazione” vale a dire rappresenta una holding, una società che controlla il capitale sociale di altre imprese, ed i cui attuali soci meritano di essere brevemente inquadrati per facilitarne la comprensione delle linee strategiche aziendali.

Acea, acronimo di “Azienda comunale energia e ambiente”, è l’ex municipalizzata del comune di Roma che “nel corso del tempo è cresciuta sino a diventare una multiutility di riferimento del panorama italiano”8 con partecipazioni azionarie in molte ex aziende pubbliche locali di servizi e dal 2000 operante anche all’estero. Divenuta di fatto una multinazionale, attualmente opera nella fornitura di servizi legati ad acqua, gas, rifiuti, energia e mobilità sostenibile, e risulta la prima azienda del settore a livello italiano9.

Suez Italia Spa è la divisione italiana di Suez Environnement, il secondo gruppo mondiale nel campo della gestione delle acque e dei rifiuti, dietro Veolia Environnement, entrambe società a controllo francese.

In origine la società Suez era una compagnia franco-belga nata nel 1997 dalla fusione della Compagnia del Canale di Suez (Belgio) e della Lyonnaise des Eaux (Francia) che si è fusa per incorporazione con Gaz de France (energia) nel 2008, dando vita al gruppo GDF Suez, divenuto poi Engie nel 2015. Contestualmente alla fondazione di GDF Suez nel 2008, le attività di Suez nel settore idrico sono state cedute ad una nuova società che ha preso appunto denominazione di Suez Environnement, controllata al 35% da Engie

Vianini Lavori Spa è invece una società del gruppo Caltagirone fondata a Roma nel 1908, che opera nei settori dell’ingegneria civile e nell’industria dei manufatti in cemento ed ha numerose partecipazioni in aziende italiane ed estere, in vari comparti. Nonostante il suo core business sia nell’ingegneria, nell’edilizia e nelle opere infrastrutturali, ha ampliato il suo raggio di azione in altri settori ritenuti redditizi, come quello della gestione del ciclo delle acque.

Il Consorzio Toscano Cooperative – C.T.C è una società cooperativa nata a Firenze nel 1980, attiva, come da codice Ateco, nella “Costruzione di edifici residenziali e non residenziali”10, e nonostante si legga nella presentazione11 che “Il consorzio è retto e disciplinato dai principi di mutualità senza fini di speculazione privata”, continua a mantenere una proficua quota del capitale di Abab dalla sua fondazione che, in qualità di Spa che rappresenta una forma societaria che per peculiarità proprie persegue la massimizzazione dei profitti12.

La parte pubblica pur controllando il 55% del capitale di Acque Spa, ha una partecipazione suddivisa fra varie società e enti locali: Cerbaie Spa il 16,26%, Acquapur Spa il 5,04%, Gea Servizi Spa il 12,27%, il comune di Chiesina Uzzanese lo 0,31%, quello di Crespina – Lorenzana lo 0,25% e Alia Servizi Ambientali Spa il 19,31% (grafico 1). Quest’ultima, prima multiutility toscana dei servizi pubblici locali, opera nei settori ambiente, ciclo idrico integrato ed energia, ed è stata fondata il 26 gennaio 2023 dalla fusione per incorporazione da parte di Alia Servizi Ambientali Spa di tre società pubbliche della Toscana Centro-Settentrionale: Publiservizi Spa, Consiag Spa e Acqua Toscana Spa.

La nuova società multiservizi risulta al momento partecipata da 66 comuni tra l’Empolese – Val d’Elsa e le province di Firenze, Prato e Pistoia, con le quote ripartite tra i principali Comuni nella seguente modalità: Firenze (37,1%), Prato (18,1%), Pistoia (5,54%), Empoli (3,4%) mentre altri comuni toscani detengono il rimanente 35,9%. Tuttavia sin dalla sua fondazione la nuova multiutility è risultata accompagnata da un programma di apertura al capitale privato e di quotazione in borsa sul modello di Acea13, come puntualmente esposto dal suo Amministratore delegato Alberto Irace, non casualmente amministratore delegato di Acea in carica dal 2014, al termine del quale la parte privata entrerà nella società fino ad una quota massima del 49%, tramite un aumento di capitale sociale14, che non è difficile immaginare possa riguardare anche Acea stessa.

Emerge il paradosso che una multiutility a totale capitale pubblico sia affidata nella conduzione strategica all’Amministratore delegato della principale società nazionale del settore, nota per i suoi criteri di gestione all’insegna della remunerazione degli azionisti, sollevando quindi non infondate perplessità sulla compatibilità con la tutela dell’utenza e della risorsa idrica che dovrebbero essere i principi cardine dell’interesse colletivo.

Grafico 1: la composizione del capitale sociale di Acque Spa

Il management di Acque Spa

Pur controllando la parte pubblica nel suo insieme il 55% del capitale sociale di Acque Spa, la componente privata, in virtù del rappresentare il socio di maggioranza relativa col 45%, riesce ad esprimere il management dell’azienda e a dettarne le linee gestionali. Dall’ultimo rinnovo del Consiglio di amministrazione di fine 2023 è uscita infatti la riconferma ad Amministratore delegato di Fabio Trolese, manager espressione di Acea, già in carica dal 2020, mentre la parte pubblica continua a mantenere cariche prevalentemente di rappresentanza e di controllo come la Presidenza, assegnata all’ex sindaco di Pontedera (Pi) Simone Millozzi, e la vicepresidenza, attribuita ad Antonio Bertolucci, già consigliere comunale e assessore al Comune di Capannori (Lu)15 e da tempo membro del Cda della stessa azienda.

I compensi percepiti dai membri del Consiglio di amministrazioni risultano molto elevati e, in genere, superiori rispetto a quelle di società analoghe, tant’è che il Presidente riceve un compenso lordo di 72.000 euro, il Vicepresidente 26.000 euro, l’Amministratore delegato 67.000 euro e i consiglieri, tre per parte pubblica e altrettanti per quella privata, 21.000 euro ciascuno. Per un totale annuo del 2023 pari a 291.000 euro.

Per avere un termine di paragone con una società toscana che presta lo stesso servizio fra le province di Arezzo e di Siena e dalla analoga struttura a capitale misto pubblico (53,84%) – privato (46,16%), come Nuova Acque Spa, il Presidente viene remunerato con 32.536 lordi e i restanti otto Consiglieri, dei quali uno adempie al ruolo di Amministratore delegato e altro quello di Vicepresidente, solamente 4.648 euro lordi, con l’aggiunta di un gettone di presenza per ogni Consiglio d’amministrazione di 300 euro16.

Tabella 1: comparazione compensi lordi in euro del Cda di Acque Spa e di Nuova Acque Spa.

CaricheCompensi Cda Acque Spa in euroCompensi Cda Nuova Acque Spa in euro
Presidente72.00032.536
Vicepresidente26.0004.648
Amministratore delegato67.0004.648
Consiglieri (n° 6)21.0004.648
Totale compensi lordi Cda291.000101.720
Gettone di presenza riunioni CdaNon previsto300

Compensi indubbiamente eccessivi per una azienda senza particolari rischi di impresa che agisce ad affidamento diretto in regime di monopolio, fornendo un bene primario indispensabile per l’esistenza umana e del quale ne impone le condizioni tariffarie in modo unilaterale finendo per appesantire l’entità delle bollette a carico della cittadinanza.

L’impennata delle tariffe e la rimodulazione degli scaglioni di consumo

Al fine di quantificare l’impatto dell’aumento dei costi della fornitura idrica integrata sulle casse delle famiglie abbiamo effettuato uno studio sull’entità sia delle tariffe che delle fasce di consumo fissate dai 2 gestori che si sono succeduti nel corso degli ultimi 25 anni nei comuni del Basso val d’Arno. Nella tabella 1 riportiamo inizialmente le tariffe applicate, per la sola fornitura idrica, nell’anno 2001 dalla società Gea Spa, a completo controllo pubblico, e, successivamente, quelle di Acque Spa, società mista pubblico-privato, fra il 2002 e il 2013, mentre nella penultima riga troviamo gli esorbitanti aumenti percentuali intercorsi fra il 2001 e il 2013. Nell’ultima, invece, sono riportati gli incrementi registrati fra il 2011 e il 2013, vale a dire nel periodo successivo all’effettuazione dei Referendum del giugno 2011, i cui risultati disponevano, oltre al ritorno del servizio in mano pubblica, anche l’eliminazione della remunerazione del capitale investito.

Il passaggio, fra il 2001 e il 2002, della gestione dalla società pubblica Gea Spa, costituita il 15 giugno 1995 mediante trasformazione dell’allora Consorzio Azienda Servizi Ambientali Area Pisana, ad Acque Spa ha comportato in un solo anno un aumento di 3 volte della Tariffa agevolata sino ad 80 mc di consumo e di 5,5 volte della quota fissa, mentre la Tariffa base è quasi raddoppiata e l’Eccedenza 1 aumentata “solo” del 50%, con l’Eccedenza 2 che invece beneficia di una diminuzione della tariffa. Una dinamica tariffaria non solo in rapida ascesa ma anche estremamente penalizzante per le basse fasce di consumo, come i pensionati, i nuclei familiari poco numerosi e in genere chi consuma poca acqua (tab.2).

Allargando l’arco temporale del raffronto rileviamo come fra il 2001 e il 2013, ultimo anno di uniformità delle fasce di consumo, la Tariffa agevolata sia aumentata vertiginosamente del 615%, mentre le altre in misura sensibilmente minore, con la quota fissa addirittura del 1.280%. Una politica tariffaria chiaramente orientata non solo all’incremento dei profitti, con ricadute negative sull’intero panorama degli utenti ma che infierisce sulle fasce sociali più deboli come i pensionati che, consumando in genere poca acqua, hanno visto lievitare in modo insostenibile sia il costo della fornitura idrica sia quello della quota fissa che colpisce trasversalmente tutti gli utenti a prescindere dal consumo e dal reddito.

Rileviamo infine come Acque Spa e i sindaci dell’ATO 2 conniventi con tali politiche, non solo non hanno proceduto all’attuazione degli esiti dei due referendum sull’acqua del 2011, ma hanno continuato incurantemente ad aumentare le tariffe, tant’è che nei due anni successivi le varie fasce di consumo e la quota fissa sono aumentati fra l’11 e il 13%. Con buona pace della cancellazione del 7% di rendita finanziaria sul capitale investito, procedimento che poteva essere attuato anche senza il ritorno della gestione del servizio idrico totalmente in mano pubblica.

Tabella 2: tariffe della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 (residenti) fra 2001 e 2013



Tariffe in euro della ‘sola fornitura idrica’ per le utenze domestiche 1 periodo 2001-2013
PeriodoGestoreTariffa agevolata al mc (0-80)Tariffa base al mc (81-200)Tariffa I eccedenza al mc (201-300)Tariffa II eccedenza al mc (oltre 300)Quota fissa annua
2001GEA Spa0,1560,3750,6251,2512,784
2002Acque Spa0,5140,6860,9321,11915,493
2009Acque Spa0,8671,1571,5731,88826,395
2011Acque Spa0,9841,3131,7842,14129,891
2013Acque Spa1,1161,4892,0242,42838,44

Aumento 2001-2013
615,38%297,06%223,84%94,08%1.280,74%

Aumento 2011-2013
11.34%13,40%11,34%11,34%12,87%

Dal 2014 Acque Spa ha attuato una rimodulazione delle fasce di consumo con una drastica riduzione da 80 a 30 mc di quella soggetta a Tariffa agevolata, accompagnata da ulteriori aumenti generalizzati delle tariffe negli anni successivi (tab. 3), diabolico combinato disposto che ha impattato negativamente sulla quasi totalità degli utenti.

Tuttavia, restringendo la fascia di consumi a Tariffa agevolata a soli 30 mc/annui, maggiori penalizzazioni vengono subite dalle famiglie con uno o due compenti, alle quali viene applicata in prevalenza la Tariffa base. Ugualmente subiscono marcati aumenti le utenze con i consumi più frequenti, vale a dire le famiglie di 3-4 persone che consumano in media fra 100 e 200 mc annui e che passano da una tariffa di 2,429 euro/mc del 2013 a 3,613 nel 2017 (tab 3).

Il malcontento generato da una politica tariffaria di tale aggressività costringe nel 2018 Acque Spa ad innalzare la fascia di consumo a Tariffa agevolata a 55 mc.

Tabella 3: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2017



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche 1 anno 2017
Tariffe

Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 30 mc0,2260,2340,9161,376
Base da 30 a 90 mc1,7360,2340,9162,886
I eccedenza da 90 a 200 mc2,4630,2340,9163,613
II eccedenza oltre 200 mc3,4610,2340,9164,611
Quota fissa56,35

Tabella 4: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2020



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2020


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,9420,2540,9942,190
Base da 56 a 135 mc1,8850,2540,9943,133
Eccedenza oltre 135 mc3,0450,2540,9944,293
Quota fissa61,17

Tabella 5: tariffe del servizio idrico integrato per le utenze domestiche 1 (residenti) anno 2023



Tariffe in euro del ‘servizio idrico integrato’ per le utenze domestiche residenti – anno 2023


Tariffe


Acquedotto


Fognatura


Depurazione
Totale al mc
Agevolata da 0 a 55 mc0,6360,7901,2532,679
Base da 56 a 135 mc1,2720,7901,2533,315
Eccedenza oltre 135 mc2,9350,7901,2534,978
Quota fissa60,21

Dall’analisi della dinamica tariffaria e dai criteri di rimodulazione delle fasce di consumo, risulta quindi palese che la strategia aziendale attuata dal management di Acque Spa si ispiri alla massimizzazione del profitto, con entrambe tese a penalizzare le utenze con consumi più bassi, come i pensionati e i nuclei mono o bi-personali, e coloro che cercano di attuare comportamenti virtuosi orientati alla riduzione dell’utilizzo della risorsa idrica.

Anche per questo riteniamo necessario che la tematica del rispetto della volontà popolare espressa tramite le consultazioni del giugno 2021 sia portata, soprattutto dai movimenti e dai partiti che sostennero il Sì ai due referendum, al centro dei programmi delle imminenti elezioni europee e amministrative di molti comuni italiani. Un messaggio di coerenza che sicuramente contribuirebbe a riavvicinare gli elettori, sempre più disinnamorati da questa politica, ai seggi.

Andrea Vento – 9 aprile 2024

Comitato comunale per l’Acqua pubblica di San Giuliano Terme (Pisa)

NOTE:

1 Gli ATO Acqua sono stati originariamente istituiti dalla Legge del 5 gennaio 1994 n. 36 “Disposizioni in materie di risorse idriche” che ha riorganizzato i servizi idrici aggregando sotto un’unica autorità (L’autorità di Ambito) i servizi di acquedotto, fognatura e depurazione, ivi comprese le relative tariffe.

2 Rapporto Servizio idrico in Italia del marzo 2019, realizzato da Utilitalia la federazione che riunisce 450 aziende di servizi pubblici dell’Acqua, dell’Ambiente, dell’energia elettrica e del gas operanti in Italia.

3 https://www.autoritaidrica.toscana.it/it/page/ait

4 Per i testi e gli esiti elettorali dei referendum dell’12 e 13 giugno 2011: https://www1.interno.gov.it/mininterno/export/sites/default/it/sezioni/sala_stampa/speciali/altri_speciali_2/referendum_2011/index.html

5 https://www.abc.napoli.it/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=113

6 https://www.ufficiocamerale.it/2460/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa

https://atoka.io/public/it/azienda/acque-blu-arno-basso-spa-o-in-breve-abab-spa/1ab8f6f855d1

7 https://cittadinoinformato.it/acque_spa/?doing_wp_cron=1711984551.6514940261840820312500

8 https://www.gruppo.acea.it/conoscere-acea/nostra-storia

9 http://europeanwater.org/it/azioni/focus-per-paese-e-citta/710-acqua-privata-frosinone-e-provincia-si-ribellano-revocato-il-contratto-con-acea

10 https://registroaziende.it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa-firenze

11 https://atoka.io/public/it/azienda/consorzio-toscano-cooperative-ctc-societa-cooperativa-denominazione-abbreviata-ctc-societa-cooperativa/270196460d42

12 La gestione deve essere orientata alla massimizzazione del profitto per tutti gli azionisti-soci. https://it.wikipedia.org/wiki/Societ%C3%A0_per_azioni_(ordinamento_italiano)

13https://www.ilsole24ore.com/art/pronta-varo-multiutility-toscana-l-obiettivo-e-borsa-AEzqHKWB

https://www.arezzonotizie.it/attualita/corte-conti-no-quotazione-borsa-multiutility.html

https://www.utilitalia.it/notizia/dbe68738-6095-4d3d-8dfc-6c28ab59d9e9

14 Irace (Ad multiutility Toscana): l’obiettivo è la quotazione nell’aprile 2024

https://www.milanofinanza.it/news/irace-ad-multiutility-toscana-obiettivo-e-quotazione-aprile-2024-202302101958398899?refresh_cens

15 https://www.acque.net/wp-content/uploads/cv_bertolucci_antonio.pdf

16 https://nuoveacque.it/chi-siamo/#

L’oasi felice cilena: destre e poteri forti

di Marco Consolo

C’era una volta un’oasi felice (l’ex presidente Sebastian Piñera dixit), una specie di castello incantato, idilliaco e magico. Un Paese di cui molti si vantavano per essere un esempio di onestà e trasparenza, dove la corruzione non arrivava in Parlamento, meno tra le Forze Armate, i Carabineros, gli imprenditori e tra i professionisti meno esposti come gli avvocati. Si guardava con una certa superiorità e un po’ di disprezzo fuori dai confini di un “Paese civile” come il Cile, circondato da vere e proprie “Repubbliche delle banane”. Un Paese che nella narrazione interessata della dittatura civile e militare di Pinochet, anche grazie alla sua “mano dura” aveva messo al bando il “malcostume” della corruzione nelle istituzioni pubbliche e la criminalità organizzata. Le Forze Armate, i Carabineros e la Chiesa cattolica erano le istituzioni che più godevano di credibilità da parte dei cittadini.

Poi, piano piano, il miraggio è svanito, la realtà ha superato l’immaginazione e il castello incantato è cominciato a crollare, sotto i colpi delle inchieste giudiziarie di quella parte della magistratura cilena non legata a doppio filo con il potere e grazie ai procedimenti dagli stessi Stati Uniti e dalla Spagna. All’inizio, le inchieste misero in luce i numerosi e milionari conti bancari all’estero del dittatore (a partire dal “Caso Riggs” [1]) e la trama di corruzione nelle FF.AA..

Poi, negli anni, i vertici apicali sia delle FF.AA. che dei Carabineros sono stati travolti da inchieste giudiziarie note come “Milicogate” [2] e Pacogate” [3], per appropriazione indebita di fondi pubblici, uso improprio di fondi riservati, arricchimento illecito, sottrazione dei fondi pensioni interni all’istituzione con l’inganno, etc.

Da ultima, la Chiesa cattolica ha iniziato a perdere colpi e credibilità per i numerosi scandali di pedofilia coperti dalle gerarchie locali (e non solo) con la migrazione di molti fedeli verso le Chiese evangeliche, in diversi casi vere e proprie “sette personali” di qualche predicatore in cerca di adepti e fondi.

Ma in queste settimane, è scoppiato uno scandalo che non ha precedenti, visto che non si tratta di qualche “mela marcia”. I massimi vertici delle due istituzioni principali di pubblica sicurezza, ovvero la Polizia di Investigazioni (PDI) e Carabineros,  sono sotto i riflettori, proprio quando la campagna contro il “dilagare della delinquenza” è il cavallo di battaglia della destra locale. Il Direttore Generale della PDI, Sergio Muñoz, si è appena dimesso, travolto da intercettazioni telefoniche in cui si è scoperto che filtrava informazioni riservate su procedimenti giudiziari in corso a Luis Hermosilla, un avvocato di lungo e complesso corso, ben collocato nel potere politico, finanziario e giudiziario.

Ed il Generale Ricardo Yáñez, a capo dei Carabineros, traballa per le accuse relative alla violazione dei diritti umani durante la “rivolta sociale” del 2019. Rimane in sella almeno fino al prossimo 7 maggio, data in cui saranno probabilmente formalizzate le accuse nei suoi confronti. Mentre il governo di Gabriel Boric non si pronuncia formalmente e non lo rimuove, Partito Comunista e Frente Amplio (entrambi parte integrante del governo) ne chiedono a gran voce le dimissioni. Ma andiamo con ordine.

La “porta giratoria”

Anche in Cile, le “porte giratorie” garantiscono influenza e potere. Alla fine del proprio mandato, pochi privilegiati passano allegramente a ricoprire cariche nel settore privato o anche in quello pubblico. Gli ex comandanti in capo delle Forze Armate, dopo aver gestito informazioni sensibili, spesso “arrotondano” la pensione ed i loro numerosi privilegi istituzionali: entrano nei consigli di amministrazione di consorzi privati, rilasciano interviste su temi di sicurezza e politici, ricoprono incarichi pubblici e sono candidati ed eletti, finora sempre nei partiti delle destre. Per chi ha ricoperto posizioni sensibili e di grande responsabilità nel campo della difesa e della sicurezza nazionale non ci sono limiti di tempo o di spazio. Al contrario, sono più che benvenuti.

Diversi ex capi delle Forze Armate e dei Carabineros sono stati eletti a destra in Parlamento, e non bisogna dimenticare i “senatori designati” dalla “costituzione” della dittatura, mantenuti per molti anni dopo il periodo post-dittatoriale.

L’ex capo dell’Aeronautica, Ricardo Ortega Perrier, è stato eletto consigliere costituzionale del Partito Repubblicano, partito nostalgico della dittatura. Prima di lui, l’ex comandante in capo della Marina, Jorge Arancibia, è stato membro della Convenzione costituzionale per l’Unione Democratica Indipendente (UDI) nochè senatore del partito che per anni è stato il “braccio politico” della dittatura. Oscar Izurieta, ex capo dell’esercito, è stato sottosegretario alla Difesa con l’ex presidente Sebastián Piñera. E, dulcis in fundo, un ex comandante in capo, Juan Emilio Cheyre, è stato presidente del Servizio elettorale, promosso da Piñera, con l’approvazione di vari partiti politici.

Per quanto riguarda l’esercito, ad oggi, sei dei sette ex comandanti in capo del periodo post-dittatura sono stati processati per reati finanziari, corruzione e violazione dei diritti umani.

Le uniformi macchiate dei Carabineros

Gli ultimi tre direttori generali dei Carabineros sono stati indagati e/o processati per reati finanziari, frodi e violazioni dei diritti umani. L’attuale direttore dei Carabineros, il Generale Ricardo Yáñez, è sotto accusa per violazione dei doveri d’ufficio in casi di arresto illegale e violazioni dei diritti umani durante la “rivolta sociale”. In uno dei tanti episodi “anomali”, alcuni dirigenti politici e parlamentari dell’opposizione democristiana e di destra hanno fatto visita pubblica al generale nella sede istituzionale per dargli sostegno politico. Il generale ha posato con loro per le foto, in un’operazione mediatica a dir poco anomala per un’autorità di polizia di alto rango e non deliberante.

Gli scheletri nell’armadio della PDI 

Gli ultimi due direttori generali della Polizia di Investigazioni (PDI) sono processati per appropriazione indebita, falsificazione di documenti pubblici, riciclaggio di denaro, fuga di informazioni da casi riservati e riciclaggio di attivi. Ad essi vanno sommati gli ufficiali e i funzionari dei Carabineros indagati e processati per falsificazioni, false testimonianze, irregolarità, abusi, mancato rispetto dei protocolli e violazioni dei diritti umani.

I casi del “Pacogate” e del “Milicogate”, in cui ufficiali, sottufficiali e funzionari dei Carabineros e dell’esercito hanno effettuato operazioni finanziarie fraudolente a spese dell’erario, per importi multimilionari, hanno occupato le prime pagine negli anni scorsi.

Poteri forti, magistratura e Servizio elettorale

La crisi politica ed istituzionale coinvolge anche altri settori, in particolare la magistratura, in un quadro rarefatto i cui contorni vengono alla luce poco a poco. Al centro ci sono i poteri forti, un’oligarchia di poche famiglie che muove i fili del potere, del denaro, della politica, dei mezzi di comunicazione e delle istituzioni. Una élite che piazza loschi personaggi in posti pubblici grazie a quote politiche.

È il caso dell’attuale Procuratore nazionale del Cile, Ángel Valencia Vásquez, fresco di nomina parlamentare piena di polemiche. Già consigliere parlamentare della destra di Renovación Nacional (RN), eletto Procuratore come “terza scelta” dopo che le destre avevano affondato altre due candidature “scomode”. Consulente diretto del senatore di RN Alberto Espina (ex ministro della Difesa nel governo di Sebastián Piñera), Valencia ha lavorato nel suo studio legale, legato alle inchieste giudiziarie dei comuni di Vitacura, Lo Barnechea e Ñuñoa, per casi di irregolarità e corruzione, quando erano in mano a sindaci di destra. Una foto in una cena conviviale, insieme all’ex ministro degli Interni e “colonnello” dell’Unione Democratica Indipendente (UDI), Andrés Chadwick, mostra i rapporti di Valencia con gruppi dell’élite cilena. Facile prevedere il suo scrupolo protettivo verso personaggi di quel settore legati ad atti illeciti. Eclatante il suo recente intervento “a gamba tesa” contro la portavoce del governo, la comunista Camila Vallejo, che ha parlato di una possibile rete di corruzione basata sulle intercettazioni giudiziarie del capo della PDI, mettendola in discussione ed entrando in un dibattito politico. Lungi dall’ “eseguire i corrispondenti atti di indagine”, il Procuratore nazionale appare coprire e servire altri interessi, grazie ai suoi legami con l’élite politica conservatrice.

Ma non è il solo caso. Andrés Tagle Domínguez dal 2021 è il presidente del Consiglio di amministrazione del Servizio elettorale del Cile (Servel), l’organismo incaricato di garantire la trasparenza e il corretto svolgimento delle elezioni. Tagle era membro della Commissione politica della UDI e “l’esperto elettorale” del partito. Durante il governo Piñera è stato consulente per le questioni elettorali della Segreteria della Presidenza, per poi diventare presidente del Servel nel secondo governo Piñera, sostenuto dalla maggioranza di destra del Senato, secondo la logica delle quote politiche binominali. Ingegnere commerciale dell’Università Cattolica, Tagle è stato direttore della potente Corporazione del rame (Codelco), direttore e consulente di aziende e società finanziarie e vicepresidente dell’influente Associazione delle assicurazioni sanitarie private (Isapres). Un uomo legato a doppio filo alle élite politiche e finanziarie del Paese è quindi oggi responsabile del Servizio Elettorale.

Prossime sorprese ?

Le intercettazioni del telefono dell’avvocato Hermosilla hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica, confermando il controllo dei “poteri forti”, come élite politica e finanziaria che tira i fili del potere. L’indagine è ancora in corso e ci si aspettano molte altre sorprese potrebbero uscire dalle intercettazioni telefoniche e dalla rete di contatti per gestire e/o disturbare casi giudiziari, intervenire nell’operato di organi dello Stato, influenzare decisioni sulla nomina di giudici, ricevere illegalmente rapporti riservati della polizia.

Finora nei messaggi del suo cellulare appaiono menzionati tutti personaggi legati alla destra economica e politica cilena: l’ex presidente Sebastián Piñera (di cui Hermosilla sosteneva essere l’avvocato), l’ex ministro degli Interni di Piñera, Andrés Chadwick, l’ex sovrintendente Felipe Guevara, l’ex sindaco Raúl Torrealba, alcuni giudici e casi giudiziari relativi a temi come la compravendita dell’azienda mineraria Dominga e del Casinò Enjoy.

Finora, la rivelazione più delicata è che l’ex direttore del PDI, Sergio Muñoz, ha fornito informazioni riservate a Hermosilla. Quest’ ultimo era appena stato coinvolto nella fuga di notizie di una conversazione audio in cui si parlava, tra l’altro, di tangenti a funzionari dell’Agenzia delle Entrate e della Commissione per il Mercato Finanziario. Nell’audio sono citati più di 50 uomini d’affari e personaggi dell’élite. Le intercettazioni e l’audio di quella conversazione sono un esempio plastico di come funziona la ristretta oligarchia al potere in Cile. Con i cittadini come spettatori, all’oscuro di ciò che accade realmente nei “salotti che contano”.

Liberi tutti

Anche in Cile l’impunità regna campante. Hermosilla è ancora libero, non è nemmeno ricercato per traffico di influenze o gestione illegale di informazioni riservate di polizia. È in buona compagnia, visto che in Cile grandi uomini d’affari e capi di gruppi finanziari processati per casi di corruzione, irregolarità, finanziamento illegale di campagne politiche, continuano a ricoprire le loro cariche. Uno dei casi più eclatanti è quello di Ponce Lerou (genero di Pinochet) presidente per più di venti anni dell’azienda chimica Soquimich (privatizzata con il golpe e regalatagli da Pinochet), coinvolto direttamente in casi di delitti tributari e corruzione (Caso Cascadas [4]). La Soquimich recentemente ha addirittura chiuso accordi strategici con lo Stato per lo sfruttamento del litio, di cui il Cile è tra i principali produttori.

Ad oggi, nessuno di questi grandi uomini d’affari e finanzieri ha scontato pene di carcere, ad eccezione di qualche risoluzione giudiziaria per frequentare “corsi di etica”. Mentre le galere si riempiono come sempre soprattutto di “poveri cristi” (magari colpevoli di commercio ambulante), sono decine i dirigenti di grandi aziende coinvolti in casi di corruzione, concussione, frode e collusione, allegramente a piede libero.

Con l’ombra della criminalità organizzata, del narco-traffico e della corruzione finanziaria che si allunga sul Paese, la Corte Suprema ha rilasciato una dichiarazione in cui afferma che “l’attuale sistema costituzionale e giuridico potrebbe consentire alcuni spazi di opacità”.

Con un governo senza la maggioranza in Parlamento, una quasi inesistente mobilitazione di piazza ed una crisi sociale che non accenna a diminuire, la crisi di credibilità istituzionale  e la destabilizzazione continuano.

NOTE

[1] https://ciperchile.cl/wp-content/uploads/CASO-RIGGS-SENTENCIA.pdf

[2] https://www.theclinic.cl/2019/08/20/milicogate-la-historia-de-la-investigacion-publicada-por-the-clinic-que-noqueo-al-ejercito/

[3] https://cooperativa.cl/noticias/pais/ff-aa-y-de-orden/carabineros/pacogate-fiscalia-pide-mas-de-20-anos-de-carcel-para-exdirectores-de/2023-10-24/070028.html

[4] https://www.ciperchile.cl/2014/10/20/caso-cascada-asi-se-perdio-la-plata-de-los-afiliados-a-las-afp/

Fonte : https://elsiglo.cl/notas-del-reporteo-pais-con-anomalias/


FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/loasi-felice-cilena-destre-e-poteri-forti/

F-16, “bersagli legittimi” e NATO. Cosa ha detto (veramente) Vladimir Putin

di Marinella Mondaini (da l’AntiDiplomatico)

Il presidente russo Vladimir Putin ha visitato il 344esimo Centro Statale Addestramento e Riqualificazione del personale dell’aviazione militare del Ministero della Difesa russo e ancora una volta ha chiarito le motivazioni dell’Operazione Speciale Militare russa in Ucraina, che in Occidente vogliono far passare come “invasione” e “aggressione”, ha parlato della NATO e della sorte ineluttabile che aspetta gli F16 se verranno forniti all’Ucraina:

“Nel 2022, gli Stati Uniti hanno speso 811 miliardi di dollari e la Federazione Russa 72 miliardi. La differenza è evidente, più di dieci volte. Le spese per la Difesa degli Stati Uniti corrispondono a circa il 40% della spesa di tutto il mondo per la difesa globale,  la Russia il 3,5%. Perciò, tenendo presente questo rapporto, noi avremmo in mente di combattere con la NATO ?? Questo è semplicemente un delirio! Noi adesso durante l’Operazione Militare Speciale stiamo proteggendo la nostra gente che vive nei nostri territori storici. Se dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si fossero costruite, come aveva proposto la Russia, delle relazioni di sicurezza completamente nuove in Europa, oggi non sarebbe successo niente di quello che sta succedendo, non ci sarebbe stata nessuna Operazione Speciale.

Loro avrebbero dovuto tenere conto dei nostri interessi nel campo della sicurezza, noi abbiamo cercato di parlarne, anno dopo anno, decenni dopo decenni,  ma le nostre richieste sono state sempre completamente ignorate e adesso loro sono arrivati direttamente ai nostri confini. Forse siamo noi che ci siamo mossi verso i confini di quei paesi che facevano parte del blocco Nato?? Noi ci siamo avvicinati alla Nato?? Noi abbiamo attraversato l’oceano fino al confine degli Stati Uniti?? Sono loro che si sono avvicinati a noi e hanno attraversato l’oceano per farlo! Quindi noi stiamo proteggendo il nostro popolo nei nostri territori storici.  Pertanto, ciò che stanno dicendo sul fatto che la Russia attaccherà l’Europa dopo l’Ucraina è una assurdità colossale. 

Ma loro dicono questo per intimidire la popolazione allo scopo di estorcerle denaro, hanno bisogno di giustificarsi e quindi spaventano la loro popolazione con la “minaccia russa”, mentre dettano al mondo intero i loro voleri. La Nato adesso si sta allargando nella regione dell’Asia-Pacifico, nel Medio Oriente, in altre regioni del mondo, stanno già entrando in America Latina. E tutto questo con vari pretesti, sotto diverse salse, è sempre la stessa cosa: stanno promuovendo la Nato e trascinando con sé i loro satelliti europei, quelli che a quanto pare credono che tutto ciò corrisponda ai loro interessi nazionali, hanno paura di una Russia grande e forte, ma sbagliano. Noi non abbiamo intenzioni aggressive nei confronti di questi Stati. Non avremmo mai fatto nulla in Ucraina se non ci fosse stato il colpo di Stato e se non avessero poi iniziato la guerra nel Donbass. Sono stati loro a scatenare la guerra nel 2014, dove hanno usato persino l’aviazione, tutti hanno visto le immagini di quando bombardavano Doneck dagli aerei, una città pacifica è stata bombardata con i missili dal cielo! Ma siete diventati pazzi?? Noi abbiamo comunque accettato di fare gli accordi di Minsk. Si è scoperto che ci hanno ingannato, l’hanno tirata lunga per otto anni alla fine e ci hanno costretto a passare a un’altra forma di protezione dei nostri interessi e della nostra gente. Perciò è una totale assurdità che la Russia attacchi gli altri paesi, la Polonia, gli Stati baltici, spaventano persino la popolazione della Repubblica ceca, ma queste sono semplicemente follie, è un altro modo di ingannare la propria popolazione, di estorcere soldi alla gente che porterà questo peso di spesa sulle proprie spalle”.

Poi a Putin viene rivolta questa domanda: “I paesi della NATO stanno pianificando di fornire i loro caccia all’Ucraina. I media stanno discutendo del fatto che gli aerei F-16 saranno utilizzati nella zona dell’Operazione Militare Speciale contro truppe e strutture russe, anche dal territorio dei paesi della NATO. Ci sarà permesso di colpire questi obiettivi negli aeroporti della NATO?  

La risposta del presidente russo: “se consegneranno gli F-16, pare anche che stiano addestrando i piloti, ciò non cambierà la situazione sul campo di battaglia. Noi distruggeremo i loro aerei, proprio come oggi distruggiamo i loro carri armati, i veicoli corazzati e altre attrezzature, compresi i sistemi di razzi a lancio multiplo. Naturalmente, se vengono utilizzati da aeroporti di paesi terzi, diventano per noi un obiettivo legittimo, non importa dove si trovino. E gli F-16 sono anche portatori di armi nucleari, certamente di questo terremo conto quando organizzeremo il lavoro di combattimento”.

Intanto le indagini sulla strage del Crocus City Hall proseguono. I primi risultati confermano pienamente la natura pianificata delle azioni dei terroristi, l’attenta preparazione e il sostegno finanziario da parte degli organizzatori del crimine. In base alle dichiarazioni rilasciate dai 4 terroristi detenuti, allo studio dei dispositivi tecnici che sono stati a loro sequestrati e all’analisi delle informazioni sulle transazioni finanziarie, sono state ottenute prove del loro legame con i nazionalisti ucraini.

L’indagine ha a disposizione dati confermati secondo cui gli autori dell’attacco terroristico hanno ricevuto ingenti somme di denaro e criptovalute dall’Ucraina, che sono state utilizzate per preparare la strage.Un altro sospettato coinvolto in un piano di finanziamento del terrorismo è stato identificato e arrestato. L’indagine chiederà al tribunale di scegliere una misura preventiva sotto forma di detenzione nei suoi confronti.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-f16_bersagli_legittimi_e_nato_cosa_ha_detto_veramente_vladimir_putin/40832_53855/

GAZA – Il Cessate il fuoco non è un optional: è un obbligo!

il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco “per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”. Le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamenti su Gaza e facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari

di Domenico Gallo

Il 25 marzo dopo 170 giorni, durante i quali Israele ha messo a ferro e a fuoco la Striscia di Gaza provocando sofferenze inenarrabili alla sua sfortunata popolazione, finalmente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco“per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”, così come il ritorno in libertà immediato e senza condizioni degli ostaggi e un maggiore accesso degli aiuti umanitari a Gaza.

“Non c’è un momento da perdere – ha scritto la Segretaria Generale di Amnesty International Agnés Callamard- le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamentisu Gazafacilitare l’ingresso degli aiutiumanitari.

Israele, Hamas e gli altri gruppi armati devono operare perché il cessate il fuoco duri. Gli ostaggi civili devono tornare immediatamente in libertà. Tutti i palestinesi arbitrariamente detenuti in Israele, compresi i civili arrestati a Gaza, devono essere a loro volta scarcerati”.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono immediatamente esecutive e vincolanti per tutti gli Stati, eccetto – evidentemente – Israele, che non accetta alcun vincolo fondato sulle regole del diritto. Infatti, Netanyahu non ha battuto ciglio ed ha celebrato le prime 24 ore di “cessate il fuoco” con bombardamenti che hanno provocato 76 morti e nei giorni successivi ha continuato come se niente fosse.

Israele, non ha avuto alcuna remora a continuare l’attacco agli ospedali ed a portare nuovamente la morte all’interno dell’Ospedale Al Shifa di Gaza City.

L’esercito israeliano, infatti, ha comunicato (il 28 marzo) di aver ucciso 200 persone in una settimana di operazioni dentro e attorno all’Ospedale.

Ovviamente si trattava di “terroristi”, anche se medici, pazienti, personale sanitario o giornalisti: il fatto stesso che siano stati uccisi è la prova regina della loro qualità di terroristi.

Malgrado i moniti dei suoi stessi alleati, Israele sta continuando i preparativi per l’assalto finale a Rafah, l’ultima città a confine con l’Egitto, dove sono concentrati 1.500.000 palestinesi sfollati dal centro e dal nord di Gaza.

Il rigetto dell’ordine di cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza ed il rifiuto -nei fatti- di adempiere alle misure dettate dalla Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennai, ribadite con l’ordinanza emessa il 28 marzo, pongono lo Stato di Israele in una condizione veramente singolare nell’ordinamento internazionale. Si tratta dello Stato che realizza (e rivendica) la massima ribellione possibile alle regole che governano la vita della Comunità Internazionale, uno Stato fuorilegge, nel senso letterale del termine.

Eppure tutta la comunità degli Stati occidentali, si è mobilitata per “punire” la Russia, nell’adempimento di un imperativo indiscutibile, quello che Stoltenberg/Stranamore, ha definito: “un mondo fondato sulle regole.”

Che fine fa quest’imperativo del “mondo fondato sulle regole”, che giustifica la guerra da remoto che stiamo conducendo contro la Russia col sangue degli ucraini, di fronte all’aperta ribellione di Israele alle regole fondanti della Comunità internazionale che interdicono la violenza brutale ed il genocidio.?

Se Israele non si sente vincolato al rispetto del diritto internazionale, avendo sperimentato almeno 56 anni di violazione delle regole del diritto internazionale, specialmente il diritto umanitario, senza conseguenza alcuna, sono gli altri Stati che devono agire adottando delle misure adeguate, ai sensi del Cap. VII della Carta dell’ONU, per convincere/costringere Netanyahu a rispettare le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e i provvedimenti della Corte internazionale di Giustizia che ha ordinato ad Israele di smettere di uccidere le persone protette e di far soffrire la fame al gruppo etnico palestinese, a rischio di genocidio.

L’Unione europea ha adottato una caterva di sanzioni a danno della Russia per sanzionare la “violazione delle regole”. Ricordiamo sommessamente che in un documento del Parlamento Europeo (29/2/2024) si rinfaccia alla Russia di aver provocato la morte di 520 minori ucraini: il fatto che Israele, in soli cinque mesi di guerra abbia causato la morte di 13.000 minori a Gaza, non ha provocato alcun turbamento nelle bronzee facce dei leader politici italiani ed europei, mentre un silenzio di tomba è caduto di fronte all’aperta ribellione di Israele all’ordine di cessate il fuoco.

Si tratta di uno scandalo che non può essere tollerato oltre.

E’ questo il momento di agire, l’Unione Europea, e tutti i suoi Stati membri devono deliberare delle misure urgenti volte a far valere l’obbligo di cessare il fuoco. Per quanto riguarda l’Italia, la fornitura di armi ad Israele (per 2,1 milioni dall’inizio del conflitto) ed il definanziamento dell’UNRWA ci rendono complici delle stragi compiute dall’esercito israeliano e dello strangolamento della popolazione di Gaza attraverso la privazione dei beni essenziali per la vita.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/il-cessate-il-fuoco-non-e-un-optional-e-un-obbligo/

Il popolo russo, Putin, la democrazia

di Piero Bevilacqua

Pensare con idee ricevute. E’ davvero stupefacente leggere o ascoltare intellettuali e studiosi democratici e di sinistra, talora di sinistra avanzata o radicale (cioè di sinistra, ma il termine è stato infamato dal cosiddetto centro-sinistra) che ancora oggi, dopo due anni di guerra in Ucraina, dopo tutte le rivelazioni di fonti americane, le ricostruzioni storiche dei precedenti che hanno preparato quel conflitto, continuano a ripetere lo slogan << la brutale invasione russa>> , <<l’occupazione violenta della Crimea>>, ecc. Gli stessi stereotipi e retoriche si ripetono per il massacro in corso nella martoriata Gaza. I combattenti di Hamas sono terroristi perché hanno ucciso civili israeliani con il progrom del 7 ottobre (cosa, ahimé, terribilmente vera e ovviamente da condannare, ma non bisognerebbe mai dimenticare la storia che la precede e predispone) mentre  i soldati di Israele che di civili palestinesi, e soprattutto di bambini, ne hanno ucciso e ne vanno ammazzando un numero spaventosamente superiore, restano soldati. Intendiamoci, la guerra è sempre un errore, è l’ingresso al più grande degli orrori. Quindi condanniamo quella scelta di Putin. Ma chi non riconosce che la Russia è stata trascinata in quel massacro è persona non informata dei fatti.

Svolgo le considerazioni che seguono non solo per il dispiacere che provo a sentire anche tanti amici e studiosi di valore ripetere queste espressioni che sono il calco della vulgata occidentale, ma perché ovviamente tale subalternità interpretativa all’informazione corrente indebolisce gravemente l’opposizione politica all’atlantismo, che ci chiama alla guerra, all’involuzione antidemocraitca dell’UE, frena l’azione a favore delle trattative e della pace. Le svolgo anche perché mi vado convincendo di un fenomeno culturale che meriterebbe di essere approfondito e che qui accenno appena.Le sempre più spinte specializzazioni scientifiche del nostro tempo –  per cui chi si occupa di sociologia finisce col sapere tanto del suo specifico campo sociologico, ma poco del resto, e così   chi si occupa di fisica, di diritto, economia,  ecc –  espone la mente di tanti studiosi a dipendere, per la propria visione della situazione politica mondiale, dalla idee circolanti e inverificate elaborate dai media dominanti. Media, come sappiamo, che orchestrano campagne di persuasione  sistematiche e di vasta portata ormai da decenni. Se non si conoscono  in maniera circostanziata le questioni, la comodità di avere, con poco sforzo e a portata di mano, una spiegazione semplice e rassicurante  fa perdere la libertà di un giudizio indipendente. Credo di poter parlare anche a nome personale. Chi conosce un po’ la mia biografia intellettuale sa che non mi sono mai rinchiuso nella mia specializzazione di storico. Eppure, anche io ero convinto di tante verità che erano idee ricevute accettate passivamente, spesso purissime menzogne. Superate solo dopo aver studiato su libri e documenti come sono andate realmente le cose. Purtroppo bisogna constatare che non si possono capire anche i gravi fatti del nostro tempo se ciascuno non compie uno sforzo supplementare di studio e di analisi, fuori dal proprio specialismo e non confidando nel giornalismo corrente. Troppo potenti e ben confezionate sono le falsificazioni che si respirano nell’aria per restare indenni. Quante prove ulteriori noi italiani dobbiamo avere, per come è stata raccontata la  guerra in Ucraina, per riconoscere che i nostri media sono una fabbrica di contraffazioni della realtà? Senza, dunque, uno sforzo di documentazione supplementare si resta vittime di una versione costruita da interessi  potenti.Perché forse mai, come oggi, le élites dominanti sono in grado di sovrapporre alla realtà effettiva la loro manipolata narrazione, puntello fondativo del loro dominio, imponendola come un qualunque seducente prodotto di consumo.

Un’altra ragione di stupore è l’evidente pregiudizio antirusso che in Italia circola in ogni canto di strada.E il fenomeno, quando vede protagonisti sinceri democratici, è davvero incomprensibile o comprensibile assai bene, quale prova della forza del punto di vista americano che è diventato anche il nostro.Ma come facciamo a giudicare la Russia prescindendo completamente dal popolo russo, dalla sua storia, dai sacrifici immani che credo nessun popolo ha dovuto sostenere in età contemporanea? Come può accadere che c’è così poca empatia e curiosità storica disinteressata per la sua storia? Nessuno trae ragione di ammirazione da quel che questo popolo è stato in grado di fare per difendere il proprio paese da forze sovrastanti?  Chi si ricorda che i russi hanno dovuto dare alle fiamme Mosca, la loro amata città, per  poter resistere all’invasione dell’esercito napoleonico? Qualcuno   rammenta battaglia di Stalingrado, la carneficina urbana durata quasi 6 mesi che ha inflitto la più grave sconfitta strategica all’esercito di Hitler? Quell’esercito che nessuna potenza europea aveva potuto fermare? Uno sforzo bellico che costò alla Russia circa 20 milioni di morti. Oggi nell’immaginario collettivo americanizzato sono stati gli USA a vincere la guerra, cancellando la vittoria russa a Stalingrado, dimenticando che l’Armata Rossa è arrivata Berlino, nel cuore dell’invincibile Reich, nell’aprile del 1945, precedendo addirittura gli eserciti alleati. Se la Russia fosse crollata Hitler avrebbe  molto probabilmente vinto la guerra e avrebbe imposto all’Europa il suo feroce dominio.  Chi ha liberato i lager dove si era consumato l’olocausto? Eppure persino un comico geniale come Benigni ha messo le divise americane  ai soldati che entrano nei campi di concentramento ne La vita è bella.

La rivoluzione d’Ottobre

Meno stupore desta l’oblio o perfino la dannazione della rivoluzione d’Ottobre. Essa viene fatta sparire sotto la facile demonizzazione dello stalinismo e dei suoi crimini, sotto la burocratizzazione elefantiaca dello stato russo del dopoguerra, sino alla sua finale dissoluzione nel 1991. Sappiamo quanto diffusa sia l’opinione, soprattutto nel campo un tempo di sinistra, che quella vicenda sia stata nient’altro che un  unico e  prolungato errore. Eppure non c’è giudizio più superficiale ed erroneo di questo. La rivoluzione del 1917, la prima rivoluzione proletaria della storia, a dispetto dei suoi errori e del sangue fatto scorrere, ha cambiato il corso della storia contemporanea. Qui basti ricordare, a parte l’eversione, spesso con prezzi umani drammatici, delle strutture feudali della Russia, che essa fin da subito ha avuto effetti di radicale trasformazione  nella società del tempo spesso ignoti. Chi sa, ad esempio, che per effetto della rivoluzione, nell’Europa Centrale tra le due guerre, vennero avviate ampie riforme agrarie con divisione  e distribuzione dei latifondi ai contadini  per timore delle rivolte  che avevano rovesciato gli Zar? Quelle riforme che in Italia spezzarono il latifondo solo nel 1950? Ma la rivoluzione, che già nel 1918 gli occidentali, compresi gli USA ( situati al di là dell’oceano), cercarono di soffocare sul nascere, ebbe effetti sotterranei nelle campagne dell’Asia e mise in moto vari movimenti contadini da cui prese slancio anche la Rivoluzione cinese.

Nel dopoguerra  

il sostegno economico, militare, politico dell’URSS rese possibile e comunque facilitò enormemente la lotta anticoloniale dei Paesi del Sud del mondo, la liberazione di numerosi popoli da una dominazione secolare.Un stato burocratico e autoritario, che espresse anche dirigenti nefasti come Breznev, tuttavia, anche quando si muoveva per interessi geopolitici di potenza, svolgeva un ruolo prezioso per il processo di emancipazione  dei paesi poveri.

Ma non si può tacere un altro esito che ci riguarda. La Rivoluzione d’ ottobre rese possibile la nascita dei partiti comunisti dell’Occidente – fenomeno represso sul nascere negli USA democratici – forze politiche moderne che non solo hanno concorso alla lotta antifascista nel dopoguerra, ma hanno svolto un ruolo decisivo nel processo di  sviluppo sociale  e di costruzione di stati democratici moderni, dotati di un costituzione.Il caso del Partito comunista italiano  costituisce un capitolo  esemplare di questa storia. Come si sarebbe potuto affermare il welfare – teorizzato peraltro da capi di stato lungimiranti come Roosevelt o da economisti come   William Beveridge – senza il concorso e le lotte dei partiti comunisti e socialisti, la  grande forza popolare e la mobilitazione dei sindacati? La storia non è una partita di calcio in cui si vince o si perde, e nulla accade mai invano.

Basterebbero questi brevi cenni per far  comprendere quanto diversamente siano andate le cose rispetto alle convinzioni interessate e  false che si sono affermate, specie negli ultimi decenni in cui la Verità Neoliberista ha riscritto il nostro passato. Del resto, una volta tanto, la storia offre la possibilità di una verifica, per così dire controffattuale, per giudicare il valore della Rivoluzione d’ottobre e di quel che ne è seguito. Che cosa è accaduto alle società occidentali dopo il crollo dell’URSS, quando è venuto a mancare un antagonista al capitalismo occidentale? Che cosa è accaduto al pensiero politico, diventato pensiero unico?  Che cosa al welfare, al lavoro, ai sistemi politici, alla democrazia, agli equilibri mondiali? Chi di noi avrebbe mai immaginato il ritorno in grande stile del lavoro schiavile nelle campagne? Eppure, dalla California all’Italia, passando per il Regno Unito e la Spagna, questa è diventata una gloria tangibile dell’Occidente.E’ stata dunque un’errore la Rivoluzione d’ottobre?

E’ questa falsa coscienza, radicata nelle menti, che non consente di ragionare, che porta  a guardare alla Russia come un ostacolo all’avanzare della democrazia nel mondo,  e a Putin come un mostro assetato di sangue. Cosi dobbiamo sentire in TV, ormai Ministero della Verità, giornalisti anche intelligenti e non faziosi, come ad esempio Corrado Augias, i quali si chiedono che cosa accadrà agli altri territori contermini << se si cede sull’Ucraina>>. Un’espressione che mostra l’assoluta ignoranza delle ragioni di questa guerra, che in parte  è una guerra civile, ma che riduce la Russia attuale a una caricatura. Ma quali interessi dovrebbero  spingere la Russia ad espandersi ulteriormente ? Il suo territorio statale è <<la più vasta entità territoriale del mondo>> (Treccani)  e assomma a 17.075.400 km2, con una popolazione intorno ai 160 milioni di abitanti. L’Europa, tanto per fare un raffronto eloquente, è estesa 4.950.000 km2 ed è popolata da circa 500 milioni di persone. Quale dissennato uomo di stato può spingere un tale paese, letteralmente spopolato, a occupare nuovi territori portando a morire un buona parte dei suoi scarsissimi giovani? Possibile che così pochi, in Italia e in Europa, sono  in grado di sospettare che la dirigenza Russa non aveva nessuna convenienza a invadere l’Ucraina, con cui aveva convissuto per decenni, se non fosse stata minacciata dalla Nato ai suoi confini, se gli USA non si fossero mostrati indegni di qualunque fiducia, se la popolazione russofona non fosse stata sottoposta a ripetute persecuzioni? Ma chi grida al pericolo di un’espansione imperialistica ha una idea salottierea della guerra. Dimentica che essa costa la vita di migliaia e migliaia di soldati. Quanta intelligenza c’è nel pensare che anche un’autocrate come Putin può sacrificare, spensieratamente e senza conseguenze, la propria gioventù (sottratta peraltro a un’economia che ne necessita incessantemente) per astratti disegni di dominio?

Putin come Hitler?

Per finire alcune considerazioni su Putin. Ho da poco ascoltato in TV Massimo Giannini, un giornalista democratico e intelligente (a dispetto dei giornali padronali per cui scrive) lanciare grida di dolore di fronte alla notizia  che Putin era stato riconfermato presidente con un’affermazione plebiscitaria di quasi il 90% dei votanti.<< Una grave sconfitta per l’Occidente >> l’ha definita con tono angosciato. Espressione che costituisce un involontario smascheramento dell’immagine caricaturale che i media, a partire dai giornali per cui Giannini scrive, hanno deliberatamente costruito della Russia e di Putin. Le nostre  élites si rivoltolano negli errori e nelle finzioni che essi stessi propagandano. Esse hanno infatti inventato l’immagine di un dittatore sanguinario che estorce il consenso  al suo popolo con il terrore. A questo servono pagine e pagine dedicate alla morte di Alexej Navalny, le decine e decine di trasmissioni televisive in cui si ricostruisce e ripete fine all’esaurimento lo stesso evento. Se avessero un approccio meno propagandistico alla realtà  potrebbero capire come stanno realmente le cose.  Ricordo che dagli elettori residenti all’estero Putin ha ricevuto il 72, 1% dei voti. E costoro certamente non subivano nessuna pressione o condizionamento. So che dispiace a tantissimi, ma quello del presidente russo è un autentico consenso popolare, dipendente da ragioni molto solide, che il giornalismo democratico dovrebbe avere l’onestà di ricostruire. Onestà di cui è gravemente sguarnito. Putin, agli occhi del  suo popolo ha il grande merito di aver sottratto il paese all’anarchia, alla spaventosa povertà di massa creata dal decennio dei governi di Eltsin, rimettendolo sulla strada di uno sviluppo sempre più ordinato e apportatore di benessere. Sviluppo capitalistico, beninteso, in un’economia di libero mercato, con una forte presenza statale. Quella che servirebbe tanto all’Italia e all’ Europa. A lui riconosce il merito di aver domato in gran parte  lo strapotere degli oligarchi, di aver limitato la corruzione dilagante, di  aver soffocato il terrorismo ceceno che  faceva esplodere bombe nei locali pubblici delle città e persino a Mosca. Repressione dolorosamente  sanguinosa, certo, ma contro un nemico anch’esso sanguinario  che  prendeva di mira i civili. A Putin il popolo russo è grato  per avergli restituito, dopo l’umiliazione del crollo dell‘URSS, l’orgoglio della propria storia, della propria identità. Questo rinato patriottismo – certo, spesso condito da Putin con improbabili e inopportuni richiami retorici alla Russia degli zar – viene demonizzato in Occidente per poterlo trasformare in imperialismo aggressivo. Eppure non si capisce perché il patriottismo sia invece considerato lecito e benefico per la Francia di Macron, che vuole inviare truppe europee contro la Russia, o per l ‘Italia del governo di guerra della sovranista Meloni, che lo ha preventivamente ceduto agli USA per ragioni di legittimazione politica. Ma il  popolo russo ha rafforzato il suo consenso a Putin negli ultimi  anni perché ancora una volta avverte i venti di guerra che soffiano contro di lei. La Nato  e l’intero Occidente minacciano di “sconfiggerla” sul suo territorio, cioè ancora una volta di invaderla,  e noi  ci stupiamo che il suo popolo moltiplichi il proprio appoggio al leader che si è mostrato più capace di difenderlo da questa minaccia mortale?  Ma come pensano i nostri analisti?

Infine, sempre dedicato agli intellettuali democratici e di sinistra, qualche considerazione su Putin dittatore spietato, argomento impervio, ma che credo di poter affrontare col dovuto equilibrio e freddezza. E’ un compito  sgradevole che mi assumo non certo per difendere Putin, ma perché attraverso la sua demonizzazione si fa strada la propaganda bellicista dell’esportazione della democrazia e del regime change: il vero obiettivo per cui gli USA hanno provocato la guerra in Ucraina. Confido perciò nell’intelligenza del lettore. Comincio col dire che io immagino Putin come uomo di grande intelligenza politica, ma sicuramente spietato. Lo credo anche capace di ispirare l’eliminazione di qualche avversario politico. La sua provenienza e la sua esperienza autorizzano questa visione. D’altra parte, è noto, come qualche volta sosteneva Marx, che gli uomini fanno la storia, ma anche l’inverso, che cioé è la storia a fare gli uomini. Del resto come avrebbe potuto rimettere in piedi un moderno stato, in un paese sprofondato nel caos, senza un certo grado di spietatezza? Nella patria di Machiavelli queste considerazioni non dovrebbero destare stupore. Tuttavia quando gli si attribuiscono responsabilità dirette nella morte di un oppositore come Navalny o nell’uccisione della giornalista Anna Politkovskaja, ogni serio analista, che non può contare su nessuna prova che non siano le opinioni dei nostri giornalisti, dovrebbe avere l’intelligenza di porsi delle domande. Occorre sempre esaminare le “convenienze” degli attori in campo per comprendere le dinamiche della politica. E’ davvero giovata a Putin la morte del prigioniero Navalny? Abbiamo poi saputo, del resto, che era destinato a uno scambio di detenuti. E Putin temeva a tal punto la giornalista Anna Politkovskaja, da farla assassinare in  quel modo plateale, esponendosi alla condanna universale dei paesi occidentali?

Quel che appare inaccettabile in queste ricostruzioni inverificate e spesso infondate è la rappresentazione del presidente russo come un signorotto feudale, che comanda a piacimento i propri sudditi, riducendo la Russia a un villaggio rurale dell’ ‘800. Si dimentica che anche in quel paese esiste una magistratura che gode di una relativa indipendenza, formata da magistrati che vi accedono per concorsi. Si sopprime interamente la complessità di quella società, al cui interno operano servizi segreti, anche stranieri, criminalità organizzata, fazioni politiche in lotta reciproca, ecc.. L’assassino della Politkovskaja, è stato infatti individuato e condannato a 20 anni di carcere. Come si fa a rappresentare Putin come un grande burattinaio se non per legittimare un suo rovesciamento progettato negli studi degli strategici americani? E infatti non si fanno campagne diffamatorie contro il turco Erdogan, l’egiziano Abdel al Sisi,  l’indiano Modi, il saudita Mohammed bin Salman, com’è noto campioni di democrazia liberale.

La democrazia e il popolo russo

In una delle tante interviste rilasciate da Giulietto Chiesa prima di morire questo grande esperto delle cose russe e amico di quel paese, pur riconoscendo a Putin molti meriti, gli rimproverava di non aver fatto avanzare il processo di democratizzazione e liberalizzazione di quella società. La giusta critica che tutti gli rivolgeremmo se la propaganda USA non lo avesse trasformato nel nemico numero uno dell’Occidente. E tuttavia una riflessione sulle difficoltà di fare avanzare il processo di democratizzazione in Russia andrebbe fatto, coinvolgendo il suo passato storico e l’antropologia del suo popolo. Certo, il processo di espansione della Nato e la continuazione della guerra fredda da parte degli USA, anche dopo il crollo dell’URSS, ha ostacolato i processi di democratizzazione interni di quel paese. I dirigenti russi sanno bene quanto danaro e forza organizzativa i servizi segreti USA sono in grado di impiegare per  dar vita a formazioni politiche eversive, organizzare rivolte e colpi di stato. Non avevano bisogno di aspettare il rovesciamento del  legittimo governo di Kiev nel 2014. D’altra parte non bisogna dimenticare che dopo Eltsin la Russia si è aperta a un’economia di mercato, capitalistica, in cui operano liberi imprenditori,  che godono più o meno delle stesse libertà che in Occidente. Dunque l’evoluzione in senso democratico del sistema politico sarebbe naturale, se le relazioni internazionali fossero meno minacciose e agitate. E tuttavia l’inimicizia ricercata e orchestrata dagli USA e dalla Nato per ragioni geopolitiche non basta a spiegare la lentezza dei processi di democratizzazione, anche se appare sufficiente per giustificare la loro recente involuzione.

La democrazia non è un semplice costrutto giuridico, non si esaurisce nella sua architettura istituzionale. E’ una forma di organizzazione della società frutto di un lungo processo storico. Perciò la storia appare come la disciplina chiave per avvicinarsi con meno superficialità ai fenomeni complessi che riguardano questo sconosciuto paese.

E anche in questo caso guardare il corso delle cose dal lato del popolo è importante. Non bisogna dimenticare che in Russia la  servitù della gleba è stata abolita, sul piano giuridico, solo nel 1861. Quindi mentre in Italia si avviava il processo di unificazione del paese la Russia, ma solo sul piano meramente formale, cominciava a uscire dal Medioevo. Era una società dominata da una immobile burocrazia imperiale con alla base l’immenso popolo dei contadini, un mondo ai margini della modernità,  che noi conosciamo grazie  a narratori giganteschi, alla più grande letteratura dell’età contemporanea. La Rivoluzione d’ottobre mandò in aria quel pachiderma e vide  per qualche tempo il protagonismo delle masse popolari sino a che la dittatura del proletariato non si trasformò in dittatura tout court. Per oltre 40 anni il sistema di potere dominato da Stalin tolse al popolo ma anche all’intelligentija ogni possibilità di iniziativa e di creatività. Le cose non cambiarono di molto dopo la morte del dittatore e l’esplosione della guerra fredda, la corsa agli armamenti, ecc., non aiutarono l’evoluzione liberale di quella società-apparato. Il tentativo di Kruscev, com’è noto, venne risucchiato dagli elementi conservatori che puntarono al rafforzamento della difesa e agli armamenti per fronteggiare gli USA. Da qui ovviamente le tragedie delle repressioni, prima in Ungheria nel 1956, l’occupazione di Praga nel 1968. Dunque sin quasi all’avvento di Gorbaciov alla dirigenza del paese, il controllo burocratico della popolazione russa è stato sistematico, spesso soffocante. Come si fa a non comprendere la passivizzazione civile  della popolazione che ne è derivata, la sua scarsa confidenza con la democrazia, la sua apatia partecipativa?  Come si poteva costruire la democrazia con tali precedenti storici se non attraverso un lungo processo?  Bruno Giancotti, un italiano che ha lavorato nello staff giornalistico di Gorbaciov e vive in Russia da 40 anni, mi ha spiegato che tra i russi domina una particolare attitudine a demandare il potere a chi sta più in alto, si sentono rassicurati dalla protezione del  “Nachalnik”, che vuol dire il “tuo capo”.

Non è un caso che il processo di democratizzazione della Perestrojka, avviato da Gorbaciov forse con non piena consapevolezza della complessità del compito, crollò in poco tempo, trascinando l’URSS nel collasso. Ma come era possibile trasformare in una democrazia liberale, nel giro di mesi, un società senza stato, surrogato da un partito burocratizzato e in parte corrotto, priva di  un vero parlamento, di partiti indipendenti, magistratura, sindacati e corpi intermedi autonomi, senza una libera stampa, una tradizione popolare di partecipazione alla vita politica? Perciò il decennio di Eltsin fu una fase fra le più dolorose nella storia del popolo russo in tempo di pace. Dunque, Putin – che, come è emerso nella recente intervista al giornalista Dmitrij Kisilev, aveva rifiutato, in un primo tempo, di fronte alle difficoltà immani del compito, di  assumere la responsabilità della presidenza, offertagli da Jeltsin, – dovette ricostruire uno stato che non c’era e ricomporre un’organizzazione economica e sociale devastata dall’improvvisa apertura al mercato, di una società che nelle sue strutture amministrative e rappresentative non doveva essere molto  più dinamica di quella zarista. E dunque solo uno statista privo di senno poteva cercare di rimettere  in piedi una società interamente collassata – forse un caso unico  per dimensioni nell’età contemporanea – ripercorrendo la strada fallimentare di chi l’aveva preceduto. E infatti lo avrebbero preteso, dai loro tranquilli studi, le anime belle del giornalismo occidentale. Senza un elevato tasso di governo autoritario dei processi di riorganizzazione, visto tra l’altro la forza eslege che avevano guadagnato moltitudini di oligarchi, il terrorismo nelle regioni del Caucaso (che si è tragicamente rifatto vivo il 22 marzo) e la corruzione dilagante,  il tentativo era destinato al fallimento.

E’ dunque questa, per brevissimi cenni, la storia, sono questi i processi che spiegano Putin  e la sua gestione autoritaria che i democratici dovrebbero considerare. La sua demonizzazione non serve né a comprendere le cose, né a favorire il processo di democratizzazione della società russa. Giova   all’atlantismo e all’imperialismo guerriero della dirigenza USA, che ha un interesse supremo nel costruire un nemico impresentabile per tenere unita la propria società lacerata un sistema politico esaurito. Quella dirigenza che oggi mostra al mondo la sua feroce capacità di mentire, fingendo di opporsi a Netanyahu, ma continuando a inviargli armi perché completi il massacro a Gaza. Capire dunque  un un po’ meglio la storia giova alla causa ragionevole della pace.

FONTE: https://transform-italia.it/il-popolo-russo-putin-la-democrazia/

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta.

Mentre il Wto si impantana, la sovranista Meloni rilancia il Ceta. Alla faccia di lavoratori, agricoltori e cittadini

di Monica Di Sisto

Nemmeno la cornice iper-futuristica di Abou Dhabi è riuscita a restituire al commercio internazionale una direzione condivisa da parte dei diversi capitalismi che si contendono lo scacchiere globale. Una riunione tempestosa, la 13esima ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto), prolungata di quasi due giorni pieni alla ricerca di un consenso mai raggiunto, e conclusa con un “ci vediamo nel quartier generale di Ginevra e ne riparliamo”.

Mentre il cambiamento climatico riduce la portata del canale di Panama e il passaggio delle navi-cargo fino al 40% e la guerra in Medio Oriente ne blocca fino al 60%, i dossier più urgenti sono rimasti tutti aperti sui tavoli dei negoziati: dallo stop ai sussidi sulla pesca da parte dei grandi Paesi esportatori, che devasta la biodiversità e schiaccia la pesca territoriale, alla facilitazione dei beni e servizi ambientali; da una soluzione permanente per consentire ai Paesi in via di sviluppo di gestire stock alimentari pubblici per calmierare i prezzi interni, a co-regolare (e tassare) il commercio digitale.

I 164 Paesi della Wto si sono spaccati lungo le faglie della nuova guerra fredda in corso: da un lato gli Stati Uniti, determinati a difendere il proprio mercato interno e il livello attuale di sussidi e di competitività delle sue grandi imprese tecnologiche e digitali, anche continuando a indebolire l’organo di risoluzione delle dispute commerciali globali azzoppato da Trump. Dall’altro la Cina, che pur continuando ad aderire alla Wto sta costruendo un proprio sistema commerciale, con accordi regionali e bilaterali con quasi trenta Paesi, che rappresentano quasi il 40% delle sue esportazioni.

“I paesi ricchi possono giocare al gioco dei sussidi – è stata l’amara costatazione della direttrice generale della Wto, Ngozi Okonjo-Iweala – i paesi più poveri non possono permetterselo”. E infatti Sudafrica e India hanno giocato il ruolo di catalizzatori dello scontento “da sud”: il primo sul tema dei brevetti, il secondo su quello dell’agricoltura. E il banco è saltato.

Chi è mancata al tavolo delle decisioni che contano è stata, come accade da tempo, l’Unione europea: paralizzata tra retorica democratica e pratica liberista, mentre le aziende piccole e medie del settore agroalimentare invadevano di trattori le strade delle nostre città, l’Ue si è affrettata a portare all’approvazione del Parlamento europeo tre nuovi trattati di liberalizzazione commerciale con la Nuova Zelanda, il Cile e il Kenya, che sicuramente non allevieranno la pressione competitiva sulla produzione primaria nazionale e comunitaria.

L’Italia, in questa cornice, ha saputo tuttavia battere tutti i record di scarsa lungimiranza e incoerenza. Il governo considerato più sovranista nella storia della Repubblica sta infatti provando a far ratificare dal Parlamento l’accordo di libero scambio tra Europa e Canada (Ceta), che proprio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni aveva definito “una porcata contro i bisogni dei popoli”, annunciando che FdI si sarebbe battuto in Italia contro la ratifica. “Chi vota il Ceta – aveva aggiunto Meloni – fa un favore alle grandi produzioni, e sputa in faccia agli italiani che si sono rifiutati di mettere schifezze nei loro prodotti”.

Noi siamo rimasti della stessa opinione, e personalmente, nel corso dell’audizione che ho svolto per la mia associazione presso la commissione Affari esteri della Camera con Movimento Consumatori e Cgil, ho ricordato al presidente, Giulio Tremonti di avergli passato il microfono su un palco di protesta contro la ratifica, avviata a quel tempo dal governo Gentiloni, dal quale lui ci aveva spiegato la sua contrarietà e i motivi per i quali facevamo bene a opporci.

In una condizione di commercio globale in assoluta ritirata, e di fronte a un’esigenza di proteggere la capacità d’acquisto di cittadini e consumatori, alimentare la concorrenza sleale da parte di Paesi che non hanno il nostro sistema regolatorio, e la guerra al ribasso tra grandi imprese che si gioca sui diritti di lavoratori e natura, non può che premere ancora di più sui nostri salari e sulla nostra speranza di futuro. Un gioco al massacro che dobbiamo essere sempre più in grado di leggere e contrastare.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-06-2024/3119-mentre-il-wto-si-impantana-la-sovranista-meloni-rilancia-il-ceta-alla-faccia-di-lavoratori-agricoltori-e-cittadini-di-monica-di-sisto

«L’Europa si sta suicidando»: il 24 marzo 1999 le bombe Nato nell’ex Jugoslavia

di Marinella Correggia

Il ricordo. Sono passati 25 anni da una guerra che, con l’Italia in prima fila, ha fatto segnare molti terribili primati: la prima combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri.

«L’Europa si sta suicidando»: a Belgrado, sotto un terso cielo primaverile offeso dalle bombe, un medico commentava così, parlando a un gruppo di pacifisti italiani, le «operazioni aeree nella Repubblica federale di Jugoslavia» (secondo il comunicato ufficiale della Nato), avviate la sera del 24 marzo 1999. Decisivo il supporto dell’Italia che offre tutto, aerei, basi, propaganda. E pazienza per la Costituzione. Nessun mandato da parte del Consiglio di sicurezza Onu. Sabotati in precedenza i tentativi di accordo, nemmeno discusse le proposte serbe (autonomia per il Kosovo e presenza dei militari dell’Osce a tutela); e certo Belgrado non poteva accettare la proposta di un’occupazione a tempo indeterminato da parte delle truppe Nato di tutto il territorio jugoslavo.

IN QUEI GIORNI A BELGRADO e in altre città sotto attacco, la delegazione italiana si può dire fortunata. All’arrivo scende dal pullman e bussa all’hotel Jugoslavia. Tutte le stanze sono libere ma troppo costose per le tasche autogestite. Si finisce in un albergo più economico, nel quartiere Zemun. E la mattina seguente, il portiere comunica: «L’hotel Jugoslavia è stato bombardato stanotte». Qualche giorno dopo, la visita a Novi Sad avviene in un raro giorno di calma, fra un attacco e l’altro. La «guerra umanitaria» invoca la necessità di salvare i kosovari (in realtà ogni conflitto a fuoco fra le due parti passa strumentalmente per «pulizia etnica», inoltre il grosso degli incidenti si verifica dopo l’inizio dei bombardamenti Nato). Ma le bombe cadono anche su obiettivi di infrastrutture civili. Colpiti indistintamente serbi, profughi serbi di Croazia, rom, profughi serbi kosovari, profughi serbi di Bosnia e anche profughi albanesi del Kosovo, morti a metà aprile sul treno che percorreva un ponte centrato dalla Nato. I 78 giorni di Allied Force avrebbero provocato, a seconda delle fonti, fra i 500 e i 2.500 morti civili, oltre a migliaia di feriti.

SEGNI DI RESISTENZA come le proteste degli abitanti di Belgrado e Novi Sad con il famoso cartello Target, o la porta sbarrata del McDonald’s, si mescolano alle macerie dei ponti e della fabbrica Zastava a Kragujevac, alle notizie sui giornalisti e tecnici della televisione uccisi, sull’ambasciata cinese bombardata, all’allarme sanitario per l’attacco agli impianti petrolchimici di Pancevo, alle denunce sull’uso di bombe a grappolo e dell’uranio impoverito nei proiettili anticarro. Il seguito post-bellico vedrà il moltiplicarsi di malattie oncologiche a causa dell’uso di uranio impoverito in quei mesi di attacco.

NELL’HOTEL DI ZEMUN, i pacifisti incontrano Vesna, Neboish e il loro figlio Stephan di sette anni. Sfollati da Sarajevo, vivono lì da anni. Il letto dove dormono in tre, i quaderni di scuola, il fornellino dove frigge la frittatina palacinka, «se non c’era la guerra te la facevo più buona, con le noci», i fagotti da profughi, le foto della loro casa e di un antico, unico viaggio (a Venezia), la chitarra e la Bhagavad Gita di Neboish. Vesna si dichiara «jugoslava, io sono ancora jugoslava». Neboish, mobilitato durante la guerra in Bosnia, si è ritrovato invalido, una pensione di 50 marchi. Si arrangia lei, commerciando in biancheria, «ma adesso, temendo una lunga guerra, tutti risparmiano». Il senso di ospitalità e la voglia di amicizia supera la barriera delle lingue. Amare considerazioni: «Il problema era antico, in Kosovo. C’erano conflitti, certo. Ma l’intervento militare porta non solo altri morti e altri sfollati; porta anche odio. Già prima vivevamo giorno per giorno. Adesso è ora per ora. Forse abbiamo costruito la nostra casa in mezzo alla strada – così si dice da noi». Tornare a Sarajevo? «No, la nostra casa è abitata da altri. Spero nella pace qui, un giorno». Sulle bombe, Vesna sdrammatizza: «Non c’è morte senza destino. Ma certo il cielo sembra esserci nemico. Il 5 aprile hanno colpito a 100 metri. Devo chiedere il risarcimento danni psicologici alla Nato!».

RISARCIMENTI? A distanza di decenni, nessuna causa è andata in porto. La Nato è un’anguilla. Anni fa, in un dibattito pubblico, Carla del Ponte (procuratore del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia) a domanda rispondeva: «Noi come tribunale abbiamo aperto un caso contro gli statunitensi per aver ucciso dei civili sapendo che erano tali; ma poi se non si arriva a fare l’inchiesta perché la Nato non dà accesso alla documentazione, se nessuna capitale europea collabora, come si fa? Abbiamo dovuto abbandonare per mancanza di prove».

UNA SERIE DI TRISTI PRIMATI, questo è stata l’Allied Force Nato del 1999. Li elencava Luciana Castellina nell’inserto del manifesto in ricordo dei 20 anni: la prima guerra combattuta fra nazioni europee dalla fine del conflitto mondiale; la prima volta che veniva stracciato l’accordo di Helsinki sull’intangibilità dei confini statuali; la prima volta che si procedeva a un’applicazione selettiva dei diritti; la prima volta che la «sinistra» andava a bombardare a casa d’altri in prima fila. Concludeva Luciana Castellina: «A 20 anni di distanza le macerie della Jugoslavia, una delle più significative nazioni emerse dalla Resistenza nel 1945, uno Stato al quale dobbiamo quello straordinario schieramento internazionale che fu chiamato “Movimento dei non allineati”, sono tutte lì: nessuno degli Stati emersi dallo smembramento fa bella figura di sé». A Belgrado i 25 anni dall’aggressione sono celebrati in questi giorni con un convegno internazionale.

FONTE: https://ilmanifesto.it/leuropa-si-sta-suicidando-il-24-marzo-1999-le-bombe-nato-nellex-jugoslavia

Senegal, un altro Paese perso alla causa del neocolonialismo occidentale ?

di Giovanni Santini (da Dakar)

Il Senegal ha scelto, in modo plebiscitario, il suo nuovo Presidente. Anche se lo spoglio non è ancora terminato e quindi manca l’ufficialità, la tendenza, a due terzi dei voti scrutinati è ormai chiara: Bassirou Diomaye, rappresentante del partito Pastef ha una superiorità schiacciante, di molto superiore al 50%, che gli permetterebbe di essere eletto al primo turno.

Presentatosi al posto di Ousmane Sonko, capo carismatico del partito che non ha potuto candidarsi per guai giudiziari, sarà con i suoi 44 anni, il più giovane Presidente della storia del Senegal.

I motivi che hanno indotto i senegalesi, in grande maggioranza, a votare un politico quasi sconosciuto fino a pochi mesi fa, sono diversi.

Innanzitutto il rigetto del Presidente uscente, Macky Sall, accentuatosi nelle ultime settimane dopo il maldestro tentativo di quest’ultimo di rimanere al potere ben oltre i limiti temporali previsti dalla Costituzione ed oltre il dissenso , ormai diffuso in tutta la società, per le sue politiche liberiste ed i suoi legami con la Francia. Anche la classe media, moderatamente agiata e benpensante, che lo aveva appoggiato per larga parte dei suoi due mandati, non ne poteva più del suo attaccamento al potere e dei tentativi di eliminare, per via giudiziaria, il principale oppositore, Ousmane Sonko. Le violente proteste seguite a tali tentativi e l’aperta violazione della Costituzione stavano facendo perdere al Senegal la propria fama di Paese pacifico e democratico a cui i senegalesi tengono molto e che costituisce un forte incentivo per gli investimenti stranieri. Nelle strade si respira un senso di liberazione e sul web si moltiplicano i commenti entusiasti per la fine di un incubo.

Ma un elemento altrettanto importante è costituito dalla proposta politica del Pastef, completamente opposta a quella portata avanti in questi anni e che interpreta il diffuso sentimento anticoloniale e segnatamente anti francese che pervade la società senegalese.

L’azione politica del Presidente uscente si era concentrata soprattutto sulla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, con l’intervento di capitali stranieri ma anche di grandi investimenti statali. L’allargamento della rete autostradale, inesistente fino a dodici anni fa; una moderna linea ferroviaria che serve la regione di Dakar; la creazione di un polo amministrativo ed industriale ad una trentina di chilometri dalla capitale per favorirne il decongestionamento; il miglioramento della viabilità della medesima, con la costruzione di viadotti e l’acquisto di autobus ecologici.

Tutti questi investimenti, però, hanno avuto una ricaduta minima sulle condizioni di vita delle famiglie, costrette a fare i conti con un costo della vita crescente in maniera esponenziale rispetto a salari e stipendi stagnanti; laddove, poi, si possa contare su un’entrata fissa a fine mese, visto che gli indici di disoccupazione e lavoro informale sono stati anche loro sempre crescenti negli ultimi anni.

Il malcontento popolare contro l’attuale governo ha raggiunto il culmine negli ultimi mesi quando non solo le bollette di energia elettrica ed acqua, ma anche gli ingredienti basici dell’alimentazione senegalese, come pane, riso e cipolle, hanno subito aumenti drastici.

L’agenda politica del Pastef, che si ispira, come dichiarato dai suoi principali esponenti, ad un “panafricanismo di sinistra”, prevede, in totale rottura con il passato, la rivendicazione della sovranità politica, finanziaria ed economica del Paese; il rifiuto delle ricette neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale a fronte dei propri prestiti, di cui l’ultimo, di 1,8 miliardi di dollari, approvato a giugno 2023, potrebbe essere rinegoziato o addirittura abbandonato dal nuovo governo; la messa in discussione del franco CFA, la moneta di 14 Paesi ex colonie francesi, controllata dalla Francia; la rinegoziazione dei contratti fin qui stipulati con società straniere per lo sfruttamento di petrolio, gas e miniere, che potrebbe cambiare il volto economico del Paese; la lotta alla corruzione che è stata il corollario dei contratti per le grandi opere infrastrutturali e per l’ammodernamento del Paese, stipulati con società straniere, con beneficio di queste ultime e dei politici di turno; una politica sociale per alleviare le difficili condizioni di vita della popolazione, sia urbana che rurale, attraverso, tra l’altro, un controllo dei prezzi dei beni di prima necessità.

Anche nella politica internazionale la discontinuità è evidente. In campagna elettorale Diomaye ha dichiarato che, pur non nutrendo ostilità nei confronti della Francia, il Senegal rivendica il diritto di scegliere i propri partner, non escludendo a priori alcuno Stato, con evidente riferimento alla Russia.

Insomma, è evidente che dopo Mali, Burkina Faso e Niger, il dominio neo coloniale francese in Africa occidentale sta perdendo un ulteriore pezzo, forse il più importante. E questa volta non attraverso un colpo di Stato militare, sia pure appoggiato dalla popolazione, ma per via costituzionale, nel rispetto di quella “democrazia” tanto cara al mondo occidentale, per la cui affermazione non si lesinano guerre e bombe su civili inermi.

Nel caso del Senegal il distacco è sancito dalla volontà popolare, attraverso il più democratico degli esercizi politici, le elezioni.

Chi avrà il coraggio di paventare interventi o ritorsioni, come avvenuto per gli altri Paesi che rifiutano l’appartenenza al vecchio mondo neo coloniale e liberale?

FONTE: http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2024/03/25/il-senegal-altro-paese-perso-alla-causa-del-neocolonialismo-occidentale/

Perché il Messico è la nuova variabile nei rapporti tra Usa e Cina

di Federico Giuliani (da Insiderover)

I dati pubblicati lo scorso 8 febbraio dal dipartimento del Commercio Usa hanno generato curiosità e stupore. Per la prima volta in più di due decenni, nel 2023 la principale fonte di beni importati dagli Stati Uniti non coincideva con la Cina. A rubare la corona al gigante asiatico è stato il Messico, specchio delle crescenti tensioni economiche tra Washington e Pechino, nonché degli sforzi attuati dall’amministrazione Biden per importare mercanzia da Paesi geograficamente più vicini rispetto alla Repubblica Popolare Cinese ma, soprattutto più amichevoli del Dragone.

Attenzione però, perché se è vero che gli Usa stanno scommettendo sul Messico per delocalizzare al suo interno le loro aziende – una volta ben felici di essere ancorate al ricco mercato cinese, realtà dorata ormai compromessa dalle tensioni geopolitiche – allo stesso tempo il gigante asiatico sta a sua volta guardando al vicino di casa Usa per far confluire in loco le proprie società. A che pro? Semplice: per farle esportare negli Stati Uniti eludendo dazi e tariffe, e giocando sul fatto che i loro prodotti non sono made in China bensì in Messico.

Ci troviamo così di fronte ad una situazione tanto bizzarra quanto complessa: mentre Washington spera di smarcarsi il più in fretta possibile da Pechino, importando prodotti da altri Paesi in via di sviluppo, le aziende cinesi incrementano le loro attività in quelle stesse nazioni, per produrre beni da inviare nel mercato statunitense come se niente fosse. Il Messico, ancor più del Vietnam, è dunque una variabile emblematica del nuovo equilibrio economico che regola i rapporti tra le due superpotenze del XXI secolo.

La variabile Messico

Nel 2023, dicevamo, gli acquisti statunitensi di prodotti cinesi hanno raggiunto i 427,2 miliardi di dollari, in calo del 20% rispetto al 2022. Al contrario, il Messico ha esportato prodotti in Usa per un valore di 475,6 miliardi di dollari, in un aumento del 4,6% rispetto all’anno precedente. Risultato: Città del Messico è diventata la principale esportatrice verso Washington soppiantando per la prima volta Pechino in 21 anni.

Le ragioni, come detto, hanno tuttavia meno a che fare con il Messico in sé e più con le attuali tensioni internazionali. Detto altrimenti, come spiegato da El Paìs, gli Stati Uniti vogliono smettere di acquistare prodotti a basso costo dalla Cina, e il governo messicano sta lottando per ottenere almeno una parte di quella fetta di torta. Una fetta, si badi bene, potenzialmente destinata a crescere ancora, visto che Joe Biden sta valutando nuovi aumenti delle tariffe su beni cinesi come veicoli elettrici, apparecchiature legate all’ambito dell’energia solare e semiconduttori meno avanzati.

La decisione finale dovrebbe essere presa nella prima metà di quest’anno, ma Pechino ha iniziato a prendere adeguate contromisure. Già, perché come ha evidenziato il Financial Times la Cina sta semplicemente spedendo più merci negli Stati Uniti attraverso il Messico (e altri Paesi), eludendo ogni dazio possibile e immaginabile. La controprova arriverebbe dall’aumento del numero di container da 20 piedi spediti da Pechino a Città del Messico: 881.000 nei primi tre trimestri del 2023, in crescita rispetto ai 689.000 rilevati nello stesso periodo del 2022.

Altro dato rilevante: l’ente commerciale messicano per i fornitori di ricambi per auto, l’INA, ha evidenziato come 33 aziende di proprietà cinese, ma operanti in Messico, abbiano inviato negli Stati Uniti componenti per un valore di 1,1 miliardi di dollari nel 2023, in aumento rispetto ai 711 milioni di dollari del 2021. Che cosa significa tutto questo? Tanto, tantissimo, considerando che le automobili importate negli Stati Uniti dal Messico sono soggette ad un prelievo statunitense pari al 2,5%, mentre le parti assemblate in Messico sono soggette a una tariffa compresa tra lo 0% e il 6%. Al contrario, le automobili e i ricambi importati direttamente dalla Cina pagano un’ulteriore tassa del 25%, secondo il regime fiscale introdotto da Donald Trump e mantenuto da Biden.

L’intermediario tra Usa e Cina

Dal canto suo il Messico è consapevole di essere sotto i riflettori, e l’anno scorso ha annunciato tariffe che vanno dal 5% al 25% su merci provenienti da Paesi come la Cina (anche se non è chiaro quanto e come il nuovo regime verrà applicato o influenzerà le importazioni). A dicembre, inoltre, il governo messicano ha firmato un memorandum d’intesa con gli Stati Uniti sul controllo degli investimenti esteri – compresi i nuovi impianti cinesi di veicoli elettrici – in relazione ai rischi per la sicurezza nazionale.

Come se non bastasse, a giugno sono in programma le elezioni presidenziali messicane che decreteranno chi sarà il successore di Andres Manuel Lopez Obrador. In lizza troviamo due donne: Claudia Sheinbaum, portabandiera del partito MORENA al potere, appoggiata dall’attuale presidente e in rampa di lancio, e Xochitl Galvez, volto della coalizione di opposizione, composta da PAN, PRI e PRD. Le intenzioni di voto per Sheinbaum si aggirerebbero intorno al 64% a fronte del 31% della rivale. Molto distaccato, intorno al 5%, Jorge Alvarez Maynez, del partito Movimento Cittadino (di centrosinistra). Qualora dovesse vincere Sheinbaum, è lecito supporre che il nuovo leader del Paese riproponga l’agenda di Obrador, cercando dunque di ampliare le opzioni economiche a disposizione di Città del Messico, compresa la pista cinese.

Nel frattempo le aziende del Dragone hanno cambiato modo di fare affari con Washington. Alcune, come Hisense – che dal 2022 produce elettrodomestici e frigoriferi per il mercato nordamericano – ha piazzato uno stabilimento dal valore di 260 milioni di dollari in Messico, mentre le società automobilistiche SAIC Motors e JAC Motors hanno annunciato piani per costruire in loco impianti di assemblaggio. Va da sé, sempre in ottica mercato Usa.

In tutto questo troviamo chi vede l’integrazione tra Messico e Stati Uniti come la prova più evidente del successo nel disaccoppiamento Usa dalla Cina, e chi, al contrario, crede che il gigante asiatico stia cercando di migliorare le sue relazioni con il vicino statunitense per evitare sanzioni e tariffe. Insomma, l’ “intermediario” Messico ha il potenziale per riscrivere, in un senso o nell’altro, i rapporti tra le due superpotenze del pianeta. Tutto o quasi dipenderà da chi, tra Usa e Cina, chi riuscirà ad attrarre prima il Paese latinoamericano alla propria sfera di influenza. Con investimenti, progetti e accordi milionari.

FONTE: https://it.insideover.com/economia/il-dilemma-dei-falchi-europei-per-la-difesa-comune-i-bond-demoliscono-lausterita.html

Organizzare la battaglia contro il progetto di sconvolgimento del quadro istituzionale

Sintesi dell’introduzione di Alfiero Grandi al consiglio direttivo del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, del 15/3/2024

“Nell’ultimo consiglio direttivo, dicembre 2023, avevamo messo al centro 2 temi di fondo: Autonomia regionale differenziata e elezione diretta del Presidente del Consiglio su cui il Governo ha presentato in prima persona proposte di legge e sta gestendo direttamente anche le modifiche. Consapevoli che argomenti universali come questi debbono essere oggetto di una formidabile campagna di informazione e di orientamento – tanto più se dovessero evolvere come auspichiamo, soprattutto nel caso del cosiddetto “premierato”, verso consultazioni referendarie che sono l’ultima possibilità per bloccarne l’entrata in vigore – abbiamo indicato nella Via Maestra la sede politica necessaria per affrontare queste sfide.
Per questo abbiamo scritto insieme a Libertà e Giustizia e al Presidente di Salviamo la Costituzione una richiesta a La Via Maestra di affrontare questi temi, cosa che è avvenuta il 3 febbraio 2024 e ha trovato una prima sostanziale condivisione della centralità di questi temi, a cui giustamente sono stati intrecciati altri temi di enorme valore come ad esempio la precarietà, gli incidenti sul lavoro, gli appalti senza regole.

Il 2 marzo scorso una nuova assemblea nazionale de La Via Maestra ha non solo confermato l’orientamento di costruire a livello territoriale dei coordinamenti locali, facendo perno sulla diffusione organizzativa della Cgil ma ha approvato una sintesi conclusiva chiara che indica anche l’uso dei referendum sia nella materia costituzionale (elezione diretta del Presidente del Consiglio) che su Autonomia differenziata e temi sociali di fondo, senza trascurare strumenti diversi come leggi di iniziativa popolare, petizioni e altre iniziative per porre la questione dell’emergenza sanitaria, del rinnovo dei contratti di lavoro, tanto più indispensabile a fronte dell’erosione del potere d’acquisto e dei diritti dei lavoratori.

Noi che abbiamo dall’inizio ritenuto la Via Maestra la sede più opportuna per affrontare battaglie di grande impegno politico e sociale abbiamo anche posto il problema di allargare ulteriormente l’area dei soggetti impegnati e per questo abbiamo chiesto un incontro con la Uil nazionale e proveremo a organizzare iniziative verso i giovani, verso i quali c’è un lavoro ancora insufficiente.

Occorre avere la dimensione politica dello scontro che si prepara, perché se si arriverà ai referendum occorrerà cercare di vincerli, De Coubertin non basta. Per reggere un impegno come questo occorre un movimento che si estende e dura nel tempo perché la destra farà di tutto per assestare i suoi colpi nei momenti a lei più convenienti e oggi non è del tutto chiaro cosa intende fare nei prossimi mesi.

Per di più è in corso un’iniziativa cosiddetta bipartisan che anziché avere al centro i pericoli che rappresentano le iniziative del governo sembra più rivolta a cercare di bloccare il referendum costituzionale, cioè il diritto dei cittadini di esprimersi sulle modifiche della Costituzione, considerato evidentemente il vero avversario.

Dovrebbe essere l’iniziativa del governo sotto accusa ma al contrario è il referendum, cioè il diritto delle elettrici e degli elettori di pronunciarsi e decidere. Questa iniziativa cosiddetta bipartisan per ora è esplicitamente rinviata a dopo le elezioni europee.

Deve essere chiaro che qualunque sia l’intenzione vera del governo il referendum costituzionale può essere evitato solo se una parte dell’opposizione accetta di andare in soccorso della destra e questo per chi dichiara di volere chiarezza e trasparenza sarebbe il massimo del trasformismo politico, da cui non può venire nulla di buono.

A nostro avviso questa iniziativa non fa altro che confermare che c’è ancora molto da fare per informare, chiarire, mobilitare. Siamo convinti che la posta in gioco è enorme. Le destre hanno ottenuto il 44 % dei voti nel 2022, conquistando il 59 % dei deputati e dei senatori, con un premio di maggioranza del 15 %, un’enormità. Questa esagerata maggioranza parlamentare viene oggi usata come una clava per portare avanti un patto scellerato nella maggioranza fondato su due leggi di iniziativa del governo: elezione diretta del Presidente del Consiglio e Autonomia differenziata.

Se andassero in porto gli effetti sarebbero uno sconvolgimento della nostra Costituzione antifascista e della nostra democrazia fondata sul ruolo del parlamento e su un equilibrio tra i poteri dello stato e il loro reciproco controllo.

Democrazia non si riduce a votare ogni 5 anni ma è una complessa e continua dialettica politica e sociale e rispetto dei diritti a partire da quello di manifestare, contraddetto a Pisa nei giorni scorsi.

Occorre preparare e organizzare un movimento all’altezza di una sfida di fondo che riguarda la democrazia e la Costituzione e quindi puntando a vincere i referendum, quando ci saranno, in particolare quello costituzionale.

Per questo occorre coordinare le forze in campo, mobilitare le energie più diverse e perfino distanti, sapendo che un movimento ampio e variegato ha bisogno anche di consapevolezza che si lavora per un obiettivo di fondo comune, superando concorrenzialità inutili e distinguo.

Sul premierato. Non si capisce perché mai settori dell’opposizione dovrebbero entrare in una logica di trattativa (subalterna) in presenza di un ddl del Governo, le cui modifiche sono gestite da emendamenti del governo, senza alcuna possibilità di mettere in discussione la linea di fondo di questa proposta. Del resto è – purtroppo – lo stesso metodo usato da Renzi che portò al referendum del 2016.

L’asse della proposta del governo è un Presidente del Consiglio eletto direttamente, che taglia di netto i poteri del Presidente della Repubblica e riduce il parlamento alla subalternità, anche perché se si ribella, e cade il governo, si torna a votare, quindi vivrebbe sotto un ricatto permanente. E’ una proposta presentata fingendo di cambiare poco, ma in realtà scassa l’assetto fondamentale della nostra Repubblica, tagliando in modo sostanziale i poteri del Presidente della Repubblica, oggi indispensabile figura di garanzia ed equilibrio, e stabilendo un rapporto con il parlamento del tipo “simul stabunt simul cadent”, con il corollario di un’elezione maggioritaria di fedeli di chi viene eletto Presidente del Consiglio, una sorta di guardia del pretorio.

Alla proposta di eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, avviando la costruzione di una sorta di capocrazia, occorre contrapporre l’elezione diretta di tutti i deputati e senatori da parte delle elettrici e degli elettori, anziché farli scegliere dall’alto, dai capi, sulla base della loro fedeltà. E’ incredibile che sia chi è capo del partito, della formazione politica europea e presidente del Consiglio che dica sfrontatamente che propone agli elettori di scegliere il Presidente del Consiglio, contrapponendo i vertici dei partiti agli elettori come se lei non fosse segretaria del maggior partito. 

E’ poi curioso che la maggioranza stia lavorando alacremente per aumentare in ogni occasione i poteri della Presidenza del Consiglio, evidentemente in vista di questa modifica della Costituzione.

Con questa modifica la Costituzione del 1948 verrebbe stravolta, cambierebbe il suo impianto democratico ed antifascista e l’Italia si avvierebbe verso una nuova Costituzione e una nuova Repubblica. Del resto la destra al governo sta cercando una nuova legittimazione che la affranchi da domande scomode sul suo rapporto con il passato. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, in futuro con queste modifiche La Russa potrebbe essere il successore di Mattarella e non è uno scherzo.

Costruiamo informazione, orientamento, costruiamo un No di massa e prepariamoci al referendum costituzionale, se in parlamento non si riuscirà a fermare questo provvedimento.

L’altro corno è l’Autonomia regionale differenziata. Rivendico il ruolo importante della nostra proposta di legge di iniziativa popolare per modificare gli articoli 116 e 117 della Costituzione per interrompere in modo netto la possibilità di una interpretazione del titolo V a cui dichiara di agganciarsi la proposta Calderoli. Quando siamo partiti abbiamo avuto resistenze e critiche ma poi grazie al sostegno dei sindacati scuola siamo arrivati a 106.000 firme e la proposta è stata presentata al Senato e grazie ad un regolamento più aperto alle lip abbiamo ottenuto di incardinarlo in commissione e poi di portarlo in aula. Certo la maggioranza lo ha messo in discussione dopo l’approvazione al Senato del ddl Calderoli, ma il suo contributo è stato di fare riflettere tutta l’opposizione, anche quella che non riusciva a fare i conti con formulazioni del titolo V approvato nel 2001 dal centro sinistra. Quando è stata discussa la nostra Lip ormai tutta l’opposizione aveva compreso che solo liberandosi da eredità del passato era possibile opporsi con nettezza al ddl Calderoli, che ad ogni piè sospinto dichiara di volere attuare la Costituzione. Noi abbiamo sempre sostenuto che in realtà non è così ma anche se fosse basta cambiare alcuni punti del titolo V per correggere la situazione.

Ora il testo sull’ A. D. è alla Camera e sono in corso molte audizioni che come già al Senato confermano le peggiori preoccupazioni sul ddl Calderoli. Sta crescendo nel Mezzogiorno la consapevolezza delle conseguenze di questa proposta, con il rischio concreto che la secessione dei ricchi non sia solo uno slogan. Occorre insistere, ma bisogna porsi l’obiettivo di spiegare anche al Nord come è stato fatto già in alcune realtà che la frantumazione del nostro paese e dei diritti dei cittadini è un danno per tutti e prelude alla privatizzazione dei servizi che rispondono a diritti fondamentali  come sanità, scuola, lavoro,ecc. L’obiettivo è fermare l’approvazione della proposta Calderoli, o almeno ritardarla compreso un rinvio al Senato se si riuscirà ad introdurre modifiche. Se l’A.D. dovesse diventare legge ci sarà ancora tanto da fare, Villone si è esercitato con altre proposte importanti, dai ricorsi delle Regioni alla Corte costituzionale a consultazioni popolari che potrebbero promuovere direttamente i comuni che hanno questa previsione nello statuto per allargare il dissenso sull’A. D.. Naturalmente continuando a fare crescere la mobilitazione e le iniziative.

A nostro avviso se dei parlamentari ripresenteranno alla Camera la lip potranno usarla per arricchire le motivazioni e le occasioni di contrasto al ddl Calderoli.

Quando i tempi dei provvedimenti si allungano non è semplice mantenere la mobilitazione in modo continuativo, ma dobbiamo proseguire con impegno e fantasia.

In particolare consideriamo possibile tentare anche la strada del referendum abrogativo del ddl Calderoli che con una furbata è stato connesso alla legge di bilancio ma è in realtà un provvedimento che non c’entra con la spesa, infatti non prevede un intervento a favore delle regioni più deboli e recita più volte che non ci saranno aumenti di spesa, quindi c’è lo spazio per sostenere che un referendum abrogativo è possibile anche prima che intervengano i decreti attuativi.

Premierato e Autonomia regionale differenziata pongono il problema generale che occorre recuperare errori del passato che hanno portato a sottovalutare il ruolo strategico della Costituzione e il valore dell’assetto democratico che essa prevede.

Oggi va rilanciata l’attuazione e la difesa della Costituzione e questo va fatto come ha deciso la Via Maestra, mettendo in collegamento temi sociali e sostanza della democrazia, unificando le iniziative referendarie quando è possibile.

Con questo indirizzo organizzeremo un appuntamento il 23 aprile pomeriggio nella sala Capitolare del Senato, che verrà trasmessa in diretta dalla Tv del Senato, con l’obiettivo di fare sentire forte e chiara la contrarietà a queste proposte e insieme per contribuire a rilanciare un grande movimento sulle questioni di fondo della democrazia in Italia. Non ci rassegniamo al declino della partecipazione, vogliamo contribuire a dimostrare che si può rilanciare il protagonismo dei cittadini.

Infine sulla legge elettorale. Certo, è necessaria una nuova legge elettorale fondata su proporzionale ed elezione diretta dei parlamentari da parte di elettrici ed elettori, ma dobbiamo riconoscere che tuttora ci sono pareri diversi anche dentro l’opposizione, che peraltro ha perso l’occasione che ha avuto prima della vittoria delle destre per cambiare una legge sbagliata ed erratica come il rosatellum. Il maggioritario resiste malgrado le evidenze contrarie anche in una parte dell’opposizione e c’è ancora molto lavoro da fare per superare le difficoltà attuali. Oggi è difficile immaginare di affrontare con un referendum abrogativo il superamento del rosatellum e la discussione sui quesiti mi sembra francamente prematura, tanto più che si rischia di dividere lo schieramento unitario che occorre costruire e rafforzare sulla Costituzione e l’Autonomia differenziata.

Certo occorre evitare di tornare a votare con il rosatellum ma prima occorre fermare l’attacco alla Costituzione e nel frattempo costruire un orientamento che oggi non ha abbastanza forza per affrontare una prova difficile. Non tutto si può affrontare per via referendaria, ci sono altri strumenti da usare, al limite in vista di questo obiettivo, per fare crescere la consapevolezza sull’esigenza di arrivare ad una nuova legge elettorale. Ci sono oggi posizioni interessanti con cui confrontarsi per fare crescere la consapevolezza.

La nostra organizzazione è a rete, non ha sovraordinati, e ovviamente c’è piena libertà di assumere iniziative ma dobbiamo avere la consapevolezza che il coordinamento oggi non avrebbe la forza e le risorse umane e materiali, nemmeno volendo, per andare nella direzione di un referendum abrogativo sulla legge elettorale.
Non manca la convinzione che il problema della legge elettorale è fondamentale per contrastare l’astensionismo ma occorre perseguire l’obiettivo con consapevolezza delle risorse e delle energie disponibili.  

(Alfiero Grandi)

Ucraina: colta da improvviso panico, l’Europa flirta con ipotesi futili quanto avventate

di Roberto Iannuzzi

Dalla Francia di Macron alla Germania di Scholz, l’Europa a fari spenti di fronte a scelte chiave per il futuro della stabilità continentale

Isteria e allarmismo dominano il dibattito europeo sulla crisi ucraina e sullo scontro con la Russia. “Ciò che guida la politica europea in questo momento è la paura”, ha scritto recentemente il Telegraph in un articolo che tradiva tanto la russofobia britannica quanto l’irritazione di Londra nei confronti della Germania e del suo cancelliere Olaf Scholz.

I dissapori fra le varie capitali europee sono tuttavia conseguenza di un improvviso “risveglio”. Dopo essere cadute vittima della loro stessa propaganda, le élite politiche europee si stanno riavendo dalla sbornia, per scoprire che Kiev sta effettivamente perdendo la guerra.

“La guerra è persa ma i nostri governi rifiutano di ammetterlo. Invece, fingono che si possa ancora vincere – anzi, bisogna vincere per evitare che “Putin” marci verso la Finlandia, la Svezia, gli Stati baltici, e infine Berlino. Due anni fa ci fu promesso che oggi al più tardi la Russia sarebbe stata completamente sconfitta, economicamente, militarmente e politicamente. Ma le sanzioni si sono rivelate un boomerang, e i carri armati Leopard II non erano sufficienti…”

A scrivere queste parole è Wolfgang Streeck, direttore emerito dell’Istituto Max Planck di Colonia. Il quale prosegue:

“È ora di chiedersi chi ha messo gli ucraini in questo pasticcio – chi ha detto all’estrema destra ucraina che la Crimea sarebbe tornata in mano loro? Per evitare tali domande, la classe politica europea è disposta a lasciare che il massacro continui sulla linea congelata del fronte ucraino – cinque anni, dieci anni – nessun problema, tanto saranno solo gli ucraini a combattere. Ma cosa succederà se si rifiuteranno di stare al gioco e di morire per i “nostri valori”?

Streeck è per certi versi una voce fuori dal coro, in quanto lascia trasparire segni di ripensamento dai quali la maggioranza dell’intellighenzia europea sembra tuttora immune.

A titolo di esempio, nella stessa miscellanea di riflessioni sulla guerra, raccolte dal britannico New Statesman in occasione del secondo anniversario dello scoppio del conflitto, Ivan Krastev, presidente del Centro per le Strategie Liberali con sede a Sofia, in Bulgaria, scrive:

“Ciò che rende il momento attuale radicalmente diverso dall’inizio della guerra o addirittura dalla situazione di un anno fa è che, ora, i governi e un numero crescente di cittadini europei hanno iniziato a percepire la guerra non in termini di solidarietà con l’Ucraina, ma di difesa dei fondamentali interessi di sicurezza dei vicini europei della Russia”.

L’opinione di Krastev non va scartata troppo frettolosamente come il punto di vista di un esponente dell’Europa dell’Est. E’ proprio tale punto di vista, infatti, che sta prendendo il sopravvento, con la complicità di Washington, all’interno dell’UE e della NATO.

Lo conferma il recente viaggio a Praga del presidente francese Emmanuel Macron, il quale ha accettato il piano ceco di acquistare 800.000 proiettili d’artiglieria da paesi non appartenenti all’UE per rifornire l’Ucraina.

Inizialmente Parigi si era detta contraria a spendere denaro europeo al di fuori dell’Unione, affermando che sarebbe stato preferibile investirlo nell’industria della difesa del vecchio continente. Ma il nuovo ordine di scuderia a livello europeo è che non c’è tempo, bisogna soccorrere Kiev.

Politica perdente non si cambia

In linea di principio, di fronte all’improvvisa realizzazione che l’Ucraina sta perdendo la guerra, l’Europa potrebbe scegliere fra due opzioni strategiche: tagliare le perdite imboccando la strada del compromesso con Mosca, oppure aumentare nuovamente la posta in gioco. La fazione che propende per la seconda ipotesi è tuttora dominante nel dibattito politico europeo.

Preso atto dell’impossibilità di recuperare i territori ucraini perduti, la nuova priorità europea ed occidentale è preservare lo Stato ucraino e consolidarne la sua posizione all’interno del blocco euro-atlantico.

Come scrive sul Financial Times lo stesso Krastev (che è anche membro del Consiglio di fondazione dell’ European Council on Foreign Relations, e del comitato consultivo dell’ Open Society Foundations, istituto fondato da George Soros), “ciò che è non-negoziabile non è tanto l’integrità territoriale dell’Ucraina, quanto il suo orientamento democratico e filo-occidentale”.

Krastev traccia quindi un parallelo fra l’Ucraina e la Germania Ovest durante la Guerra Fredda. L’analogia è illustrativa perché implica la possibilità di una riunificazione alla prima occasione.

Ma, fino a quando l’Occidente si ostinerà a voler inserire l’Ucraina nell’architettura di sicurezza occidentale – osserva il noto analista russo Fyodor Lukyanov – Mosca sarà costretta a rispondere, a prescindere dal fatto che Kiev aderisca ufficialmente alla NATO o meno.

Le conseguenze sono ovvie: siamo tuttora di fronte a una prospettiva di escalation.

Fermare il nemico russo alle porte

Alla base del tambureggiante allarmismo europeo sulla possibilità che Mosca non limiti i propri obiettivi all’Ucraina, ma intenda attaccare un paese NATO nei prossimi anni, sono poi da ravvisare due esigenze: rilanciare l’industria bellica europea, e consolidare la nuova cortina di ferro che dividerà l’Europa dal Mar Nero al Baltico, fino all’Artico.

Nel quadro del rafforzamento di quest’ultima, spicca l’ossessione NATO per la protezione di quello che è considerato il suo punto più debole, il corridoio di Suwalki (in inglese, Suwalki gap), un lembo di terra lungo circa 65 km che corre sul confine tra Lituania e Polonia, separando la Bielorussia alleata di Mosca dall’exclave russa di Kaliningrad.

L’assillo della NATO, alimentato dalla presa di coscienza della propria debolezza militare a seguito dello scontro non vittorioso con Mosca in Ucraina, è che le forze russe possano occupare questa striscia di terra con un’azione fulminea, ponendo così il blocco atlantico di fronte al fatto compiuto, e isolando le tre repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) dal resto dell’Alleanza.

Chiamata francese alle armi

Di fronte all’esigenza di “salvare” lo Stato ucraino e la sua appartenenza al blocco occidentale, ecco allora la proposta, fino a poco tempo fa ritenuta impensabile, di inviare truppe NATO in Ucraina. Ad avanzarla è stato Macron a una conferenza di leader europei riuniti a Parigi, ispirando, a stretto giro di posta, la constatazione (più che la “minaccia”) del presidente russo Putin che uno scontro Russia-NATO sfocerebbe in un conflitto nucleare.

La proposta francese ha suscitato reazioni negative da parte di cechi, slovacchi, italiani, polacchi, così come del cancelliere tedesco Scholz. Tuttavia non si è trattato di una semplice boutade del capo dell’Eliseo.

Lo stesso quotidiano Le Monde, due giorni dopo, affermava che, sebbene la questione fosse mal posta, un dibattito su di essa era necessario. E poco tempo dopo, da Praga, il presidente francese ha reiterato la propria idea.

Questa volta, l’omologo ceco Petr Pavel (un ex generale NATO) ha detto che non vedeva ragioni per cui almeno addestratori dell’Alleanza non potessero essere inviati in Ucraina.

Partizione dell’Ucraina?

Alcuni analisti americani hanno osservato che mandare truppe NATO nel paese non significherebbe necessariamente impegnarle in battaglia contro le forze di Mosca. Nel caso in cui i russi dovessero sfondare il fronte, si potrebbe infatti concepire l’invio di soldati dell’Alleanza per preservare un residuale Stato ucraino, controllando Kiev e attestandosi su una linea ben più a ovest dell’avanzata russa, come base per proporre un cessate il fuoco.

Si tratterebbe, in altre parole, di operare una partizione di fatto dell’Ucraina, secondo uno schema non troppo dissimile da quello applicato qualche anno fa in Siria, ma in un contesto infinitamente più pericoloso.

Per scongiurare uno scontro con Mosca, tale partizione comporterebbe per Kiev una perdita di territori molto più consistente rispetto alla situazione attuale, al fine di garantire una sufficiente “zona cuscinetto” che separi le forze NATO da quelle russe.

Superamento delle linee rosse

Simili scenari, naturalmente, implicherebbero rischi ben maggiori di quelli fin qui corsi nella contrapposizione Russia-NATO. Non bisogna tuttavia dimenticare che i paesi occidentali hanno già oltrepassato un gran numero di linee rosse nel conflitto ucraino, senza che l’opinione pubblica occidentale ne fosse adeguatamente informata.

Vi sono già migliaia di “volontari” stranieri sul suolo ucraino, provenienti soprattutto da Polonia, Romania, e altri paesi dell’Est, ma anche da Francia, Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti. Essi si dividono grossomodo in quattro categorie: mercenari che combattono al fronte, personale addestrato nell’uso dei sistemi d’arma occidentali, consulenti tattici e personale di intelligence.

A fine gennaio, la Russia affermò di aver ucciso una sessantina di mercenari francesi nel bombardamento di un albergo impiegato come caserma a Kharkiv. Parigi negò l’accaduto, ma pochi giorni dopo convocò l’ambasciatore russo accusando Mosca di aver ucciso due operatori umanitari francesi in Ucraina.

L’ambasciata russa a Parigi rispose che le autorità francesi non avevano presentato alcuna prova che i due concittadini uccisi fossero operatori umanitari, né aveva dato risposta riguardo alla presenza di mercenari francesi in Ucraina.

I russi hanno anche colpito batterie Patriot in Ucraina, piste di decollo e centri di comando, uccidendo probabilmente numerosi “volontari” stranieri.

Per converso, è emerso che l’aereo da trasporto russo Il-76 abbattuto a fine gennaio nell’oblast di Belgorod vicino al confine, con a bordo 65 prigionieri di guerra ucraini, era stato colpito da una batteria di missili Patriot, il cui equipaggio potrebbe aver incluso anche personale americano.

Segreti di Pulcinella

Nel frattempo, il New York Times ha rivelato l’esistenza di una partnership di lungo corso fra la CIA e i servizi ucraini, che risalirebbe ai giorni immediatamente successivi al rovesciamento del presidente Viktor Yanukovych nel febbraio 2014, a seguito della rivolta di Maidan.

(Va rilevato che le ingerenze americane in Ucraina furono continue nel dopoguerra, e non cessarono nemmeno tra la fine della Guerra Fredda e la rivolta del 2014).

Nei giorni successivi al rovesciamento di Yanukovych, il neonominato capo dei servizi ucraini (SBU), Valentyn Nalyvaichenko, propose una collaborazione a tre con la CIA e l’MI6 britannico.

Qualche commentatore americano ha perfino ammesso che la presenza della CIA in Ucraina dopo il 2014 abbia rappresentato una delle provocazioni che hanno infine portato Mosca a invadere il paese.

Nell’ambito della collaborazione fra Kiev e la CIA, quest’ultima ha creato circa 12 stazioni lungo il confine russo – ha riferito il New York Times. Tali avamposti che, come osservano i russi, sono probabilmente ben più di 12, collaborano con le forze speciali e i commando ucraini che compiono attacchi e attentati in territorio russo.

Allo stesso modo, sono le operazioni di ricognizione e spionaggio compiute da aerei americani e britannici sul Mar Nero ad aver facilitato gli attacchi ucraini contro la flotta russa e il ponte di Kerch in Crimea.

Simili operazioni, e la presenza di personale militare occidentale in territorio ucraino, rendono difficile ai paesi NATO mantenere una “plausible deniability”. Sebbene essi abbiano ufficialmente affermato di opporsi all’invio di truppe occidentali, tali forze di fatto già operano sul terreno.

Bisticci fra Londra e Berlino

E’ quanto ha indirettamente confermato lo stesso Olaf Scholz, il 26 febbraio, allorché ha dichiarato che la Germania non fornirà i suoi missili Taurus a lungo raggio all’Ucraina, perché ciò richiederebbe la presenza di personale militare tedesco per gestire questi complessi sistemi d’arma, allo stesso modo di quanto già fanno i britannici per operare i loro Storm Shadow.

La dichiarazione ha suscitato irritazione a Londra. Sebbene dal governo britannico non siano pervenute reazioni ufficiali, l’ex ministro della difesa Ben Wallace ha descritto il cancelliere tedesco come “l’uomo sbagliato al posto sbagliato nel momento sbagliato”. Mentre Tobias Ellwood, ex presidente della commissione Difesa alla Camera dei Comuni, ha definito la dichiarazione di Scholz “un flagrante abuso di intelligence”.

La stizza britannica appare tuttavia fuori luogo, se si pensa che nel frattempo il Times di Londra lodava il capo di stato maggiore dell’esercito di Sua Maestà, ammiraglio Tony Radakin, per aver preso parte alla pianificazione ed esecuzione degli attacchi ucraini contro la flotta russa nel Mar Nero.

Il fronte bellicista tedesco

Nel frattempo, tuttavia, la diffusione della registrazione di un colloquio tra alti ufficiali della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca, era destinata ad essere fonte di ulteriore imbarazzo per Berlino.

Nella loro conversazione, quattro ufficiali parlavano di un possibile piano per distruggere il ponte di Kerch, che unisce la Crimea alla madrepatria russa, impiegando da 10 a 20 missili Taurus. Tuttavia, per avere successo, l’attacco avrebbe richiesto il diretto coinvolgimento tedesco nella sua pianificazione, e ciò avrebbe significato un’entrata in guerra di fatto della Germania contro la Russia.

Dalla conversazione, confermata come autentica, emerge che, sebbene Scholz sia restio a fornire i suoi missili da crociera all’Ucraina, vi sono elementi all’interno dell’esercito (ma anche del governo) che sono pronti a coinvolgere ulteriormente la Germania in uno scontro con la Russia.

In spregio della volontà popolare

In generale, vi è una crescente propensione occidentale a fornire armi a lungo raggio che permetterebbero a Kiev di colpire obiettivi in profondità in territorio russo, accrescendo i rischi di un inasprimento del conflitto con Mosca.

Va detto però che tali armi difficilmente cambierebbero i destini dell’Ucraina. Nel caso tedesco, Berlino potrebbe rendere disponibili al più un centinaio di Taurus, capaci di colpire a una distanza di 500 km.

Essi sarebbero dunque potenzialmente in grado di mettere Mosca sotto tiro. Ma il loro numero esiguo fa sì che, pur essendo un loro impiego per eventuali attacchi in territorio russo estremamente provocatorio, esso non muterebbe gli equilibri complessivi.

Come hanno osservato alcuni esperti militari americani, ciò di cui l’Ucraina ha veramente bisogno sono proiettili d’artiglieria e sistemi di difesa aerea contro i missili e i droni russi. Ma è proprio questo materiale che l’industria bellica occidentale non riesce a produrre in quantità sufficienti.

Gli avventurismi occidentali, dunque, accrescono il rischio di incidenti che potrebbero portare a uno scontro diretto con la Russia, senza tuttavia risollevare le sorti di Kiev.

Per salvare l’Ucraina, sarebbe molto più utile la ricerca di un compromesso con Mosca, come del resto vorrebbe la maggioranza delle opinioni pubbliche europee.

Ma si sa, nelle “democrazie” occidentali, raramente i governi si fanno interpreti della volontà delle rispettive popolazioni.

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Sondaggio dell’European Council on Foreign Relation risalente al gennaio 2024.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/geopolitica/27638-roberto-iannuzzi-ucraina-colta-da-improvviso-panico-l-europa-flirta-con-ipotesi-futili-quanto-avventate.html

La situazione ad Haiti. Documenti dal fronte interno.  

La polizia antisommossa keniota pattuglia uno slum durante le proteste antigovernative

a cura di Enrico Vigna, 13 marzo 2024

Premetto che questo lavoro è un insieme di documentazioni provenienti da movimenti e realtà haitiane sul campo o di sostegno al popolo haitiano da anni, e non interpretazioni o analisi estemporanee da qui. Soprattutto, molto al di fuori da letture uniformi o lineari, dato il complesso e intricatissimo quadro che la storia haitiana passata e attuale raffigura. 

E’ una resistenza, un processo rivoluzionario o un ennesimo scontro sanguinoso tra attori disgiunti tra loro, ma con interessi momentanei coincidenti? Questa, che sembra una domanda banale è in realtà la riflessione centrale, per ora senza risposta, che si pongono militanti, attivisti, politici e studiosi haitiani nel paese o fuori. Sicuramente, come sempre, saranno gli sviluppi sul campo a dare una risposta. Per ora mettiamo sotto i riflettori questi materiali, documentazioni, denunce, appelli che ci arrivano dai protagonisti e testimoni diretti.


A causa della situazione caotica che il Paese ha vissuto negli ultimi tempi, la lotta del popolo haitiano per un domani migliore, sta vivendo in queste settimane un passaggio cruciale, considerando una indubbia mobilitazione popolare, insieme a violenze dispiegate, ma non solo casuali o spontanee, che sembrano suscitare nelle masse diseredate, speranze di cambiamenti radicali e ricerca straziante di futuro, mentre gettano indubbiamente nel panico i colonizzatori e gestori da Washington e Parigi, di Haiti.

In seguito a manifestazioni popolari di protesta e rabbia, verificatesi negli ultimi mesi la risposta del governo è stata una repressione brutale e criminale sulla popolazione e molti civili sono stati feriti o assassinati dalla polizia.

In particolare la repressione che si è abbattuta sui manifestanti durante la giornata di protesta del 7 febbraio, ha svelato definitivamente il carattere reazionario e duro a morire di questo regime fuorilegge imposto dagli Stati Uniti. Nel tentativo del regime di proteggersi da ogni possibilità di cambiamento popolare rivoluzionario, ha scatenato terrore e violenze indiscriminate nelle piazze e nei quartieri, ecco perché mentre la popolazione civile è stata costretta ad arretrare, tutta la rete, certamente legata al crimine, ma non tutte le bande, hanno reagito e occupato il vuoto di potere sul campo. Questa risposta, controversa e da valutare in profondità, non con categorie precostituite o usuali, ma tenendo conto della realtà devastata socialmente del paese, ha trovato il riconoscimento istintivo e l’appoggio degli umiliati e dei diseredati, di contadini, lavoratori e soprattutto di un gran numero di giovani.

Questa mobilitazione e dimostrazione di forza militare, ha suscitato una potente eco tra le masse diseredate haitiane, può piacere o meno, ma è un dato di fatto oggettivo e concreto, come si può leggere nelle documentazioni qui esposte come informazione. È un’esperienza sociale e politica fuori dagli schemi e nuova, una prova formidabile nel quale le masse immiserite e schiacciate di Haiti si sono identificate senza alcun segno di ritegno o esame. Dimostra la volontà di un popolo da troppi decenni soggiogato e sfruttato in modo disumano e criminale, che chiede cambiamento e la costruzione di una vita dignitosa, in qualsiasi modo. Certo, forse è solo la ricerca di una speranza, anche intrisa di contraddizioni e rischi, che potrebbe nuovamente scemare, ma per essi è necessità, bisogno per sopravvivere. Un popolo, vittima sacrificale, distrutto da decenni di precarietà, disoccupazione, di vita in abitazioni insalubri, se non capanne, servizi pubblici quasi inesistenti, carestie e disastri naturali, sfruttamento smisurato, insicurezza, miseria e sfollamenti forzati, tutte conseguenze dei governi di questi decenni assoggettati al dominio statunitense. Questo è Haiti oggi.

Purtroppo, quasi tutte le componenti politiche, sia interne che internazionali, faticano o non intendono affrontare la situazione creatasi, anche perché, oggettivamente è piena di rischi e nebulosa sul terreno. Ma come qui documento, non tutti si sono astenuti o negati a per dare solidarietà al popolo haitiano.

Un dato è certo, nessuno crede più che le soluzioni verranno dalla classe politica tradizionale locale, che già si prepara a riprendere il controllo con la proposta di una transizione, per ricominciare a dialogare e condividere con l’imperialismo e i suoi discepoli. In particolare i vari Ariel Henry, André Michel, Edmonde Supplice Beauzile, politici asserviti allo straniero che vorrebbero intavolare trattative per un compromesso e una nuova spartizione del paese.

Cercare di comprendere le complessità di Haiti e la sua lotta per un vero cambiamento è molto difficile e composito. Ma il punto fondamentale da comprendere e da cui partire per affrontare la situazione creatasi, è questo: da quando gli Stati Uniti hanno rovesciato il presidente Jean Bertrand Aristide, legittimamente eletto, esattamente nel febbraio di 20 anni fa, Haiti ha vissuto incessanti interferenze elettorali, sfruttamento, invasione e occupazione da parte o per conto del governo degli Stati Uniti e dei suoi alleati. Il risultato è stato un ingresso incontrollato di armi nordamericane, la proliferazione di paramilitari, il dilagare di bande criminali, disperazione economica, malattie e la costruzione di carceri finanziate dagli Stati Uniti. Haiti è un paese che sta crollando sotto la guida di un governo scelto dagli Stati Uniti e non scelto dal popolo. In queste settimane il paese è praticamente occupato: dall’aeroporto di Port-Au-Prince, ai porti, alle varie istituzioni, banche, depositi di carburante, carceri e con il presidente Ariel Henry, di fatto in esilio fuori dal paese. I manifestanti chiedono le dimissioni di Henry, la cacciata dal paese di tutti i politici e amministratori legati agli USA e corrotti.

Tra settembre 2021 e 2022, si stima che nelle carceri haitiane siano morti di fame tra 80 e 100 detenuti. Nel Penitenziario Nazionale, i detenuti non hanno condizioni vitali e umane minime, l’83% dei prigionieri haitiani sono detenuti in custodia cautelare che non hanno nemmeno visto un giudice, alcuni aspettano da anni senza che vengano formalmente mosse accuse contro di loro. I media asserviti e i portavoce del governo americano cercano di liquidare ciò che sta accadendo in queste settimane, come una crisi causata da “gang violente”, problema reale ma che è solo un aspetto del problema. E’ una grave semplificazione del problema, che serve solo gli interessi di coloro che desiderano sfruttare e controllare Haiti per i propri fini. Ridurre la crisi a un nebuloso conflitto con “gang armate” è un tentativo razzista di utilizzare un linguaggio in codice per stereotipare gli haitiani. Haiti è il prodotto del caos generato dall’occupazione straniera e dai gruppi criminali e paramilitari sponsorizzati dall’oligarchia haitiana e dai leader economici e politici mantenuti al potere con l’aiuto degli USA. Più volte ci sono stati casi in cui i conflitti armati venivano risolti attraverso negoziati locali o territoriali, ma subito dopo la pace rotta veniva rotta da una di queste bande legate a interessi stranieri o di potentati locali corrotti.

Ma l’altro aspetto della storia è che è in corso una massiccia resistenza e mobilitazione popolare. Ad Haiti è in corso una rivolta per cambiare lo stato putrido delle cose e la fine del controllo straniero. Le richieste che il presidente Henry si dimetta, che agli haitiani sia permesso di tenere elezioni sotto il controllo popolare e che le invasioni e le occupazioni sponsorizzate dagli Stati Uniti debbano finire non sono richieste di “gang”, ma del popolo. L’attuale presidente di Haiti, Ariel Henry, è stato scelto nel 2021 dal gruppo CORE, composto da ambasciatori di Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Spagna, Unione Europea e Brasile, insieme a rappresentanti dell’Organizzazione degli Stati Americani e delle Nazioni Unite. Era stato scelto per guidare il paese dopo l’assassinio del presidente Jovenal Moise. Henry è implicato nella pianificazione dell’assassinio, in uno scontro di poteri, per questo si è sempre rifiutato di collaborare alle indagini e non bisogna dimenticare che Henry partecipò anche al colpo di stato contro il presidente Aristide, venti anni fa.

Gli Stati Uniti hanno finora sostenuto il governo Henry, ma si rendono conto che la loro strategia è fallita e che il governo Henry probabilmente cadrà con o senza il sostegno degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato statunitense ha ora invitato Henry a dimettersi e ad avviare la transizione verso un nuovo governo. L’onestà dell’appello è dubbia e sembra essere piuttosto un tentativo da parte degli USA, di riprendere il controllo e facilitare la formazione di un nuovo governo che continuerà a fungere da rappresentante del dominio statunitense. Nello stesso momento in cui chiede le dimissioni di Henry, la Casa Bianca preme affinché venga schierata una forza d’invasione multinazionale guidata dal Kenya. Quella forza sarà lì per continuare a garantire l’egemonia statunitense, non per garantire una transizione verso elezioni giuste. Sono state discusse anche le eventualità di schierare un’unità d’élite di Marines americani.

Tuttavia, i piani statunitensi mostrano molteplici crepe. L’amministrazione Biden ha promesso fino a 200 milioni di dollari per sostenere la forza multinazionale, ma i finanziamenti sono stati bloccati dai Repubblicani che mettono in dubbio i costi. Le stime dicono che il prezzo potrebbe salire fino a 500 o seicento milioni di dollari. L’opposizione Repubblicana, che non mette in discussione il ruolo assoggettatore USA, sostiene inoltre che non c’è abbastanza tempo per formare e addestrare sufficientemente una forza d’invasione. Ancora una volta la proposta non è trovare soluzioni negoziali o conciliatorie ma è la metodologia di invasione e interferenza. In effetti, fu l’International Republican Institute (IRI), uno dei quattro istituti principali del National Endowment for Democracy, a coordinare essenzialmente il rovesciamento di Aristide nel 2004. L’IRI e la CIA addestrarono Guy Philippe a guidare il colpo di stato. Dopo il colpo di stato e le sue conseguenze, Phillipe andò negli Stati Uniti. Successivamente venne arrestato con l’accusa di riciclaggio di denaro legato ai narcotrafficanti colombiani. Philippe è stato rilasciato lo scorso novembre dopo sei anni di detenzione e poi rientrato ad Haiti., annunciando la sua intenzione di candidarsi alla presidenza. Anche da parte Democratica c’è stata una certa resistenza alle politiche di Biden. Alcuni rappresentanti alla Camera hanno rilasciato una dichiarazione nel dicembre 2023 invitando il presidente Biden a cambiare rotta, scrivendo che: “…Un altro intervento straniero armato ad Haiti non si tradurrà nella necessaria transizione guidata verso un governo democratico, piuttosto rischia di destabilizzare ulteriormente il paese, mettendo in pericolo più persone innocenti e rafforzando l’attuale regime illegittimo”.

Alla domanda se c’è qualche soluzione praticabile, i vari esponenti politici, militanti haitiani, ribadiscono la necessità primaria e fondamentale di espellere dal paese Stati Uniti, Francia, Canada e i loro alleati, solo questo passaggio difficile e impervio potrà aprire scenari nuovi per il popolo haitiano. Dietro i titoli sensazionalistici e inquietanti dei media occidentali, pervasi di un sottile razzismo, per cui Haiti è ingovernabile e il popolo haitiano non può governarsi da solo, è indirizzato e prepara il terreno a giustificare e legittimare una coalizione militare straniera che intervenga per “ stabilizzare e salvare” dal caos il paese. E’ invece un attacco alla sovranità e all’indipendenza di Haiti e del suo popolo.




Queste le posizioni e documentazioni dalla parte delle forze di resistenza popolari haitiane e quelle solidali con esse


Fanmi Lavalas, il partito dell’ex presidente Aristide, l’unico presidente eletto dal popolo nella storia di Haiti, ha risposto all’aggravarsi della situazione, e della crisi umanitaria e politica ad Haiti denunciando i molteplici interventi e attacchi degli Stati Uniti alla sovranità haitiana, come causa principale di queste crisi, che stanno causando sempre più vittime di, sofferenze e migrazioni forzate dal paese più povero dell’emisfero occidentale. Invita gli haitiani a manifestare e sostenere le parole d’ordine come “Truppe statunitensi/keniote, Ariel Henry/Gangster: fuori da Haiti!”, “Il governo haitiano non eletto è il capo gangster! Autodeterminazione per il popolo haitiano e “Fermare i massacri e i rapimenti”, che sono diventati crimini quotidiani contro le masse di Haiti.

Maryse Narcisse la presidente di FL ha dichiarato: “ Ogni giorno, la polizia haitiana, sotto il comando di Henry, armata e addestrata dall’esercito statunitense, lancia gas, picchia e uccide lavoratori disarmati che partecipano alle grandi proteste contro le condizioni di povertà e il governo. Qualsiasi caos sociale interno, che attanaglia i quartieri haitiani è stato creato dall’intervento degli Stati Uniti…”.

Il portavoce di Fanmi Lavalas, Jodson Dirgène, da parte sua ha dichiarato in un’altra intervista al programma ”Panel Magik”: “…Non possiamo chiedere al primo ministro Ariel Henry di dimettersi, non gli abbiamo mai dato un mandato…”.


Fòrs Revolisyonè G9 an Fanmi e Alye (Forze Rivoluzionarie della Famiglia G9 e alleati)

L’Alleanza G9 Famiglia e Alleati (G9 Fanmi e Alye) è una federazione di nove bande armate. Fondata nel giugno 2020 dall’ex agente di polizia diventato capobanda Jimmy Chérizier, detto “Barbecue”, questa coalizione controlla gran parte delle azioni armate organizzate dentro la rivolta.

L’ex agente di polizia Jimmy Chérizier, è una figura molto controversa e non lineare, sicuramente poco classificabile per ora, in questi mesi è divenuto il punto di riferimento militare ma anche politico all’interno di Haiti. Con un passato rasente e congiunto alla criminalità più dura, è poi diventato famoso per aver fondato G9 and Family (G9 an fanmi – G9), una federazione di nove potenti bande territoriali, radicate soprattutto nella capitale haitiana di Port-au-Prince, ma con ramificazioni anche in altre città dell’isola. Dallo scorso anno G9 si presenta come un’organizzazione politica rivoluzionaria e ha creato una rete di alleanze a livello nazionale denominata “G20”.

Da molti indicato come un efferato criminale, addirittura sanzionato dagli Stati Uniti, negli ultimi anni si è voluto proporre come leader politico rivoluzionario. Da tutti, in questo momento è considerato l’uomo più potente del Paese. Cherizier aveva costruito un forte legame con una delle forze politiche più potenti di Haiti, il partito haitiano Tèt Kale (Parti Haïtien Tèt Kale – PHTK) dell’ex presidente Jovenel Moise, poi dopo il suo assassinio allontanandosene, così come con pezzi della polizia, in particolare con le Forze di sicurezza, arrivando ora ha imporre le dimissioni del presidente Henry e sfidando apertamente lo Stato haitiano. 

In una intervista con la TV statunitense ABC News, Cherizier, ha promesso che la sua Alleanza avrebbe concesso una tregua, se Henry si fosse dimesso, i suoi combattenti avrebbero “fermato automaticamente gli attacchi alle stazioni di polizia…ma la guerra contro lo Stato continuerà fino a che tutte le élite politiche corrotte non saranno eliminate…Il primo passo è rovesciare Ariel Henry e poi inizieremo la vera lotta contro il sistema attuale, il sistema di oligarchi corrotti e politici tradizionali corrotti…Non solo stiamo combattendo contro Ariel Henry, ma stiamo anche combattendo contro chiunque abbia qualche complicità…Il mio messaggio per la comunità internazionale, in particolare per gli Stati Uniti che hanno un rapporto di lunga data con il popolo haitiano, è che dico loro che non possono più continuare a trattare il popolo haitiano come hanno fatto finora… Non siamo in una rivoluzione pacifica. Stiamo facendo una rivoluzione sanguinosa nel paese perché questo sistema è un sistema di apartheid, un sistema malvagio…”.

Cherizier ha anche accennato alle ambizioni presidenziali, dicendo ad ABC News: “Non sono io a decidere se voglio essere presidente o no. Sarà il popolo haitiano a decidere chi dovrà essere il suo presidente, chi dovrà guidare il Paese. Personalmente mi considero un servitore del PaeseAbbiamo deciso di prendere in mano le sorti del Paese. Ciò significa liberare il paese dal 5% delle persone che controllano l’85% della ricchezza del paese…”.

Brian Concannon, direttore esecutivo dell’Istituto per la giustizia e la democrazia di Haiti (IJDH), un istituto statunitense ha dichiarato che: “… il più grande attore criminale di Haiti ha ora un potere significativo nel sistema politico formale. Con il sostegno degli elettori nelle zone della città sotto il suo controllo , in futuro potrebbe addirittura candidarsi per un seggio in parlamento, con grandi margini di vittoria…”.


La Black Alliance for Peace ( Alleanza Nera per la Pace , BAP), sezione Haiti

“…La posizione dell’Alleanza Nera per la Pace è coerente e chiara. Noi sosteniamo gli sforzi del popolo haitiano per affermare la propria sovranità e rivendicare la propria indipendenza.Denunciamo l’attuale attacco imperialista contro Haiti e chiediamo che venga estirpata la presenza dei governanti coloniali stranieri di Haiti…il fallimento della governance nel paese, non è qualcosa di interno ad Haiti, ma è un risultato dello sforzo concertato da parte dell’Occidente per sventrare lo Stato haitiano e distruggere la democrazia popolare ad Haiti… Haiti è attualmente sotto occupazione da parte degli Stati Uniti/ONU e del Core Group, entità straniere che governano effettivamente questo paese. L’occupazione di Haiti è iniziata nel 2004 con il sostegno di Stati Uniti, Francia e Canada al colpo di stato contro il presidente democraticamente eletto di Haiti.

Il colpo di stato è stato approvato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU.Che ha poi istituito una forza militare di occupazione (eufemisticamente chiamata missione di “peacekeeping”), con l’acronimo MINUSTAH. Sebbene la missione MINUSTAH sia ufficialmente terminata nel 2017, l’ufficio ad Haiti è stato ricostituito come BIHUH.BINUH,e continua ad avere un ruolo importante negli affari haitiani….Negli ultimi quattro anni le masse haitiane si sono mobilitate e hanno protestato contro un governo illegale, l’ingerenza imperialista e all’insicurezza da parte di gruppi armati finanziati dalle élite. Tuttavia, queste proteste sono state represse dal burattino installato dagli Stati Uniti. Dal 2021, i tentativi di controllare Haiti da parte degli Stati Uniti si sono intensificati.In quell’anno, il presidente di Haiti, Jovenel Moïse, fu assassinato e Ariel Henry fu insediato dagli Stati Uniti e dal gruppo ristretto delle Nazioni Unite come primo ministro de facto. Sulla scia del l’assassinio di Moïse e l’insediamento di Henry, gli Stati Uniti hanno cercato di costruire una coalizione di stati stranieri disposti a inviare forze militari per occupare Haiti e affrontare il presunto problema delle “gang” di Haiti….I gruppi armati (le cosiddette “gang”), principalmente nella capitale Haiti dovrebbero essere intese come forze “paramilitari”, poiché sono costituite da ex (o attuali) elementi militari e di polizia haitiani.

Molte di queste forze paramilitari sono note per agire per alcune delle élite di Haiti…Quando noi parliamo di “bande”, dobbiamo conoscere che le bande reali e più potenti del mondo sono gli Stati Uniti, il Core Group e l’ufficio illegale delle Nazioni Unite ad Haiti, in quanto sono questi che hanno contribuito a creare l’attuale crisi… Gli attacchi alla sovranità dei neri ad Haiti sono uguali agli attacchi ai neri in tutte le Americhe. Oggi Haiti è importante e vitale per la geopolitica e l’economia degli Stati Uniti.Haiti si trova in una posizione chiave nei Caraibi per la strategia militare e di sicurezza degli Stati Uniti nella regione, soprattutto alla luce dell’imminente confronto tra Stati Uniti e Cina, contesto dell’attuazione strategica del Global Fragilities Act…I BAP, come molte organizzazioni haitiane e di altro tipo, hanno argomentato con coerenza contro un rinnovato intervento militare straniero. Abbiamo chiesto con insistenza la fine dell’occupazione straniera di Haiti.Questo comprende lo scioglimento del Core Group, dell’ufficio delle Nazioni Unite ad Haiti (BINHU), e la fine della costante ingerenza degli Stati Uniti, insieme ai suoi partner minori, CARICOM e il Brasile. Abbiamo denunciato i governi della Comunità Latinoamericana e Stati dei Caraibi (CELAC) (ad eccezione di Venezuela e Cuba), che sostengono i piani statunitensi per l’intervento armato ad Haiti e la negazione della sovranità haitiana. Abbiamo denunciato i leader della CARICOM…Le soluzioni di Haiti dovrebbero arrivare dal popolo haitiano attraverso un ampio consenso…Abbiamo anche criticato il ruolo del presidente brasiliano Luiz Inácio “Lula” da Silva, non solo per aver continuato il ruolo del Brasile nel Core Group, ma anche per guidarlo insieme al governo criminale degli Stati Uniti. In solidarietà con i movimenti haitiani, abbiamo denunciato l’approvazione delle Nazioni Unite, all’invasione armata straniera e l’occupazione di Haiti, finanziata dagli Stati Uniti e guidata dal Kenya. Noi siamo fermamente convinti che un intervento straniero armato ad Haiti guidato dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, non sia solo illegittimo, ma illegale.Sosteniamo il popolo haitiano e le organizzazioni della società civile che sono stati coerenti nella loro opposizione ai militari armati stranieri…Continueremo a sostenere i nostri compagni mentre lottano per un mondo libero e sovrano Con Haiti. Viva Haiti!”.


La Via Campesina Haiti

Questo comunicato stampa è stato preparato dalle organizzazioni membri di La Via Campesina ad Haiti, tra cui Mouvman Peyizan Nasyonal Kongre Papay (MPNKP), Mouvman Peyizan Papay (MPP), e Tet Kole Ti Peyizan Ayisyen (TK), in collaborazione con il coordinamento regionale delle organizzazioni del sud-est (KROS). Queste organizzazioni formano collettivamente la piattaforma “4 Je Kontre” ad Haiti.

Haiti: appello per la resistenza e la solidarietà con il popolo haitiano per un governo di transizione 16 febbraio 2024

Haiti, 6 febbraio 2024

La piattaforma “4 Je Kontre”, che comprende il Movimento Nazionale Contadino del Congresso Papaye (MPNKP), Tet Kole Tile Peyizan Ayisyen (TK), il Movimento Contadino di Papaye (MPP) e il Coordinamento Regionale delle Organizzazioni del Sud-Est (KROS), coglie questa opportunità per elogiare la resilienza e la determinazione del popolo haitiano contro il regime autoritario del PHTK. Questo regime è guidato dal primo ministro de facto Ariel Henry, da altri membri del governo senza scrupoli, e dai loro alleati nazionali e internazionali. Un’analisi completa della terribile situazione di Haiti rivela che gli atti criminali di bande armate e criminali senza scrupoli persistono, ostacolando la mobilitazione a livello nazionale contro il regime. L’aumento dell’insicurezza è stato documentato nelle aree in cui la popolazione è sottoposta a rapimenti, massacri, incendi di proprietà e stupri di donne e ragazze, tra le altre atrocità.

La popolazione è alle prese con un periodo economicamente difficile, caratterizzato da un costo della vita in ascesa. I beni essenziali continuano ad aumentare di prezzo, mentre il governo de facto di Ariel Henry assegna fondi significativi per finanziare bande e mercenari all’interno della Polizia Nazionale per mantenere la sua presa sul potere. La comunità internazionale, rappresentata dal BINUH, dal Core Group e dalle Nazioni Unite, persiste nel sostenere il governo de facto, adottando tattiche di ritardo per mantenere Ariel al potere, nonostante il diffuso malcontento pubblico e l’insoddisfazione per le istituzioni politiche. Ariel e le sue coorti hanno dichiarato la loro intenzione di rinunciare al potere dopo aver tenuto le elezioni, nonostante vari settori della vita nazionale propongano una soluzione haitiana alla crisi di Haiti. Sfortunatamente, nessun progresso è stato fatto mentre Ariel Henry ostacola tutte le iniziative volte a spostare il suo governo.

Per oltre due anni, Ariel Henry ha sostenuto le elezioni con la premessa che PHTK potrebbe rinnovarsi, condizionando negativamente la popolazione attraverso l’aumento delle tasse, l’aumento dei prezzi del carburante e la dispersione di fondi pubblici a programmi di assistenza sociale inefficaci. Dichiariamo enfaticamente che questa situazione è insostenibile, e dobbiamo sforzarci con veemenza a rovesciare il sistema e tutte le forze di supporto a spese del popolo.

In questo contesto, tutte le organizzazioni membri di “4 Je Kontre” approvano la proposta del Montana, sostenendo una rottura completa e l’istituzione di un governo di transizione a doppia testa, che dovrebbe durare tra i 18 e i 24 mesi. Questo governo mira a spianare la strada istituendo un consiglio elettorale imparziale, libero dall’influenza degli Stati Uniti e da qualsiasi interferenza della comunione internazionale. Inoltre, il governo di transizione dovrà garantire la sicurezza in tutto il territorio nazionale, consentendo la libera circolazione della popolazione.

4 Je Kontre” continuerà fermamente a sostenere tutte le azioni e le richieste positive di altri settori progressisti volti a rovesciare il governo de facto e i suoi alleati.

Lunga vita alla sovranità di Haiti!

Lunga vita alla battaglia del popolo per una soluzione haitiana per Haiti!

Lunga vita alla solidarietà tra tutte le organizzazioni progressiste in lotta per la giustizia sociale!”.


Coalizione Viv Ansanm / Living Together”. Movement – Vivere Insieme

‘Viv Ansanm non riconoscerà nessun governo risultante dalle proposte della Comunità e del Mercato Comune del Caribe (CARICOM)…E’ compito e responsabilità del popolo haitiano eleggere i propri leader che governino il paese…”.

La più grande prigione civile della Repubblica di Haiti è stata occupata da bande armate appartenenti del “Viv AnsannLiving Together”. Movement”, una coalizione di diversi gruppi armati nella capitale Port-au-Prince. Guidati da droni che li informavano della posizione della polizia, gli insorgenti hanno appiccato il fuoco nei dintorni del carcere e poi si sono diretti alla prigione. È diventato virale sui social un video ripreso da un drone con l’immagine del carcere conquistato.


HAITI Libertè

L8° vertice CELAC, tenutosi a Kingstown, Saint Vincent e Grenadine, 1 marzo 2024

La CELAC dovrebbe rivedere la sua posizione su Haiti

Secondo HaitiLibertè, la Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi (CELAC), ha pronunciato una grave decisione: “…è stato scioccante trovare nel documento finale del Summit Celac, il sostegno al piano di Washington di condurre una guerra contro il popolo haitiano per mantenere di fatto al potere il primo ministro Ariel Henry. La “Dichiarazione di Kingstown”, all’articolo 73, afferma: Chiediamo la rapida ed efficace attuazione della risoluzione 2699 (2023) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, inclusa la creazione delle condizioni di sicurezza necessarie ad Haiti come mezzo per mantenere la libertà ed elezioni eque ad Haiti e gettando le basi per uno sviluppo economico e sociale sostenibile a lungo termine nel paese, rafforzando la sicurezza e affrontando le cause strutturali alla base dell’attuale violenza e vulnerabilità…Questa aberrazione del vertice CELAC, potrebbe essere la conseguenza della posizione del Brasile sullo schieramento di una forza militare nell’isola…Nella sua dichiarazione al vertice, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha affermato: ’Ad Haiti dobbiamo agire rapidamente per alleviare la sofferenza di una popolazione dilaniata dal caos sociale. Il Brasile afferma da anni che il problema di Haiti non è solo un problema di sicurezza, ma soprattutto un problema di sviluppo…’ Inoltre, va ricordato che Lula è stato purtroppo responsabile della guida brasiliana della Missione delle Nazioni Unite per stabilizzare Haiti (MINUSTAH) dal 2004 al 2017, un’occupazione militare straniera responsabile violenze, morti, inquinamento e di un’epidemia di colera ad Haiti… Fortunatamente, al vertice della CELAC, il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha annunciato chiaramente l’opposizione del suo paese all’intervento straniero ad Haiti, proprio come Hugo Chavez si era opposto alla MINUSTAH. ‘Non siamo d’accordo con nessun tipo di invasione nascosta, portando truppe da qui o da là. Questa non è la soluzione per Haiti…’. La CELAC dovrebbe rivedere immediatamente la “Dichiarazione di Kingstown” e rimuovere l’Articolo 73, che non fa altro che alimentare il piano di Washington di creare una forza per procura dalla faccia nera per occupare militarmente Haiti ancora una volta, per la terza volta in tre decenni. Il popolo haitiano respinge universalmente gli sforzi evidenti di Washington per salvare il suo burattino Ariel Henry, ora in esilio…”.

Anche Cuba, mantenendo prominente la sua statura politica e morale, con l’intervento del suo presidente Miguel Díaz-Canel Bermúdez, si è dissociato dalla posizione Celac su Haiti: “…Abbiamo tutti l’obbligo morale di offrire ad Haiti una cooperazione sostanziale e disinteressata, non solo per la ricostruzione di alcune aree, ma anche per promuovere in modo globale lo sviluppo sostenibile in tutto il Paese…Cuba parla qui con l’autorità morale che si è guadagnata per aver condiviso con quella nazione sorella, la più vicina geograficamente, grandi dolori e formidabili imprese nel corso dei secoli. Come si espresse nel 1998 il leader storico della Rivoluzione cubana, Fidel Castro Ruz, e cito: ‘Haiti non ha bisogno di truppe. Non ha bisogno di invasioni di truppe (…) Haiti ha bisogno di invasioni di medici. Haiti ha bisogno di invasioni di milioni di dollari per il suo sviluppo.

(Ricordo che Russia e Cina si erano astenute per l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel voto del 2 ottobre 2023 che autorizzava l’invio di militari nella Missione ad Haiti, ndr)


Partito Comunista del Kenya (CPK)

Combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”

“…Se il governo del Kenya procederà a dispiegare la sua polizia nella nazione caraibica, combatteremo nelle strade di Nairobi per i nostri fratelli e sorelle di Haiti”, ha dichiarato al Peoples Dispatch, Booker Ngesa Omole, segretario nazionale del Partito Comunista del Kenya (CPK ) .

“Qualsiasi decisione da parte di qualsiasi organo o funzionario statale di inviare agenti di polizia ad Haiti… contravviene alla costituzione e alla legge, ed è quindi incostituzionale, illegale e non valida”, aveva stabilito l’Alta Corte del Kenya, il 26 gennaio.

La sentenza ha rappresentato una battuta d’arresto al previsto intervento sponsorizzato dagli Stati Uniti ad Haiti, al quale il Kenya dovrà dare un volto africano schierando un migliaio di agenti di polizia per guidare la missione, il cui obiettivo sarebbe di ripristinare la sicurezza liberando Haiti dalla minaccia delle bande criminali.

Il Kenia dovrebbe inviare un dispiegamento principale di oltre un migliaio di poliziotti, che Booker ha descritto come una “forza estremamente poco professionale, spesso utilizzata dai leader politici locali per svolgere attività criminali, compresi omicidi politici. Ribadiamo che il più grande killer dei giovani in Kenya, non è la malaria ma la polizia. Ogni giorno continuiamo a registrare l’uccisione di numerosi giovani poveri da parte della polizia keniana negli insediamenti della periferia di Nairobi. Questo è il tipo di polizia che gli Stati Uniti hanno scelto per guidare il loro intervento ad Haiti…, ha affermato il leader comunista keniota.

“…Se la polizia keniota avesse voluto seriamente eliminare le bande criminali, lo avrebbe fatto prima qui in Kenya, la polizia ha invece collaborato con bande che sono in contatto con i leader politici. C’è solo una linea sottile tra la polizia keniota e le bande criminali che continuano a terrorizzare i residenti, ad esempio, della provincia nord-orientale o dei quartieri poveri di Nairobi. Questa linea è ancora più sottile ad Haiti, dove molti gangster sono ex membri della polizia nazionale haitiana, che questa missione statunitense guidata dal Kenya, dovrebbe aiutare a ripristinare la legge e l’ordine. Una tale coalizione finirà solo per commettere ancora più crimini ad Haiti, sommandosi alla violenza che quel popolo sta già subendo…Ricordiamo a quei poliziotti che andranno, che devono essere pronti a pagare con la vita, se si lasciano sfruttare per scopi imperialisti da leader politici corrotti…Se pensano che entreranno e spareranno a qualche gangster, sono ingenui: non conoscono la storia di resistenza di Haiti all’imperialismo”, ha dichiarato Booker.


Fonti:

Haitiliberte, Fanmi Lavas, Living Together”. Movement, 4 Je Kontre, Radio Soleil

La aai campesina, BlackAllianceforPeace, Partito Comunista Kenia

A cura di Enrico Vigna, IniizativaMondoMultipolare/CIVG – 16 marzo 2024

Conflitto a Gaza, “due responsabili”. Ucraina, “il coraggio della bandiera bianca”

Incontro con Papa Francesco, che ai microfoni della RSI e ospite a Cliché si esprime sulle due guerre in corso

Lorenzo Buccella (da Rtsi on line)

Papa Francesco è ospite a Cliché, magazine culturale di Lorenzo Buccella in onda sulla Radiotelevisione svizzera (RSI), in una puntata dedicata al bianco (mercoledì 20 marzo), il colore del bene, della luce, ma sul quale errori e sporcizia risaltano maggiormente. Fra le tante sporcizie c’è la guerra: il conflitto in Ucraina e quello in Palestina, sui quali il pontefice si è espresso ai nostri microfoni:

In Ucraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?

“È un’interpretazione. Ma credo che è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, si è offerta per questo. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”.

Anche lei stesso si è proposto per negoziare?

“Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. È il coraggio per non portare il paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto….”.

Come trovare una bussola per orientarsi su quanto sta accadendo fra Israele e Palestina?

“Dobbiamo andare avanti. Tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. Gli irresponsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la “guerra-guerrigliera”, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. È una brutta cosa”.

La colomba è il simbolo della pace, è il segnale che la guerra è finita. Ma poi c’è il dopoguerra, che comunque è un altro momento in cui si devono ricucire tutte queste ferite…

“C’è un’immagine che a me viene sempre. In occasione di una commemorazione dovevo parlare della pace e liberare due colombe. La prima volta che l’ho fatto, subito un corvo presente in piazza San Pietro si è alzato, ha preso la colomba e l’ha portata via. È duro. E questo è un po’ quello che succede con la guerra. Tanta gente innocente non può crescere, tanti bambini non hanno futuro. Qui vengono spesso i bambini ucraini a salutarmi, vengono dalla guerra. Nessuno di loro sorride, non sanno sorridere. È un bambino che non sa sorridere sembra che non abbia futuro. Pensiamo a queste cose, per favore. La guerra sempre è una sconfitta, una sconfitta umana, non geografica”.

Come le rispondono i potenti della terra quando chiede loro la pace?

“C’è chi dice, è vero ma dobbiamo difenderci… E poi ti accorgi che hanno la fabbrica degli aerei per bombardare gli altri. Difenderci no, distruggere. Come finisce una guerra? Con morti, distruzioni, bambini senza genitori. Sempre c’è qualche situazione geografica o storica che provoca una guerra… Può essere una guerra che sembra giusta per motivi pratici. Ma dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi”.

Quale rapporto ha un Papa con l’errore?

“È forte, perché quanto più una persona ha potere corre il pericolo di non capire le scivolate che fa. È importante avere un rapporto autocritico con i propri errori, con le proprie scivolate. Quando una persona si sente sicura di sé stesso perché ha potere, perché sa muoversi nel mondo del lavoro, delle finanze, ha la tentazione di dimenticarsi che un giorno starà mendicando, mendicando giovinezza, mendicando salute, mendicando vita… è un po’ la tentazione dell’onnipotenza. E questa onnipotenza non è bianca. Tutti dobbiamo essere maturi nei nostri rapporti con gli errori che facciamo, perché tutti siamo peccatori”.

FONTE: https://www.rsi.ch/info/mondo/Conflitto-a-Gaza-%E2%80%9Cdue-responsabili%E2%80%9D.-Ucraina-%E2%80%9Cil-coraggio-della-bandiera-bianca%E2%80%9D–2091038.html

La “campagna di Russia” dell’Europa

Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia perseguita con stolido accanimento dalle élite politiche europee, sorde e cieche ad ogni criterio di responsabilità.

Quos Deus perdere vult, dementat prius (quelli che Dio vuole perdere, per prima cosa li rende dementi).

di Domenico Gallo

Questa locuzione fu usata da Lev Tolstoj in Guerra e Pace per descrivere Napoleone Bonaparte che ordina l’avanzata in territorio russo nel 1812. La catastrofe della guerra in Russia indubbiamente fu frutto del delirio di potenza che aveva oscurato la mente di Napoleone. Oggi ci troviamo di fronte alla programmazione di una nuova e più catastrofica campagna di Russia perseguita con stolido accanimento dalle élite politiche europee, sorde e cieche ad ogni criterio di responsabilità. Lasciamo perdere la NATO che, come struttura militare per esistere e prosperare, ha bisogno di un nemico contro il quale prepararsi a combattere. Per questo non possiamo stupirci delle dichiarazioni dall’Ammiraglio olandese Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO che il 18 gennaio ha dichiarato: “”Vivere in pace non è un dato di fatto. Ed è per questo che ci stiamo preparando per un conflitto con la Russia“, che potrebbe scoppiare entro “i prossimi 20 anni“. Neppure possiamo stupirci delle dichiarazioni del Segretario Generale della NATO, Stoltemberg/Stranamore, secondo cui “i membri della NATO devono prepararsi a un possibile scontro con la Russia che potrebbe durare decenni”. Il problema sono le scelte della politica. In questi giorni stiamo assistendo ad una nuova levata di scudi. Due anni di guerra catastrofica ed il fallimento in un mare di sangue della tanto invocata controffensiva ucraina, non hanno insegnato nulla sull’insensatezza dei massacri in corso alla frontiera orientale dell’Europa. In Europa si è formato un partito unico della guerra, in cui confluiscono tutte le forze politiche di centrodestra e di centrosinistra, nel quale i verdi ed i socialisti si contendono la prima fila con i popolari ed i conservatori.

E’ particolarmente inquietante che il Parlamento europeo, con l’ultima risoluzione del 29 febbraio, abbia continuato a istigare la costruzione di nuovi cimiteri di guerra in Ucraina e a percorrere la strada dell’escalation del conflitto.

Secondo il Parlamento europeo non bisogna lasciare nessuna scelta alla Russia, non ci deve essere nessun negoziato per porre fine alla guerra, nessuna mediazione fra gli interessi contrapposti. La guerra deve finire necessariamente con la “vittoria” dell’Ucraina e con la sconfitta della Russia. La vittoria consiste nel recupero manu militari da parte dell’Ucraina di tutti territori perduti a partire dal 2014, ivi compresa la Crimea. In particolare, il Parlamento Europeo: “ricorda l’importanza di liberare la penisola di Crimea, occupata dalla Russia da ormai un decennio – e allo scopo – sostiene gli sforzi dell’Ucraina volti a reintegrare la Crimea, in particolare la piattaforma per la Crimea”.

Per consentire all’Ucraina di conseguire una vittoria militare, che al momento appare impossibile, bisogna proseguire con la fornitura di aiuti militari all’Ucraina “per tutto il tempo necessario.” Il sostegno militare deve essere incrementato quanto bisogna: “per consentire all’Ucraina non solo di difendersi dagli attacchi russi, ma anche di riconquistare il pieno controllo di tutto il suo territorio riconosciuto a livello internazionale”. Per questo non ci deve essere più alcuna restrizione alla fornitura di sistemi d’arma più performanti e a lungo raggio: “come i missili TAURUS, Storm Shadow/SCALP e altri  –di cui l’Ucraina ha bisogno, assieme a– moderni aerei da combattimento, vari tipi di artiglieria e munizioni (in particolare da 155 mm), droni e armi per contrastarli.” Naturalmente tutto ciò ha un costo, per cui il Parlamento Europeo: “appoggia la proposta secondo la quale tutti gli Stati membri dell’UE e gli alleati della NATO dovrebbero sostenere militarmente l’Ucraina con almeno lo 0,25 % del loro PIL annuo.”

Il linguaggio della guerra si alimenta di miti (come lo scontro fra autoritarismo e democrazia) per offuscare la ragione collettiva e occultare la dimensione reale di sofferenza, distruzione e morte che tali scelte politiche producono. La nuova campagna di Russia lanciata dagli irresponsabili leader europei, sulla orme di Biden, è molto più disastrosa di quella di Napoleone perché all’epoca non esistevano le armi nucleari. Pretendere di disgregare la Russia, staccandone la Crimea, che dal 2014 costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione Russa, in virtù di una decisione assunta pacificamente dalla sua popolazione con un referendum, vuol dire puntare all’umiliazione del nemico ed escludere ogni possibilità di negoziato.

Molto sangue sarà versato e non sarà solo sangue ucraino, destinato ad esaurirsi. Se si continua su questa strada, ce l’ha ricordato il miniNapoleone francese, sarà inevitabile l’invio di truppe di Stati europei. Se la Russia dovesse trovarsi con le spalle al muro, niente può escludere che metta mano al grilletto nucleare. Di fronte all’irresponsabilità delle élite europee, brilla la saggezza del Presidente John F. Kennedy che sessanta anni fa riuscì a scongiurare la guerra con l’Unione sovietica per effetto della crisi dei missili a Cuba, osservando che: “Le Potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva”.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/03/la-campagna-di-russia-delleuropa/

Transnistria e Moldova, un altro fronte di guerra?

Le politiche guerrafondaie e di scontro del governo sottomesso ai diktat occidentali e della NATO, stanno chiudendo la piccola repubblica della Pridnestrovie in una situazione pericolosa e molto delicata, da qui la richiesta ufficiale di aiuto del Parlamento di Tiraspol, per l’unificazione alla Russia come forma di autodifesa. Ma in caso di conflitto, c’è un fattore che potrebbe essere un detonatore che investirebbe e incendierebbe a domino, anche i paesi vicini: la base militare di Kolbasna sotto protezione russa, dove si ipotizza vi siano anche armamenti nucleari.

Nell’ultimo anno la “zelenskaya di Chisinau” Maia Sandu, invece di cercare forme e proposte di negoziazione e conciliazione con la regione orientale, ha intensificato azioni, proposte di legge provocazioni continue e minacce, che stanno alimentando odio e tensioni altissime. Questo da un lato sta spaccando la popolazione in Moldova e incoraggiando forme di smembramento interno della stessa, come nelle regioni della Gagauzia e della Taracalia, dove è sempre più forte la volontà di distacco, oltre alla sempre più profonda avversità della componente russofona del paese.

Il processo ormai non più nascosto di adesione alla NATO, è avviato da tempo, ma ora si sta velocizzando, pur con il 62% dei residenti moldavi dichiaratasi contrari e oltre il 70% favorevoli a una neutralità del Paese. Come con le provocatorie manovre congiunte con presenza di truppe polacche, rumene e persino statunitensi, effettuate nei mesi scorsi a Bulboaca, proprio ai confini della Transnistria, con elicotteri stranieri delle forze speciali polacche, che volano sulla capitale moldava per non precisati motivi di sicurezza, i divieti di circolazione dei veicoli immatricolati nella PMR in Moldavia, attacchi al diritto di uso della lingua russa e così via.

Mentre, al contempo, nei mesi del 2023 le forze armate ucraine hanno schierato altri 4.000 soldati ( con mezzi militari addobbati con emblemi dei battaglioni nazisti) nella regione di Odessa e posizionati in direzione della Pridnestrovie, casualmente proprio il giorno prima, il ministro degli Affari esteri dell’Ucraina aveva effettuato una visita di due giorni a Chisinau

Di recente, nonostante una disastrosa situazione economica interna, con aumenti continui dei beni di prima necessità, del gas, dell’energia elettrica, della benzina, Chisinau ha annunciato l’acquisto del radar francese Ground Master 200 Thales per 14,5 milioni, che sarà acquistato dal governo moldavo, oltre a veicoli corazzati dalla Germania. Ai giovani moldavi è stata data l’opportunità di iscriversi a otto accademie militari negli Stati Uniti, Turchia, Grecia e Romania. Il primo ministro moldavo Dorin Recean ha affermato che il Paese amplierà il raggio di cooperazione con la NATO, perché “…l’Alleanza significa sviluppo democratico…“. Anche il deputato del partito al governo, Andrian Cheptonar, ritiene che la Moldavia “…dovrebbe essere integrata in un sistema di difesa più ampio e fare accordi con i singoli paesi della NATO in modo da essere protetta…“. Lo stesso parlamentare ha ammesso che in caso di referendum, la maggioranza dei moldavi voterebbe contro l’adesione all’Alleanza.

In questo contesto il Parlamento pridnestroviano ha chiesto aiuto alla Russia, che in questi trent’anni è stata una efficace garante di pace, con il suo corpo di peacekeeping, di una non belligeranza e di continui negoziati e trattative, purtroppo finora non risolutivi, ma perlomeno senza altri conflitti militari e con una pacifica coesistenza. La risposta alle richieste della PMR da parte del Cremlino sono state: “…La questione del perché la Transnistria si è rivolta alla Russia per chiedere aiuto dovrebbe essere rivolta alle autorità della Moldavi Le domande dovrebbero essere rivolte a coloro che hanno causato una simile dichiarazione da parte del Parlamento pridnestroviano. Il regime insediatosi a Chisinau sta abolendo tutto ciò che è russo, discrimina la lingua russa in tutti gli ambiti e impone gravi pressioni economiche sulla PMR…Invitiamo la leadership della Moldavia a smettere di bloccare e ostacolare il processo negoziale nel formato “5+2” dell’accordo Moldova-Pridnestroviano. Chisinau sta cercando di distruggere questo formato per sempre…”, ha detto il ministro russo alla RIA Novosti.

Il VII Congresso dei deputati di tutti i livelli della Transnistria, che si è svolto il 28 febbraio e ha riunito più di 600 rappresentanti del popolo, ha adottato una dichiarazione con appelli alle due camere dell’Assemblea federale della Federazione Russa, al Segretario delle Nazioni Unite, all’OSCE, ai membri del formato “5+2”, all’Assemblea interparlamentare degli Stati membri della Comunità degli Stati Indipendenti, al Parlamento Europeo e all’organizzazione della Croce Rossa. Con esso i deputati della Pridnestrovie hanno chiesto alla Russia di adottare misure diplomatiche e concrete per proteggere la PMR di fronte alle crescenti pressioni della Moldavia e dell’Ucraina..

Il senatore russo, primo vicepresidente della commissione di difesa del Consiglio della Federazione Russa, V.Chizhov, ha a sua volta dichiarato che “… la Russia è pronta a fornire alla Pridnestrovie un sostegno proporzionato alle sfide che deve affrontare. I deputati della Pridnestrovie si sono rivolti alla Federazione Russa non dal nulla…L’attuale politica filo occidentale e atlantista della Moldavia, guidata da Maia Sandu, ha spinto verso questa situazione in tutti i modi possibili. Queste sono azioni mirate e studiate ed è chiaro che non sono state inventate a Chisnau ma in Occidente. Quindi reagiremo di conseguenza…”.

Il rappresentante permanente della Federazione Russa presso l’OSCE, A. Lukashevich ha avvertito che la situazione sulle rive del Dniester si sta sviluppando secondo uno scenario molto pericoloso e ha chiesto all’OSCE di intervenire urgentemente per trovare una soluzione positiva. L’accumulo di forze armate ucraine nei pressi della PMR, può far pensare ad una possibile provocazione di un attacco con obiettivo la base di Kolsbana, che dista solo 2,5 chilometri dal confine con l’Ucraina, che se fosse presa dai militari di Kiev, gli fornirebbe scorte di un anno per ulteriori combattimenti.


La “bomba” Kolbasna

“…Contiamo su azioni adeguate da parte moldava, ma non escluderei nemmeno scenari seri e complessi, perché la situazione è imprevedibile e non banale anche a livello globale, figuriamoci a livello regionale…”. Ha dichiarato il ministro degli Esteri della PMR V. Ignatiev.

Molti esperti e analisti concordano sul fatto che, in caso di invasione della Transnistria da parte dell’Ucraina o della Moldavia, i magazzini di Kolbasna, di fatto una polveriera, potrebbero saltare in aria. 

In uno studio dell’Accademia delle scienze moldava degli anni 2.000, fu valutato che in caso di una esplosione, la forza di esplosione sarebbe di 10 kilotoni, equivalente a quella sganciata su Hiroshimanell’agosto 1945 e si formerebbe un imbuto profondo di circa 1 km, il raggio dell’onda d’urto sarebbe di 150 km e 3mila chilometri quadrati. In questo raggio tutte le case, gli edifici e la popolazione rimarrebbe distrutta, coinvolgendo Moldavia, Ucraina e Transnistria.

Al momento, a Kolbasna sono immagazzinate almeno 20mila tonnellate di varie armi, 2600 carri di munizioni, circa 500 carri di esplosivi. Ci sono circa 100 carri armati, 200 veicoli da combattimento di fanteria e mezzi corazzati, 300 sistemi di difesa aerea, decine di migliaia di mitragliatrici e fucili, camion, pezzi di ricambio per veicoli corazzati e mezzi militari Alcuni esperti non escludono la presenza di bombe nucleari tattiche.

Le commissioni OSCE che hanno visitato (più volte negli anni) il deposito di munizioni di Kolbasna, hanno confermato che le armi sono conservate in ottime condizioni. Se ci fosse una provocazione armata e venissero colpiti questi magazzini, nessuno potrebbe garantirsi la propria incolumità e sicurezza. La base è sorvegliata da militari russi del Corpo di pace e soldati pridnestroviani, con due circuiti di sicurezza. In caso di attacco alla PMR , questa ha già operativo come esercito, una forza immediata di circa 15.000 effettivi, ma in caso di aggressione la mobilitazione può arrivare a oltre 80.000 riservisti che hanno un addestramento militare, oltre a milizie paramilitari operaie e contadine. Oltre ai circa 2.000 militari russi del Gruppo operativo delle forze russe (OGRF) lì presenti.

La Repubblica Moldava Preidnestroviana ha anche proprie industrie militari a Bender e Rybnitsa, che producono lanciarazzi e mortai. Alcuni esperti militari sostengono che gli stock di munizioni e armi sul territorio della Pridnestrovie siano sufficienti per operazioni di combattimento per due anni, anche escludendo la possibilità di ottenere forniture di armi da altre parti.

La Sandu si è dimostrata totalmente integrata e asservita alle politiche della Giunta di Kiev e NATO, rendendosi strumento delle loro politiche, dove la Transnistria è una pedina nelle strategie ucraine per ricattare, forzare le mosse della Russia, in una logica, definita da analisti militari “caotizzazione mediatica”.

Così come non è da escludersi che, proseguendo una prospettiva di sconfitta e tracollo della situazione sul campo per Kiev, si potrebbe delineare la probabilità di un attacco scellerato e incongruente contro la Transnistria, se non altro per la necessità di logiche di compensazione per media e propaganda interna di guerra.

Anton Gerashchenko, ex deputato della Giunta di Kiev, attuale consigliere ed ex viceministro presso il Ministero degli affari interni dell’Ucraina, ha dichiarato: “…Se le autorità moldave decidono di ripristinare l’integrità territoriale, con il sostegno della NATO e dell’Ucraina, questo può essere fatto in 24 ore. Ora la Moldavia ha un’opportunità geopolitica e storica unica di ottenere l’indipendenza dalla Russia. L’enclave separatista della Transnistria, che esiste solo grazie al sostegno della Russia, ora è “stretta” tra la Moldavia e l’Ucraina ormai da un anno. La Moldavia deve utilizzare tutti i metodi disponibili per questo. Così, Chisinau, insieme a Kiev, può porre fine alla storia trentennale di beffa delle forze di Tiraspol…“.

Mentre Alexei Arestovich, ex consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino, in un’intervista ha dichiarato: “…L’Ucraina è vicina e, se le autorità moldave lo chiederanno, non si farà da parte. Abbiamo le possibilità e le condizioni sono già state create. Un giorno o tre non è una problema. Forse sono degli eroi e resisteranno. Chi è più intelligente alzerà la mano e si arrenderà, per chi è più stupido, questa sarà l’ultima resistenza nella vita… “.

Questo lo scenario che esiste in quella regione, ancora una volta si alzano solo parole di guerra e violenza, ma le conseguenze potrebbero essere un ulteriore tassello per uno scontro totale NATO e Russia…e resto del mondo libero e indipendente. Parole e venti che portano tempesta.

Enrico Vigna, IniziativaMondoMultipolare/CIVG – 4 marzo 2024

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