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LA GUERRA INVISIBILE DEI POTENTI CONTRO I SUDDITI

Intorno a “Dominio” di Marco D’Eramo

“Riassumiamo in quattro parole il patto sociale tra i due Stati. Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi siete povero; facciamo dunque un accordo tra noi: io vi permetterò che voi abbiate l’onore di servirmi, a condizione che voi mi diate il poco che vi resta per la pena che io mi prenderò di comandarvi.” Jean Jaques Rousseau, Discorso sull’economia politica (1755)

di Vittorio Stano

Negli ultimi 50anni si è compiuta una gigantesca rivoluzione dei ricchi contro i poveri, dei governanti contro i governati. Dai birrifici del Colorado, ai miliardari del Midwest, alle facoltà di Harvard, ai premi Nobel di Stoccolma, Marco d’Eramo (1) con il suo libro “Dominio” ci guida nei luoghi dove questa sedizione è stata pensata, pianificata, finanziata.

Di una vera e propria guerra si è trattato, anche se è stata combattuta senza che noi ce ne accorgessimo. La rivolta dall’alto contro il basso ha investito tutti i terreni, non solo l’economia e il lavoro, ma anche la giustizia, l’istruzione: ha stravolto l’idea che ci facciamo della società, della famiglia, di noi stessi.

Ha sfruttato ogni crisi, tsunami, attentato, recessione, pandemia. Ha usato qualunque arma, dalla rivoluzione informatica, alla tecnologia del debito. Insorgere contro questo dominio sembra una bizzarria patetica e tale resterà se non impariamo da chi continua a sconfiggerci. Il lavoro da fare è immenso, titanico, da mettere spavento. Ma ricordiamoci: nel 1947 i fautori del neoliberismo dovevano quasi riunirsi in clandestinità, sembravano predicare nel deserto. Proprio come noi ora.

Questa guerra bisogna raccontarla partendo dagli Stati Uniti perché sono l’impero della nostra epoca e gli altri paesi occidentali sono loro sudditi. Uno degli effetti della vittoria che i ricchi hanno conseguito è stato di renderci ignari della nostra sudditanza e di annebbiare la percezione delle relazioni di potere: meno male che è arrivato Trump a ricordarci la sopraffazione, la protervia, la crudezza in ogni dominio imperiale. Ma nemmeno l’impressionante rozzezza di questo presidente è riuscita a svegliarci dalla sonnolenza intellettuale in cui ci culliamo. Per rendercene conto basta osservare la sinistra occidentale: quel che ne resta è ormai totalmente thatcheriano, nel senso che ha fatto suo il famoso slogan “TINA” (There Is No Alternative) della Lady di Ferro, visto che ha interiorizzato il capitalismo finanziario globale come unico futuro possibile per il pianeta. È più facile pensare la fine del mondo che la fine del capitalismo !

Un baratro ci separa dagli anni ’60 quando quasi tutti si definivano “liberal”. Oggi, 60anni dopo la parola “liberal” è diventata un’ingiuria. Una guerra è stata combattuta. Se non ce ne siamo resi conto, è perché nell’opinione progressista prevale la tendenza a sottostimare gli avversari non accorgendosi così delle tendenze di lungo periodo, come se i singoli successi della destra fossero alberi che ci nascondono la foresta. La sinistra occidentale si straccia le vesti accusando il proprio retaggio culturale e politico di ideologismo. La destra invece ha mantenuto il proprio retaggio culturale, politico e ideologico. Anzi ha preso dalla sinistra quello che le serviva per iniziare la sua contronarrazione.

Per capire meglio il versante ideologico dello scontro bisogna concentrarsi su tutto ciò che è successo negli Stati Uniti, avendo questo una valenza planetaria. La prima avvisaglia dello scontro la dette il signor John Merril OLIN (1892-1982) proprietario della omonima corporation specializzata in industrie chimiche e belliche, fondata in Illinois e infine atterrata in Missouri. Creata nel 1953 la fondazione Olin rimase praticamente inattiva fino al 1969, anno in cui il magnate fu sdegnato dalla foto di militanti neri che facevano irruzione – fucili in mano e cartucce a bandoliera – nel rettorato dell’ateneo in cui lui aveva studiato da ragazzo, la Cornell University, nel nord dello Stato di NewYork.

Ricordiamoci di come doveva apparire l’America a un capitalista in quegli anni: università in subbuglio, ghetti neri in rivolta, la guerra in Vietnam indirizzata verso una disonorevole sconfitta, Bob Kennedy e Martin Luther King uccisi l’anno prima. È comprensibile che la foto della Cornell sconvolgesse John Olin e lo inducesse a dotare la fondazione di nuovi e ingenti mezzi e di consacrarla a un unico obiettivo: riportare le università all’ordine.

QUEL FATALE MEMORANDUM DEL 1971

L’azione della Olin Foundation rimase isolata fino al 23.8.1971 data in cui la storiografia ufficiale situa l’inizio della “grande offensiva conservatrice”. Quel giorno Lewis F. Powell Jr. scrisse un memorandum alla Camera di Commercio degli USA intitolato: “Attacco al sistema americano di libera impresa”. Il Memorandum non se la prendeva tanto con gli estremisti, quanto con i moderati. Le voci più inquietanti che si uniscono al coro delle critiche vengono da elementi rispettabili della società: dai campus, dai college, dai pulpiti, i media, le riviste intellettuali e letterarie, le arti, le scienze, i politici.

Come accade a tutti coloro che prevaricano, ai leghisti italiani che si sentono vittime degli immigrati, agli israeliani che si sentono vittime dei palestinesi, anche Powell sente che gli imprenditori americani sono vittime, sono accerchiati e in pericolo d’estinzione (!!). Gli imprenditori devono quindi attrezzarsi a condurre una guerra di guerriglia contro chi fa propaganda prendendo di mira il sistema, cercando insidiosamente e costantemente di sabotarlo. Perciò è essenziale che i portavoce del sistema siano molto più aggressivi che nel passato. E il terreno principale dello scontro sono le università e le idee che esse producono perché è il campus la singola fonte più dinamica dell’attacco al sistema dell’impresa. E perché le idee apprese all’università da questi giovani brillanti saranno poi messe in pratica per cambiare il sistema di cui è stato insegnato loro a diffidare, cercando lavoro nei centri del vero potere e influenza del paese: 1) nei nuovi media, specie la TV; 2) nel governo, come membri del personale o come consulenti a vari livelli; 3) nella politica elettorale; 4) come insegnanti e scrittori; 5) nelle facoltà a vari livelli d’istruzione. E in molti casi questi intellettuali finiscono in agenzie di controllo o in dipartimenti statali che esercitano una grande autorità sul sistema delle imprese in cui non credono.

LE IDEE SONO ARMI

Le idee sono armi, le sole armi con cui altre idee possono essere combattute. Per combattere questa guerra di guerriglia, diceva Powell, il padronato deve imparare la lezione appresa tanto tempo fa dal movimento operaio. Questa lezione è che il potere politico è necessario; che tale potere deve essere coltivato assiduamente e che, quando necessario, deve essere usato anche aggressivamente e con determinazione, senza imbarazzo e reticenza. Una volta stabilito che la forza sta nell’organizzazione, in un’accorta pianificazione e messa in atto a lungo termine nella coerenza dell’azione per un numero indefinito di anni, nella scala del finanziamento disponibile, Powell passa ad articolare l’obiettivo su come riequilibrare le facoltà: attraverso il finanziamento di corsi, di dipartimenti, cattedre, libri di testo, saggi e riviste, e poi si allarga il raggio all’istruzione secondaria, ai media, alla TV, alla pubblicità e alla politica, al rendere a tutti i livelli più amichevole la giustizia verso gli imprenditori. L’appello di Powell fu ascoltato, non proprio nella forma che lui avrebbe voluto: una sorta di partito leninista del padronato. Fu ascoltato da un pugno di miliardari dell’America profonda.

LE TAPPE DELLA RICONQUISTA

La strategia che fondazioni come Olin, Bradley, Mellon Scaife, Richardson e Koch adottarono dopo il Memorandum di Powell fu esplicitata nel 1976 dall’allora 25enne Richard Fink (3): …”una concisa direttiva per determinare come l’investimento nella struttura della produzione delle idee può fruttare maggiore progresso economico e sociale quando la struttura è ben sviluppata e ben integrata”. Fink considerava le idee come prodotti di un investimento per una merce da imporre sul mercato: prima da produrre e poi da vendere. Ma come facevano le fondazioni a scegliere a chi dare i soldi quando università, think tanks e gruppi di cittadini competono nel presentarsi come i migliori richiedenti in cui investire risorse? Le università affermano di essere la reale fonte del cambiamento. Generano le grandi idee e forniscono l’impalcatura concettuale per la trasformazione sociale […] I think tanks ritengono di essere i più degni di sostegno perché lavorano su problemi del mondo reale, non su temi astratti […] I movimenti di base affermano di meritare appoggio perché sono i più efficaci nel realizzare gli obiettivi. Loro combattono in trincea, e qui è dove la guerra è vinta o persa. La prima fase è l’investimento nella produzione di input fondamentali che chiamiamo “materie prime”. La fase intermedia converte queste materie prime in prodotti a maggiore valore aggiunto se venduti ai consumatori. L’ultima fase consiste nella confezione, trasformazione e distribuzione del prodotto delle fasi precedenti per consumatori finali.

Applicato alla produzione e vendita di idee, questo modello si traduce in una prima fase che investe in “materie prime intellettuali”, cioè esplora e produce concetti astratti e teorie che, nell’arena pubblica, vengono ancora principalmente dalla ricerca condotta dagli studi nelle università. Queste teorie però sono incomprensibili al pubblico e –seconda fase- per essere efficaci devono essere trasformate in una forma più pratica e maneggevole. Questo è il compito dei think tanks (4). Senza queste organizzazioni la teoria e il pensiero astratto avrebbero meno valore e meno impatto sulla nostra società. Ma mentre i think tanks eccellono nello sviluppare nuove politiche e nell’articolare i loro benefici, sono meno capaci di produrre cambiamento. Movimenti di base sono necessari nell’ultimo stadio per prendere le idee dei think tanks e tradurli in proposte che i cittadini possono capire e su cui possono agire.

…”Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente che deve andare dalla produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica” (Charles Koch)

PENSATOI D’ASSALTO

Uno dei più autorevoli think tank conservatori è la Heritage Fundation. Aprì i battenti nel 1973 da un finanziamento di Joe Coors (5). Arrivarono in seguito molte donazioni da parte di diversi magnati, finchè all’inizio degli anni ’80 tra i finanziatori di Heritage figuravano le divisioni corazzate del capitalismo USA: Amoco, Amway, Boeing, Chase Manhattan Bank, Chevron, Down Chemical, Exxon, General Motor, Mesa Petroleum, Mobil Oil, Pfizer, Philip Morris, Procker & Gamble, RJ Reynolds, Union Cardibe, Union Pacific, etc…. E’ impressionante la somiglianza tra il modo in cui i think tanks conservatori hanno teleguidato Trump e il modo in cui telecomandarono Reagan.

Il 3.7.2020 nel sito web della Fondazione Heritage si poteva leggere: <<… La nazione è sotto attacco. Cosa fare per fermare il programma socialista della sinistra ?>> Il giorno dopo Trump affermava: … “il paese è sotto assedio da parte del fascismo di sinistra”.

Il think tank è un’entità peculiare il cui uso estensivo risale al dopoguerra. Nel 2019 vengono enumerati 8249 think tanks nel mondo, il 52% si trova in Europa (2219) e Nord America. Dei 2058 think tanks nordamericani, il 91% è statunitense. Louis Althusser, intellettuale francese, negli anni ’80 riteneva il think tank un “apparato ideologico di tipo nuovo”, che si situava a monte degli apparati ideologici tradizionali (scuola, chiesa, indottrinamento militare) o anche più recenti (mass media, soprattutto radio, TV e oggi social network). I think tanks esistevano già nel 1916 ma la novità oggi è la loro non dissimulata faziosità, il loro prendere apertamente partito e perorare le cause più estreme, in uno scontro frontale con il precedente fariseismo bipartisan di facciata. Questi nuovi think tanks da combattimento hanno un ruolo di primo piano nel fornire un arsenale intellettuale alla rivoluzione restauratrice. I più noti think tanks d’assalto sono: il Manhattan Institute for Policy Research (MI), il Cato Institute, la Hoover Institution e l’American Enterprise Institute (Aei). Il Manhattan Institute fu diretto anche da William Casey che ha diretto la CIA dal 1981 al 1987. Tra i finanziatori compaiono oltre ai soliti miliardari conservatori noti, la fondazione di Bill & Melinda Gates. Le loro mani sono rintracciabili in tutte le campagne ideologiche della destra degli ultimo 40anni. Ciò che chiedono, e ottengono, dai politici è la libertà da tutti i vincoli di legge, da tutti i regolamenti, compresi quelli che stabiliscono un salario minimo, limitano gli straordinari, vietano il lavoro minorile, ostacolano i monopoli, combattono l’inquinamento, delimitano lo sfruttamento delle risorse, tutti “lacciuoli” contro cui questi istituti si battono. Hanno fatto propria l’utopia di “Stato minimo” propugnata in quegli anni da R. Nozik (6) e la sua concezione estrema dei diritti individuali (…per Nozik “un sistema libero dovrebbe permettere agli individui di vendersi in schiavitù”). Inoltre fanno campagna contro il welfare state, contro il servizio sanitario, per limitare al massimo il ruolo dello Stato e cioè per ridurre il più possibile le tasse (…per Nozik le tasse sul lavoro non sono altro che “lavoro forzato”), per privatizzare la Social Security, la rete elettrica federale, l’intero apparato scolastico, le poste, la NASA. Sono anche contro l’interventismo USA in politica estera e pretendono sussidi alle grandi corporation finanziati dai contribuenti. Negli ultimi 20anni è diventato più difficile seguire traccia del denaro che porta dalle famiglie miliardarie ai think tanks, ma transitano attraverso enti intermedi, a statuto simile a quello delle fondazioni per quanto riguarda il regime fiscale, ma che hanno il vantaggio di garantire l’anonimato dei contribuenti. Anche i contributi alle campagne elettorali sono diventati irrintracciabili dopo la sentenza della Corte Suprema del 2010 che rese lecite illimitate donazioni anonime.

LA PARTITA E’ TRUCCATA, PERO’…

Una controffensiva efficace contro la rivoluzione conservatrice non può essere finanziata e alimentata da fondazioni “liberal”, da una ipotetica ala sinistra del capitale. Come se per il capitale ci fossero due squadre in campo e una, quella ultraconservatrice, avesse trovato l’infallibile tattica per vincere. Le fondazioni dell’ultradestra hanno stracciato quelle liberal non perché disponessero di più soldi, né perché attingessero a un serbatoio di menti più intelligenti, ma per la fondamentale asimmetria che in regime capitalistico sbilancia destra e sinistra verso un ipotetico centro. L’asimmetria sta nel fatto che la destra non mette in discussione (né in pericolo) l’ordine capitalistico, il capitalismo come sistema, mentre la sinistra anche non estrema lo mette in discussione (ragion per cui, se messo alle strette, il capitale preferisce sempre la soluzione fascista a quella socialista: non per chissà quale malignità, ma per semplice volontà di sopravvivenza). Questo fa sì che ci possano essere fondazioni capitalistiche di estrema destra ma non di estrema sinistra. La partita è truccata. Le fondazioni di estrema destra pesano di più perché veicolano, con determinazione quasi feroce, un messaggio estremo, utopico di capitalismo radicale, duro, puro, mentre le fondazioni di sinistra, liberal o progressiste, veicolano per forza di cose un messaggio moderato che già di per se propone un compromesso tra capitale e lavoro. Anche se la partita è truccata bisogna giocarla, altrimenti i padroni della terra vincono mano dopo mano senza che ce ne accorgiamo, come è avvenuto fino a ora. … Non basta un futuro da incubo, e persino la distruzione del futuro stesso, che i neoliberali stanno plasmando non solo per noi bipedi umani, bensì per tutti i viventi di questo pianeta. Non c’è ragione di escludere che credenze irrazionali come quelle per cui i mercati sono arabe fenici che nascono, si autoregolano e si rigenerano da sole, e per cui la convivenza umana è fondata sulla concorrenza (cioè che lo stare insieme è basato sul farsi la guerra !), non possano durare parecchi secoli o millenni, se coloro che le subiscono permettono senza reagire che queste stramberie dispongano delle loro vite.

Già il famoso Memorandum di Powell esortava esplicitamente a imparare le lezioni del movimento operaio e in pratica proponeva di costituire un PARTITO LENINISTA del PADRONATO. E ricordare quel Michael Joyce che diresse la fondazione Olin, secondo Forbes, s’ispirava a GRAMSCI quello dei “Quaderni del carcere”. E tutti i think tanks della destra conservatrice che hanno plagiato i concetti di egemonia, ideologia, hanno usato a proprio vantaggio la nozione di lotta di classe.

A proposito di lotta di classe il miliardario Warren Buffet rispose candidamente a un giornalista del NewYork Times il 26.11.2006 che gli chiedeva se esistesse ancora la lotta di classe: <<Certo che c’è la guerra di classe ma è la mia classe, la classe ricca, che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo>>. Cinque anni dopo Buffet ribadiva il concetto e affermava che i ricchi questa guerra di classe l’avevano già vinta ! E l’opinionista del Washington Post commentava: “se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata ingaggiata “from the top down” (dall’alto contro il basso), per decenni. E i ricchi hanno vinto. Non è un esaltato a parlare di guerra di classe dall’alto contro il basso, è uno dei protagonisti di questa guerra: la loro vittoria è tale per cui loro di questa guerra possono parlare senza ritrosia, MENTRE NOI SOLO A NOMINARLA CI VERGOGNIAMO E SIAMO SUBITO SOSPETTATI DI ESTREMISMO. È stata una guerra ideologica totale. Ha avuto la sua pianificazione, le strategie, la scelta del terreno dello scontro, l’uso delle crisi. Insomma la counter-intellighentsia dei miliardari ha imparato un sacco dai suoi avversari. Basti pensare che lo storico David Koch aveva commissionato una storia confidenziale delle attività politiche di suo fratello, scrisse di Charles Koch (7): “Non gli bastava essere l’Engels o persino il Marx della rivoluzione libertaria. Voleva essere il Lenin”. Fanno impressione tutti questi capitalisti o cantori del capitalismo che sognano di essere gli Engels, i Marx, i Gramsci, i Lenin del capitale. Non è solo una vaga ispirazione, o non solo modelli da imitare. Sono proprio tattiche da imparare, strategie da riprendere, scelta degli obiettivi da assimilare. Cominciamo dalla controrivoluzione ideologica di maggior successo foraggiata dalle fondazioni, Law and Economics. C’è una precisa ragione storica per cui i miliardari ultraconservatori decisero di finanziare così massicciamente questa disciplina giuridica. E la ragione è che la sinistra, i progressisti, i liberal avevano insegnato alla destra quanto decisiva potesse essere la magistratura nello scontro politico. Gli eventi sono ormai troppo lontani (tra 72 e 45 anni fa) e non li ricordiamo più o non ce ne rendiamo più conto, ma quasi tutte le vittorie conseguite nelle lotte per i diritti civili negli anni ’60 furono certo dovute alla pressione dei movimenti, all’eroismo e allo spirito di sacrificio dei militanti, ma furono sancite, consolidate e rese durature non da atti legislativi del congresso, bensì da sentenze della Corte Suprema, cioè da atti giudiziari.

LA CRUCIALE IMPORTANZA DELL’IDEOLOGIA

I neoliberali hanno appreso dai loro avversari la cruciale importanza dell’ideologia. Hanno imparato moltissimo su questo terreno, mentre è diventata una parolaccia per i benpensanti, per i progressisti da quartieri bene. Persino Fogel, lo storico che aveva rivalutato l’economia schiavista, parlando dell’immagine dei neri che avevano gli abolizionisti razzisti, si stupiva di questa eccezionale dimostrazione del potere dell’ideologia di cancellare la realtà. Viene inventata la nozione di “imprenditore ideologico” per poter incorporare l’ideologia all’universo neoliberale, per poter appropriarsene, e usarla. Quello che i neoliberali hanno imparato, assimilato e infine praticato, è l’idea che la società sia governata da un perpetuo scontro di classe, da una guerra tra dominati e dominanti. Così negli ultimi 50anni, nel momento in cui i dominanti formalizzavano e scatenavano lo scontro di classe contro i dominati, uno degli strumenti di questa lotta consisteva nel convincere i sudditi CHE NON CI FOSSE NESSUNO SCONTRO, che le classi fossero una balzana invenzione di qualche esagitato e che, se fossero esistite un tempo, ormai si erano estinte, spazzate via dalla storia, e che tutto quel che sussisteva fosse una MITICA, ONNICOMPRENSIVA, VAGA, FLUTTUANTE “CLASSE MEDIA” e tutt’al più una sottoclasse di poveri immeritevoli. Così mentre loro organizzavano la “guerra delle idee”, i loro avversari si crogiolavano (… e ci crogioliamo ancora) nella beata illusione di una società senza classi, senza conflitti d’interessi, obnubilati dall’immagine del sistema-paese, dell’impresa-Italia, di una concordanza d’ interessi, di un “remare tutti nella stessa direzione”, mentre i vincitori della guerra delle idee accumulavano e accumulano ricchezze e poteri inauditi. La società sta diventando sempre più diseguale, tanto che 10 persone al mondo possiedono un patrimonio superiore a quello di metà del genere umano. La crescita delle disuguaglianze è diventata una litania totalmente disconnessa dal problema del DOMINIO. È anche chic citare i libri di Thomas Piketty sul tema. Ma tutto lascia il tempo che trova. SIAMO DISEGUALI, e allora ?

IL MOMENTO DI IMPARARE DAGLI AVVERSARI

Visto che i dominanti hanno tanto imparato dai dominati, è forse giunto il momento che noi dominati impariamo da loro. Per come hanno condotto la loro vittoriosa controrivoluzione, ci hanno mostrato con chiarezza i terreni dello scontro, che abbiamo via via incontrato: l’ideologia, il fisco, la giustizia, l’istruzione, il debito.

Marines e miliardari del Midwest ci hanno fatto capire il ruolo decisivo dell’ideologia, ci hanno insegnato che il primo obiettivo è restituire allo scontro ideologico la dignità, la centralità che i dominati sembrano aver perso come senso comune perché “le idee sono armi” – le sole armi con cui altre possono essere combattute. Nell’era in cui i partiti di sinistra erano egemoni, avevano agito con successo come se capissero il ruolo degli intellettuali. Sia per disegno, sia perché costretti o guidati dalle circostanze, hanno sempre diretto i loro sforzi ad acquisire l’appoggio di questa élite. Per intellettuali F. von Hayek (8) intende i “rivenditori di seconda mano delle idee”, un gruppo che non consiste solo di giornalisti, insegnanti, sacerdoti, conferenzieri, pubblicisti, commentatori radio (Hayek, 1949), narratori, disegnatori di cartoni animati, e artisti e tutti coloro che padroneggiavano la tecnica di trasmettere le idee. Ma oggi si verifica un paradosso inverso a quello rilevato da Hayek che i portavoce delle “masse” conquistassero l’egemonia tirando dalla loro parte le élites. Quando Hayek scriveva la sinistra era elettoralmente sovrarappresentata tra gli strati a infimo reddito, a capitale quasi nullo e a bassissima istruzione. In 70anni la sua base elettorale è progressivamente cambiata finché oggi la sinistra è sovrarappresentata tra gli strati ad alta istruzione e reddito medio-alto e sottorappresentata tra i ceti a reddito esiguo e scarsa istruzione. Per dirla con Picketty (Il Capitale nel XXI secolo, Sinistra bramina contro destra mercante) oggi la sinistra rappresenta i “bramini”, mentre la destra rappresenterebbe i mercanti. Il risultato collaterale di questa evoluzione è che la parte della popolazione a scarso reddito e a bassa istruzione, cioè la plebe, non viene più rappresentata da alcuna forza politica della destra o della sinistra tradizionali. Gli intellettuali sono ritenuti più importanti dei mercanti.

Mentre gli intellettuali della sinistra subiscono una fascinazione irresistibile dal denaro dei mercanti. La faccenda è confusa dal fatto che gli intellettuali di oggi, tutti sostanzialmente conservatori e conformisti al neoliberismo, si sentono di sinistra, proprio come effetto della controrivoluzione ideologica neoliberale che, cancellando le categorie di “lavoro” e di “sfruttamento”, ha fatto sparire le linee del conflitto; ci ha immersi tutti in una sorta di marmellata sociale. Forse dipende anche dal fatto che la sconfitta ideologica è così enorme che la stessa parola “sinistra” non si sa più cosa significhi. Per me stare a sinistra vuol dire sempre e soltanto stare dalla parte dei dominati contro i dominanti, dalla parte dei lavoratori contro i capitalisti.

Il ruolo dell’ideologia, spiegava il generale Petraeus è fondamentale nel ricostruire la distinzione del chi sta con chi. Nel farci prendere coscienza che non stiamo tutti dalla stessa parte. Che non siamo tutti capitalisti del nostro capitale umano, ma che alcuni sono nostri avversari e noi siamo avversari di altri. E questo ce lo hanno insegnato negli ultimi 50anni proprio loro con il loro linguaggio bellico. Il primo passo per rilegittimare i conflitti, le “insurrezioni” (“tumulti” li chiamava Machiavelli) è la lotta contro l’eufemismo. L’eufemismo non è solo ipocrisia. È tecnologia di potere, tecnica di comando. Uno splendido esempio è la parola RIFORMA. Un tempo riforma era tutto ciò che migliorava lo stato delle persone. Oggi riforma è una minaccia che si pronuncia. Il volgo appena sente di riforma delle pensioni, capisce che da vecchio rimarrà in mutande; riforma del welfare significa abolizione progressiva delle protezioni sociali; riforma della sanità significa che moriremo senza essere curati. Allo stesso modo in Occidente “pluralista” è una società in cui tutti hanno le stesse opinioni, dove cioè si deve:

  1. accettare il dogma del libero mercato;
  2. non avere pensieri o intenzioni che non siano moderati;
  3. essere filoamericani in modo incondizionato e denunciare le benché minime tracce di antiamericanismo.

Infatti il capolavoro di eufemismo si manifesta nell’esercizio dell’impero da parte degli Stati Uniti: anzi eufemismo è la forma di impero che hanno imposto al mondo.

IL CAPITALE UMANO

Nel neoliberismo il concetto chiave è la concorrenza. Insita nella concorrenza vi è non l’eguaglianza ma la diseguaglianza, poiché nella concorrenza – nella competizione – c’è un vincitore e un perdente: la concorrenza non solo è basata sulla diseguaglianza, ma la crea. L’individuo è perciò considerato, sì, come operatore del mercato, ma in quanto competitore nella concorrenza. Ma chi è che compete nella concorrenza capitalistica ? A concorrere tra loro sono le imprese. In quanto concorrente ogni individuo è considerato un imprenditore, anzi un’impresa di per sé: il manager di sé. Nell’antropologia neoliberale l’unità-individuo è un’unità-impresa e l’individuo è il proprietario di se stesso. Non è certo un’idea che viene spontanea agli esseri umani, quella di entrare in rapporto con se stessi in termini di proprietà. Io personalmente non mi sono mai guardato allo specchio valutando la mia proprietà, o la proprietà di me. Anzi il termine proprietà pare straordinariamente non pertinente se applicato al rapporto del sé con sé. La prima conseguenza di questa impostazione è che SIAMO TUTTI PROPRIETARI, dal bracciante messicano al minatore nero sudafricano, al banchiere di Wall Street. Ma di cosa siamo esattamente proprietari quando per esempio non possediamo denaro né oggetti materiali? SIAMO PROPRIETARI DI NOI STESSI: cioè noi stessi costituiamo il nostro proprio capitale. Ognuno è proprietario di sé, cioè del proprio capitale umano. La specificità del capitale umano è che è parte dell’uomo. È umano perché è incarnato nell’uomo, e capitale perché è fonte di future soddisfazioni, o di futuri guadagni, o ambedue. Il capitale umano sta all’economia come l’anima sta alla religione. Come, secondo le varie fedi ogni persona ha un’anima – non si vede ma c’è – , così in ognuno di noi c’è un capitale invisibile, immateriale, che intride l’individuo imprenditore di sé stesso. SIAMO TUTTI CAPITALISTI quindi, dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.

TECNOLOGIA DEL DEBITO

Se la rivoluzione informatica fornisce gli strumenti tecnologici di controllo a distanza, è la tecnologia del debito ad assicurarne la dimensione economica. È assai recente l’uso sistematico e codificato del debito – sia dei privati, sia degli Stati – come strumento politico e sociale. Fu Marx il primo a capire il ruolo che avrebbe giocato il debito pubblico nel capitalismo moderno. Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usurario.

Il debito pubblico ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio: in una parola, ha fatto nascere il gioco di Borsa e la bancocrazia moderna. L’indebitamento dello Stato era interesse diretto della frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo 4 o 5 anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Qual è la causa del fatto che il patrimonio dello Stato cade nelle mani dell’alta finanza? E’ l’indebitamento continuamente crescente dello Stato. E qual è la causa dell’indebitamento dello Stato? E’ la permanente eccedenza delle spese sulle entrate, sproporzione che è nello stesso tempo la causa e l’effetto del sistema dei prestiti di Stato. Per sfuggire a questo indebitamento lo Stato deve limitare le proprie spese, cioè semplificare l’organismo governativo, ridurlo, governare il meno possibile, impiegare meno personale possibile. Già Marx nel 1850 notava che l’indebitamento pubblico costringe lo Stato a essere “frugale”. È solo nel XX secolo che il debito assurge a vero e proprio strumento di controllo politico. Lo fa innanzitutto come controllo delle singole persone, delle loro famiglie, attraverso l’istituzione del “mutuo”. L’Ottocento non conosceva ancora il mutuo per l’acquisto della casa come strumento disciplinatore di intere popolazioni: chi si addossa un mutuo quindicennale o trentennale non è propenso a rivoltarsi, per due ragioni: 1) il mutuo lo rende proprietario di casa, e quindi gli fa interiorizzare l’ideologia proprietaria; 2) il mutuo lo rende in un certo senso debitore di se stesso, prigioniero della sua (futura) proprietà per anni e decenni a venire. Il mutuo trentennale sulle case garantito dallo Stato del New Deal di F.D. Roosevelt. Ancora oggi negli USA il 68% del debito dei nuclei familiari va sotto la voce “mutuo per la casa”. Ma è dalla seconda guerra mondiale in poi che il debito delle famiglie è esploso negli USA e poi in quasi tutto il mondo. Se il mutuo aveva rappresentato l’innovazione più foriera di conseguenze tra le due guerre mondiali, nei primi decenni del secondo dopoguerra l’innovazione finanziaria più rilevante fu la carta di credito. Mutuo e carte di credito spiegano almeno in parte l’incredibile espansione dei prestiti ai privati. Nel 1950 il debito delle famiglie rappresentava il 23% del PIL mentre oggi costituisce il 67% (95% nel 2008). Se nel 1960 il debito delle famiglie era pari al 60% delle loro entrate annue, nel 1980 era salito al 75%, nel 1995 al 95% e nel 2019 al 120% (Italia 2023: 160%) quando il reddito medio annuo di ognuna dei 128,82 milioni di famiglie americane è di 89.930 dollari, ma il suo indebitamento è di 108.288 dollari. Il debito è diventato la condizione di vita di quasi tutte le famiglie dei paesi sviluppati. Ci si indebita per il mutuo della casa, per l’acquisto della macchina, per studiare all’università, per andare in vacanza, per una protesi dentale.

L’INDEBITAMENTO DEGLI STUDENTI

Ma il caso più illuminante è certo quello del debito di studio, contratto per pagarsi l’università negli Stati Uniti. Nel terzo trimestre del 2019 il suo ammontare totale era di 1500 miliardi di dollari (più del PIL della Spagna). Negli ultimi 10 anni il numero di persone di 60anni e oltre (più di 30 anni dopo aver terminato l’università) che sono ancora debitori per gli studi è quadruplicato passando da 700mila a 2,8 milioni di persone. Tra le molte cause c’è quella delle spese d’iscrizione triplicate. Per le università quadriennali (sia pubbliche che private) l’iscrizione costava in media 7.413 dollari per l’anno accademico 1975-76; nel 1985-86 era salita a 12.274 dollari; nel 2016-17 è stata di 26.599 dollari. Nelle università private più quotate (quotate anche in Borsa, ad es. Harvard) nel 2016-17 l’iscrizione annua era di 41.468 dollari. Un mercato del lavoro avviato verso la recessione riduce la possibilità d’assunzione per i nuovi laureati che vengono così avviati verso l’insolvenza, una sorta di bancarotta generazionale. L’indebitamento degli studenti è una manifestazione esemplare della strategia neoliberale messa in campo dagli anni ’70: rimpiazzare i diritti sociali (diritto alla formazione, alla salute, alla pensione) con l’accesso al credito, cioè il “diritto” a contrarre debiti. Per le pensioni, non più una mutualizzazione dei contributi, ma un investimento individuale nei fondi pensione; non più un aumento dei salari, ma crediti al consumo; non più un servizio sanitario nazionale, ma assicurazioni individuali; non più diritto all’alloggio, ma fidi immobiliariLe spese di formazione, interamente a carico degli studenti, permettono di liberare risorse che lo Stato si affretta a trasferire alle imprese e alle famiglie più ricche, in particolare attraverso la riduzione delle tasse. I veri assistiti non sono i poveri, i disoccupati, i malati, le madri single, MA LE IMPRESE E I RICCHI.

Note :

  1. Marco d’Eramo. È nato a Roma nel 1947. Laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi. Giornalista, ha lavorato per Paese Sera, Mondoperaio e il Manifesto. Collabora con Micromega, New Left Review, die Tageszeitung. Ha pubblicato diversi libri. Ultimamente “Dominio” con Feltrinelli.
  2. L.F. Powell Jr : ex giudice associato della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America.
  3. Richard Fink: è un uomo d’affari e accademico americano. È l’ex vicepresidente esecutivo di Koch Industries, la seconda società privata più grande degli USA.
  4. Think tank: pensatoio, serbatoio di pensiero o centro studi, centro di ricerca,…, è un organismo, un istituto o un gruppo tendenzialmente indipendente dalle forze politiche che si occupa di analisi delle politiche pubbliche e quindi di settori che vanno dalla politica sociale alla strategia politica, dall’economia alla scienza e la tecnologia, dalle politiche industriali o commerciali, alle consulenze militari, fino all’arte e alla cultura.
  5. Joe Coors (1917-2003): era il nipote del produttore di birra Adolf Coors e presidente della Coors Brewing Company
  6. R. Nozik (1938-2002): è stato un filosofo e docente statunitense, professore presso l’Università di Harvard.
  7. Charles Koch (1935, vivente): è un imprenditore statunitense, figlio del fondatore delle Koch Industries, una delle aziende private più grandi del mondo. Patrimonio netto 59 miliardi di dollari (Forbes, 2023).
  8. F.von Hayek (Vienna 1889-Friburgo 1992): è stato economista e sociologo austriaco naturalizzato britannico. Pensatore liberale e liberista, è stato uno dei massimi esponenti della scuola austriaca e critico dell’intervento statale in economia. Nel 1974 è stato insignito, insieme a Gunnar Myrdal, del premio Nobel per l’economia. Mise in discussione le tesi di Keynes.


Serbia: se il governo cede al ricatto per le sanzioni alla Russia, si spacca il paese e i Balcani entrano in piena destabilizzazione

di Enrico Vigna, 12 marzo 2023

Da quando il Parlamento europeo ha votato che la Serbia deve imporre sanzioni alla Russia o i negoziati dell’UE saranno interrotti, i ricatti e le pressioni NATO, legate alla situazione del Kosovo stanno arrivando a conclusione.

I Balcani occidentali sono un insieme di sei paesi, che comprende Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia che i rappresentanti dell’Unione europea hanno ripetutamente affermato devono appartenere alla famiglia europea. La regione dell’Europa meridionale e orientale, abitata da circa 18 milioni di persone, è ormai nota come l’arena della rivalità geostrategica tra, Bruxelles, Washington e Mosca degli ultimi decenni.

La promessa di ammissione di questi paesi nell’Unione europea, oltreché nella NATO, è stato finora lo strumento più sottile dell’Occidente per assoggettare e integrare la regione, usando i leader filoeuropeisti da essi sponsorizzati e sostenuti.

Peter Stano, portavoce del capo della diplomazia europea ha dichiarato alla CNBC: “… Sicuramente, i Balcani occidentali sono il secondo campo di battaglia per la Russia in termini di strategia e… dopo l’Ucraina si sono intensificate le loro attività…”..

Anche la NATO ribadisce l’importanza strategica dei Balcani occidentali per l’Alleanza: “È chiaro che l’invasione russa dell’Ucraina influisce sulla stabilità dei nostri partner vulnerabili e li espone a un rischio maggiore di “influenza maligna”. Continueremo a lavorare insieme per mantenere la stabilità e sostenere le riforme e la resilienza nella regione perché la sicurezza e la stabilità nei Balcani occidentali sono importanti per la NATO e per la pace e la stabilità in Europa…”, ha poi affermato un funzionario della NATO citato dalla CNBC. Sappiamo cosa significano per la NATO le parole stabilità e sicurezza…

In risposta a una richiesta di commento, un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha detto alla CNBC che: “… Washington rimane profondamente coinvolta nella regione, descrivendo il futuro dei Balcani occidentali come “esclusivamente all’interno dell’UE”…Non dobbiamo permettere al governo russo di frenare il progresso dei paesi dei Balcani occidentali“, ha detto il diplomatico americano.

Considerando il fatto che recentemente nei Balcani occidentali tutti gli esempi della cosiddetta “influenza maligna della Russia” si sono rivelati falsi e il livello di conflitto in Bosnia ed Erzegovina (BiH) e nella provincia autonoma serba del Kosovo è rimasto finora un problema locale e interno alle problematiche degli attori regionali, tali dichiarazioni dei media statunitensi suscitano sospetti e insidie. Queste dichiarazioni possono essere interpretate come una copertura per accrescere la campagna occidentale volta a costringere le autorità della Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina e della Serbia, a imporre sanzioni contro la Russia.

Casualmente, subito dopo queste ennesime dichiarazioni, l’11 febbraio il presidente serbo A. Vučić ha affermato che le autorità serbe stavano aspettando “il momento giusto” per imporre sanzioni contro la Russia, e “la questione non riguarda mesi” , e queste affermazioni hanno scatenato nella società serba proteste di piazza, fibrillazioni e accuse di tradimento al presidente serbo, il quale si è giustificato dicendo che ormai le pressioni sul paese sono al punto di insostenibilità.

Nell’ultima votazione di novembre scorso, il Parlamento Europeo, per la seconda volta ha chiesto ufficialmente che l’UE interrompa l’avanzamento dei negoziati con la Serbia fino a quando non soddisferà diversi requisiti di base, il più importante dei quali è il completo allineamento della politica estera e di sicurezza della Serbia con la politica estera e di sicurezza della UE. Il Parlamento europeo sottolinea l’importanza del pieno rispetto, in particolare della politica delle sanzioni contro i paesi terzi. Il PE esprime rammarico per il basso livello di conformità della Serbia alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE, in particolare in relazione all’aggressione militare della Russia contro l’Ucraina. La risoluzione afferma che ulteriori capitoli negoziali dovrebbero essere aperti solo quando la Serbia rafforzerà il suo impegno per le riforme nel campo della democrazia e dello Stato di diritto e dimostrerà di essere pienamente allineata con la politica estera e di sicurezza comune dell’UE. Nel documento, il PE ricorda che la Serbia, in quanto paese che lotta per l’integrazione europea, deve aderire a valori comuni.

Il governo serbo già da alcuni mesi sta dando segnali di cedimento della sua storica politica (dai tempi della Jugoslavia socialista), di Non allineamento. UE, NATO, USA dall’armistizio, dopo l’aggressione del 24 marzo 1999, stanno cercando di piegare la politica serba ai diktat dell’egemonia occidentale, cercando di rompere la millenaria fratellanza del popolo serbo con quello russo e slavo. Ora sembra che siamo vicini a questo passaggio che sarebbe traumatico sia politicamente, che culturalmente e spiritualmente per i serbi, ma che avrebbe anche ripercussioni e destabilizzazioni in tutti i Balcani e i paesi vicini.

Secondo uno studio condotto dall’organizzazione britannica Henry Jackson Society (HJS) presso l’Università di Cambridge, la stragrande maggioranza dei cittadini serbi, il 78,7%, non sostiene l’imposizione di sanzioni anti-russe e l’armonizzazione della politica estera del Paese con l’Unione Europea, si oppone all’adesione alla NATO e non vuole perdere i suoi, storicamente buoni rapporti con la Russia. Mentre solo il 12,1% dei serbi è favorevole.

Secondo gli autori dello studio, nonostante le pressioni e i ricatti dell’UE sulla Serbia, il 53,3% dei suoi cittadini vuole rimanere neutrale rispetto al conflitto in Ucraina. Il 35,8% degli intervistati ritiene che la Serbia dovrebbe sostenere la Russia e solo il 4,4% ha dichiarato di sostenere l’Ucraina. Per i ricercatori inglesi, la reazione dei cittadini serbi al caso dell’uso del sistema “bastone e carota” da parte di Bruxelles e Washington si è rivelata scioccante.

Alla domanda se imporre sanzioni alla Russia per accelerare l’adesione della Serbia all’UE, solo il 6,4% ha risposto “sì”. Se l’UE fornisse un’assistenza finanziaria significativa alla Serbia, solo il 9,5% accetterebbe di imporre sanzioni. E se Bruxelles smetterà di fare pressioni su Belgrado affinché riconosca l’indipendenza dell’autoproclamata “Repubblica del Kosovo“, allora questa quota salirebbe solo al 13,6%.

Quando si tratta di possibili “fruste“, i risultati sono simili. Anche con la minaccia di sanzioni dell’UE contro la stessa Serbia, il 69,9% degli intervistati si è dichiarato contrario alle sanzioni anti-russe. Se l’Ue minaccia di chiudere i suoi fondi, solo il 12,4% è favorevole alle sanzioni. Il ritiro degli investimenti ha spaventato solo il 15,1% dei serbi.

Alla domanda su chi sia la colpa del conflitto in Ucraina, il 66,3% degli intervistati in Serbia ha risposto che è Kiev. Ma su questo argomento i maggiori “successi” sono stati ottenuti dagli Stati Uniti e dalla NATO: l’82,4% e l’84,8% degli intervistati li incolpa per la situazione attuale. Non a caso, in un ipotetico referendum sull’adesione della Serbia alla Nato, il 63,4% degli abitanti del Paese voterebbe “contro“. Solo l’1,2% sostiene fortemente questa idea. E se si tenesse un referendum sull’adesione della Serbia all’Unione europea, il 31,6% voterebbe “decisamente contro”, il 12,7% preferibilmente contro. Mentre il 23% dei serbi è favorevole all’adesione all’UE e solo il 15,1% è “decisamente favorevole”.

Per quanto riguarda una associazione alle potenze mondiali, il 54,1% degli intervistati in Serbia afferma che dovrebbe essere con laRussia, mentre il 22,6% vede un alleato nella UE, il 9,7% nellaCina. Gli Stati Uniti hanno ottenuto solo l’1,2% delle simpatie.

Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che ulteriori misure restrittive contro la Serbia potrebbero portare ad un allontanamento e contrarietà alla UE. Inoltre è stato rilevato che, foss’anche che le autorità serbe imponessero sanzioni anti-russe, i cittadini del Paese si allontanerebbero ancora di più dall’Occidente.

incontrati a Bruxelles per discutere il piano dell’Unione Europea per la normalizzazione tra Kosovo Lunedì 27 febbraio il presidente serbo A. Vucic e il premier kosovaro albanese A. Kurti si sono e Serbia. I due esponenti non hanno poi firmato nulla, l’accettazione del piano è solo verbale e mancano ancora da definire alcune riserve. Su queste nelle prossime settimane si andranno a concentrare nuovi negoziati,
Dopo l’aggressione NATO del 1998-99, il Kosovo ha proclamato nel 2008 la propria indipendenza, mai riconosciuta da Belgrado, che ha sempre goduto del sostegno della Russia per bloccare l’accesso di Pristina alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali. La realizzazione di questo accordo sbloccherebbe questo status quo. Il 18 marzo i leader si incontreranno di nuovo, un incontro che potrebbe segnare l’inizio di nuovi scenari geopolitici e destabilizzazioni non solo in Serbia.

Il piano dell’UE è frutto di una proposta franco-tedesca, preparata mentre a livello locale crescevano le tensioni per via della cosiddetta “battaglia delle targhe” e della richiesta della realizzazione delle Comunità Autonome Serbe nella provincia, come previsto nella risoluzione ONU 1244.

Fino allo scorso 27 febbraio, questa proposta non era mai stata resa pubblica, se non da alcune indiscrezioni a mezzo stampa, il piano non prevede che Kosovo e Serbia si riconoscano ufficialmente, un truffaldino escamotage, che nasconde la resa dello stato serbo su tutti i fronti, mantenuti in questi 24 anni.

Si richiede di conseguenza l’impegno per Belgrado di smettere di ostacolare l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali, promettendo l’avvio di “relazioni di buon vicinato sulla base di uguali diritti”: la Serbia deve riconoscere documenti, emblemi nazionali, passaporti e targhe automobilistiche emessi dal cosiddetto stato indipendente del Kosovo, si scambierebbero “missioni permanenti”; e rifiuterebbero l’uso della forza per la risoluzione delle controversie in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. Disposizioni, quindi, che prevedono un riconoscimento de facto, anche se la terminologia impiegata evita questa espressione. Resta solo un aspetto non risolto in questo piano, ovvero l’istituzione di una Associazione/Comunità dei comuni a maggioranza serba, che nel 2015 fu giudicata incostituzionale dalla UE. Un ultimatum per la capitolazione della Serbia, il cui passo successivo sarebbe l’accettazione delle sanzioni alla Russia, con tutto ciò che comporterà nelle relazioni tra i due paesi.

Intanto nel paese la tensione sale di giorno in giorno, con proteste, arresti, scontri sia in Serba che in Kosovo; nelle manifestazioni il clima è infuocato e lo scontro sale pericolosamente, alcuni leader patriottici di queste proteste, dove ci sono già stati arresti e scontri violenti, hanno addirittura espresso negli slogan il monito/minaccia “chi firmerà questo tradimento sarà ucciso” o dichiarazioni durissime, come quelle dell’accademico serbo Dusan Kovacevic“Chi firmerà per l’indipendenza del Kosovo morirà prima che l’inchiostro si asciughi“.

Alcuni deputati, anche dello stesso partito del presidente Vucic, il Partito Progressista Serbo al governo, ribadiscono che sarebbe economicamente non conveniente per la Serbia imporre sanzioni, poiché metterebbe a repentaglio la sua sicurezza energetica e le relazioni fraterne secolari. Anche la “…Chiesa Ortodossa serba sembra pronta a scendere in campo contro la resa del governo, molti analisti prevedono la possibilità di manifestazioni di massa nel paese contro l’introduzione di restrizioni alla Russia” ha dichiarato ai media il deputato Kostic; che ha poi aggiunto”…La gente in Serbia è per la Russia e contro la NATO, quindi un tentativo di imporre sanzioni potrebbe essere la fine per Aleksandar Vučić e il suo governo“.

Anche i serbi del Kosovo resistono e rispondono alle quotidiane provocazioni e violenze, con manifestazioni di piazza e resistenza civile

Nella provincia continuano le proteste e le manifestazioni nelle aree abitate dai serbi, nel nord del Kosovo contro le violenze e il terrorismo delle “forze speciali” delle autorità separatiste di Pristina e contro le prospettive di svendita della provincia. Le parole d’ordine con cui i serbi scendono in piazza sono: “Kurti, non ti perdoneremo i nostri figli colpiti”,“Europa, di cosa sono colpevoli i nostri figli?”,“Vučić, prenditi cura dei serbi e della pace!”,“Vogliamo solo pace”, “Kosovo è Serbia”.

Nel contempo USA e NATO soffiano sul fuoco, probabilmente ritenendo che la destabilizzazione della Serbia, potrebbe aprireun secondo fronte di scontro tra occidente e Russia, con l’obiettivo di creare nuove contraddizioni e un indebolimento strategico della stessa.

A cura di Enrico Vigna, presidente di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija e portavoce del Forum Belgrado Italia – 12 marzo 2023

Frei Betto: La guerra fredda si surriscalda

Gli Stati Uniti, l’impero più potente della storia, sono come il dio azteco Tezcatlipoca: si nutrono di vittime umane. Uno dei principali motori della sua economia in espansione è l’industria bellica. Le guerre sono necessarie a Wall Street per raccogliere enormi dividendi.

Per tutto il XX secolo, il nemico permanente è stato il comunismo. Combatterlo giustificava spese multimilionarie e persino colpi di stato in America Latina per instaurare dittature sanguinarie.
Con la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, la Casa Bianca aveva bisogno di un nuovo obiettivo per evitare che la macchina bellica si fermasse. E non ci volle molto per trovarlo: il terrorismo. Con il vantaggio che non si trattava di un nemico che poteva essere localizzato geograficamente o sconfitto, come in una guerra tra Paesi. È un nemico da combattere permanentemente e che assicura la soddisfazione perenne dell’insaziabile appetito di Tezcatlipoca.

Nella seconda settimana del suo mandato, Trump ha dichiarato: “Ho firmato un ordine esecutivo per iniziare una grande ricostruzione delle agenzie militari degli Stati Uniti”. Il suo segretario alla Difesa, James “Mad Dog” Mattis, ha dichiarato al Washington Post che era necessario “esaminare come condurre operazioni contro non meglio identificati concorrenti vicini” (Chomsky 2022, p. 162). È ovvio che non si riferiva ai dischi volanti, ma alla Russia e alla Cina. Il 19 gennaio 2018 è stato più esplicito: “Mentre continueremo a promuovere la campagna contro i terroristi, nella quale siamo attualmente impegnati, la competizione tra grandi potenze, non il terrorismo, occupa ora il centro dell’attenzione della sicurezza nazionale statunitense”.

Secondo un rapporto del 2018 del Dipartimento della Difesa, gli Stati Uniti mantengono 625 basi militari ufficiali in Paesi stranieri. L’analista politico David Vine ha rivelato nel 2021 che, se si contano le basi clandestine, ci sono circa 750 basi militari statunitensi.

Quando era presidente dell’Ecuador, Rafael Correa chiese alla Casa Bianca il permesso di collocare una base militare ecuadoriana a Miami, nel caso in cui gli Stati Uniti avessero voluto continuare a mantenere la base aerea di Manta sulla costa del Pacifico (del suo Paese  ndt). Manta è stata chiusa. Il bilancio militare statunitense (2023) è di 858 miliardi di dollari, il 35% del totale mondiale. Qual è lo scopo di tanto denaro sperperato in un mondo in cui vivono 3 miliardi di persone in povertà, di cui 821 milioni soffrono di fame cronica? Proteggere il modello di democrazia made in USA, cioè l’appropriazione privata del capitale.

Secondo Chomsky, “Ogni volta che c’è stato un conflitto tra la democrazia e l’ordine, definito come la protezione dell’accumulazione di capitale da parte delle élite, gli Stati Uniti si sono schierati dalla parte di quest’ultimo” (2022, p. 153).
Questa ideologia perversa affonda le sue radici nel XIX secolo, quando James Madison, uno dei “padri fondatori della nazione”, dichiarò: “Nelle democrazie i ricchi devono essere preservati; non solo la loro proprietà non deve essere divisa, ma i loro redditi devono essere protetti”.

La difesa della proprietà privata (di pochi, ovviamente) e dell’accumulazione privata di capitale richiede anche una protezione interna. Da qui la principale arma ideologica del sistema: la paura! Paura del nero, paura dell’immigrato, paura di chi non è cristiano o ebreo, paura del povero.

Oggi, ciò che la Casa Bianca teme di più è che la Cina superi gli Stati Uniti nell’innovazione tecnologica e diventi egemone nel pianeta. Questo perché il gigante asiatico ha denaro sufficiente per investire nella ricerca, dal momento che non mantiene basi militari fuori dai suoi confini e spende solo 230 miliardi di dollari nel settore bellico. Ecco perché l’imperialismo sta provocando la Cina in tutti i modi possibili, cercando di costringerla a partecipare alla corsa agli armamenti, alla quale partecipano Russia e Stati Uniti.

Gli Stati Uniti non vogliono disperatamente perdere l’egemonia mondiale acquisita dopo la Seconda guerra mondiale, ma oggi, nel mondo multipolare, la Cina si impone come l’economia in grado di superare in un prossimo futuro gli Usa e l’arsenale nucleare della Russia supera quello degli Stati Uniti.

La Casa Bianca è indignata per l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sostiene che mancava il consenso delle Nazioni Unite. Che cinismo! Gli Stati Uniti hanno invaso la Russia nel 1918, senza successo. E senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno invaso Santo Domingo nel 1965; hanno invaso e bombardato i territori del Vietnam e della Cambogia per tutti gli anni ’60; hanno invaso il territorio della Somalia nel 1993 (300.000 morti); dell’Afghanistan nel 2001 (180.000 morti), dell’Iraq nel 2003 (300.000 morti); della Libia nel 2011 (40.000 morti); della Siria nel 2015 (600.000 morti); e infine dello Yemen, dove sono già morte circa 240.000 persone (Fiori, 2023).
Chi protesta contro l’occupazione statunitense di Porto Rico dal 1898, di Guantánamo a Cuba dal 1903 e contro il blocco di Cuba che dura da oltre 60 anni?

Per la Casa Bianca, la probabile sconfitta dell’Ucraina per mano della Russia sarà amara. Biden dovrà ingoiare duro, sapendo che ciò influirà sulla sua rielezione l’anno prossimo. Sa che l’unica reazione “all’altezza” sarebbe catastrofica per l’umanità: il confronto nucleare.

Anche i Paesi dell’Unione Europea, monitorati dagli Stati Uniti attraverso la NATO, sanno che la guerra della Russia contro l’Ucraina è un pantano in cui si sono cacciati. Non sanno come uscirne. E la cosa più grave: le sanzioni imposte alla Russia non hanno avuto alcun effetto sul Paese. Al contrario, il rublo si è rafforzato. E diversi Paesi europei, a partire dalla Germania, erano già irritati per le esplosioni che nel settembre 2022 hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico, che li rifornivano di gas naturale. Ora l’irritazione ha lasciato il posto alla furia: non sono stati i russi a interrompere la fornitura, ma la CIA è stata responsabile del sabotaggio.

Qui in Occidente conosciamo la narrazione del cacciatore, non della lepre. Le fantasie di Hollywood e di Walt Disney ci convincono che per la Casa Bianca la libertà non è solo il nome di una statua tra New York e il New Jersey. E moltissime persone credono ai discorsi falsi dello Zio Sam. Tra l’altro, perché in questo lato occidentale del mondo conosciamo poco la versione del lato orientale.

Frei Betto
Teologo, scrittore e politico brasiliano. E’ stato responsabile del Programma “Fame Zero” nel primo governo Lula. Come scrittore è stato insignito del Premio Jabuti e ha pubblicato più di 50 volumi, tra cui Paradiso perduto. Viene considerato uno degli esponenti della Teologia della Liberazione

https://it.wikipedia.org/wiki/Frei_Betto

FONTE: https://codice-rosso.net/la-guerra-fredda-si-riscalda-di-frei-betto/

Ad un anno dall’invasione russa i vertici politici Usa e dell’Ue continuano con la stessa ricetta a base di sanzioni e forniture militari a oltranza.

Crisi ucraina: solo la mobilitazione popolare può fermare la guerra

di Andrea Vento

Ad un anno dall’invasione russa i vertici politici Usa e dell’Ue continuano con la stessa ricetta a base di sanzioni e forniture militari a oltranza.

Quale il reale impatto delle sanzioni contro la Russia sulle economie occidentali alla luce dell’ultimo Outlook Fmi di gennaio e dove ci sta portando il recente corposo aumento delle forniture di armamenti sempre più potenti all’Ucraina?

A due mesi dal varo della nona tranche di sanzioni del 16 dicembre scorso, la presidente della Commissione europea Ursula von der Layen davanti al Parlamento di Strasburgo, mercoledì 15 febbraio, ha annunciato la decima tranche di misure sanzionatorie alla Russia per un valore di 11 miliardi di euro “di nuovi divieti commerciali e controlli sulle esportazioni di tecnologia verso la Russia, per mantenere forte la pressione” precisando che “noi cerchiamo di indebolire la capacità della Russia di mantenere la sua macchina da guerra. Con nove pacchetti di sanzioni già operativi, l’economia russa è in recessione1.

Siamo ormai giunti ad un anno dall’introduzione del primo pacchetto di sanzioni della Ue e degli Usa del 23 febbraio scorso, comminato a seguito del riconoscimento delle Repubbliche Popolari del Donbass che ha preceduto di un giorno l’Operazione Militare Speciale, nonostante i risultati sia tattico-operativi con Mosca passata ad una decisa controffensiva, sia economici col mancato tracollo dell’economia russa, continua a riecheggiare, dalle Cancellerie europee, lo stesso stanco ritornello che intona disastri nell’economia russa e la sconfitta dell’esercito di Mosca, sotto le imponenti forniture militari occidentali.

Procedendo alla verifica oggettiva delle dichiarazione dei vertici Ue in merito alla recessione causata alla Russia, tralasciandone altre iniziali che ne ventilavano il default2, rileviamo come dalla previsione ad aprile del Fmi di un pesante -8,5% per il 2022, si è ridotta al solo -2.2% nel World Economic Outlook del 30 gennaio della stessa istituzione3 (tab. 1).

A livello geopolitico invece, seppur oggetto di condanna da parte di una Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo per l’invasione dell’Ucraina votata da 141 Paesi su 193, la Russia, appare tutt’altro che emarginata appurato che solo 37 Paesi dei 193 (pari al 19% del totale) dopo 7 settimane dal 24 febbraio4, avevano aderito alle sanzioni promosse dagli Stati Uniti e imposte da questi ultimi anche all’Ue (carta 1). Anzi isolata verso occidente, Mosca ha ridisegnato la propria carta geopolitica approfondendo le relazioni economiche, commerciali e politiche non solo con le potenze emergenti (Cina e India) e regionali asiatiche (Pakistan e Turchia), ma anche con i Paesi africani e latinoamericani, contrari all’adozione delle sanzioni (carta 2).

In particolare, rispetto all’Africa i rapporti si stanno intensificando come dimostrano, oltre a quello del luglio scorso, i 2 recentissimi viaggi compiuti nel continente fra gennaio e febbraio dal Ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov, e l’annuncio del nuovo summit Russia – Africa per luglio 2023 a San Pietroburgo5. Nel processo di ampliamento della propria presenza, fra le varie strategie, la Russia sta subentrando alla Francia nella sua tradizionale zona d’influenza post-coloniale, la regione del Sahel, con la quale intesse sempre più fitte trame diplomatiche, soprattutto, con Mauritania, Mali e Burkina Faso, oltre alla Repubblica Centrafricana e all’ex colonia britannica Sudan.

Tabella 1: Previsioni economiche del Fmi per il 2022 degli World Economic Outlook di ottobre 2021 e gennaio, aprile, luglio, ottobre 2022 e gennaio 2023


Previsioni economiche del Fmi per il 2022

Ottobre 2021Gennaio 2022Aprile 2022Luglio 2022Ottobre 2022Gennaio 2023
Economia mondiale4,94,43,63,23,23,4
Russia
2,92,8-8.5-6,0-3,4-2,2

Sulla scorta del World Economic Outlook di ottobre del Fmi, nel mese successivo abbiamo pubblicato la ricerca “Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni alla Russia” al fine di indagare le ricadute delle stesse sull’economia russa e su quella dei Paesi che le hanno comminate disaggregando i dati fra gli Stati Uniti, deus ex machina dell’operazione e l’Ue nel complesso ed i singoli suoi Paesi, che le hanno supinamente adottate, dal quale sono emerse nitide evidenze in merito ai reali effetti rispetto sia alle intenzioni dei promotori, sia delle iniziali previsioni (inserire il link dell’articolo).

Nell’intento di comporre un quadro quanto più completo ed esaustivo possibile, abbiamo inizialmente analizzato in chiave comparativa l’entità dell’interscambio commerciale fra Ue e Russia quello fra Stati Uniti e Russia, ricavando come il primo risulti 9 volte superiore rispetto al secondo, oltre ad aver indagato approfonditamente quello fra Italia e Russia anche dal punto di vista merceologico. Inoltre, abbiamo preso in esame la complesso tematica degli effetti delle sanzioni sul mercato dell’energia dei Paesi Ue e del piano comunitario REPowerEu6 varato da Bruxelles con l’obiettivo di “ridurre rapidamente la nostra dipendenza dai combustibili fossili russi” che hanno prodotto, oltre a difficoltà di approvvigionamento, un eccezionale aumento del costo dei prodotti energetici, una forte impennata inflattiva, un aumento dei tassi da parte delle Banche centrali e un sensibile rallentamento del ciclo economico.

Procediamo di seguito all’analisi degli effetti economici delle misure restrittive sulla base dei dati economici relativi all’intero 2022 e per quanto l’interscambio commerciale fra Italia e Russia, sui primi 10 mesi dello stesso.

Le ricadute sull’interscambio commerciale Italia – Russia

Nell’intento di valutare l’effettiva ricaduta delle sanzioni rispetto al fine di sfiancare l’economia russa da parte dei Paesi che le hanno introdotte, risulta fondamentale, fra le varie, confrontare la variazione dell’interscambio commerciale con Mosca fra gennaio e ottobre 2021 con quello del corrispondente periodo del 2022, quest’ultimo influenzato dai provvedimenti restrittivi.

Per quanto riguarda il nostro Paese nel periodo gennaio-ottobre 2021, in condizioni di ristabilita normalità economica dopo la crisi del 2020, abbiamo esportato merci in Russia per un controvalore di 6,3 miliardi di euro, mentre ne abbiamo importati 13,9 miliardi con un saldo per noi negativo di circa 7,6 miliardi di euro, sostanzialmente in linea con i dati del 2019 (tab. 2). Nei primi 10 mesi dell’anno appena concluso, invece, a seguito delle sanzioni e del piano REPowerEU, tramite i quali ci siamo preclusi attività economiche significative con Mosca, il nostro export è diminuito del 22,9% a meno di 5 miliardi di euro, mentre il valore del nostro import ha subito un aumento del 79,3%, attestandosi a 24,9 miliardi di euro, affossando in tal modo il saldo negativo a 20 miliardi di euro, con un aggravio del disavanzo di circa 12,5 miliardi.

Tabella 2: valore in miliardi di euro dell’interscambio commerciale Italia-Russia fra 2019 e 2021 e confronto fra gennaio-ottobre 2021 e 2022.Fonte: infomercati esteri su dati Istituto del Commercio Estero (Ice)7

Export italiano verso la Russia201920202021Gen – ott 2021Gen – ott 2022
Totale (mld. €)7,8827,1017,6966,2884,848
Variazione periodo precedente (%)+4,2-9,9+8,8
-22,9

Import italiano dalla Russia
201920202021Gen – ott 2021Gen – ott 2022
Totale (mld. €)14,3249,32913,98413,86324,853
Variazione (%)-4,3-34,9+54,5
+79,3
Totale interscambio (mld. €)22,20616,43021,68012,52129,701
Saldo commerciale Italia (mld. €)-6,442-2,228-6,288-7,575-20,005

Il pesante deficit dell’interscambio del nostro Paese con la Russia, è stato determinato sia dall’aumento del valore dell’import, pur in una fase di minori acquisti in volume di prodotti energetici da Mosca8, sia dalla diminuzione del 22,9% dell’export verso la Russia.

Il vertiginoso aumento dei costi del gas e del petrolio hanno influito sul corposo deficit commerciale totale dell’Italia del 2022 (vedi tab. 4), il quale nel trimestre agosto-ottobre, rispetto a quello precedente, è andato aggravandosi, visto che in base ai dati Istat, l’export è diminuito dello 0,7% e l’import aumentato del 3,9%9. Inoltre, l’impennata dell’energia ha sospinto al rialzo, l’inflazione sia nel nostro Paese, fino al picco dell’11,9%10 di ottobre poi gradualmente ripiegata al 10,1% a gennaio11 e al 9,2%12 a febbraio, che nell’Eurozona, nella quale è stato stimato dall’Eurostat13 negli stessi mesi rispettivamente all’8,6%14 e all’8,5%, anche qui in diminuzione rispetto al 10,6% di ottobre. Inversione di tendenza della dinamica dei prezzi riconducibile alla flessione del costo dei prodotti energetici importati, gas in primis, quest’ultimo sul mercato TTF di Amsterdam disceso, dalla quotazione media mensile massima, raggiunta ad agosto, di 222,33 €/MWh (megawattora), a 118,55 €/MWh a dicembre 202215.

Gli effetti delle sanzioni sulla dinamica delle economie occidentali

I concomitanti fattori sopra riportati, sommati al rialzo dei tassi della Bce (ormai giunti al 3% con il quinto rialzo consecutivo entrato in vigore l’8 febbraio e con aumento analogo già annunciato per marzo 16), stanno creando un sensibile rallentamento delle economie occidentali per il 2023, come ci conferma l’ultimo Outlook del Fmi del 30 gennaio scorso, con il Regno Unito previsto addirittura in recessione. Per quanto riguarda Germania e Italia, non casualmente fino a febbraio 2022 due fra i Paesi maggiormente dipendenti dal gas russo17, il report indica la crescita più bassa fra le principali economie dell’Eurozona nel 2023, rispettivamente a +0,6% e +0,1%, mentre la stessa Area dell’euro subirà un rallentamento a +0,7% e gli Usa una crescita modesta del +1,4%. La Russia, infine, dopo aver ridotto la recessione a -2,2% nell’anno appena concluso il Fmi prevede che ne fuoriesca nel prossimo, nonostante nuove tranche di sanzioni continuino a stagliarsi all’orizzonte.

Per valutare l’impatto delle sanzioni sulle principali economie mondiali, risulta fondamentale confrontare le previsioni dello stesso Outlook per l’anno appena concluso, quindi molto vicine al dato definitivo, con quelle per il 2023 annunciate del Fmi ad ottobre. Non possiamo, infatti ritenere casuale che, nonostante la revisione al rialzo rispetto ai dati dell’autunno, i Paesi che hanno comminato le sanzioni alla Russia registreranno, secondo il Fmi, una sensibile diminuzione della crescita, mentre la Cina che non si è allineata ai dettami degli Usa, vedrà la propria economia espandersi nel 2023 in misura maggiore rispetto al 2022. Al contempo, la Russia dalla prevista contrazione del Pil del 2,3%, è passata ad una lievissima crescita dello 0,3%, in pratica un cambio di segno della dinamica economica inverso rispetto a quello del Regno Unito.

Tabella 3: previsioni variazione Pil per il 2023 e per il 2022. Fonte: World Economic Outlook Fmi gennaio 23 e previsioni Pil per il 2023. Fonte: World Economic Outlook Fmi ottobre 22


GermaniaItaliaFranciaRussiaEurozonaRegno U.UsaCina
Previsioni Pil 2022 gennaio 23
1,6%

1,9%

2,6%

-2-2%

3,5%

4,1%

2,0%

3,5%
Previsioni Pil 2023 gennaio 23
0,1%

0,6%

0,7%

0,3%

0,7%

-0,6%

1,4%

5,2%
Previsioni Pil 2023 ottobre 22
-0,3%

-0,2%

0,7%

-2,3%

0,5%

0,3%

1,0%

4,4%

Le decisioni assunte, su pressioni di Washington, dai Paesi europei e dall’Unione Europea verso Mosca, alla luce dei dati mostrano per il 2022 un impatto negativo, seppur ridotto a 1/4 rispetto alle prime catastrofiche previsioni, sull’andamento dell’economia russa, sortendo, invece, un effetto opposto sul saldo delle partite correnti che, secondo Bloomberg18, è più che triplicato sfiorando di 167 miliardi di dollari fra gennaio e giugno 2022, rispetto ai 50 del corrispondente periodo del 2021, a seguito dell’aumento dei ricavi dell’export dell’energia e delle materie prime, alla diminuzione delle importazioni a causa delle sanzioni e all’apertura di nuovi mercati di sbocco asiatici che hanno compensato l’impatto delle sanzioni.

Se i provvedimenti restrittivi occidentali sembrano aver raggiunto solo parzialmente gli obiettivi prefissati ai danni della Russia, di altra entità risultano, invece, gli impatti negativi causati alle proprie economie che stanno registrando pesanti effetti in termini di deficit commerciale, elevata inflazione, alti tassi di interesse non che rallentamento economico, come indicato dal Fmi.

Non ci è dato di sapere se l’Outlook del Fmi di gennaio scorso sia arrivato sui tavoli della Commissione Europea, ma ritenendo altamente improbabile il contrario, non possiamo esimerci dal domandarci se le dichiarazioni della sua Presidente rilasciate il 16 febbraio al Parlamento Europeo in merito al persistere dello stato di recessione dell’economia russa nel 2023, peraltro dopo il trend in attenuazione del 2022, siano frutto di studi di istituti di ricerca volutamente non rivelati o di mera propaganda politica finalizzata a camuffare il parziale fallimento delle sanzioni sulla Russia, non che la pesante ricaduta negativa sulle economie occidentali.

Le nove tranche di sanzioni comminate sino a questo momento dagli Stati europei sembrano, dunque, assumere, sulla scorta dei dati e delle previsioni economiche, connotato di boomerang ancor più clamoroso rispetto a quelle del 2014. Sorge pertanto il dubbio che le contraddittorie dichiarazioni della Presidente Ursula von der Layen, abbiano lo scopo di far digerire all’opinione pubblica europea il decimo pacchetto di sanzioni definitivamente approvato il 25 febbraio che, inevitabilmente, prolungherà lo stato di stagnazione dell’Eurozona, mentre la Russia è previsto che continuerà a subirne effetti limitati.

All’annuncio del decimo pacchetto da parte della Presidente von der Layen, l’unica voce sollevatasi in dissonanza è stata quella del ministro degli esteri ungherese, Peter Szijjartò, il quale ha eloquentemente affermato che ”le nuove misure si aggiungono a quelle già rivelatesi inutili”. In un nota lo stesso ministro ungherese ha ulteriormente specificato che: “hanno provato 9 volte e 9 volte hanno fallito: dovrebbero trarre la ragionevole conclusione di non provarci mai più, ma Bruxelles non è guidata dalla ragione19, evidentemente conscio del negativo impatto delle sanzioni sulle economie dell’Eurozona.

L’impatto delle sanzioni sull’economia e sul commercio del nostro Paese nel 2022

L’analisi comparativa della dinamica economica del nostro Paese in relazione al contesto europeo, si sta delineando maggiormente critica, in quanto la preannunciata, e sopra riportata, stagnazione per il 2023 prevista dal Fmi il 30 gennaio, è stata preceduta da una lieve recessione dello 0,1% nel quarto trimestre del 2022, peraltro prevista da diversi istituti già in autunno, mentre l’Area dell’euro ha registrato un +0,1%, con l’inflazione che si sta mantenendo ormai da diversi mesi su un livello più elevato di circa 2-3 punti percentuali rispetto alla media dell’Eurozona20.

In Italia, inoltre sempre a causa delle sanzioni e dei conseguenti effetti, anche la bilancia commerciale, nell’anno appena concluso, ha subito un tracollo: l’Istat (tab. 4) ci informa che da un surplus di +40,334 miliardi di euro del 2021 siamo passati ad un deficit di -31,011 nel 2022, a causa del pesante disavanzo della bilancia energetica sceso nell’anno appena concluso a ben -111,278 miliardi di euro dai -48,356 di quello precedente. Con il saldo dell’interscambio dei prodotti non energetici sceso da +88,690 miliardi di euro del 2021 a +80,267 del 2022, in pratica un arretramento in entrambi i comparti anche se di entità ben diversa21.

Tabella 4: variazione del saldo della bilancia commerciale, energetica, dei prodotti non energetici italiana fra 2021 e 2022 e della bilancia commerciale Italia-Russia fra gennaio e ottobre 2021 e 2022 in miliardi di €


Periodo
Saldo bilancia commerciale totaleSaldo bilancia energeticaSaldo bilancia prodotti non energeticiSaldo bilancia Italia – Russia gennaio – ottobre
2021+40,334-48,356+88,690-7,575
2022-31,011-111,278+80,267-20.005

I vertici politici comunitari e nazionali, e in particolare il governo Meloni, non possono, a nostro avviso esimersi, dal rendere conto all’opinione pubblica della scarsa efficacia della sanzioni sulla destinataria, non che dei costi sociali causati dal rallentamento economico che sta insabbiando la ripresa post-covid. Costi che inevitabilmente stanno ricadendo in maniera più gravosa sui ceti popolari e sui lavoratori a causa della perdita di potere d’acquisto di salari, stipendi e pensioni innescata dell’impennata inflazionistica (aumento di bollette, rate dei mutui, carrello della spesa ecc) con inevitabile incremento della divaricazione sociale e della povertà assoluta, nella quale è precipitata l’11% della popolazione nazionale a fine 2022, praticamente quasi raddoppiando rispetto al periodo pre-covid22.

L’escalation delle forniture militari all’Ucraina spingono la Ue al coinvolgimento diretto

La controffensiva lanciata a dicembre dalla Russia nell’intento di riconquistare il terreno perso nei mesi precedenti, sta allarmando i vertici occidentali, i quali nelle dichiarazioni continuano a sostenere i velleitari proclami di Zelensky di voler ricacciare oltre confine le truppe di Mosca e di riprendersi anche la Crimea.

I Paesi occidentali, sotto la poco avveduta regia del Segretario generale della Nato Jens Stoltemberg, portavoce di Washington e de facto artefice della politica estera e militare europea, non hanno vagliato alcuna possibilità di uscita negoziale dal conflitto, per continuare sulla pericolosa strada dell’aumento delle forniture militari e del conseguente escalation del conflitto che, a loro dire, dovrebbe portare alla sconfitta della Russia.

In tale ottica, al vertice di Ramstein in Germania, tenutosi all’interno della base militare Usa fra il 20-22 gennaio, i ministri degli esteri dei 40 Paesi del “Gruppo di contatto” hanno approvato una nuova consistente fornitura di armamenti pesanti soprattutto all’Ucraina, fra cui carri armati britannici Challanger 2, blindati da trasporto truppe Bradley e Stryker, sistemi antiaerei Patriot e Samp-T, sistemi antiaerei mobili Gepard, pezzi d’artiglieria M777 di grosso calibro ed altro materiale. In quel contesto, il nostro ministro degli esteri, Antonio Tajani, ha dichiarato che l’Italia farà la sua parte fornendo il sistema di difesa aerea avanzato Samp/T e nel complesso finanzierà un altro miliardo di euro per l’Ucraina23.

Stiamo vivendo il paradosso per il quale mentre continuiamo a gettare miliardi nella voragine ucraina senza impegnarci in alcuna strategia di risoluzione del conflitto, il nostro Servizio Sanitario Nazionale, definanziato di ben 37 miliardi di euro fra il 2010 e 2019, si trova ormai al collasso senza che i fondi per salvarlo vengano stanziati, come conferma la legge di bilancio 2023 del governo Meloni in perfetta continuità col piano finanziario sulla sanità 2022-2025 varato da Draghi24.

Nonostante le corpose forniture decise a Ramstein, Zelensky, evidentemente non soddisfatto, ha continuato a premere nei giorni successivi ottenendo, già il 24 gennaio25, la promessa di fornitura dei micidiali carro armati tedeschi Leopard 2 e di quelli statunitensi M1 Abrams, superando un’altra linea rossa ritenuta dagli occidentali fino a quel momento invalicabile e provocando il risentimento di Mosca che ha reagito intensificando ulteriormente gli attacchi militari26.

Ormai entrati in un irrefrenabile vortice, i Paesi occidentali al vertice Nato di Bruxelles del 14-15 febbraio, nel cui contesto i ministri della difesa dei Paesi membri, hanno in maggioranza espresso la posizione di aumentare le spese militari nazionali oltre la soglia prefissata del 2% del Pil, portandola addirittura al 3 o al 4%, confermando anche la loro determinazione a sostenere l’Ucraina con ulteriori, e tecnologicamente più avanzate, forniture di armamenti. In conclusione del vertice un gongolante Jens Stoltemberg ha annunciato che Stati Uniti, Francia, Germania, Norvegia e altri Stati membri hanno sottoscritto contratti con aziende del settore degli armamenti per incrementarne la produzione, precisando che “si stanno rafforzando sia le linee produttive esistenti che investendo in nuove fabbriche“. Nessun riferimento invece a soluzioni concordate del conflitto o quantomeno ad un cessate il fuoco.

Nel ben congegnato gioco delle parti, il Parlamento europeo, il giorno seguente al vertice di Bruxelles ha approvato a larghissima maggioranza, con 444 voti favorevoli, 26 contrari e 37 astensioni, una Risoluzione nella quale sollecita la Commissione a fornire all’Ucraina “aiuti militari per tutto il tempo necessario” invitando “a prendere in seria considerazione la fornitura di aerei da combattimento, elicotteri, sistemi missilistici (a più lunga gittata in grado di colpire anche il territorio russo, ndr) e un aumento delle munizioni27. Il testo approvato, fra le varie, chiede anche di rafforzare le sanzioni e di avviare i negoziati per l’adesione dell’Ucraina alla Nato. La richiesta di fornitura di aerei da combattimento, non solo va in direzione diametralmente opposta rispetto al sentire dell’opinione pubblica europea in maggioranza non favorevole a nuovi invii di armi e all’escalation militare, ma se recepita dalla Commissione comporterebbe di fatto l’entrata diretta nel conflitto dei Paesi comunitari, con tutte le gravi conseguenze che ne scaturirebbero.

Riteniamo, inoltre, opportuno effettuare una seria riflessione sulle politiche dell’Ue, la quale, da un lato, impone stringenti parametri ai bilanci pubblici degli Stati membri che si riflettono in cospicui tagli ai welfare nazionali a danno dei ceti sociali inferiori, mentre, dall’altro, non pone alcun limite alle spese per forniture di armi all’ Ucraina che a dicembre scorso avevano già raggiunto i 40 miliardi di euro28.

In base alla ricerca “Ucraina Support Tracker” dell’autorevole Kiel Institute of the world Economy (ifw), i trasferimenti avvenuti da parte di 40 governi, quasi in toto, occidentali al governo ucraino, fra il 24 gennaio e il 20 novembre 2022, in armamenti, aiuti umanitari e sostegno finanziario, ammontavano alla stratosferica cifra di 113 miliardi di euro, la quota principale dei quali, 52 miliardi, sostenuta dall’Ue, con gli Stati Uniti a breve distanza con 48 miliardi ed i restanti 38 Paesi che hanno coperto i residui 13 miliardi29.

Il perdurare della guerra ed il suo inasprimento sta sensibilmente alimentando i fatturati delle aziende produttrici di armamenti, le quali hanno chiuso i bilanci del 2022 in netta crescita: la nostra Leonardo, per il 30,2% a partecipazione pubblica, ha registrato un aumento degli ordinativi del 26%, la tedesca Rehinmetal del 32% e la franco-tedesca Airbus annuncia una crescita fra il 6 e il 21% a seconda del segmento dei prodotti.

Come uscire dalla spirale guerra – sanzioni – crisi economica e sociale?

Il proseguimento sine die del conflitto in Ucraina, iniziato nel 2014 come ha ammesso lo stesso Stoltemberg30, è frutto esclusivo di decisioni assunte dai vertici politici occidentali e da Zelensky, poiché dal punto di vista militare risulta evidente che sul terreno la situazione sia sostanzialmente impantanata in un sanguinoso stallo ormai da mesi. Nessuno dei due contendenti, pur registrando un numero molto elevato di vittime, non riesce a sfondare le linee avversarie e gli spostamenti del fronte, salvo l’avanzata iniziale russa e la controffensiva ucraina di autunno, risultano lenti e sovente a direzione alterna. Da settimane i media occidentali preannunciano una massiccia offensiva russa in primavera ma, ad oggi nonostante gli sforzi profusi da dicembre, l’unica recente vittoria riportata da Mosca è risultata la presa di Soledar mentre i combattimenti per Bakhmut infervorano ormai da settimane in quello che il comandante della Compagnia privata Wagner, Prigozhin, ha definito un “tritacarne”31.

Alla 59esima Conferenza sulla Sicurezza di Monaco di Baviera (MSC) del 17-19 febbraio, nel cui contesto si sono riuniti, escludendo la Russia, i vertici politici e militari di ben 96 Paesi, è stato riservato ampio spazio a Zelensky che ha aperto il summit chiedendo nuove forniture militari al fine di arrivare alla sconfitta della Russia. I Paesi europei ancora una volta non sono riusciti a ritagliarsi uno ruolo geopolitico adeguato al proprio rango economico, rimanendo schiacciati fra la volontà politica di Washington di proseguire la guerra fino alla sfiancamento della Russia e la retorica bellicista di Zelensky, come ha dovuto amaramente ammettere il presidente francese Macron, uno dei leader occidentali più propensi al negoziato, dichiarando che “non è ancora l’ora del dialogo32.

La linea politica della guerra ad oltranza è stata confermata anche durante la visita a sorpresa effettuata il 20 febbraio dal presidente statunitense Biden a Kiev, durante la quale, alimentando la consolidata retorica guerrafondaia, ha annunciato un nuovo pacchetto di forniture all’Ucraina comprensivo di missili Himers a più lungo raggio e del sistema di contraerea Patriot, oltre ad un sostegno finanziario di 18 miliardi.

Il pellegrinaggio dei leader occidentali nella capitale ucraina è proseguito il giorno seguente con l’arrivo del nostro Presidente del Consiglio Meloni, il quale ha esaltato le virtù dell’atlantismo, enfatizzato l’eroica resistenza ucraina e rassicurato Zelensky che “il governo italiano è al fianco dell’Ucraina fino alla vittoria“.

Come a Monaco, anche in queste due occasioni, nemmeno un accenno ad un cessate il fuoco e all’apertura di un dialogo per una soluzione diplomatica, sortendo come unico effetto la reazione di Mosca, la quale ha annunciato la sospensione dal Trattato New Start sulla limitazioni della armi nucleari strategiche sottoscritto con gli Usa nel 2010 ed entrato in vigore l’anno successivo. Anche se prossimi alla scadenza dello stesso prevista per il 2026, risulta evidente come ad ogni upgrade delle forniture occidentali all’Ucraina la Russia risponda da par suo, in un pericoloso avvitamento dai foschi orizzonti indefiniti33.

I connotati del conflitto in corso risultano quelli di una tradizionale e sanguinosa guerra d’attrito che alla luce delle forze in campo, da un lato, la Russia seconda potenza militare mondiale e, dall’altro, l’Ucraina sostenuta, armata e finanziata da ben 40 Paesi, difficilmente porterà ad una netta vittoria sul campo.

In tal senso risultano molto eloquenti le dichiarazioni rilasciate in una intervista al Financial time dal Capo di Stato maggiore Usa, generale Mark Milley in base alle quali “né la Russia, né l’Ucraina saranno in grado di vincere la guerra e che il conflitto terminerà solamente ad un tavolo negoziale“, perché “sarà praticamente impossibile per i russi raggiungere i loro obiettivi ed è improbabile che la Russia riesca a conquistare l’Ucraina. Non succederà. Ed molto, molto difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Putin nei loro territori”. E quella di Malley, fra i vertici militari occidentali, non risulta l’unica voce in tal senso.

Il conflitto viene quindi procrastinato ad oltranza, sulla pelle del popolo ucraino, per meri interessi geopolitici: la Russia non vuole basi militari a ridosso del proprio territorio ed dichiara di voler tutelare la propria sicurezza nazionale, dall’altra gli Stati Uniti e la Nato, i quali come ha dichiarato l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare, generale Antonio Tricarico “evidentemente non vogliono la pace e so quello che dico. Biden non vuole la pace e se non la vuole lui non la vogliono tutti gli altri”, specificando che Stoltemberg fa da “cassa di risonanza di Biden”. Tricarico conclude l’intervista a Tagadà su la 7 affermando che “Biden vuole vedere Putin nella polvere. Doveva restare a casa sua senza muoversi più [ ] invece questo attivismo in Siria e nel Mediterraneo ha dato fastidio perché ha riempito gli spazi che gli Stati Uniti hanno lasciato vuoti34.

Le inequivocabili affermazioni del generale Tricarico confortano la nostra analisi in merito alla genesi del conflitto in Ucraina che da tempo abbiamo inquadrato nella strategia Usa di affrontare separatamente le due potenze mondiali che la stanno insidiando, ognuno nel proprio settore di forza, al vertice del potere unipolare mondiale: la Russia in campo militare, impegnata ad ampliare la propria sfera d’influenza in Africa e Medio Oriente e riconquistare il ruolo di superpotenza che fu dell’Urss e la Cina, seconda potenza economica mondiale in rapida ascesa, a cui gli Usa cercano di rallentarne la crescita. A proposito del Gigante asiatico, in tale chiave va interpretata la guerra commerciale scatenata da Trump e quella di Biden sui microchip, come d’altronde le visite di alti esponenti politici Usa a Taiwan che stanno facendo salire la tensione diplomatica e militare nel Mar Cinese Meridionale.

La decisa escalation militare in cui si sta avvitando nelle ultime settimane la guerra in Ucraina sta destando forti preoccupazioni in vasti settori dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, oltre che in alcune forze politiche di sinistra che si riconoscono nei valori della pace e si oppongono all’invio di armi. In particolare l’organizzazione politica spagnola Podemos si è fatta promotrice il 19 febbraio, in contemporanea con la Conferenza di Monaco, di una Conferenza per la pace europea a Madrid nella quale la sua leader, Iole Bellarra, ha dichiarato senza mezzi termini ai convenuti che “l’escalation bellica ci trascina tutti a fondo”. La stessa leader ha concluso il suo intervento, molto applaudito dai presenti e dagli esponenti di circa venti formazioni politiche di sinistra europee convenuti, affermando che “la Spagna può diventare parte della soluzione e smettere di essere parte del problema [..] Non vogliamo vedere Madrid mandare truppe per nessuna guerra pianificata dai potenti di altri Paesi, ed è proprio lì che ci sta portando l’irresponsabilità di alcuni”.

L’inequivocabile messaggio della leader di Podemos per riuscire a far cambiare rotta al governo di Sanchez, del quale è componente essenziale, in merito all’invio delle armi all’Ucraina ad oltranza, necessita di essere sostenuto da un significativo movimento popolare che porti avanti una visione alternativa e spinga alla soluzione negoziale del conflitto.

Crediamo sia assolutamente necessario che a 20 anni esatti dalle grandi manifestazioni nelle principali città mondiali, che portarono in piazza ben 110 milioni di persone e 3 milioni a Roma, in quella che è passata alla storia come la più imponente mobilitazione della storia contro la guerra, il movimento per la pace si mobiliti per contrastare la deriva militarista senza fine.

Occorre che la maggioranza dell’opinione pubblica europea, che è bene ricordarlo è contraria alla guerra e a nuovi invii delle armi, faccia sentire in modo chiaro e deciso la sua voce presso i propri governi per spingerli alla trattativa e alla ricerca di una via negoziale al conflitto, al cui scopo potrebbe risultare utile il Piano di pace diffuso il 24 febbraio dal ministero degli Esteri cinese, al termine del lungo tour europeo del capo della diplomazia del Partito Comunista Cinese, Wang Yi, durante il quale è stato richiesto da più parti alla Cina di farsi promotrice di un’azione diplomatica per porre fine alla guerra. Il documento articolato in 12 punti, fra le varie, propone il cessate il fuoco e una soluzione politica, precisando che il dialogo “è l’unico modo per risolvere” la crisi e che è necessario “prevenire la proliferazione nucleare ed evitare una crisi nucleare” e che la Cina si oppone “a qualsiasi sanzione unilaterale non autorizzata dall’Onu e allo sviluppo di armi biologiche e chimiche” da parte di qualsiasi Paese.

Quando i vertici politici sembrano aver smarrito il lume della ragione, è necessario che i popoli, veri vittime delle guerre, scendano in campo e si trasformino in soggetti politici in grado di indirizzare l’operato di governi che al di là dei proclami, risultano in realtà assoggettati ai dettami atlantisti e incapaci, non solo di arrestare la sempre più pericolosa escalation, ma anche di tutelare gli interessi delle proprie popolazioni.

Andrea Vento – 3 marzo 2023

Gruppo insegnanti di Geografia Autorganizzati

Carta 1: votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu di condanna dell’invasione russa del 3 marzo 2022

Carta 2: gli stati applicano (in rosso) e che non applicano (in celeste) le sanzioni alla Russia

NOTE

1 https://www.adnkronos.com/ucraina-von-der-leyen-decimo-pacchetto-sanzioni-per-indebolire-macchina-guerra-russa_2RpWD7rqkyRoUHu0CYTsgs?refresh_ce

2 https://www.focus.it/comportamento/economia/default-Russia-putin-conseguenze-economia-mondiale

https://it.euronews.com/2022/03/03/russia-lo-spettro-del-default-rublo-sempre-ai-minimi-storici-e-debito-declassato-a-spazzat

3 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2023/01/31/world-economic-outlook-update-january-2023#Overview

4 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/tutti-i-buchi-delle-sanzioni-alla-russia-34533

5 https://www.nigrizia.it/notizia/la-russia-espande-la-sua-influenza-in-africa

6 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2022%3A230%3AFIN&qid=1653033742483

7 https://www.infomercatiesteri.it/scambi_commerciali.php?id_paesi=88#

8 Solo per il gas importato tramite il gasdotto che arriva al Tarvisio l’import dalla Russia è passato da 29,1 miliardi di m3 del 2021a 11,2 del 2022, una riduzione pari al 61%

9 https://www.istat.it/it/archivio/278879

10 https://www.istat.it/it/archivio/276683

11 https://www.istat.it/it/archivio/280321

12https://www.istat.it/it/archivio/281464

13 https://www.soldionline.it/notizie/macroeconomia/inflazione-europa-2022#:~:text=IL%20DATO%20DI%20OTTOBRE%202022,dello%20stesso%20mese%20del%202021.

14 https://www.agi.it/economia/news/2023-03-02/eurozona-inflazione-febbraio-in-leggero-calo-20324969/

15 https://luce-gas.it/guida/mercato/ttf-gas

16 https://www.milanofinanza.it/news/la-bce-alza-i-tassi-di-50-punti-pronto-un-altro-aumento-di-mezzo-punto-anche-a-marzo-202302021421332292

17 Secondo i dati dell’Agenzia dell’Ue per la cooperazione tra i regolatori dell’energia, al 24 febbraio 2022, la Germania importava il 49% del gas dalla Russia e l’Italia il 46%.

18 https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-08-09/russia-more-than-triples-current-account-surplus-to-167-billion

19 https://www.rainews.it/maratona/2023/02/guerra-in-ucraina-la-cronaca-minuto-per-minuto-giorno-358-252f6161-3a2c-4097-ac75-204d39adc579.html

20 https://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2023/02/14/pil-eurozona-01-nel-quarto-trimestre-in-italia-01_a0457ad0-ff9c-47c7-82c7-909795361405.html

21 https://www.borsaitaliana.it/borsa/notizie/radiocor/prima-pagina/dettaglio/bilancia-commerciale-istat-deficit-di-31-miliardi-nel-2022-rco-nRC_16022023_1020_228211763.html

22 https://www.tag24.it/433153-italiani-poverta-assoluta-poveri-2023-numeri-quanti-sono-statistiche/

23 https://www.affarinternazionali.it/vertice-ramstein-aiuti-militari-ucraina/

24 https://cambiailmondo.org/2023/01/30/la-crisi-della-sanita-italiana-dalla-riforma-del-titolo-v-alle-soglie-della-pandemia/

25 https://www.rainews.it/articoli/2023/01/media-gli-usa-inclini-ad-inviare-i-loro-potenti-carri-armati-abrams-in-ucraina-5c0300da-866f-444d-a351-b7ea5128259a.html

26 https://www.limesonline.com/notizie-mondo-oggi-26-gennaio-guerra-ucraina-russia-abrams-leopard-polonia-usa-cina-australia/130847#:~:text=I%2031%20carri%20armati%20americani,prevista%20nuova%20offensiva%20russa%20di

27 https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2023/02/16/nessuno-puo-vincere.-ne-e-convinto-il-capo-di-stato-maggiore-degli-usa_578c59ad-8c10-4cc2-ab51-0e15ee85b29a.html

28 https://www.analisidifesa.it/2022/12/la-guerra-logora-anche-chi-non-la-fa/

29 https://www-ifw–kiel-de.translate.goog/topics/war-against-ukraine/ukraine-support-tracker/?cookieLevel=not-set&_x_tr_sl=en&_x_tr_tl=it&_x_tr_hl=it&_x_tr_pto=sc

30 https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/02/14/ucraina-stoltenberg-la-guerra-non-e-iniziata-a-febbraio-dal-2014-la-nato-ha-supportato-kiev-con-addestramenti-ed-equipaggiamenti/7065190/

31 https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2023/02/14/prigozhin-bakhmut-non-sara-catturata-tanto-presto_bc0008bc-d55f-4abf-95fd-aa2b3c04b16d.html

32 https://www.limesonline.com/notizie-mondo-questa-settimana-guerra-ucraina-russia-monaco-ue-motori-india-bbc-kenya-sudafrica-usa-cina/131177

33 https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/02/21/cosa-prevede-il-trattato-new-start-tra-usa-e-russia_79ca06d7-dd18-4763-9dd6-a908bf09af60.html

34 ltempo.it/attualita/2022/04/11/news/guerra-russia-ucraina-generale-tricarico-tagada-joe-biden-vuole-putin-nella-polvere-nato-stoltenberg-confine-est-ridicolo-31176551/

Sulla Moldavia soffiano forti venti di guerra. Qual è la situazione fattuale nell’area

a cura di Enrico Vigna

Dall’ascesa al potere della atlantista, antirussa e sorosiana Maia Sandu, un intreccio di provocazioni, minacce e politiche incendiarie, riguardanti, prima la contraddizione inerente la Pridnestrovie e ora l’arruolamento al fianco della NATO e del governo golpista di Kiev, stanno rendendo il paese una situazione esplosiva.

A giudicare dalla continua attivazione delle forze armate ucraine in direzione della Pridnestrovie, gli sponsor occidentali del regime golpista di Kiev hanno deciso di accelerare risolutivamente la questione con questa piccola Repubblica, cercando così di liquidare questa “anomalia” per Moldavia e Ucraina. Effettivamente, la decisione di liquidare la Repubblica Moldava Pridnestroviana (PMR) era stata presa negli Stati Uniti qualche tempo fa, come rilevato dall’inizio della preparazione militare delle Forze Armate dell’Ucraina. Ma con il discorso bellicista di Biden a Varsavia la scorsa settimana, le dinamiche militari stanno marciando.

La posizione di questa enclave sembra militarmente disperata, ma in determinate circostanze tutto può cambiare radicalmente. Sicuramente una simile dinamica allargherebbe la crisi ucraina portandola sempre più verso occidente, con tutto ciò che ne comporterebbe di conseguenza, in tutti i campi.

Stante la situazione incandescente nella regione, il 14 febbraio scorso l’attuale presidente dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), il ministro degli Affari esteri della Macedonia del Nord, B. Osmani, si è recato a Chisinau e Tiraspol, per cercare di stemperare i toni di guerra, che ormai permeano, negli ultimi mesi le dichiarazioni del governo moldavo, tenendo riunioni ufficiali su entrambe le sponde del Dniester, ha invitato Moldavia e Pridnestrovie a riprendere i negoziati in formato bilaterale e nel formato internazionale 5 + 2 (Moldavia, Pridnestrovie, OSCE, Russia, Ucraina e osservatori degli Stati Uniti e dell’UE), che non si tiene dall’anno 2019, e ha anche espresso la disponibilità ad aiutare a organizzare un simile incontro a Skopje, pur dichiarandosi molto preoccupato per la provocante “legge sul separatismo” moldava, che complica ulteriormente i rapporti tra Chisinau e Tiraspol. Infatti è stata presentata al parlamento moldavo, una proposta di legge per inserire nel codice penale della Moldavia, un articolo “sul separatismo“, insieme ad altre appendici arroganti, direttoa non solo contro i pridnestroviani, ma anche contro la regione autonoma della Gagauzia, contro qualsiasi forza di opposizione e cittadini dissidenti, che attualmente vengono dati a quasi il 70% della popolazione in Moldavia (naturalmente esclusa la diaspora), la Sandu temporeggia per la firma la legge e nel dispiega un apparato repressivo, perché è cosciente che potrebbe essere un azzardo e trovarsi il paese contro.

Dopo le continue provocazioni e atti ostili delle autorità di Chisinau in questi mesi contro la Pridnestrovie, che sono indirizzati verso una guerra, la Russia ha approvato un decreto che annullava la decisione del 2012, che implicava, tra l’altro, “la partecipazione attiva alla ricerca di modi per risolvere il problema della Transnistria basati sul rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dello status neutrale di la Repubblica di Moldavia nel determinare lo status speciale della Transnistria “, che fino ad oggi era stata mantenuta come posizione diplomatica e di compromesso per favorire forme negoziali e pacifiche.

E’ ormai evidente a tutti gli esperti e osservatori, anche occidentali, che le autorità moldave, sotto mandato della NATO, stanno deliberatamente fomentando un conflitto con la Transnistria per coinvolgervi la Russia. Il giorno prima di questo decreto, il presidente dell’Ucraina Zelensky aveva fatto l’ennesimo tentativo di coinvolgere la Moldavia in uno scontro militare con la Russia, rilasciando una serie di dichiarazioni sul un imminente colpo di stato armato in Moldavia “con la partecipazione di cittadini di Russia, Bielorussia, Serbia e Montenegro”, e sul desiderio di Mosca di sequestrare l’aeroporto di Chisinau e utilizzarlo come base di trasbordo, subito rilanciato dal governo europeista moldavo, creando anche il panico nella popolazione, tranne che poi nei giorni seguenti, la Sandu ha dovuto fare scuse ufficiali alle autorità di Serbia e Montenegro. L’opposizione del paese denuncia che la presidente Sandu e il nuovo primo ministro Dorin Recean, non sono politici sovrani, ma sono governati dagli Stati Uniti, e Washington cerca di indebolire la posizione della Russia aprendo un “secondo fronte” in Moldavia”, scrivono molti giornali e media russi.

Che tutto sia pronto per il braccio di ferro lo testimonia anche la dichiarazione del nuovo ministro dell’Energia della Moldavia, Viktor Parlikov, che ha annunciato l’intenzione del governo moldavo di rivedere tutti gli accordi con la russa Gazprom e la Moldavskaya GRES, situata in Pridnestrovie. La visita di 19 deputati del partito di governo Azione e Solidarietà all’ufficio dell’Alleanza NATO a Bruxelles è la dimostrazione che la dirigenza della Moldavia ha intrapreso con forza la rotta verso l’abbandono della neutralità e l’adesione alla NATO. Il deputato della fazione al potere, Mihai Popsoi, ha affermato che la maggioranza del popolo moldavo non vuole entrare nella NATO perché “avvelenato dalla propaganda russa “.

In questa fase si sta dipanando una situazione aggrovigliata, da un lato ci sono le strategie di Stati Uniti, NATO, UE e Russia, attori visibili della crisi locale, che a parole sostengono il formato 5 + 2, ma dietro le quinte sta lavorando l’intelligence britannica, che sta giocando una partita a sé, pur non facendo parte in alcun modo del format 5+2.

La domanda di ogni attento osservatore e conoscitore dell’area è: quanto è forte l’influenza di Londra nella regione. Si sa del potenziale della diplomazia americana, l’influenza della Germania che è sempre stata piuttosto forte e nel 2022 anche la Francia si è ricavato un ruolo significativo nella realtà moldava. Un dato è certo e da tenere in considerazione, gli inglesi lavorano in Moldavia da decenni. Inoltre, svolgono questo lavoro principalmente “sotto traccia” e non cercano pubblicità. Molti esperti hanno sottolineato che oggi l’interesse di Londra è l’espansione della zona di conflitto nella regione, perché questo indebolirebbe l’Europa e farebbe aumentare il peso della Gran Bretagna. In questo disegno ha due alleati chiave: Polonia e Ucraina, ed ora anche l’attuale governo di Chisinau, si è orientato verso questa prospettiva, che coincide pienamente con gli interessi degli inglesi. Anche se molti settori delle elite e potentati finanziari anche del partito PAS, non sembrano voler combattere con la Transnistria e la Russia. Ultimamente gli inglesi hanno visitato Chisinau, probabilmente per spingere fortemente la Sandu verso la guerra. 

Casualmente il nuovo Primo Ministro della Moldavia, Dorin Recean, ha più volte affermato la necessità della “smilitarizzazione” della Transnistria: “..questa regione ha bisogno di smilitarizzazione e la popolazione ha bisogno di integrazione sociale ed economica con la Moldavia. Non possiamo chiudere un occhio davanti al pericolo. Abbiamo bisogno della smilitarizzazione della Transnistria, della smilitarizzazione della popolazione locale…”.

Ma la domanda non retorica ma sostanziale, è possibile smilitarizzare la Transnistria con mezzi pacifici senza iniziare una guerra, come sostiene il nuovo capo del governo moldavo? 

Il problema principale di Chisinau, è che da sola non è in grado di svolgere tale compito. La sicurezza della RMP è fornita dalle proprie forze armate, oltreché da un contingente limitato di militari e caschi blu russi.

Ma teoricamente, è possibile, se si costringesse, magari corrompendola, la leadership della Pridnestrovie a una qualche forma di vergognosa capitolazione. Ma il popolo pridnestroviano non accetterà mai una simile capitolazione, forse a Washington e Kiev credono che la leadership della RMP possa imporre con la forza qualsiasi sua volontà al popolo, ma questa è un’illusione, data la coesione della popolazione locale. Inoltre, Tiraspol, come ormai nel resto del mondo, sanno bene che non ci si può fidare di nessuna promessa fatta in Occidente, avendo osservato le vicende del Donbass negli otto anni fino al 2022, sanno benissimo che con l’arrivo dei battaglioni neonazisti ucraini, non ci sarebbe pietà per nessuno, se fossero lasciati senza protezione di fronte ad essi, che ritengono, come in Ucraina, la popolazione filo-russa come “collaboratori”.

Ecco allora che si paventano alcuni scenari possibili, uno è quello indicato dal capo del dipartimento dell’Istituto dei Paesi della CSI, Kirill Frolov, secondo cui Mosca non avrebbe altra scelta che riconoscere immediatamente la Repubblica Moldava Pridnestroviana: “La minaccia di genocidio di oltre 200.000 cittadini russi che vivono in Transnistria è una realtà. Inoltre, la Russia non ha altra scelta dopo la pubblica dichiarazione di guerra alla Russia da parte di Biden, che ha annunciato il 21 febbraio di un processo a Putin e alla leadership della Russia. Ma ci sono forti motivi legali per riconoscere la RMP, come una serie di referendum già effettuati per la riunificazione con la Russia“, ha detto in un commento per i media.

La dimensione dell’esercito pridnestroviano è stimata in circa 10.000 militari, la riserva di mobilitazione civile è di circa 80mila persone. La base delle forze armate della Repubblica sono quattro brigate di mezzi motorizzati, tra cui una unità di elite, tre battaglioni di mezzi con mitragliatrici di quattro compagnie ciascuno, oltre a una batteria di mortai, un plotone del genio militare e altre unità speciali, con quattro battaglioni e varie unità di supporto.
Va sottolineato che l’armamento non è di livello modernizzato. Solo circa 20 carri armati sono di livello alto, poi ci sono da 100 a 200 autoblindo corazzati, alcune decine di cannoni trainati e semoventi, un gran numero di mortai e da circa 40 lanciarazzi multipli BM-21. La fanteria è dotata  di lanciagranate con propulsione a razzo e sistemi anticarro. Il sistema di difesa aerea è rappresentato da vecchie installazioni ZSU-23-4 e MANPADS, quindi si può dire abbastanza sorpassati.
Il numero del gruppo operativo delle Forze speciali russe di pace presenti in Transnistria è stimato in circa 2/3 mila militari.  Il contingente russo non dispone di capaci moderni sistemi di difesa aerea e armi da attacco pesante, la possibilità della loro consegna all’enclave, fu bloccata già molto tempo fa da Chisinau e Kiev. In caso di attacco con aerei d’attacco, con o senza equipaggio, nonché lanciarazzi MLRS a lungo raggio,


Con tale armamenti le forze di terra pridnestroviane, verrebbero spazzate via quasi senza rischi e grandi perdite dagli invasori ucraini. Mentre va sottolineato che la Moldavia non ha tali possibilità.
Infatti il problema vero è al confine della RMP con l’Ucraina, dove si sono concentrati in queste ultime settimane forze speciali d’urto delle forze armate ucraine con un numero stimato di oltre 20.000 militari, in gran parte formate dai neonazisti integrati nell’esercito ucraino e questo è osservato con forti preoccupazioni a Tiraspol e non solo. Ma per la Pridnetrovie esiste la possibilità di salvezza per i depositi della base militare di Kolbasna, di cui tratterò specificatamente.

Quali sono gli scenari possibili, secondo analisti ed esperti militari sul campo?

Sulla base della situazione indicata sopra, uno scenario è quello che le truppe locali e le forze di pace russe possono riescano ad organizzarsi con l’obiettivo di evitare perdite di civili, utilizzando la potenzialità distruttrice presente nei depositi di Kolbasna con ogni sorta di armamento lì accumulato dai tempi dell’URSS. Oppure resistere alle forze armate ucraine numericamente superiori, unificando il comando tra le forze russe e l’esercito pridnestroviano, che avrebbe costi umani elevatissimi. 
Nei fatti la domanda è, come in pratica sia possibile garantire la sicurezza della RMP, se l’Ucraina attacca realmente con l’obiettivo predominante di distruggerla. Secondo gli osservatori e militari, prima di tutto la Transnistria deve pensare alla propria salvezza contando sul coinvolgimento della Russia in caso di attacco ucraino. Per questo nelle analisi sui media di studi militari russi si ritiene che Tiraspol deve, in primo luogo  iniziare subito a mobilitarsi, chiamando sotto le armi chiunque sia in grado di combattere.
In secondo luogo, sempre secondo scenari ipotizzati dagli esperti militari, il Ministero della Difesa della Federazione Russa dovrebbe concentrarsi con attacchi preventivi contro il raggruppamento delle forze armate ucraine al confine con la Pridnestrovie, attaccandone i depositi e altre infrastrutture , per mettere fuori combattimento e disorganizzare il più possibile il colpo d’urto ucraino prima che attacchi la RMP.
In terzo luogo se il regime di Kiev decidesse comunque di intraprendere azioni aggressive contro Tiraspol , questa avrà il diritto di considerarsi in stato di guerra con l’Ucraina, con tutte le conseguenze che ne conseguono sul piano di alleanze ed accordi internazionali.

Un dato è certo dovesse concretizzarsi questa aggressione i costi in vite umane sul terreno, saranno altissimi, con il risultato che la Russia dovrà sicuramente forzare le sue strategie e dare priorità all’avanzata verso Odessa e la costa, per il semplice fatto che dal confine meridionale della RMP all’estuario del Dniestr nel Mar Nero, la distanza in linea retta è di soli 30 chilometri. 


Naturalmente resta la possibilità (…e la speranza) che NATO, USA e i paesi occidentali, veri attori della crisi ucraina, fermino questo scenario devastante di allargamento del conflitto, anche perché sia Chisinau che Kiev, stanno giocando con il fuoco e con la loro distruzione dispiegata.

Enrico Vigna – IniziativaMondo Multipolare/CIVG

1 marzo 2023

La liquidazione dell’eredità della rivoluzione come ideologia dell’invasione russa

di Andrij Movčan

21 febbraio 2023

Anno 1991, Leningrado. Ufficio personale del vicesindaco della città. Il corrispondente di un canale televisivo cittadino intervista un giovane funzionario della squadra di Anatolj Sobčak. Sullo schermo compare un uomo dal viso infantile in camicia bianca. Alle sue spalle si vedono le tapparelle, una TV, una lampada da tavolo, un telefono, cartelle aperte con documenti. Il tipico ambiente di un ufficio sovietico. Però manca qualcosa. La voce fuori campo del giornalista riferisce che ieri ha visto un busto di Lenin in questo ufficio, ma oggi non c’è più. Cos’è successo?

«Difficile dire cos’è successo. Perché dev’essere stato portato via da uno dei miei assistenti, — risponde il funzionario. — Se le interessa la mia opinione su quest’uomo, sulla dottrina che rappresentava, allora direi […] che tutto era solo una bella favola nociva. Nociva, perché la sua attuazione, o il tentativo di attuarla, nel nostro Paese ha causato danni enormi. A questo proposito, vorrei parlare della tragedia che stiamo vivendo oggi. Vale a dire, la tragedia del collasso del nostro stato. Non si può chiamarla in altro modo, se non tragedia. Penso che siano stati gli autori dell’ottobre 1917 a piazzare una bomba a orologeria sotto l’edificio di uno stato unitario, che si chiamava Russia. Cosa hanno fatto? Hanno diviso la nostra patria in feudi separati, che prima non apparivano affatto sulla carta geografica, hanno dotato questi feudi di governi e parlamenti, e ora abbiamo quello che abbiamo […] È in gran parte colpa di quelle persone, che lo volessero oppure no».

Il funzionario dell’ufficio del sindaco di San Pietroburgo che attaccava l’eredità della rivoluzione e la persona di Lenin con critiche così devastanti era il 39enne Vladimir Putin. In seguito, avendo già assunto la carica di Presidente della Federazione Russa, avrebbe ripetuto più volte nelle sue interviste e nei suoi discorsi l’idea che il crollo dell’Unione Sovietica sia stata “la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo”, e che i colpevoli di questa catastrofe siano stati degli avventurieri rivoluzionari che sognavano di realizzare i loro progetti utopici a qualsiasi prezzo, o meglio, al prezzo dello smantellamento della preesistente statualità russa.

Putin ha ripetuto lo stesso concetto nel suo discorso programmatico del 21 febbraio 2022, in cui sono stati proclamati i fondamenti ideologici dell’invasione dell’Ucraina iniziata tre giorni dopo.

«Dunque, inizierò con il fatto che l’Ucraina moderna è stata interamente creata dalla Russia, e più precisamente dalla Russia bolscevica e comunista. Questo processo iniziò quasi immediatamente dopo la rivoluzione del 1917, e Lenin e la sua banda lo realizzarono in modo molto rude nei confronti della Russia stessa, strappando e separando dal paese parte dei suoi territori storici».

«I bolscevichi sacrificano la Russia all’Internazionale» — caricatura bianca (monarchica), 1918-1919

Perché è stato scelto il 1917 come punto di partenza di questa escursione storica? Perché non il lontano passato o, al contrario, alcuni eventi più vicini al presente? La rivoluzione è stata un punto di svolta che, secondo Putin, ha determinato le sfide che la Russia deve affrontare in questo momento. E Putin stesso si sente in qualche modo predestinato ad affrontarle.

Ma cosa ha significato la rivoluzione? Putin in seguito approfondisce questo argomento. La rivoluzione ha infranto un dato millenario ordine incrollabile delle cose: l’Impero russo «unito e indivisibile». Ha abolito improvvisamente le secolari conquiste territoriali dell’impero, dando ai popoli conquistati il diritto all’autodeterminazione. Ecco il suo principale «peccato».

«…Le idee di Lenin di un sistema statale confederale e la parola d’ordine sul diritto delle nazioni all’autodeterminazione fino alla secessione, sono state, infatti, la base della statualità sovietica, — dice Vladimir Putin. — … Molte domande sorgono immediatamente qui. E la prima, anzi la principale, è questa: era proprio necessario soddisfare le ambizioni nazionaliste illimitate che si andavano diffondendo alla periferia dell’ex impero? […] e ancora, dare persino alle repubbliche il diritto di separarsi dallo stato unitario senza alcuna condizione?»

Sembra che Putin non capisca, o finga di non capire, che il problema più acuto delle oppresse “periferie nazionali” dell’Impero russo è stato uno dei fattori trainanti di tutte e tre le rivoluzioni del primo Novecento. L’ordine della Russia imperiale era diventato obsoleto e le modifiche necessarie non potevano aggirare la questione nazionale, che richiedeva anch’essa una soluzione. Le contraddizioni che si erano accumulate nel 1917 non sollevavano affatto la questione di come e perché preservare lo stato «unito e indivisibile», ma sul fatto che l’impero si dovesse dividere in un certo numero di stati-nazione o dovesse pensare condizioni di convivenza tra le nazioni fondamentalmente nuove e molto più paritarie.

«Abbasso l’aquila!», dipinto di Ivan Vladimirov, 1917

I rivoluzionari di quei tempi credevano sinceramente nella possibilità di un nuovo mondo senza oppressione, ed anche senza oppressione imperiale da parte di alcuni popoli sugli altri, e con la loro lotta cercavano di avvicinare questo mondo. Per Putin invece il riconoscimento della soggettività dei popoli dell’ex impero rappresentava lo sperpero di territori conquistati in seguito a secoli di guerre di aggressione. Per i rivoluzionari si trattava di qualcosa di completamente opposto: la risoluzione delle urgenti contraddizioni nate in seguito a quelle stesse conquiste. La liberazione dei popoli dall’oppressione imperiale era per i rivoluzionari l’incarnazione delle loro idee e convinzioni su una nuova società libera dai resti del passato.

«…I principi di costruzione dello stato di Lenin si sono rivelati non solo un errore, ma, si può dire, molto peggio di un errore. Dopo il crollo dell’URSS nel 1991, questo è diventato assolutamente evidente, — dice Putin, — come risultato della politica bolscevica, è nata l’Ucraina sovietica, che ancora oggi può essere giustamente chiamata “Ucraina firmata Vladimir Il’ič Lenin”. Ne è stato l’autore e l’architetto».

Ovviamente Lenin non ha creato l’Ucraina. L’Ucraina, i suoi movimenti politici e di massa a quel tempo erano già diventati un fattore reale non solo nella politica russa ma anche internazionale. Riconoscendo all’Ucraina la sua soggettività e il diritto all’autodeterminazione, Lenin ha riconosciuto solo lo stato di cose effettivo, che era già impossibile ignorare. E Putin non può perdonare questo al leader dei bolscevichi.

Senza il riconoscimento della soggettività ucraina e il diritto all’autodeterminazione, difficilmente sarebbe stato possibile ricomporre i territori dell’ex impero in un’unica entità statale. Lenin lo capiva molto chiaramente. È significativo che nella sua bozza di un nuovo stato la stessa parola “Russia” non fosse nemmeno presente: la nuova associazione era chiamata unione delle repubbliche, dove alla repubblica russa era stato effettivamente assegnato lo stesso posto degli altri membri dell’unione. Niente doveva ricordare il passato imperiale. Senza concedere all’Ucraina ampi diritti nazionali, sarebbe stato possibile mantenerla in una sorta di «Grande Russia», che Putin sogna retrospettivamente, solo con la forza bruta. E sarebbe poi stato veramente possibile?

«La Russia zarista come prigione dei popoli. Le aspirazioni predatorie dell’imperialismo zarista», carta proveniente dai materiali dell’Istituto Izostat: « Album di diagrammi, carte, cartogrammi e schemi per l’insegnamento di Lenin sull’imperialismo». Izogiz, 1936

È interessante notare che nel suo discorso del 21 febbraio Putin attacca in modo più aggressivo proprio i primi anni del potere sovietico, quando le idee rivoluzionarie erano fresche, le persone erano piene di entusiasmo e la politica, come mai prima o dopo, era guidata da principi e ideali, e non da cinico calcolo. Allo stesso tempo, Putin accoglie in ogni modo possibile l’allontanamento dai principi proclamati dalla rivoluzione ai tempi di Stalin come un ritorno a un certo «ordine naturale delle cose»:

«…la vita stessa ha subito dimostrato che preservare un territorio così vasto e complesso, o gestirlo secondo i principi proposti, amorfi, appunto confederali, era semplicemente impossibile. […] [Gli eventi successivi hanno trasformato] in una semplice dichiarazione, in una formalità, i principi dichiarati, ma non funzionanti, della struttura statale. In realtà le repubbliche dell’Unione non possedevano alcun diritto sovrano, semplicemente questi non esistevano. Nella pratica è stato creato uno stato rigorosamente centralizzato, assolutamente unitario».

Successivamente alle idee rivoluzionarie dell’uguaglianza tra le nazioni, Putin vede un ritorno alla buona vecchia Russia «una e indivisibile», e ovviamente questo gli piace. Ma un ritorno completo non era ormai più possibile. La «peste rivoluzionaria» era stata posta da Lenin alle fondamenta stesse della nuova statualità.

«Ed è un peccato, è un peccato che dalle basi fondamentali, formalmente legali su cui è stata costruita la nostra intera statualità, non siano state eliminate in tempo le fantasie odiose e utopiche ispirate dalla rivoluzione, assolutamente distruttive per qualsiasi paese normale».

Raccolta di articoli di Vladimir Lenin sulla questione nazionale. Politizdat, 1969

È difficile capire cosa sia per Putin un «qualsiasi paese normale». Se si parla di imperi coloniali basati su sanguinose conquiste e sottomissione di altri popoli, allora tali stati difficilmente possono essere definiti normali o addirittura in grado di continuare a funzionare nelle attuali condizioni storiche.

La prima guerra mondiale pose fine a quattro grandi imperi: quello ottomano, quello austro-ungarico, quello tedesco e quello russo. Dopo la seconda guerra mondiale, tutti quelli che erano sopravvissuti cessarono di esistere (gli imperi britannico, francese, portoghese, belga, olandese e giapponese). No, l’imperialismo in senso leninista non è scomparso: la sua forma coloniale-imperiale è stata sostituita da forme più sofisticate di influenza e controllo non territoriali.

L’unico stato gigantesco che ha ereditato quasi tutte le conquiste territoriali del precedente impero è stata l’Unione Sovietica con il suo famoso ⅙ della superficie terrestre. Ma la possibilità di ricomporre e mantenere questa unità statale per altri 70 anni non è avvenuta grazie alla concezione imperiale, bensì, al contrario, grazie al suo rifiuto.

L’idea di un’unione di repubbliche socialiste consisteva proprio nel fatto che i lavoratori di popoli diversi si unissero volontariamente in tale alleanza per raggiungere insieme obiettivi comuni: costruire una nuova società senza sfruttamento e oppressione. Inoltre, il modello pensato da Lenin presupponeva la possibilità di espandere questa unione. Secondo la sua idea, le nuove repubbliche dove la rivoluzione avesse vinto, avrebbero potuto aderire all’unione, e la Russia storica non avrebbe dovuto necessariamente rimanere il perno dell’unione. La stessa Germania avrebbe potuto diventarne il centro, se vi avesse trionfato la rivoluzione proletaria. Come risultato, Lenin aspirava ad un’unione di repubbliche su scala mondiale.

Russia – URSS – URSS Mondiale: raccolta. Autori: soldati dell’Armata Rossa e lavoratori stranieri; Profizdat, 1932

Inoltre, la creazione dell’URSS nel formato del 1922 non era inclusa nei piani originali dei bolscevichi. La sua fondazione è stata il risultato del fallimento delle aspettative iniziali, ovvero la rivoluzione mondiale. Il fatto che la rivoluzione proletaria sia stata sconfitta in Europa e abbia avuto successo solo sul territorio dell’ex impero russo è la principale tragedia del progetto socialista del XX secolo. Infatti, insieme al territorio dell’ex impero, l’URSS ha ereditato molte contraddizioni e problemi di difficile soluzione insiti nel progetto politico statuale attivo precedentemente su queste terre.

La realizzazione del progetto socialista entro i confini dell’ex impero russo naturalmente, sebbene non inevitabilmente, portò al fatto che sia all’interno che all’esterno l’URSS cominciasse a essere percepita come una sorta di erede e continuazione dello stato russo. La conseguenza di ciò fu il ripetersi delle contraddizioni nazionali: ad un certo punto il governo centrale iniziò a percepire il rafforzamento delle culture nazionali e l’indipendenza delle repubbliche come una minaccia all’unità del progetto, e invece la cultura russa e la continuità statale come una sorta di solide fondamenta.

Queste tendenze si sarebbero verificate se i confini dello Stato socialista avessero preso forma in altre configurazioni e non fossero stati simili a quelli della preesistente Russia imperiale? Probabilmente sarebbe stata una storia completamente diversa. Ma nel caso dell’URSS, è accaduto che diverse generazioni di persone sia in patria che all’estero sono cresciute con la convinzione che «Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche» e «Russia» fossero praticamente sinonimi. Putin è uno di questi.

«Dopotutto, cos’è stato il crollo dell’Unione Sovietica? È stato il crollo della Russia storica, definita come Unione Sovietica» — ha dichiarato Vladimir Putin nel documentario «Russia. Storia recente» nel dicembre 2021.

Forse l’unico aspetto positivo che Putin vede nel progetto sovietico è che si è realizzato nei confini dell’ex impero russo e col tempo, allontanandosi dai principi «utopistici» originali, ha acquisito nuovamente alcune delle caratteristiche preesistenti, diventando l’erede della statualità russa. In altre parole, egli esalta proprio i tratti più reazionari acquisiti dall’URSS nel corso della sua complessa formazione. E critica proprio le idee su cui si basava l’unione: uguaglianza e fratellanza tra tutti i popoli, genuino internazionalismo, odio per l’autocrazia e il potere aristocratico, odio per le guerre di conquista e di predazione, un autentico spirito democratico che avrebbe dato accesso alla politica a masse di milioni di persone.

È interessante notare che la vittoria dell’Unione Sovietica sulla Germania nazista, nelle interpretazioni su cui è costruito il moderno mito nazionale russo, non sia per Putin una vittoria delle idee di umanesimo ed egualitarismo sulle idee di radicale anti egualitarismo ed anti umanesimo, non sia una vittoria della vittima dell’aggressione sull’aggressore. Nell’attuale mitologia dello stato, questa è la vittoria della «Russia storica» sulla Germania, sull’Europa, sull’Occidente. Un trionfo della statualità russa e l’espansione dei suoi confini. Proprio come la rivoluzione e l’uscita dalla prima guerra mondiale non rappresentano il rifiuto di partecipare al massacro imperialista, ma una vergognosa capitolazione della «Russia storica», un infido coltello nella schiena dello Stato da parte di fanatici utopisti. Un attentato contro lo stato russo, e la sua quasi distruzione.

«I bolscevichi durante la prima guerra mondiale volevano la sconfitta per la loro patria, e quando gli eroici soldati e ufficiali russi versavano sangue sui fronti della prima guerra mondiale, qualcuno scuoteva la Russia dall’interno e si arrivò al punto che la Russia come stato crollò e si dichiarò sconfitta da uno stato sconfitto [la Germania]. Sciocchezze, assurdità, ma intanto è successo, questo è stato un completo tradimento degli interessi nazionali! Ancora oggi tra noi ci sono persone del genere.», — ha detto Putin nell’agosto 2016 al campo giovanile di Seliger.

«La patria è in pericolo. Il sangue che abbiamo versato richiede la guerra per la vittoria. Compagni soldati, subito in trincea. Restituiamo Lenin a Guglielmo» — slogan di una manifestazione antibolscevica a Pietrogrado, aprile 1917

Da queste citazioni, non è difficile indovinare quanto sinceramente Putin incolpi per i guai della Russia la «maledizione della rivoluzione». Se nell’Ucraina contemporanea il progetto sovietico è accusato di portare «troppa Russia», al contrario Putin del progetto sovietico apprezza proprio questo [se non solo questo]. Se in Ucraina si dice che Lenin non ha dato agli ucraini una vera autodeterminazione, Putin lo accusa del contrario: di aver dato troppa libertà all’Ucraina.

Torniamo alla domanda che abbiamo posto all’inizio. Perché il discorso programmatico del presidente russo prima dell’invasione è diventato una vera e propria diffamazione della rivoluzione? Perché è proprio nella rivoluzione che egli vede la vera radice delle disavventure della Russia. Ma ormai non si limita più ad accusare Lenin di aver tradito la Russia e di crimini contro l’integrità imperiale del paese. Putin ha deciso che è arrivato il momento di correggere il «peggio degli errori» di Lenin e di revocare il diritto all’autodeterminazione degli ucraini: questa è l’eredità «tre volte maledetta» della rivoluzione.

«Volete la decomunizzazione? Beh, per noi va benissimo. Ma non è necessario, come si suol dire, fermarsi a metà. Siamo pronti a mostrarvi cosa significa la vera decomunizzazione per l’Ucraina»

Il 24 febbraio, i carri armati russi sono entrati nel territorio dell’Ucraina per privare il suo popolo della statualità, uno dei risultati più importanti delle rivoluzioni dell’inizio del secolo scorso.

Traduzione dal russo di Marco Ferrentino

FONTE: https://september.media/ru/articles/antirevolution-ru

Come gli USA hanno sabotato il Nord Stream: il ruolo di Sullivan, NATO e Norvegia.

Il giornalista statunitense premio Pulitzer Seymour Hersh afferma che le esplosioni del nord stream furono attivate dalla Norvegia su mandato diretto della Casa Bianca. Il consigliere per la sicurezza nazionale Sullivan partecipò alla preparazione del sabotaggio che avvenne sotto la copertina di un esercitazione Nato nella zona.

di Seymour Hersh (Traduzione dall’originale in inglese)

Il Diving and Salvage Center della Marina degli Stati Uniti si trova in un luogo oscuro come il suo nome, in quello che una volta era un viottolo di campagna nella zona rurale di Panama City, una città di villeggiatura ora in piena espansione nella parte sud-occidentale della penisola di Florida, 70 miglia a sud del confine con l’Alabama. Il complesso che ospita il centro è anonimo come la sua ubicazione: una struttura in cemento scialbo del secondo dopoguerra, che ha l’aspetto di una scuola superiore professionale nella zona ovest di Chicago. Una lavanderia a gettoni e una scuola di danza si trovano dall’altra parte di quella che ora è una strada a quattro corsie.

Il centro ha addestrato per decenni sommozzatori in acque profonde altamente qualificati che, una volta assegnati alle unità militari americane in tutto il mondo, sono in grado di effettuare immersioni tecniche per fare il bene – utilizzando esplosivi C4 per liberare porti e spiagge da detriti e ordigni inesplosi – e il male, come far saltare in aria piattaforme petrolifere straniere, sporcare le valvole di aspirazione delle centrali elettriche sottomarine, distruggere le chiuse di canali di navigazione cruciali. Il centro di Panama City, che vanta la seconda piscina coperta più grande d’America, era il luogo perfetto per reclutare i migliori, e più taciturni, diplomati della scuola di immersione che l’estate scorsa hanno fatto con successo ciò che erano stati autorizzati a fare a 80 metri sotto la superficie del Mar Baltico.

Lo scorso giugno, i sommozzatori della Marina, operando sotto la copertura di un’esercitazione NATO di metà estate ampiamente pubblicizzata, nota come BALTOPS 22, hanno piazzato gli esplosivi innescati a distanza che, tre mesi dopo, hanno distrutto tre dei quattro gasdotti di Nord Stream, secondo una fonte con conoscenza diretta della pianificazione operativa.

Due dei gasdotti, noti collettivamente come Nord Stream 1, hanno fornito alla Germania e a gran parte dell’Europa occidentale gas naturale russo a basso costo per più di un decennio. Una seconda coppia di gasdotti, chiamata Nord Stream 2, era stata costruita ma non era ancora operativa. Ora, con le truppe russe che si stanno ammassando al confine con l’Ucraina e con l’incombere della più sanguinosa guerra in Europa dal 1945, il presidente Joseph Biden vede i gasdotti come un veicolo per Vladimir Putin per armare il gas naturale per le sue ambizioni politiche e territoriali.

Alla richiesta di un commento, Adrienne Watson, portavoce della Casa Bianca, ha risposto in un’e-mail: “Questo è falso e completamente inventato“. Tammy Thorp, portavoce della Central Intelligence Agency, ha scritto allo stesso modo: “Questa affermazione è completamente e totalmente falsa“.

La decisione di Biden di sabotare gli oleodotti è arrivata dopo più di nove mesi di discussioni segretissime all’interno della comunità di sicurezza nazionale di Washington su come raggiungere al meglio l’obiettivo. Per gran parte di quel periodo, il problema non era se compiere o meno la missione, ma come portarla a termine senza alcun indizio evidente su chi fosse il responsabile.

C’era una ragione burocratica vitale per affidarsi ai diplomati della scuola di immersione del centro a Panama City. I sommozzatori erano solo della Marina e non facevano parte del Comando per le operazioni speciali americano, le cui operazioni segrete devono essere riferite al Congresso e comunicate in anticipo alla leadership del Senato e della Camera, la cosiddetta Gang of Eight. L’Amministrazione Biden stava facendo tutto il possibile per evitare fughe di notizie mentre la pianificazione si svolgeva tra la fine del 2021 e i primi mesi del 2022.

Il Presidente Biden e la sua squadra di politica estera – il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, il Segretario di Stato Tony Blinken e Victoria Nuland, il Sottosegretario di Stato per la Politica – avevano manifestato in modo esplicito e coerente la loro ostilità ai due oleodotti, che si snodavano uno accanto all’altro per 750 miglia sotto il Mar Baltico, partendo da due porti diversi nel nord-est della Russia vicino al confine con l’Estonia, passando vicino all’isola danese di Bornholm prima di terminare nella Germania settentrionale.

Il percorso diretto, che evitava qualsiasi transito in Ucraina, era stato una manna per l’economia tedesca, che godeva di un’abbondanza di gas naturale russo a basso costo – sufficiente per far funzionare le fabbriche e riscaldare le case, consentendo ai distributori tedeschi di vendere il gas in eccesso, con profitto, in tutta l’Europa occidentale. Un’azione che potesse essere ricondotta all’amministrazione avrebbe violato le promesse degli Stati Uniti di ridurre al minimo il conflitto diretto con la Russia. La segretezza era essenziale.

Fin dai primi giorni, Nord Stream 1 è stato visto da Washington e dai suoi partner anti-russi della NATO come una minaccia al dominio occidentale. La holding che ne è alla base, la Nord Stream AG, è stata costituita in Svizzera nel 2005 in partnership con Gazprom, una società russa quotata in borsa che produce enormi profitti per gli azionisti ed è dominata da oligarchi noti per essere al soldo di Putin. Gazprom controllava il 51% della società, mentre quattro aziende energetiche europee, una francese, una olandese e due tedesche, condividevano il restante 49% delle azioni e avevano il diritto di controllare le vendite a valle del gas naturale a basso costo ai distributori locali in Germania e in Europa occidentale. I profitti di Gazprom sono stati condivisi con il governo russo e, secondo le stime, in alcuni anni le entrate statali di gas e petrolio sono state pari al 45% del bilancio annuale della Russia.

I timori politici dell’America erano reali: Putin avrebbe avuto un’ulteriore e necessaria fonte di reddito, e la Germania e il resto dell’Europa occidentale sarebbero diventati dipendenti dal gas naturale a basso costo fornito dalla Russia, diminuendo la dipendenza europea dall’America. In realtà, questo è esattamente ciò che è accaduto. Molti tedeschi vedevano il Nord Stream 1 come parte della realizzazione della famosa teoria della Ostpolitik dell’ex cancelliere Willy Brandt, che avrebbe permesso alla Germania del dopoguerra di riabilitare se stessa e le altre nazioni europee distrutte dalla Seconda Guerra Mondiale utilizzando, tra le altre iniziative, il gas russo a basso costo per alimentare un mercato e un’economia commerciale prospera in Europa occidentale.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso

Il Nord Stream 1 era già abbastanza pericoloso, secondo la NATO e Washington, ma il Nord Stream 2, la cui costruzione è stata completata nel settembre del 2021, se approvato dalle autorità di regolamentazione tedesche, raddoppierebbe la quantità di gas a basso costo disponibile per la Germania e l’Europa occidentale. Il secondo gasdotto fornirebbe inoltre una quantità di gas sufficiente per oltre il 50% del consumo annuale della Germania. Le tensioni tra la Russia e la NATO, sostenute dalla politica estera aggressiva dell’amministrazione Biden, erano in costante aumento.

L’opposizione al Nord Stream 2 è esplosa alla vigilia dell’insediamento di Biden, nel gennaio 2021, quando i repubblicani del Senato, guidati da Ted Cruz del Texas, hanno ripetutamente sollevato la minaccia politica del gas naturale russo a basso costo durante l’udienza di conferma di Blinken come Segretario di Stato. A quel punto un Senato unificato aveva approvato con successo una legge che, come disse Cruz a Blinken, “ha fermato [il gasdotto] sul nascere“. Il governo tedesco, allora guidato da Angela Merkel, avrebbe esercitato enormi pressioni politiche ed economiche per mettere in funzione il secondo gasdotto.

Biden si sarebbe opposto ai tedeschi? Blinken ha risposto di sì, ma ha aggiunto di non aver discusso i dettagli delle opinioni del Presidente entrante. “So che è fermamente convinto che questa sia una cattiva idea, il Nord Stream 2“, ha detto. “So che vorrebbe che usassimo tutti gli strumenti di persuasione che abbiamo per convincere i nostri amici e partner, compresa la Germania, a non andare avanti“.

Pochi mesi dopo, mentre la costruzione del secondo gasdotto si avvicinava al completamento, Biden ha battuto ciglio. Nel maggio dello stesso anno, con un sorprendente dietrofront, l’amministrazione ha rinunciato alle sanzioni contro Nord Stream AG, mentre un funzionario del Dipartimento di Stato ha ammesso che il tentativo di fermare il gasdotto attraverso le sanzioni e la diplomazia era “sempre stato un azzardo“. Dietro le quinte, funzionari dell’amministrazione avrebbero esortato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ormai alle prese con la minaccia di invasione russa, a non criticare la mossa.

Le conseguenze sono state immediate. I repubblicani del Senato, guidati da Cruz, annunciarono un blocco immediato di tutte le nomine di Biden in politica estera e ritardarono l’approvazione della legge annuale sulla difesa per mesi, fino all’autunno. In seguito Politico ha descritto il voltafaccia di Biden sul secondo gasdotto russo come “l’unica decisione, probabilmente più del caotico ritiro militare dall’Afghanistan, che ha messo a rischio l’agenda di Biden“.

L’amministrazione era in difficoltà, nonostante avesse ottenuto una tregua sulla crisi a metà novembre, quando i regolatori energetici tedeschi avevano sospeso l’approvazione del secondo gasdotto Nord Stream. I prezzi del gas naturale hanno subito un’impennata dell’8% nel giro di pochi giorni, tra i crescenti timori in Germania e in Europa che la sospensione del gasdotto e la crescente possibilità di una guerra tra Russia e Ucraina avrebbero portato a un inverno freddo molto indesiderato. A Washington non era chiaro quale fosse la posizione di Olaf Scholz, il cancelliere tedesco appena nominato. Mesi prima, dopo la caduta dell’Afghanistan, Scholtz aveva pubblicamente appoggiato l’appello del presidente francese Emmanuel Macron per una politica estera europea più autonoma in un discorso a Praga, suggerendo chiaramente una minore dipendenza da Washington e dalle sue azioni mercuriali.

In tutto questo, le truppe russe si sono costantemente e minacciosamente accumulate ai confini dell’Ucraina e alla fine di dicembre più di 100.000 soldati erano in grado di colpire dalla Bielorussia e dalla Crimea. A Washington cresceva l’allarme, compresa una valutazione di Blinken secondo cui il numero di truppe avrebbe potuto essere “raddoppiato in breve tempo”.

L’attenzione dell’amministrazione si concentrava ancora una volta sul Nord Stream. Finché l’Europa continuerà a dipendere dal gasdotto per ottenere gas naturale a basso costo, Washington temeva che Paesi come la Germania sarebbero stati riluttanti a fornire all’Ucraina il denaro e le armi necessarie per sconfiggere la Russia.

È stato in questo momento di incertezza che Biden ha autorizzato Jake Sullivan a riunire un gruppo di agenzie per elaborare un piano.

Tutte le opzioni dovevano essere messe sul tavolo. Ma solo una sarebbe emersa.

Il piano segreto

Nel dicembre del 2021, due mesi prima che i primi carri armati russi entrassero in Ucraina, Jake Sullivan convocò una riunione di una task force appena costituita – uomini e donne dello Stato Maggiore, della CIA, dei Dipartimenti di Stato e del Tesoro – e chiese raccomandazioni su come rispondere all’imminente invasione di Putin.

Sarebbe stata la prima di una serie di riunioni top-secret, in una stanza sicura all’ultimo piano dell’Old Executive Office Building, adiacente alla Casa Bianca, che era anche la sede del President’s Foreign Intelligence Advisory Board (PFIAB). Ci furono i soliti botta e risposta che alla fine portarono a una domanda preliminare cruciale: la raccomandazione trasmessa dal gruppo al Presidente sarebbe stata reversibile – come un altro strato di sanzioni e restrizioni valutarie – o irreversibile – cioè azioni cinetiche, che non avrebbero potuto essere annullate?

Secondo la fonte a conoscenza diretta del processo, ciò che è apparso chiaro ai partecipanti è che Sullivan intendeva che il gruppo elaborasse un piano per la distruzione dei due gasdotti Nord Stream e che stava realizzando i desideri del Presidente.

Nel corso delle successive riunioni, i partecipanti discussero le opzioni per un attacco. La Marina propose di utilizzare un sottomarino di recente costruzione per attaccare direttamente l’oleodotto. L’aeronautica discuteva di sganciare bombe con spolette ritardate che potessero essere innescate a distanza. La CIA sosteneva che qualsiasi cosa si facesse, avrebbe dovuto essere segreta. Tutti i partecipanti capirono la posta in gioco. “Non è roba da bambini“, ha detto la fonte. Se l’attacco fosse riconducibile agli Stati Uniti, “sarebbe un atto di guerra“.

All’epoca, la CIA era diretta da William Burns, un mite ex ambasciatore in Russia che era stato vice segretario di Stato nell’amministrazione Obama. Burns autorizzò rapidamente un gruppo di lavoro dell’Agenzia i cui membri ad hoc includevano, guarda caso, qualcuno che conosceva le capacità dei sommozzatori della Marina a Panama City. Nelle settimane successive, i membri del gruppo di lavoro della CIA iniziarono a elaborare un piano per un’operazione segreta che avrebbe utilizzato i sommozzatori per innescare un’esplosione lungo l’oleodotto.

Qualcosa di simile era già stato fatto in passato. Nel 1971, la comunità dei servizi segreti americani apprese da fonti ancora non rivelate che due importanti unità della Marina russa comunicavano attraverso un cavo sottomarino interrato nel Mare di Okhotsk, sulla costa dell’Estremo Oriente russo. Il cavo collegava un comando regionale della Marina al quartier generale continentale di Vladivostok.

Un gruppo scelto di agenti della Central Intelligence Agency e della National Security Agency fu riunito da qualche parte nell’area di Washington, sotto copertura, ed elaborò un piano, utilizzando sommozzatori della Marina, sottomarini modificati e un veicolo di salvataggio sottomarino, che riuscì, dopo molti tentativi ed errori, a localizzare il cavo russo. I sommozzatori hanno piazzato sul cavo un sofisticato dispositivo di ascolto che ha intercettato con successo il traffico russo e lo ha registrato su un sistema di registrazione.

L’NSA ha appreso che gli alti ufficiali della marina russa, convinti della sicurezza del loro collegamento, chiacchieravano con i loro colleghi senza crittografia. Il dispositivo di registrazione e il nastro dovevano essere sostituiti mensilmente e il progetto andò avanti allegramente per un decennio, finché non fu compromesso da un tecnico civile della NSA di quarantaquattro anni, Ronald Pelton, che parlava correntemente il russo. Pelton fu tradito da un disertore russo nel 1985 e condannato alla prigione. I russi gli pagarono solo 5.000 dollari per le sue rivelazioni sull’operazione, oltre a 35.000 dollari per altri dati operativi russi da lui forniti che non furono mai resi pubblici.

Quel successo subacqueo, chiamato in codice Ivy Bells, fu innovativo e rischioso e produsse informazioni preziose sulle intenzioni e sulla pianificazione della Marina russa.

Tuttavia, il gruppo interagenzie era inizialmente scettico sull’entusiasmo della CIA per un attacco segreto in acque profonde. C’erano troppe domande senza risposta. Le acque del Mar Baltico erano pesantemente pattugliate dalla marina russa e non c’erano piattaforme petrolifere che potessero essere usate come copertura per un’operazione subacquea. I sommozzatori sarebbero dovuti andare in Estonia, proprio al di là del confine con le banchine di carico del gas naturale della Russia, per addestrarsi alla missione? “Sarebbe un’errore catastrofico“, è stato detto all’Agenzia.

Nel corso di “tutti questi piani“, ha raccontato la fonte, alcuni funzionari della CIA e del Dipartimento di Stato dicevano: “Non fatelo. È stupido e sarà un incubo politico se verrà fuori“.

Tuttavia, all’inizio del 2022, il gruppo di lavoro della CIA riferì al gruppo interagenzie di Sullivan: “Abbiamo un modo per far saltare gli oleodotti“.

Pubblicità inaspettata?

Ciò che seguì fu sbalorditivo. Il 7 febbraio, meno di tre settimane prima dell’apparentemente inevitabile invasione russa dell’Ucraina, Biden incontrò nel suo ufficio alla Casa Bianca il cancelliere tedesco Olaf Scholz che, dopo qualche tentennamento, era ora saldamente nella squadra americana. Durante il briefing con la stampa che ne è seguito, Biden ha dichiarato con tono di sfida: “Se la Russia invade… non ci sarà più un Nord Stream 2. Metteremo fine a tutto questo“.

Venti giorni prima, il Sottosegretario Nuland aveva trasmesso essenzialmente lo stesso messaggio in un briefing del Dipartimento di Stato, con poca copertura da parte della stampa. “Voglio essere molto chiara con voi oggi“, ha detto in risposta a una domanda. “Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o nell’altro il Nord Stream 2 non andrà avanti“.

Molti di coloro che hanno partecipato alla pianificazione della missione del gasdotto sono rimasti sconcertati da quelli che hanno considerato come riferimenti indiretti all’attacco.

È stato come mettere una bomba atomica a Tokyo e dire ai giapponesi che la faremo esplodere“, ha detto la fonte. “Il piano prevedeva che le opzioni fossero eseguite dopo l’invasione e non pubblicizzate pubblicamente. Biden semplicemente non l’ha capito o l’ha ignorato“.

L’indiscrezione di Biden e della Nuland, se di questo si tratta, potrebbe aver frustrato alcuni dei pianificatori. Ma ha anche creato un’opportunità. Secondo la fonte, alcuni alti funzionari della CIA hanno stabilito che far saltare il gasdotto “non poteva più essere considerata un’opzione segreta perché il Presidente aveva appena annunciato che sapevamo come farlo“.

Il piano per far esplodere Nord Stream 1 e 2 è stato improvvisamente declassato da un’operazione segreta che richiedeva l’informazione del Congresso a un’operazione di intelligence altamente classificata con il supporto militare degli Stati Uniti. Secondo la legge, ha spiegato la fonte, “non c’era più l’obbligo legale di riferire l’operazione al Congresso. Tutto ciò che dovevano fare ora era farlo e basta, ma doveva essere ancora segreto. I russi hanno una sorveglianza superlativa del Mar Baltico“.

I membri del gruppo di lavoro dell’Agenzia non avevano contatti diretti con la Casa Bianca e non vedevano l’ora di scoprire se il Presidente intendesse davvero quello che aveva detto, cioè se la missione fosse ormai avviata. La fonte ha ricordato: “Bill Burns torna e dice: ‘Fatelo’“.

L’operazione sotto copertura

La Norvegia era il luogo perfetto per la missione.

Negli ultimi anni di crisi Est-Ovest, le forze armate statunitensi hanno ampliato notevolmente la loro presenza in Norvegia, il cui confine occidentale corre per 1.400 miglia lungo l’Oceano Atlantico settentrionale e si fonde sopra il Circolo Polare Artico con la Russia. Il Pentagono ha creato posti di lavoro e contratti molto remunerativi, tra qualche polemica locale, investendo centinaia di milioni di dollari per aggiornare ed espandere le strutture della Marina e dell’Aeronautica americane in Norvegia. Le nuove opere comprendevano, soprattutto, un radar ad apertura sintetica avanzato, in grado di penetrare in profondità in Russia, entrato in funzione proprio quando la comunità di intelligence americana ha perso l’accesso a una serie di siti di ascolto a lungo raggio all’interno della Cina.

Una base sottomarina americana recentemente ristrutturata, in costruzione da anni, è diventata operativa e più sottomarini americani sono ora in grado di lavorare a stretto contatto con i loro colleghi norvegesi per monitorare e spiare un’importante ridotta nucleare russa a 400 chilometri a est, nella penisola di Kola. L’America ha anche ampliato notevolmente una base aerea norvegese nel nord e ha consegnato alle forze aeree norvegesi una flotta di aerei da pattugliamento P8 Poseidon, costruiti dalla Boeing, per rafforzare lo spionaggio a lungo raggio di tutto ciò che riguarda la Russia.

In cambio, il governo norvegese ha fatto arrabbiare i liberali e alcuni moderati del suo parlamento lo scorso novembre, approvando l’Accordo supplementare di cooperazione per la difesa (SDCA). In base al nuovo accordo, in alcune “aree concordate” del Nord, il sistema giuridico statunitense avrà giurisdizione sui soldati americani accusati di crimini fuori dalla base, nonché sui cittadini norvegesi accusati o sospettati di interferire con il lavoro della base.

La Norvegia è stata uno dei firmatari originari del Trattato NATO nel 1949, agli inizi della Guerra Fredda. Oggi, il comandante supremo della NATO è Jens Stoltenberg, un convinto anticomunista, che è stato primo ministro norvegese per otto anni prima di passare alla sua alta carica alla NATO, con il sostegno americano, nel 2014. Si trattava di un duro su tutto ciò che riguardava Putin e la Russia, che aveva collaborato con la comunità di intelligence americana fin dai tempi della guerra del Vietnam. Da allora si è fidato completamente di lui. “È il guanto che si adatta alla mano americana“, ha detto la fonte.

A Washington i pianificatori sapevano che dovevano andare in Norvegia. “Odiavano i russi e la marina norvegese era piena di marinai e sommozzatori eccellenti, con generazioni di esperienza nell’esplorazione di petrolio e gas in acque profonde altamente redditizie“, ha detto la fonte. Inoltre ci si poteva fidare di loro per mantenere la missione segreta. (I norvegesi potrebbero aver avuto anche altri interessi. La distruzione di Nord Stream, se gli americani riuscissero a portarla a termine, permetterebbe alla Norvegia di vendere una quantità molto maggiore di gas naturale all’Europa).

A marzo, alcuni membri del team sono andati in Norvegia per incontrare i servizi segreti e la marina norvegese. Una delle domande chiave era dove esattamente nel Mar Baltico fosse il posto migliore per piazzare gli esplosivi. Nord Stream 1 e 2, ciascuno con due serie di condotte, erano separati per gran parte del percorso da poco più di un miglio, mentre si dirigevano verso il porto di Greifswald, nell’estremo nord-est della Germania.

La marina norvegese è stata rapida nel trovare il punto giusto, nelle acque poco profonde del Mar Baltico, a poche miglia dall’isola danese di Bornholm. Le condutture correvano a più di un miglio di distanza l’una dall’altra su un fondale profondo solo 80 metri. Si trattava di un’area ben raggiungibile dai sommozzatori che, operando da un cacciamine norvegese della classe Alta, si sarebbero immersi con una miscela di ossigeno, azoto ed elio che usciva dalle loro bombole e avrebbero piazzato cariche di C4 sagomate sulle quattro condutture con coperture protettive in cemento. Sarebbe stato un lavoro noioso, lungo e pericoloso, ma le acque al largo di Bornholm avevano un altro vantaggio: non c’erano grandi correnti di marea, che avrebbero reso il compito di immergersi molto più difficile.

Dopo un po’ di ricerche, gli americani erano tutti d’accordo.

I sommozzatori di Panama City

A questo punto entrò di nuovo in gioco l’oscuro gruppo di immersione profonda della Marina a Panama City. Le scuole d’altura di Panama City, i cui allievi hanno partecipato a Ivy Bells, sono viste come un’indesiderata zona d’ombra dall’élite dei diplomati dell’Accademia Navale di Annapolis, che di solito cercano la gloria di essere assegnati come Seal, piloti di caccia o sommergibilisti. Se uno deve diventare una “scarpa nera“, cioè un membro del meno desiderabile comando di navi di superficie, c’è sempre almeno un incarico su un cacciatorpediniere, un incrociatore o una nave anfibia. La meno affascinante di tutte è la guerra di mine. I suoi sommozzatori non appaiono mai nei film di Hollywood o sulle copertine delle riviste popolari.

I migliori sommozzatori con qualifiche di immersione profonda sono una comunità ristretta e solo i migliori vengono reclutati per l’operazione e viene detto loro di prepararsi a essere convocati dalla CIA a Washington“, ha detto la fonte.

I norvegesi e gli americani avevano il luogo e gli operatori, ma c’era un’altra preoccupazione: qualsiasi attività subacquea insolita nelle acque al largo di Bornholm avrebbe potuto attirare l’attenzione della marina svedese o danese, che avrebbe potuto segnalarla.

La Danimarca era stata anche uno dei primi firmatari della NATO ed era nota nella comunità dei servizi segreti per i suoi legami speciali con il Regno Unito. La Svezia aveva presentato domanda di adesione alla NATO e aveva dimostrato una grande abilità nel gestire i suoi sistemi di sensori sonori e magnetici sottomarini che riuscivano a rintracciare con successo i sottomarini russi che di tanto in tanto comparivano nelle acque remote dell’arcipelago svedese e venivano costretti a salire in superficie.

I norvegesi si sono uniti agli americani insistendo sul fatto che alcuni alti funzionari in Danimarca e Svezia dovevano essere informati in termini generali sulle possibili attività subacquee nell’area. In questo modo, qualcuno più in alto poteva intervenire e tenere un rapporto fuori dalla catena di comando, isolando così l’operazione del gasdotto. “Quello che veniva detto loro e quello che sapevano erano volutamente diversi“, mi ha detto la fonte (l’ambasciata norvegese, interpellata per commentare questa storia, non ha risposto).

I norvegesi sono stati fondamentali per risolvere altri ostacoli. Si sapeva che la marina russa possedeva una tecnologia di sorveglianza in grado di individuare e innescare le mine sottomarine. I dispositivi esplosivi americani dovevano essere camuffati in modo da apparire al sistema russo come parte dello sfondo naturale, cosa che richiedeva un adattamento alla salinità specifica dell’acqua. I norvegesi avevano una soluzione.

La copertura giusta al momento giusto

I norvegesi avevano anche una soluzione alla questione cruciale di quando l’operazione avrebbe dovuto avere luogo. Ogni giugno, negli ultimi 21 anni, la Sesta Flotta americana, la cui nave ammiraglia è basata a Gaeta, in Italia, a sud di Roma, ha sponsorizzato una grande esercitazione della NATO nel Mar Baltico che coinvolge decine di navi alleate in tutta la regione. L’esercitazione, che si sarebbe tenuta a giugno, era nota come Baltic Operations 22, o BALTOPS 22. I norvegesi hanno proposto che questa fosse la copertura ideale per piazzare le mine.

Gli americani hanno fornito un elemento fondamentale: hanno convinto i pianificatori della Sesta Flotta ad aggiungere al programma un’esercitazione di ricerca e sviluppo. L’esercitazione, come reso noto dalla Marina, coinvolgeva la Sesta Flotta in collaborazione con i “centri di ricerca e di guerra” della Marina. L’evento in mare si sarebbe svolto al largo delle coste dell’isola di Bornholm e avrebbe coinvolto squadre di sommozzatori della NATO che avrebbero piazzato mine, mentre le squadre concorrenti avrebbero utilizzato le più recenti tecnologie subacquee per trovarle e distruggerle.

Si trattava di un esercizio utile e di una copertura ingegnosa. I ragazzi di Panama City avrebbero fatto il loro dovere e gli esplosivi C4 sarebbero stati posizionati entro la fine di BALTOPS22, con un timer di 48 ore. Tutti gli americani e i norvegesi sarebbero spariti prima della prima esplosione.

I giorni erano contati. “Il tempo scorreva e ci stavamo avvicinando alla missione compiuta“, ha detto la fonte.

E poi: Washington ebbe un ripensamento. Le bombe sarebbero state comunque piazzate durante BALTOPS, ma la Casa Bianca temeva che una finestra di due giorni per la loro detonazione sarebbe stata troppo vicina alla fine dell’esercitazione e che sarebbe stato evidente il coinvolgimento dell’America.

La Casa Bianca ha invece avanzato una nuova richiesta: “I ragazzi sul campo possono trovare un modo per far esplodere gli oleodotti più tardi, a comando?”.

Alcuni membri del team di pianificazione erano irritati e frustrati dall’apparente indecisione del Presidente. I sommozzatori di Panama City si erano ripetutamente esercitati a piazzare il C4 sulle condutture, come avrebbero fatto durante BALTOPS, ma ora la squadra in Norvegia doveva trovare un modo per dare a Biden ciò che voleva: la possibilità di emettere un ordine di esecuzione di successo in un momento a sua scelta.

Essere incaricati di un cambiamento arbitrario dell’ultimo minuto era qualcosa che la CIA era abituata a gestire. Ma ha anche rinnovato le preoccupazioni di alcuni sulla necessità e la legalità dell’intera operazione.

Gli ordini segreti del Presidente evocavano anche il dilemma della CIA ai tempi della guerra del Vietnam, quando il Presidente Johnson, di fronte al crescente sentimento contrario alla guerra del Vietnam, ordinò all’Agenzia di violare il suo statuto – che le impediva specificamente di operare all’interno dell’America – spiando i leader contrari alla guerra per determinare se fossero controllati dalla Russia comunista.

L’Agenzia alla fine acconsentì, e nel corso degli anni Settanta divenne chiaro fino a che punto fosse disposta a spingersi. All’indomani degli scandali Watergate, i giornali rivelarono che l’Agenzia spiava i cittadini americani, era coinvolta nell’assassinio di leader stranieri e aveva minato il governo socialista di Salvador Allende.

Queste rivelazioni portarono a una drammatica serie di audizioni a metà degli anni ’70 al Senato, guidate da Frank Church dell’Idaho, che chiarirono che Richard Helms, l’allora direttore dell’Agenzia, accettava l’obbligo di fare ciò che il Presidente voleva, anche se ciò significava violare la legge.

In una testimonianza inedita e a porte chiuse, Helms ha spiegato con amarezza che “si ha quasi un’Immacolata Concezione quando si fa qualcosa” su ordine segreto di un Presidente. “Che sia giusto che sia così o che sia sbagliato che sia così, [la CIA] lavora secondo regole e norme di base diverse da qualsiasi altra parte del governo”. In sostanza, stava dicendo ai senatori che lui, come capo della CIA, aveva capito di lavorare per la Corona e non per la Costituzione.

Gli americani al lavoro in Norvegia operavano secondo la stessa dinamica e iniziarono doverosamente a lavorare sul nuovo problema: come far esplodere a distanza l’esplosivo C4 su ordine di Biden. Si trattava di un compito molto più impegnativo di quanto non avessero capito a Washington. La squadra in Norvegia non aveva modo di sapere quando il Presidente avrebbe premuto il pulsante. Sarebbe stato tra poche settimane, tra molti mesi o tra mezzo anno o più?

Il C4 collegato agli oleodotti sarebbe stato attivato da una boa sonar sganciata da un aereo con breve preavviso, ma la procedura richiedeva la più avanzata tecnologia di elaborazione dei segnali. Una volta posizionati, i dispositivi di temporizzazione ritardata attaccati a uno qualsiasi dei quattro gasdotti potrebbero essere accidentalmente attivati dalla complessa miscela di rumori di fondo dell’oceano in tutto il Mar Baltico, molto trafficato, provenienti da navi vicine e lontane, trivellazioni sottomarine, eventi sismici, onde e persino creature marine. Per evitare ciò, la boa sonar, una volta posizionata, emetterebbe una sequenza di suoni tonali unici a bassa frequenza – simili a quelli emessi da un flauto o da un pianoforte – che verrebbero riconosciuti dal dispositivo di temporizzazione e, dopo un ritardo di ore prestabilito, innescherebbero gli esplosivi. (“Si vuole un segnale abbastanza robusto, in modo che nessun altro segnale possa accidentalmente inviare un impulso che faccia esplodere gli esplosivi”, mi ha detto il dottor Theodore Postol, professore emerito di scienza, tecnologia e politica di sicurezza nazionale al MIT. Postol, che è stato consulente scientifico del capo delle operazioni navali del Pentagono, ha detto che il problema che il gruppo in Norvegia deve affrontare a causa del ritardo di Biden è una questione di probabilità: “Più a lungo gli esplosivi rimangono in acqua, maggiore è il rischio che un segnale casuale possa innescare le ordigni”).

Il 26 settembre 2022, un aereo di sorveglianza P8 della Marina norvegese effettuò un volo apparentemente di routine e sganciò una boa sonar. Il segnale si diffuse sott’acqua, inizialmente fino a Nord Stream 2 e poi fino a Nord Stream 1. Poche ore dopo, gli esplosivi C4 ad alta potenza sono stati innescati e tre dei quattro gasdotti sono stati messi fuori uso. Nel giro di pochi minuti, è stato possibile vedere le pozze di gas metano rimaste nelle condutture chiuse diffondersi sulla superficie dell’acqua e il mondo ha capito che era avvenuto qualcosa di irreversibile.

FALLOUT

All’indomani dell’attentato all’oleodotto, i media americani l’hanno trattato come un mistero irrisolto. La Russia è stata ripetutamente citata come probabile colpevole, spinta da calcolate fughe di notizie dalla Casa Bianca, ma senza mai stabilire un chiaro motivo per un tale atto di autosabotaggio, al di là della semplice vendetta. Pochi mesi dopo, quando è emerso che le autorità russe si erano procurate in sordina i preventivi di spesa per la riparazione degli oleodotti, il New York Times ha descritto la notizia come ” una complicazione delle teorie su chi ci fosse dietro” l’attacco. Nessun grande giornale americano ha approfondito le precedenti minacce agli oleodotti avanzate da Biden e dal sottosegretario di Stato Nuland.

Sebbene non sia mai stato chiaro il motivo per cui la Russia avrebbe cercato di distruggere il proprio lucroso oleodotto, una motivazione più eloquente per l’azione del Presidente è venuta dal Segretario di Stato Blinken.

Interrogato in una conferenza stampa dello scorso settembre sulle conseguenze dell’aggravarsi della crisi energetica in Europa occidentale, Blinken ha descritto il momento come potenzialmente positivo:

“È un’opportunità straordinaria per eliminare una volta per tutte la dipendenza dall’energia russa e quindi per togliere a Vladimir Putin la possibilità di usare l’energia come strumento per portare avanti i suoi progetti imperiali. Questo è molto significativo e offre un’enorme opportunità strategica per gli anni a venire, ma nel frattempo siamo determinati a fare tutto il possibile per assicurarci che le conseguenze di tutto questo non siano sopportate dai cittadini dei nostri Paesi o, se è per questo, di tutto il mondo”.

Più di recente, Victoria Nuland ha espresso soddisfazione per la scomparsa del più recente degli oleodotti. Alla fine di gennaio, in occasione di un’audizione della Commissione Esteri del Senato, ha dichiarato al senatore Ted Cruz: “Come lei, sono molto soddisfatta, e credo che lo sia anche l’Amministrazione, di sapere che Nord Stream 2 è ora, come lei ama dire, un pezzo di metallo in fondo al mare”.

La fonte aveva una visione molto più spicciola della decisione di Biden di sabotare più di 1500 miglia di gasdotto di Gazprom all’approssimarsi dell’inverno. “Beh”, ha detto, parlando del Presidente, “devo ammettere che il ragazzo ha un paio di palle. Ha detto che l’avrebbe fatto e l’ha fatto”.

Alla domanda sul perché pensasse che i russi non avessero risposto, ha risposto cinicamente: “Forse vogliono avere la capacità di fare le stesse cose che hanno fatto gli Stati Uniti”.

“Era una bella storia di copertura”, ha proseguito. “Dietro c’era un’operazione segreta che prevedeva la presenza di esperti sul campo e di apparecchiature che operavano su un segnale segreto.

“L’unico difetto era la decisione di farlo”.

FONTE ORIGINALE: https://seymourhersh.substack.com/p/how-america-took-out-the-nord-stream


How America Took Out The Nord Stream Pipeline

The New York Times called it a “mystery,” but the United States executed a covert sea operation that was kept secret—until now

by Seymour Hersh

The U.S. Navy’s Diving and Salvage Center can be found in a location as obscure as its name—down what was once a country lane in rural Panama City, a now-booming resort city in the southwestern panhandle of Florida, 70 miles south of the Alabama border. The center’s complex is as nondescript as its location—a drab concrete post-World War II structure that has the look of a vocational high school on the west side of Chicago. A coin-operated laundromat and a dance school are across what is now a four-lane road.

The center has been training highly skilled deep-water divers for decades who, once assigned to American military units worldwide, are capable of technical diving to do the good—using C4 explosives to clear harbors and beaches of debris and unexploded ordinance—as well as the bad, like blowing up foreign oil rigs, fouling intake valves for undersea power plants, destroying locks on crucial shipping canals. The Panama City center, which boasts the second largest indoor pool in America, was the perfect place to recruit the best, and most taciturn, graduates of the diving school who successfully did last summer what they had been authorized to do 260 feet under the surface of the Baltic Sea.

Last June, the Navy divers, operating under the cover of a widely publicized mid-summer NATO exercise known as BALTOPS 22, planted the remotely triggered explosives that, three months later, destroyed three of the four Nord Stream pipelines, according to a source with direct knowledge of the operational planning.

Two of the pipelines, which were known collectively as Nord Stream 1, had been providing Germany and much of Western Europe with cheap Russian natural gas for more than a decade. A second pair of pipelines, called Nord Stream 2, had been built but were not yet operational. Now, with Russian troops massing on the Ukrainian border and the bloodiest war in Europe since 1945 looming, President Joseph Biden saw the pipelines as a vehicle for Vladimir Putin to weaponize natural gas for his political and territorial ambitions.

Asked for comment, Adrienne Watson, a White House spokesperson, said in an email, “This is false and complete fiction.” Tammy Thorp, a spokesperson for the Central Intelligence Agency, similarly wrote: “This claim is completely and utterly false.”

Biden’s decision to sabotage the pipelines came after more than nine months of highly secret back and forth debate inside Washington’s national security community about how to best achieve that goal. For much of that time, the issue was not whether to do the mission, but how to get it done with no overt clue as to who was responsible.

There was a vital bureaucratic reason for relying on the graduates of the center’s hardcore diving school in Panama City. The divers were Navy only, and not members of America’s Special Operations Command, whose covert operations must be reported to Congress and briefed in advance to the Senate and House leadership—the so-called Gang of Eight. The Biden Administration was doing everything possible to avoid leaks as the planning took place late in 2021 and into the first months of 2022.

President Biden and his foreign policy team—National Security Adviser Jake Sullivan, Secretary of State Tony Blinken, and Victoria Nuland, the Undersecretary of State for Policy—had been vocal and consistent in their hostility to the two pipelines, which ran side by side for 750 miles under the Baltic Sea from two different ports in northeastern Russia near the Estonian border, passing close to the Danish island of Bornholm before ending in northern Germany.

The direct route, which bypassed any need to transit Ukraine, had been a boon for the German economy, which enjoyed an abundance of cheap Russian natural gas—enough to run its factories and heat its homes while enabling German distributors to sell excess gas, at a profit, throughout Western Europe. Action that could be traced to the administration would violate US promises to minimize direct conflict with Russia. Secrecy was essential.

From its earliest days, Nord Stream 1 was seen by Washington and its anti-Russian NATO partners as a threat to western dominance. The holding company behind it, Nord Stream AG, was incorporated in Switzerland in 2005 in partnership with Gazprom, a publicly traded Russian company producing enormous profits for shareholders which is dominated by oligarchs known to be in the thrall of Putin. Gazprom controlled 51 percent of the company, with four European energy firms—one in France, one in the Netherlands and two in Germany—sharing the remaining 49 percent of stock, and having the right to control downstream sales of the inexpensive natural gas to local distributors in Germany and Western Europe. Gazprom’s profits were shared with the Russian government, and state gas and oil revenues were estimated in some years to amount to as much as 45 percent of Russia’s annual budget.

America’s political fears were real: Putin would now have an additional and much-needed major source of income, and Germany and the rest of Western Europe would become addicted to low-cost natural gas supplied by Russia—while diminishing European reliance on America. In fact, that’s exactly what happened. Many Germans saw Nord Stream 1 as part of the deliverance of former Chancellor Willy Brandt’s famed Ostpolitik theory, which would enable postwar Germany to rehabilitate itself and other European nations destroyed in World War II by, among other initiatives, utilizing cheap Russian gas to fuel a prosperous Western European market and trading economy.

Nord Stream 1 was dangerous enough, in the view of NATO and Washington, but Nord Stream 2, whose construction was completed in September of 2021, would, if approved by German regulators, double the amount of cheap gas that would be available to Germany and Western Europe. The second pipeline also would provide enough gas for more than 50 percent of Germany’s annual consumption. Tensions were constantly escalating between Russia and NATO, backed by the aggressive foreign policy of the Biden Administration.

Opposition to Nord Stream 2 flared on the eve of the Biden inauguration in January 2021, when Senate Republicans, led by Ted Cruz of Texas, repeatedly raised the political threat of cheap Russian natural gas during the confirmation hearing of Blinken as Secretary of State. By then a unified Senate had successfully passed a law that, as Cruz told Blinken, “halted [the pipeline] in its tracks.” There would be enormous political and economic pressure from the German government, then headed by Angela Merkel, to get the second pipeline online.

Would Biden stand up to the Germans? Blinken said yes, but added that he had not discussed the specifics of the incoming President’s views. “I know his strong conviction that this is a bad idea, the Nord Stream 2,” he said. “I know that he would have us use every persuasive tool that we have to convince our friends and partners, including Germany, not to move forward with it.”

A few months later, as the construction of the second pipeline neared completion, Biden blinked. That May, in a stunning turnaround, the administration waived sanctions against Nord Stream AG, with a State Department official conceding that trying to stop the pipeline through sanctions and diplomacy had “always been a long shot.” Behind the scenes, administration officials reportedly urged Ukrainian President Volodymyr Zelensky, by then facing a threat of Russian invasion, not to criticize the move.

There were immediate consequences. Senate Republicans, led by Cruz, announced an immediate blockade of all of Biden’s foreign policy nominees and delayed passage of the annual defense bill for months, deep into the fall. Politico later depicted Biden’s turnabout on the second Russian pipeline as “the one decision, arguably more than the chaotic military withdrawal from Afghanistan, that has imperiled Biden’s agenda.” 

The administration was floundering, despite getting a reprieve on the crisis in mid-November, when Germany’s energy regulators suspended approval of the second Nord Stream pipeline. Natural gas prices surged 8% within days, amid growing fears in Germany and Europe that the pipeline suspension and the growing possibility of a war between Russia and Ukraine would lead to a very much unwanted cold winter. It was not clear to Washington just where Olaf Scholz, Germany’s newly appointed chancellor, stood. Months earlier, after the fall of Afghanistan, Scholtz had publicly endorsed French President Emmanuel Macron’s call for a more autonomous European foreign policy in a speech in Prague—clearly suggesting less reliance on Washington and its mercurial actions.

Throughout all of this, Russian troops had been steadily and ominously building up on the borders of Ukraine, and by the end of December more than 100,000 soldiers were in position to strike from Belarus and Crimea. Alarm was growing in Washington, including an assessment from Blinken that those troop numbers could be “doubled in short order.”

The administration’s attention once again was focused on Nord Stream. As long as Europe remained dependent on the pipelines for cheap natural gas, Washington was afraid that countries like Germany would be reluctant to supply Ukraine with the money and weapons it needed to defeat Russia.

It was at this unsettled moment that Biden authorized Jake Sullivan to bring together an interagency group to come up with a plan. 

All options were to be on the table. But only one would emerge.

PLANNING

In December of 2021, two months before the first Russian tanks rolled into Ukraine, Jake Sullivan convened a meeting of a newly formed task force—men and women from the Joint Chiefs of Staff, the CIA, and the State and Treasury Departments—and asked for recommendations about how to respond to Putin’s impending invasion.

It would be the first of a series of top-secret meetings, in a secure room on a top floor of the Old Executive Office Building, adjacent to the White House, that was also the home of the President’s Foreign Intelligence Advisory Board (PFIAB). There was the usual back and forth chatter that eventually led to a crucial preliminary question: Would the recommendation forwarded by the group to the President be reversible—such as another layer of sanctions and currency restrictions—or irreversible—that is, kinetic actions, which could not be undone?

What became clear to participants, according to the source with direct knowledge of the process, is that Sullivan intended for the group to come up with a plan for the destruction of the two Nord Stream pipelines—and that he was delivering on the desires of the President.

THE PLAYERS Left to right: Victoria Nuland, Anthony Blinken, and Jake Sullivan.

Over the next several meetings, the participants debated options for an attack. The Navy proposed using a newly commissioned submarine to assault the pipeline directly. The Air Force discussed dropping bombs with delayed fuses that could be set off remotely. The CIA argued that whatever was done, it would have to be covert. Everyone involved understood the stakes. “This is not kiddie stuff,” the source said. If the attack were traceable to the United States, “It’s an act of war.”

At the time, the CIA was directed by William Burns, a mild-mannered former ambassador to Russia who had served as deputy secretary of state in the Obama Administration. Burns quickly authorized an Agency working group whose ad hoc members included—by chance—someone who was familiar with the capabilities of the Navy’s deep-sea divers in Panama City. Over the next few weeks, members of the CIA’s working group began to craft a plan for a covert operation that would use deep-sea divers to trigger an explosion along the pipeline.

Something like this had been done before. In 1971, the American intelligence community learned from still undisclosed sources that two important units of the Russian Navy were communicating via an undersea cable buried in the Sea of Okhotsk, on Russia’s Far East Coast. The cable linked a regional Navy command to the mainland headquarters at Vladivostok.

A hand-picked team of Central Intelligence Agency and National Security Agency operatives was assembled somewhere in the Washington area, under deep cover, and worked out a plan, using Navy divers, modified submarines and a deep-submarine rescue vehicle, that succeeded, after much trial and error, in locating the Russian cable. The divers planted a sophisticated listening device on the cable that successfully intercepted the Russian traffic and recorded it on a taping system.

The NSA learned that senior Russian navy officers, convinced of the security of their communication link, chatted away with their peers without encryption. The recording device and its tape had to be replaced monthly and the project rolled on merrily for a decade until it was compromised by a forty-four-year-old civilian NSA technician named Ronald Pelton who was fluent in Russian. Pelton was betrayed by a Russian defector in 1985 and sentenced to prison. He was paid just $5,000 by the Russians for his revelations about the operation, along with $35,000 for other Russian operational data he provided that was never made public.

That underwater success, codenamed Ivy Bells, was innovative and risky, and produced invaluable intelligence about the Russian Navy’s intentions and planning.

Still, the interagency group was initially skeptical of the CIA’s enthusiasm for a covert deep-sea attack. There were too many unanswered questions. The waters of the Baltic Sea were heavily patrolled by the Russian navy, and there were no oil rigs that could be used as cover for a diving operation. Would the divers have to go to Estonia, right across the border from Russia’s natural gas loading docks, to train for the mission? “It would be a goat fuck,” the Agency was told.

Throughout “all of this scheming,” the source said, “some working guys in the CIA and the State Department were saying, ‘Don’t do this. It’s stupid and will be a political nightmare if it comes out.’”

Nevertheless, in early 2022, the CIA working group reported back to Sullivan’s interagency group: “We have a way to blow up the pipelines.”

What came next was stunning. On February 7, less than three weeks before the seemingly inevitable Russian invasion of Ukraine, Biden met in his White House office with German Chancellor Olaf Scholz, who, after some wobbling, was now firmly on the American team. At the press briefing that followed, Biden defiantly said, “If Russia invades . . . there will be no longer a Nord Stream 2. We will bring an end to it.”

Twenty days earlier, Undersecretary Nuland had delivered essentially the same message at a State Department briefing, with little press coverage. “I want to be very clear to you today,” she said in response to a question. “If Russia invades Ukraine, one way or another Nord Stream 2 will not move forward.”

Several of those involved in planning the pipeline mission were dismayed by what they viewed as indirect references to the attack.

“It was like putting an atomic bomb on the ground in Tokyo and telling the Japanese that we are going to detonate it,” the source said. “The plan was for the options to be executed post invasion and not advertised publicly. Biden simply didn’t get it or ignored it.”

Biden’s and Nuland’s indiscretion, if that is what it was, might have frustrated some of the planners. But it also created an opportunity. According to the source, some of the senior officials of the CIA determined that blowing up the pipeline “no longer could be considered a covert option because the President just announced that we knew how to do it.”

The plan to blow up Nord Stream 1 and 2 was suddenly downgraded from a covert operation requiring that Congress be informed to one that was deemed as a highly classified intelligence operation with U.S. military support. Under the law, the source explained, “There was no longer a legal requirement to report the operation to Congress. All they had to do now is just do it—but it still had to be secret. The Russians have superlative surveillance of the Baltic Sea.”

The Agency working group members had no direct contact with the White House, and were eager to find out if the President meant what he’d said—that is, if the mission was now a go. The source recalled, “Bill Burns comes back and says, ‘Do it.’”

“The Norwegian navy was quick to find the right spot, in the shallow water a few miles off Denmark’s Bornholm Island . . .”

THE OPERATION 

Norway was the perfect place to base the mission.

In the past few years of East-West crisis, the U.S. military has vastly expanded its presence inside Norway, whose western border runs 1,400 miles along the north Atlantic Ocean and merges above the Arctic Circle with Russia. The Pentagon has created high paying jobs and contracts, amid some local controversy, by investing hundreds of millions of dollars to upgrade and expand American Navy and Air Force facilities in Norway. The new works included, most importantly, an advanced synthetic aperture radar far up north that was capable of penetrating deep into Russia and came online just as the American intelligence community lost access to a series of long-range listening sites inside China.

A newly refurbished American submarine base, which had been under construction for years, had become operational and more American submarines were now able to work closely with their Norwegian colleagues to monitor and spy on a major Russian nuclear redoubt 250 miles to the east, on the Kola Peninsula. America also has vastly expanded a Norwegian air base in the north and delivered to the Norwegian air force a fleet of Boeing-built P8 Poseidon patrol planes to bolster its long-range spying on all things Russia.

In return, the Norwegian government angered liberals and some moderates in its parliament last November by passing the Supplementary Defense Cooperation Agreement (SDCA). Under the new deal, the U.S. legal system would have jurisdiction in certain “agreed areas” in the North over American soldiers accused of crimes off base, as well as over those Norwegian citizens accused or suspected of interfering with the work at the base.

Norway was one of the original signatories of the NATO Treaty in 1949, in the early days of the Cold War. Today, the supreme commander of NATO is Jens Stoltenberg, a committed anti-communist, who served as Norway’s prime minister for eight years before moving to his high NATO post, with American backing, in 2014. He was a hardliner on all things Putin and Russia who had cooperated with the American intelligence community since the Vietnam War. He has been trusted completely since. “He is the glove that fits the American hand,” the source said.

Back in Washington, planners knew they had to go to Norway. “They hated the Russians, and the Norwegian navy was full of superb sailors and divers who had generations of experience in highly profitable deep-sea oil and gas exploration,” the source said. They also could be trusted to keep the mission secret. (The Norwegians may have had other interests as well. The destruction of Nord Stream—if the Americans could pull it off—would allow Norway to sell vastly more of its own natural gas to Europe.)

Sometime in March, a few members of the team flew to Norway to meet with the Norwegian Secret Service and Navy. One of the key questions was where exactly in the Baltic Sea was the best place to plant the explosives. Nord Stream 1 and 2, each with two sets of pipelines, were separated much of the way by little more than a mile as they made their run to the port of Greifswald in the far northeast of Germany.

The Norwegian navy was quick to find the right spot, in the shallow waters of the Baltic sea a few miles off Denmark’s Bornholm Island. The pipelines ran more than a mile apart along a seafloor that was only 260 feet deep. That would be well within the range of the divers, who, operating from a Norwegian Alta class mine hunter, would dive with a mixture of oxygen, nitrogen and helium streaming from their tanks, and plant shaped C4 charges on the four pipelines with concrete protective covers. It would be tedious, time consuming and dangerous work, but the waters off Bornholm had another advantage: there were no major tidal currents, which would have made the task of diving much more difficult.

After a bit of research, the Americans were all in.

At this point, the Navy’s obscure deep-diving group in Panama City once again came into play. The deep-sea schools at Panama City, whose trainees participated in Ivy Bells, are seen as an unwanted backwater by the elite graduates of the Naval Academy in Annapolis, who typically seek the glory of being assigned as a Seal, fighter pilot, or submariner. If one must become a “Black Shoe”—that is, a member of the less desirable surface ship command—there is always at least duty on a destroyer, cruiser or amphibious ship. The least glamorous of all is mine warfare. Its divers never appear in Hollywood movies, or on the cover of popular magazines.

“The best divers with deep diving qualifications are a tight community, and only the very best are recruited for the operation and told to be prepared to be summoned to the CIA in Washington,” the source said.

The Norwegians and Americans had a location and the operatives, but there was another concern: any unusual underwater activity in the waters off Bornholm might draw the attention of the Swedish or Danish navies, which could report it.  

Denmark had also been one of the original NATO signatories and was known in the intelligence community for its special ties to the United Kingdom. Sweden had applied for membership into NATO, and had demonstrated its great skill in managing its underwater sound and magnetic sensor systems that successfully tracked Russian submarines that would occasionally show up in remote waters of the Swedish archipelago and be forced to the surface.

The Norwegians joined the Americans in insisting that some senior officials in Denmark and Sweden had to be briefed in general terms about possible diving activity in the area. In that way, someone higher up could intervene and keep a report out of the chain of command, thus insulating the pipeline operation. “What they were told and what they knew were purposely different,” the source told me. (The Norwegian embassy, asked to comment on this story, did not respond.)

The Norwegians were key to solving other hurdles. The Russian navy was known to possess surveillance technology capable of spotting, and triggering, underwater mines. The American explosive devices needed to be camouflaged in a way that would make them appear to the Russian system as part of the natural background—something that required adapting to the specific salinity of the water. The Norwegians had a fix.

The Norwegians also had a solution to the crucial question of when the operation should take place. Every June, for the past 21 years, the American Sixth Fleet, whose flagship is based in Gaeta, Italy, south of Rome, has sponsored a major NATO exercise in the Baltic Sea involving scores of allied ships throughout the region. The current exercise, held in June, would be known as Baltic Operations 22, or BALTOPS 22. The Norwegians proposed this would be the ideal cover to plant the mines.

The Americans provided one vital element: they convinced the Sixth Fleet planners to add a research and development exercise to the program. The exercise, as made public by the Navy, involved the Sixth Fleet in collaboration with the Navy’s “research and warfare centers.” The at-sea event would be held off the coast of Bornholm Island and involve NATO teams of divers planting mines, with competing teams using the latest underwater technology to find and destroy them.

It was both a useful exercise and ingenious cover. The Panama City boys would do their thing and the C4 explosives would be in place by the end of BALTOPS22, with a 48-hour timer attached. All of the Americans and Norwegians would be long gone by the first explosion. 

The days were counting down. “The clock was ticking, and we were nearing mission accomplished,” the source said.

And then: Washington had second thoughts. The bombs would still be planted during BALTOPS, but the White House worried that a two-day window for their detonation would be too close to the end of the exercise, and it would be obvious that America had been involved.

Instead, the White House had a new request: “Can the guys in the field come up with some way to blow the pipelines later on command?”

Some members of the planning team were angered and frustrated by the President’s seeming indecision. The Panama City divers had repeatedly practiced planting the C4 on pipelines, as they would during BALTOPS, but now the team in Norway had to come up with a way to give Biden what he wanted—the ability to issue a successful execution order at a time of his choosing.  

Being tasked with an arbitrary, last-minute change was something the CIA was accustomed to managing. But it also renewed the concerns some shared over the necessity, and legality, of the entire operation.

The President’s secret orders also evoked the CIA’s dilemma in the Vietnam War days, when President Johnson, confronted by growing anti-Vietnam War sentiment, ordered the Agency to violate its charter—which specifically barred it from operating inside America—by spying on antiwar leaders to determine whether they were being controlled by Communist Russia.

The agency ultimately acquiesced, and throughout the 1970s it became clear just how far it had been willing to go. There were subsequent newspaper revelations in the aftermath of the Watergate scandals about the Agency’s spying on American citizens, its involvement in the assassination of foreign leaders and its undermining of the socialist government of Salvador Allende.

Those revelations led to a dramatic series of hearings in the mid-1970s in the Senate, led by Frank Church of Idaho, that made it clear that Richard Helms, the Agency director at the time, accepted that he had an obligation to do what the President wanted, even if it meant violating the law.

In unpublished, closed-door testimony, Helms ruefully explained that “you almost have an Immaculate Conception when you do something” under secret orders from a President. “Whether it’s right that you should have it, or wrong that you shall have it, [the CIA] works under different rules and ground rules than any other part of the government.” He was essentially telling the Senators that he, as head of the CIA, understood that he had been working for the Crown, and not the Constitution.

The Americans at work in Norway operated under the same dynamic, and dutifully began working on the new problem—how to remotely detonate the C4 explosives on Biden’s order. It was a much more demanding assignment than those in Washington understood. There was no way for the team in Norway to know when the President might push the button. Would it be in a few weeks, in many months or in half a year or longer?

The C4 attached to the pipelines would be triggered by a sonar buoy dropped by a plane on short notice, but the procedure involved the most advanced signal processing technology. Once in place, the delayed timing devices attached to any of the four pipelines could be accidentally triggered by the complex mix of ocean background noises throughout the heavily trafficked Baltic Sea—from near and distant ships, underwater drilling, seismic events, waves and even sea creatures. To avoid this, the sonar buoy, once in place, would emit a sequence of unique low frequency tonal sounds—much like those emitted by a flute or a piano—that would be recognized by the timing device and, after a pre-set hours of delay, trigger the explosives. (“You want a signal that is robust enough so that no other signal could accidentally send a pulse that detonated the explosives,” I was told by Dr. Theodore Postol, professor emeritus of science, technology and national security policy at MIT. Postol, who has served as the science adviser to the Pentagon’s Chief of Naval Operations, said the issue facing the group in Norway because of Biden’s delay was one of chance: “The longer the explosives are in the water the greater risk there would be of a random signal that would launch the bombs.”)

On September 26, 2022, a Norwegian Navy P8 surveillance plane made a seemingly routine flight and dropped a sonar buoy. The signal spread underwater, initially to Nord Stream 2 and then on to Nord Stream 1. A few hours later, the high-powered C4 explosives were triggered and three of the four pipelines were put out of commission. Within a few minutes, pools of methane gas that remained in the shuttered pipelines could be seen spreading on the water’s surface and the world learned that something irreversible had taken place.

FALLOUT

In the immediate aftermath of the pipeline bombing, the American media treated it like an unsolved mystery. Russia was repeatedly cited as a likely culprit, spurred on by calculated leaks from the White House—but without ever establishing a clear motive for such an act of self-sabotage, beyond simple retribution. A few months later, when it emerged that Russian authorities had been quietly getting estimates for the cost to repair the pipelines, the New York Times described the news as “complicating theories about who was behind” the attack. No major American newspaper dug into the earlier threats to the pipelines made by Biden and Undersecretary of State Nuland.

While it was never clear why Russia would seek to destroy its own lucrative pipeline, a more telling rationale for the President’s action came from Secretary of State Blinken.

Asked at a press conference last September about the consequences of the worsening energy crisis in Western Europe, Blinken described the moment as a potentially good one:

“It’s a tremendous opportunity to once and for all remove the dependence on Russian energy and thus to take away from Vladimir Putin the weaponization of energy as a means of advancing his imperial designs. That’s very significant and that offers tremendous strategic opportunity for the years to come, but meanwhile we’re determined to do everything we possibly can to make sure the consequences of all of this are not borne by citizens in our countries or, for that matter, around the world.”

More recently, Victoria Nuland expressed satisfaction at the demise of the newest of the pipelines. Testifying at a Senate Foreign Relations Committee hearing in late January she told Senator Ted Cruz, “​Like you, I am, and I think the Administration is, very gratified to know that Nord Stream 2 is now, as you like to say, a hunk of metal at the bottom of the sea.”

The source had a much more streetwise view of Biden’s decision to sabotage more than 1500 miles of Gazprom pipeline as winter approached. “Well,” he said, speaking of the President, “I gotta admit the guy has a pair of balls.  He said he was going to do it, and he did.”

Asked why he thought the Russians failed to respond, he said cynically, “Maybe they want the capability to do the same things the U.S. did.

“It was a beautiful cover story,” he went on. “Behind it was a covert operation that placed experts in the field and equipment that operated on a covert signal.

“The only flaw was the decision to do it.”

FONTE: https://seymourhersh.substack.com/p/how-america-took-out-the-nord-stream

Germania: il “Manifesto per la pace” di Alice Schwarzer e Sara Wagenknecht raccoglie oltre 300mila firme in due giorni

Schwarzer e Wagenknecht mettono in guardia da una terza guerra mondiale. Chiedono di porre fine alla fornitura di armi all’Ucraina. Chiamano a una manifestazione a Berlino il 25 febbraio.

di Maximilian Beer (dal Berliner Zeitung)

La politica di sinistra Sahra Wagenknecht e la pubblicista Alice Schwarzer hanno scritto un “Manifesto per la pace”. “Oggi è il 352° giorno di guerra in Ucraina”, si legge all’inizio del testo, pubblicato sulla piattaforma di petizione Change.org. “Se i combattimenti continuano così, l’Ucraina sarà presto un Paese spopolato e distrutto”.

Nel testo, Wagenknecht e Schwarzer parlano di “oltre 200.000 soldati e 50.000 civili” che sarebbero già morti nei combattimenti. Le donne sono state violentate, i bambini spaventati e “un intero popolo traumatizzato”. In tutta Europa, molti temono un’espansione della guerra.

Negli ultimi mesi, il deputato del Bundestag e la giornalista si erano ripetutamente espressi contro le forniture di armi all’Ucraina e a favore di maggiori sforzi diplomatici per porre fine alla guerra di aggressione russa.

La popolazione ucraina è stata “brutalmente” invasa dalla Russia, scrivono Schwarzer e Wagenknecht, e ha bisogno della “nostra solidarietà”. Agli occhi dei due autori, tuttavia, questo non può ovviamente consistere in ulteriori forniture di armi al Paese.

“Il presidente Zelenskyj non fa mistero del suo obiettivo”, affermano Wagenknecht e Schwarzer a proposito del presidente ucraino. “Dopo i carri armati promessi, ora chiede anche jet da combattimento, missili a lungo raggio e navi da guerra – per sconfiggere la Russia su tutta la linea?”.

Secondo Schwarzer e Wagenknecht, si teme che il Presidente russo Vladimir Putin “lancerà un contrattacco durissimo al più tardi in caso di attacco alla Crimea”. La Russia aveva già annesso la penisola ucraina nel 2014, in violazione del diritto internazionale.

Nel loro “Manifesto”, ora pubblicato, Schwarzer e Wagenknecht chiedono anche al Cancelliere tedesco di “fermare l’escalation di consegne di armi”. Olaf Scholz dovrebbe “guidare una forte alleanza per il cessate il fuoco e i negoziati di pace a livello tedesco ed europeo”.

Gli autori concludono dicendo: “Perché ogni giorno perso costa fino a 1000 vite in più – e ci avvicina a una terza guerra mondiale”.

Alice #Schwarzer e io abbiamo scritto un “Manifesto per la pace”. Per i #negoziati invece che per i #carri armati. A partire da oggi, tutti possono partecipare: https://t.co/UD8JGBXsVl Per il 25 febbraio, alle 14.00, vi invitiamo a una manifestazione alla Porta di Brandeburgo. #AufstandfuerFrieden pic.twitter.com/qCiAtUhjYO
– Sahra Wagenknecht (@SWagenknecht) 10 febbraio 2023

FONTE: https://www.berliner-zeitung.de/politik-gesellschaft/aufruf-zu-demo-schwarzer-und-wagenknecht-veroeffentlichen-manifest-fuer-frieden-li.316259


TESTO in ITALIANO della PETIZIONE LANCIATA IERI IN GERMANIA DA SARA WAGENKNECHT e ALICE SCHWARZER

Alice Schwarzer, Sahra Wagenknecht e il generale di brigata in pensione Erich Vad hanno indetto una giornata di protesta per il 25 febbraio: una manifestazione presso la Porta di Brandeburgo a Berlino.

LINK per firmare la petizione: https://www.change.org/p/manifest-f%C3%BCr-frieden

“Oggi è il 352° giorno di guerra in Ucraina. Finora sono stati uccisi oltre 200.000 soldati e 50.000 civili. Le donne sono state violentate, i bambini spaventati, un intero popolo traumatizzato. Se i combattimenti continuano così, l’Ucraina sarà presto un Paese spopolato e distrutto. E anche molte persone in tutta Europa temono un’espansione della guerra. Temono per il loro futuro e per quello dei loro figli.

Il popolo ucraino, brutalmente invaso dalla Russia, ha bisogno della nostra solidarietà. Ma cosa sarebbe ora la solidarietà? Per quanto tempo ancora si dovrà combattere e morire sul campo di battaglia dell’Ucraina? E qual è ora, un anno dopo, l’obiettivo di questa guerra? Il ministro degli Esteri tedesco ha recentemente parlato di “noi” che conduciamo una “guerra contro la Russia”. Sul serio?

Il Presidente Zelenskyj non fa mistero del suo obiettivo. Dopo i carri armati promessi, ora chiede jet da combattimento, missili a lungo raggio e navi da guerra – per sconfiggere la Russia su tutta la linea? Il cancelliere tedesco assicura ancora di non voler inviare né jet da combattimento né “truppe di terra”. Ma quante “linee rosse” sono già state superate negli ultimi mesi?

C’è da temere che Putin lanci al più tardi un massiccio contrattacco se viene attaccata la Crimea. Ci stiamo quindi dirigendo inesorabilmente verso un pendio scivoloso che porta alla guerra mondiale e alla guerra nucleare? Non sarebbe la prima grande guerra iniziata in questo modo. Ma potrebbe essere l’ultima.

L’Ucraina può vincere singole battaglie – con il sostegno dell’Occidente. Ma non può vincere una guerra contro la più grande potenza nucleare del mondo. Lo dice anche il più alto ufficiale militare degli Stati Uniti, il generale Milley. Parla di una situazione di stallo in cui nessuna delle due parti può vincere militarmente e la guerra può essere conclusa solo al tavolo dei negoziati. Allora perché non ora? Immediatamente!

Negoziare non significa arrendersi. Negoziare significa scendere a compromessi, da entrambe le parti. Con l’obiettivo di prevenire altre centinaia di migliaia di morti e peggio. Lo pensiamo anche noi, lo pensa anche metà della popolazione tedesca. È ora di ascoltarci!

Noi cittadini tedeschi non possiamo influenzare direttamente l’America e la Russia o i nostri vicini europei. Ma possiamo e dobbiamo chiedere conto al nostro governo e al Cancelliere e ricordargli il suo giuramento: “Evitare danni al popolo tedesco”.

Chiediamo al Cancelliere di fermare l’escalation di consegne di armi. Ora! Dovrebbe guidare una forte alleanza per il cessate il fuoco e i negoziati di pace sia a livello tedesco che europeo. Ora! Perché ogni giorno perso costa fino a 1.000 vite in più – e ci avvicina a una terza guerra mondiale.”

Alice Schwarzer e Sahra Wagenknecht

VIDEO:

I 69 SOSTENITORI

Dr. Franz Alt Journalist und Bigi AltChristian Baron Schriftsteller • Franziska Becker Cartoonistin • Dr. Thilo Bode Foodwatch-Gründer • Prof. Dr. Peter Brandt Historiker • Rainer Braun Internationales Friedensbüro (IPB) • Andrea Breth ­Regisseurin • Dr. Ulrich Brinkmann Soziologe • Prof. Dr. Christoph Butterwegge Armutsforscher • Dr. Angelika Claußen IPPNW Vize-Präsidentin Europa • Daniela Dahn Publizistin • Rudolf Dressler Ex-Staatssekretär (SPD) • Anna Dünnebier Autorin • Petra Erler Geschäftsführerin (SPD) • Valie Export Künstlerin • Bettina Flitner ­Fotografin und Autorin • Justus Frantz Dirigent und Pianist • Holger Friedrich Verleger ­Berliner ­Zeitung • Katharina Fritsch Künstlerin • Prof. Dr. Hajo Funke Politikwissenschaftler • Dr. Peter Gauweiler Rechtsanwalt  (CSU) • Jürgen Grässlin Dt. Friedensgesellschaft • ­Wolfgang Grupp Unternehmer • Prof. Dr. Ulrike Guérot Politikwissenschaftlerin • ­Gottfried ­Helnwein Künstler • Hannelore Hippe Schriftstellerin • Henry Hübchen Schauspieler • ­Wolfgang ­Hummel Jurist • Otto Jäckel Vorstand IALANA • Dr. Dirk Jörke Politikwissenschaftler • Dr. ­Margot Käßmann Theologin • Corinna Kirchhoff Schauspielerin • Uwe Kockisch Schauspieler • Prof. Dr. Matthias Kreck Mathematiker • Oskar Lafontaine Ex-Minister­präsident  • Detlef Malchow Kaufmann • Gisela Marx Journalistin • Prof. Dr. ­Rainer Mausfeld ­Psychologe • Roland May Regisseur • Maria Mesrian Theologin/Maria 2.0 • Reinhard Mey Musiker und Hella MeyProf. Dr. Klaus Moegling ­Scientists for Future • Michael Müller Vorsitzender NaturFreunde • Franz Nadler Connection e. V. • Dr. ­Christof ­Ostheimer ver.di-Vorsitzender Neumünster • Dr. Tanja Paulitz Soziologin • Romani Rose Vors. Zentralrat Deutscher Sinti und Roma • Eugen Ruge Schriftsteller • Helke Sander ­Filmemacherin • Michael von der Schulenburg ­UN-Diplomat a.D. • Hanna Schygulla Schauspielerin • Martin Sonneborn Journalist (Die Partei) • Jutta Speidel Schauspielerin • Dr. Hans-C. von Sponeck Beigeordneter ­UN-Generalsekretär a.D. • Prof. Dr. Wolfgang Streeck Soziologe und Politikwissenschaftler • Katharina Thalbach Schauspielerin • Dr. Jürgen Todenhöfer Politiker • Prof. Gerhard Trabert Sozial­mediziner • Bernhard ­Trautvetter Friedensratschlag • Dr. Erich Vad Brigade­general a.D. • Prof. Dr. Johannes Varwick Politikwissenschaftler • ­Günter Verheugen Ex-Vizepräsident EU-Kommission • Dr. Antje Vollmer Theologin (Die Grünen) • Prof. Dr. Peter Weibel Kunst- und ­Medientheoretiker • Nathalie Weidenfeld Schriftstellerin • ­Hans-Eckardt Wenzel ­Liedermacher • Dr. Theodor Ziegler Religionspädagoge

KUNDGEBUNG Alice Schwarzer, Sahra Wagenknecht und Brigadegeneral a.D. Erich Vad haben für den 25. Februar einen Protesttag ­initiiert: eine Kundgebung am Brandenburger Tor in Berlin.

SPENDEN Für die Kundgebung fallen Kosten an (Bühne, Technik, Livestream). Spenden: Stichwort “Aufstand für Frieden” via GoFundMe

LINK per firmare la petizione:

https://www.change.org/p/manifest-f%C3%BCr-frieden

L’imperialismo “Woke”

di Chris Hedges

La cultura “Woke”, priva di coscienza di classe e di impegno a stare dalla parte degli oppressi, è un altro strumento nell’arsenale dello Stato imperiale.

Il brutale omicidio di Tyre Nichols da parte di cinque agenti di polizia neri di Memphis dovrebbe essere sufficiente a far implodere la fantasia secondo cui le politiche identitarie e la diversità risolveranno il degrado sociale, economico e politico che affligge gli Stati Uniti. Non solo gli ex agenti sono neri, ma il dipartimento di polizia della città è guidato da Cerelyn Davis, una donna nera. Niente di tutto questo ha aiutato Nichols, un’altra vittima di un moderno linciaggio da parte della polizia.

I militaristi, le multinazionali, gli oligarchi, i politici, gli accademici e i conglomerati mediatici sostengono la politica dell’identità e della diversità perché non fa nulla per affrontare le ingiustizie sistemiche o il flagello della guerra permanente che affligge gli Stati Uniti. È un espediente pubblicitario, un marchio, usato per mascherare la crescente disuguaglianza sociale e la follia imperiale. Impegna i liberali e i colti con un attivismo da boutique, che non solo è inefficace, ma esaspera il divario tra i privilegiati e una classe operaia in profondo disagio economico. I ricchi rimproverano ai poveri le loro cattive maniere, il razzismo, l’insensibilità linguistica e la sgarbatezza, ignorando le cause profonde del loro disagio economico. Gli oligarchi non potrebbero essere più felici.

La vita dei nativi americani è migliorata a seguito della legislazione che imponeva l’assimilazione e la revoca dei titoli di proprietà delle terre tribali, promossa da Charles Curtis, il primo vicepresidente nativo americano? Stiamo meglio con Clarence Thomas, che si oppone all’azione positiva, alla Corte Suprema, o con Victoria Nuland, un falco della guerra al Dipartimento di Stato? La nostra perpetuazione della guerra permanente è più accettabile perché Lloyd Austin, un afroamericano, è il Segretario alla Difesa? L’esercito è più umano perché accetta i soldati transgender? La disuguaglianza sociale e lo stato di sorveglianza che la controlla sono migliorati perché Sundar Pichai – nato in India – è il CEO di Google e Alphabet? L’industria bellica è migliorata perché Kathy J. Warden, una donna, è l’amministratore delegato di Northop Grumman e un’altra donna, Phebe Novakovic, è l’amministratore delegato di General Dynamics? Le famiglie dei lavoratori stanno meglio con Janet Yellen, che promuove l’aumento della disoccupazione e la “precarietà del lavoro” per ridurre l’inflazione, come Segretario del Tesoro? L’industria cinematografica è migliorata quando una regista donna, Kathryn Bigelow, realizza “Zero Dark Thirty”, che è un’agit-prop per la CIA? Date un’occhiata a questo annuncio di reclutamento pubblicato dalla CIA. Riassume l’assurdità della situazione in cui siamo finiti.

I regimi coloniali trovano leader indigeni compiacenti – “Papa Doc” François Duvalier ad Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Mobutu Sese Seko in Congo, Mohammad Reza Pahlavi in Iran – disposti a fare il lavoro sporco mentre sfruttano e saccheggiano i Paesi che controllano. Per ostacolare le aspirazioni popolari alla giustizia, le forze di polizia coloniali hanno regolarmente compiuto atrocità per conto degli oppressori. I combattenti per la libertà indigeni che lottano a sostegno dei poveri e degli emarginati vengono solitamente estromessi dal potere o assassinati, come nel caso del leader indipendentista congolese Patrice Lumumba e del presidente cileno Salvador Allende. Il capo Lakota Toro Seduto è stato ucciso da membri della sua stessa tribù, che prestavano servizio nella polizia della riserva di Standing Rock. Se si sta dalla parte degli oppressi, si finisce quasi sempre per essere trattati come tali. È per questo che l’FBI, insieme alla polizia di Chicago, ha ucciso Fred Hampton ed è quasi certamente coinvolta nell’omicidio di Malcolm X, che si riferiva ai quartieri urbani impoveriti come “colonie interne”. Le forze di polizia militarizzate negli Stati Uniti funzionano come eserciti di occupazione. Gli agenti di polizia che hanno ucciso Tyre Nichols non sono diversi da quelli delle riserve e delle forze di polizia coloniali.

Viviamo sotto una specie di colonialismo aziendale. I motori della supremazia bianca, che hanno costruito le forme di razzismo istituzionale ed economico che mantengono poveri i poveri, sono oscurati dietro personalità politiche attraenti come Barack Obama, che Cornel West ha definito “una mascotte nera per Wall Street”. Questi volti della diversità sono controllati e selezionati dalla classe dirigente. Obama è stato preparato e promosso dalla macchina politica di Chicago, una delle più sporche e corrotte del Paese.

“È un insulto ai movimenti organizzati di persone che queste istituzioni affermano di voler includere”, mi ha detto nel 2018 Glen Ford, il defunto editore di The Black Agenda Report. “Queste istituzioni scrivono il copione. È il loro dramma. Scelgono gli attori, le facce nere, marroni, gialle, rosse che vogliono”.

Ford ha definito coloro che promuovono le politiche identitarie “rappresentazionisti” che “vogliono vedere alcuni neri rappresentati in tutti i settori della leadership, in tutti i settori della società. Vogliono scienziati neri. Vogliono stelle del cinema nere. Vogliono studiosi neri ad Harvard. Vogliono neri a Wall Street. Ma è solo una rappresentanza. Tutto qui”.

Il tributo del capitalismo aziendale alle persone che questi “rappresentativi” pretendono di rappresentare smaschera l’imbroglio. Gli afroamericani hanno perso il 40% della loro ricchezza dal crollo finanziario del 2008, a causa dell’impatto sproporzionato del calo del patrimonio netto delle case, dei prestiti predatori, dei pignoramenti e della perdita del lavoro. Secondo l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti e il Dipartimento per la salute e i servizi umani, i neri e i nativi americani sono al secondo posto per tasso di povertà (21,7%), seguiti dagli ispanici (17,6%) e dai bianchi (9,5%). Nel 2021, i bambini neri e nativi americani vivevano in povertà rispettivamente al 28 e al 25%, seguiti dai bambini ispanici al 25% e dai bambini bianchi al 10%. Quasi il 40% dei senzatetto della nazione sono afroamericani, sebbene i neri rappresentino circa il 14% della popolazione. Questa cifra non comprende le persone che vivono in abitazioni fatiscenti e sovraffollate o presso parenti o amici a causa di difficoltà economiche. Gli afroamericani sono incarcerati a un tasso quasi cinque volte superiore a quello dei bianchi.

La politica dell’identità e la diversità permettono ai liberali di crogiolarsi in una stucchevole superiorità morale mentre castigano, censurano e deplorano coloro che non si conformano linguisticamente al linguaggio politicamente corretto. Sono i nuovi giacobini. Questo gioco maschera la loro passività di fronte agli abusi delle aziende, al neoliberismo, alla guerra permanente e alla riduzione delle libertà civili. Non affrontano le istituzioni che orchestrano l’ingiustizia sociale ed economica. Cercano di rendere più appetibile la classe dirigente. Con il sostegno del Partito Democratico, i media liberali, il mondo accademico e le piattaforme di social media della Silicon Valley demonizzano le vittime del colpo di stato aziendale e della deindustrializzazione. Fanno le loro principali alleanze politiche con coloro che abbracciano la politica dell’identità, sia che si trovino a Wall Street o al Pentagono. Sono gli utili idioti della classe miliardaria, crociati morali che ampliano le divisioni all’interno della società che gli oligarchi al potere promuovono per mantenere il controllo.

La diversità è importante. Ma la diversità, quando è priva di un programma politico che combatta l’oppressore per conto dell’oppresso, è un’operazione di facciata. Si tratta di incorporare un piccolo segmento di persone emarginate dalla società in strutture ingiuste per perpetuarle.

Il gruppo di un corso che ho tenuto in un carcere di massima sicurezza del New Jersey ha scritto “Caged”, un’opera teatrale sulla loro vita. L’opera è stata rappresentata per quasi un mese al Passage Theatre di Trenton, nel New Jersey, dove ha registrato il tutto esaurito quasi ogni sera. Successivamente è stata pubblicata da Haymarket Books. I 28 studenti della classe hanno insistito affinché l’agente di custodia della storia non fosse bianco. Era troppo facile, dicevano. Era una finzione che permette alle persone di semplificare e mascherare l’apparato oppressivo di banche, aziende, polizia, tribunali e sistema carcerario, che assumono persone diverse. Questi sistemi di sfruttamento e oppressione interna devono essere presi di mira e smantellati, indipendentemente da chi assumono.

Il mio libro, “La nostra classe: Trauma and Transformation in an American Prison”, utilizza l’esperienza della scrittura dell’opera teatrale per raccontare le storie dei miei studenti e trasmettere la loro profonda comprensione delle forze repressive e delle istituzioni schierate contro di loro, le loro famiglie e le loro comunità. Potete vedere la mia intervista in due parti con Hugh Hamilton su “La nostra classe” qui e qui.

L’ultima opera di August Wilson, “Radio Golf”, aveva preannunciato la direzione che avrebbero preso la diversità e le politiche identitarie prive di coscienza di classe. Nella pièce, Harmond Wilks, un immobiliarista istruito dalla Ivy League, sta per lanciare la sua campagna per diventare il primo sindaco nero di Pittsburgh. Sua moglie, Mame, aspira a diventare addetta stampa del governatore. Wilks, navigando nell’universo dell’uomo bianco fatto di privilegi, affari, ricerca di uno status e gioco del golf nel country club, deve asportare e negare la sua identità. Roosevelt Hicks, che era stato compagno di stanza di Wilk all’università Cornell ed è vicepresidente della Mellon Bank, è il suo socio in affari. Sterling Johnson, il cui quartiere Wilks e Hicks stanno facendo pressioni affinché la città lo dichiari degradato per poterlo radere al suolo per il loro progetto di sviluppo multimilionario, dice a Hicks:

Sai cosa sei? Mi ci è voluto un po’ per capirlo. Sei un negro. I bianchi si confondono e ti chiamano negro, ma non lo sanno come lo so io. Io so la verità. Sono un negro. I negri sono la cosa peggiore della creazione di Dio. I negri hanno stile. I negri hanno la cecità. Un cane sa di essere un cane. Un gatto sa di essere un gatto. Ma un negro non sa di essere un negro. Pensa di essere un bianco.

Terribili forze predatorie stanno divorando il Paese. I corporativisti, i militaristi e i mandarini politici che li servono sono il nemico. Il nostro compito non è quello di renderle più attraenti, ma di distruggerle. Tra noi ci sono autentici combattenti per la libertà di tutte le etnie e provenienze, la cui integrità non permette loro di servire il sistema di totalitarismo invertito che ha distrutto la nostra democrazia, impoverito la nazione e perpetuato guerre senza fine. La diversità, quando serve agli oppressi, è una risorsa, ma una truffa quando serve agli oppressori.

FONTE: https://open.substack.com/pub/chrishedges/p/listen-to-this-article-woke-imperialism?r=1tqdxn&utm_campaign=post&utm_medium=email


Woke Imperialism

Woke culture, devoid of class consciousness and a commitment to stand with the oppressed, is another tool in the arsenal of the imperial state.

Identity Politics – by Mr. Fish

The brutal murder of Tyre Nichols by five Black Memphis police officers should be enough to implode the fantasy that identity politics and diversity will solve the social, economic and political decay that besets the United States. Not only are the former officers Black, but the city’s police department is headed by Cerelyn Davis, a Black woman. None of this helped Nichols, another victim of a modern-day police lynching.

The militarists, corporatists, oligarchs, politicians, academics and media conglomerates champion identity politics and diversity because it does nothing to address the systemic injustices or the scourge of permanent war that plague the U.S. It is an advertising gimmick, a brand, used to mask mounting social inequality and imperial folly. It busies liberals and the educated with a boutique activism, which is not only ineffectual but exacerbates the divide between the privileged and a working class in deep economic distress. The haves scold the have-nots for their bad manners, racism, linguistic insensitivity and garishness, while ignoring the root causes of their economic distress. The oligarchs could not be happier.

Did the lives of Native Americans improve as a result of the legislation mandating assimilation and the revoking of tribal land titles pushed through by Charles Curtis, the first Native American Vice President? Are we better off with Clarence Thomas, who opposes affirmative action, on the Supreme Court, or Victoria Nuland, a war hawk in the State Department? Is our perpetuation of permanent war more palatable because Lloyd Austin, an African American, is the Secretary of Defense? Is the military more humane because it accepts transgender soldiers? Is social inequality, and the surveillance state that controls it, ameliorated because Sundar Pichai — who was born in India — is the CEO of Google and Alphabet? Has the weapons industry improved because Kathy J. Warden, a woman, is the CEO of Northop Grumman, and another woman, Phebe Novakovic, is the CEO of General Dynamics? Are working families better off with Janet Yellen, who promotes increasing unemployment and “job insecurity” to lower inflation, as Secretary of the Treasury? Is the movie industry enhanced when a female director, Kathryn Bigelow, makes “Zero Dark Thirty,” which is agitprop for the CIA? Take a look at this recruitment ad put out by the CIA. It sums up the absurdity of where we have ended up.

Colonial regimes find compliant indigenous leaders — “Papa Doc” François Duvalier in Haiti, Anastasio Somoza in Nicaragua, Mobutu Sese Seko in the Congo, Mohammad Reza Pahlavi in Iran — willing to do their dirty work while they exploit and loot the countries they control. To thwart popular aspirations for justice, colonial police forces routinely carried out atrocities on behalf of the oppressors. The indigenous freedom fighters who fight in support of the poor and the marginalized are usually forced out of power or assassinated, as was the case with Congolese independence leader Patrice Lumumba and Chilean president Salvador Allende. Lakota chief Sitting Bull was gunned down by members of his own tribe, who served in the reservation’s police force at Standing Rock. If you stand with the oppressed, you will almost always end up being treated like the oppressed. This is why the FBI, along with Chicago police, murdered Fred Hampton and was almost certainly involved in the murder of Malcolm X, who referred to impoverished urban neighborhoods as “internal colonies.” Militarized police forces in the U.S. function as armies of occupation. The police officers who killed Tyre Nichols are no different from those in reservation and colonial police forces.

We live under a species of corporate colonialism. The engines of white supremacy, which constructed the forms of institutional and economic racism that keep the poor poor, are obscured behind attractive political personalities such as Barack Obama, whom Cornel West called “a Black mascot for Wall Street.” These faces of diversity are vetted and selected by the ruling class. Obama was groomed and promoted by the Chicago political machine, one of the dirtiest and most corrupt in the country.

“It’s an insult to the organized movements of people these institutions claim to want to include,” Glen Ford, the late editor of The Black Agenda Report told me in 2018. “These institutions write the script. It’s their drama. They choose the actors, whatever black, brown, yellow, red faces they want.”

Ford called those who promote identity politics “representationalists” who “want to see some Black people represented in all sectors of leadership, in all sectors of society. They want Black scientists. They want Black movie stars. They want Black scholars at Harvard. They want Blacks on Wall Street. But it’s just representation. That’s it.”

The toll taken by corporate capitalism on the people these “representationalists” claim to represent exposes the con. African-Americans have lost 40 percent of their wealth since the financial collapse of 2008 from the disproportionate impact of the drop in home equity, predatory loans, foreclosures and job loss. They have the second highest rate of poverty at 21.7 percent, after Native Americans at 25.9 percent, followed by Hispanics at 17.6 percent and whites at 9.5 percent, according to the U.S. Census Bureau and the Department for Health and Human Services. As of 2021, Black and Native American children lived in poverty at 28 and 25 percent respectively, followed by Hispanic children at 25 percent and white children at 10 percent. Nearly 40 percent of the nation’s homeless are African-Americans although Black people make up about 14 percent of our population. This figure does not include people living in dilapidated, overcrowded dwellings or with family or friends due to financial difficulties.  African-Americans are incarcerated at nearly five times the rate of white people.

Identity politics and diversity allow liberals to wallow in a cloying moral superiority as they castigate, censor and deplatform those who do not linguistically conform to politically correct speech. They are the new Jacobins. This game disguises their passivity in the face of corporate abuse, neoliberalism, permanent war and the curtailment of civil liberties. They do not confront the institutions that orchestrate social and economic injustice. They seek to make the ruling class more palatable. With the support of the Democratic Party, the liberal media, academia and social media platforms in Silicon Valley, demonize the victims of the corporate coup d’etat and deindustrialization. They make their primary political alliances with those who embrace identity politics, whether they are on Wall Street or in the Pentagon. They are the useful idiots of the billionaire class, moral crusaders who widen the divisions within society that the ruling oligarchs foster to maintain control. 

Diversity is important. But diversity, when devoid of a political agenda that fights the oppressor on behalf of the oppressed, is window dressing. It is about  incorporating a tiny segment of those marginalized by society into unjust structures to perpetuate them. 

A class I taught in a maximum security prison in New Jersey wrote “Caged,” a play about their lives. The play ran for nearly a month at The Passage Theatre in Trenton, New Jersey, where it was sold out nearly every night. It was subsequently published by Haymarket Books. The 28 students in the class insisted that the corrections officer in the story not be white. That was too easy, they said. That was a feint that allows people to simplify and mask the oppressive apparatus of banks, corporations, police, courts and the prison system, all of which make diversity hires. These systems of internal exploitation and oppression must be targeted and dismantled, no matter whom they employ. 

My book, “Our Class: Trauma and Transformation in an American Prison,” uses the experience of writing the play to tell the stories of my students and impart their profound understanding of the repressive forces and institutions arrayed against them, their families and their communities. You can see my two-part interview with Hugh Hamilton about “Our Class” here and here.

August Wilson’s last play, “Radio Golf,” foretold where diversity and identity politics devoid of class consciousness were headed. In the play, Harmond Wilks, an Ivy League-educated real estate developer, is about to launch his campaign to become Pittsburgh’s first Black mayor. His wife, Mame, is angling to become the governor’s press secretary. Wilks, navigating the white man’s universe of privilege, business deals, status seeking and the country club game of golf, must sanitize and deny his identity. Roosevelt Hicks, who had been Wilk’s college roommate at Cornell and is a vice president at Mellon Bank, is his business partner. Sterling Johnson, whose neighborhood Wilks and Hicks are lobbying to get the city to declare blighted so they can raze it for their multimillion dollar development project, tells Hicks: 

You know what you are? It took me a while to figure it out. You a Negro. White people will get confused and call you a nigger but they don’t know like I know. I know the truth of it. I’m a nigger. Negroes are the worst thing in God’s creation. Niggers got style. Negroes got blindyitis. A dog knows it’s a dog. A cat knows it’s a cat. But a Negro don’t know he’s a Negro. He thinks he’s a white man.

Terrible predatory forces are eating away at the country. The corporatists, militarists and political mandarins that serve them are the enemy. It is not our job to make them more appealing, but to destroy them. There are amongst us genuine freedom fighters of all ethnicities and backgrounds whose integrity does not permit them to serve the system of inverted totalitarianism that has destroyed our democracy, impoverished the nation and perpetuated endless wars. Diversity when it serves the oppressed is an asset, but a con when it serves the oppressors.

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/woke-imperialism

Sergej Lavrov: Conferenza stampa di inizio anno (Video con traduzione in Italiano)

Conferenza stampa di inizio anno – 2023 – con i giornalisti stranieri. Mosca, 18 gennaio 2023

Conferenza stampa di Sergej Lavrov, ministro degli esteri della Federazione Russa, 18 gennaio 2023. Traduzione simultanea in italiano, versione integrale a cura di Mark Bernardini)

Guerra in Ucraina, profili strategici e divisioni valoriali

di Alberto Bradanini

In un acuto articolo reperibile sulla rete[1], l’antropologo francese Emmanuel Todd ha sviluppato alcune riflessioni sugli accadimenti ucraini che andrebbero valutate da chi dispone del potere di evitare che questa guerra ci conduca nel baratro.

Di seguito i punti cruciali delle riflessioni di Todd, con commenti a margine di chi scrive, quando non diversamente indicato, tenendo a mente che le rappresentazioni della narrazione dominante non sorgono da quel ramo del Lago di Como come i monti manzoniani, essendo fabbricate a tavolino da coloro che muovono i fili della manipolazione, per interesse o sudditanza[2].

L’antropologo citato rileva che all’avvio del conflitto due erano i postulati che gli eventi successivi hanno poi smentito: a) l’Ucraina non resisterà alla pressione militare russa; b) la Russia verrà schiacciata dalle sanzioni occidentali e il suo sistema produttivo, commerciale e finanziario sarà messo in ginocchio.

Inizialmente il conflitto aveva una dimensione territoriale, con un rischio espansivo limitato, sebbene i propositi di Nato-Usa erano stati prefabbricati e avessero obiettivi più estesi. Col passare dei mesi, l’obiettivo dell’Occidente è emerso nella sua evidenza, il dissanguamento della Russia e a caduta l’indebolimento della Cina. In parallelo, da una dimensione circoscritta la guerra è diventata mondiale, seppure con proprie caratteristiche e una bassa intensità militare rispetto a quelle precedenti.

All’avvio delle ostilità, la narrazione mediatica esaltava la forza dell’esercito russo, ben armato e strutturato. Dell’economia russa veniva invece rimarcata la fragilità di fondo, che l’avrebbe fatta crollare sotto il peso delle sanzioni. L’Ucraina, in buona sostanza, sarebbe stata travolta sul piano militare, mentre la Russia su quello economico. Le carte si sono invece ribaltate, una doppia sorpresa che conferma l’azzardo di ogni previsione e l’inattendibilità della macchina manipolatoria, quando i destinatari trovano tempo per approfondire.

Gli analisti dotati di pensiero critico – non certo i funzionari politici e mediatici di sistema, o i partigiani ideologici – restano convinti che sarà la Russia a prevalere, anche se la forma non è prevedibile. L’Ucraina, tuttavia, non è stata schiacciata sul piano militare, pur avendo perso (gennaio 2023) il 16 per cento del territorio. Sul fronte opposto, l’economia regge, non è andata in rovina, il commercio con i paesi non-occidentali è sostenuto e, dalla vigilia della guerra, il rublo ha guadagnato l’8 per cento sul dollaro e il 18 per cento sull’euro.

Sul piano militare l’Occidente non intende esporsi (lo fa con il sangue e il territorio ucraini) per evitare rappresaglie ed escalation, pur fornendo finanziamenti e armamenti che tengono in piedi lo stato ucraino e uccidono soldati russi. In Europa, la guerra danneggia la struttura industriale, causa inflazione e scarsità di energia, aggrava la sua irrilevanza e la sudditanza all’alleato-padrone.

Secondo alcuni, con questa operazione militare speciale Putin avrebbe commesso un errore storico-sociale, avendo rivitalizzato la morente società ucraina. Fino all’avvio delle ostilità l’Ucraina aveva il profilo di un paese fallito, in decomposizione. Dal giorno dell’indipendenza (24 agosto 1991) il paese aveva perso 15 milioni di abitanti, sebbene manchino dati ufficiali perché il censimento è vietato dal 2001, quale riflesso di un’élite che vorrebbe cancellare persino l’esistenza della minoranza russa o russofona.

Secondo le iniziali valutazioni del Cremlino, un paese così fragile sotto il profilo identitario sarebbe facilmente crollato, spalancando le porte a santa madre Russia, dopo essersi liberato delle bande nazionaliste e para-naziste insediatesi nei suoi apparati politici e militari. Ma ciò non è avvenuto. Anzi, lo sviluppo degli eventi ha validato l’assunto che una società in caduta libera come quella ucraina può trovare nella guerra un orizzonte identitario che sembrava perso nelle nebbie del tempo, facendo affidamento su risorse esterne, finanziarie e militari. Persino i russi avevano sottovalutato il collante del sentimento nazionalista, oltre che l’impatto degli aiuti occidentali.

Va rilevato che tra i diversi protagonisti della guerra, la Russia è il paese più facilmente intellegibile, e a ragione. Todd condivide l’analisi del politologo americano di scuola realista, John Mearsheimer, quando osserva che l’esercito ucraino era già di fatto un esercito della Nato (addestrato da statunitensi, britannici e polacchi molto prima del 2014) anche senza la formale adesione di Kiev al Blocco Atlantico. Uno scenario che – come da Putin affermato fino al giorno precedente l’attacco – la Russia non avrebbe tollerato. Le mosse di Mosca sono chiare, essendo motivate da ragioni difensive e preventive. Mearsheimer aggiunge tuttavia che le difficoltà dell’esercito russo non dovrebbero indurre a rallegrarsi, poiché questa guerra ha per Mosca un valore esistenziale. Se crescono le sofferenze, cresce in parallelo l’intensità della sua reazione, e dunque una possibile escalation[3] persino nucleare (un rischio su cui gli incoscienti generali/governo/produttori di armi americani, che manovrano dietro il sipario, sorvolano distrattamente, mentre i paesi europei si eclissano sotto il velo di un’umiliante omertà): qualora vedesse profilarsi la sconfitta, l’esercito russo procederebbe innanzitutto alla sistematica distruzione delle città ucraine, a partire dalla capitale, per poi considerare attacchi convenzionali con missili ipersonici fors’anche contro un paese Nato, fino all’uso di un ordigno nucleare tattico (al quale difficilmente gli Usa reagirebbero, per non rischiare a loro volta di diventare bersagli della controreazione russa).

Si tratta di un’analisi che Todd considera corretta, sebbene le riflessioni di Mearsheimer meritino un’aggiunta: questo conflitto aveva inizialmente caratteristiche esistenziali solo per Mosca. Esso è ora diventato tale anche per Washington, sebbene per ragioni diverse, imprigionando i due antagonisti in una spirale senza apparente via d’uscita. La Russia, come rilevato, non può essere sconfitta, se non scatenando l’Armageddon. Ora, anche la disfatta dell’Occidente-Ucraina verrebbe percepita dagli Stati Uniti, che ne sono la guida, come una ferita esistenziale. Per Washington le sofferenze non comporterebbero sacrifici territoriali o il rischio di un cambio di regime (come in Russia), poiché la struttura del corporativismo americano non ne verrebbe comunque scalfita. Le conseguenze sarebbero di natura geostrategica. Se la Russia dovesse prevalere, l’icona di onnipotenza della superpotenza atlantica ne risentirebbe pesantemente, con riflessi diretti sulla sua influenza nel mondo. Gli Usa, infatti, non intendono certo rinunciare allo status imperiale unipolare – la sola nazione indispensabile, B. Clinton, 1999 – per tornare ad essere una nazione normale e contribuire con onestà alla soluzione dei problemi del mondo. Decisamente no.

In caso di sconfitta dell’Ucraina, dunque, il sistema di potere americano potrebbe scoprirsi esposto e magari percepire i primi cedimenti di quel trono di privilegi sul quale è seduto. La guerra non presenta vie d’uscita bilanciate per le due parti. La torta sarà divisa in modo ineguale, con riflessi imprevedibili sul resto del mondo.

Secondo le dichiarazioni ufficiali, Francia e Germania erano convinte che la Russia mai avrebbe trovato il coraggio d’invadere l’Ucraina, mentre americani, inglesi e polacchi stavano lavorando proprio perché ciò avvenisse. Non ne abbiamo evidenza, ma è presumibile, riflette Todd, che i due paesi non abbiano considerato seriamente tale ipotesi, sebbene le recenti dichiarazioni (comode e tardive) di Hollande e Merkel (i quali nel 2014 guidavano i rispettivi governi) – che gli accordi di Minsk (che avrebbero sancito l’autonomia linguistica nel Donbass sotto sovranità ucraina) erano solo un espediente per guadagnare tempo[4] e consentire all’Ucraina di armarsi in vista di un conflitto con la Russia – lascerebbero supporre il contrario. A tale riguardo, è amaro prendere atto della fredda violazione del diritto internazionale da parte di un paese, la Francia, membro del Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite con diritto di veto, poiché gli accordi di Minsk erano stati approvati dalle Nazioni Unite con apposita Risoluzione del CdS[5]. Analogo sentimento di riprovazione andrebbe manifestato verso la Germania, a cui piace presentarsi quale campione di integrità morale e rispetto delle leggi. Un altro plateale inganno.

D’altra parte, essendo da tempo schiacciate sulle strategie Nato-Usa, le due nazioni non dispongono della libertà necessaria di gestire gli eventi in autonomia: il destino del conflitto (e dei suoi riflessi sistemici) si trova dunque nelle mani del tetra-potere Washington (Nato)-Londra-Varsavia-Kiev: il primo guida le danze, gli altri sono attori non protagonisti.

Todd rileva poi che su un punto le riflessioni di Mearsheimer sono meno convincenti, poiché da buon americano sopravvaluta il suo paese quando spiega che gli Stati Uniti potrebbero digerire anche questa sconfitta, dopo quelle in Vietnam, Afghanistan e per certi versi Iraq e Siria, e che dunque – come menzionato – il conflitto in Ucraina abbia un valore esistenziale solo per Mosca, mentre per Washington non sarebbe altro che un divertissement utile a riempire ancor più le tasche dei produttori di armi, già ricchi per conto loro. I rapporti cruciali di potere, conclude Mearsheimer, non verrebbero sconvolti nemmeno da tale eventuale sconfitta. A suo avviso, in buona sostanza, il postulato della geopolitica americana è basato sull’assunto seguente: gli Stati Uniti possono fare quel che vogliono perché sono al sicuro, geograficamente lontani da ogni minaccia, protetti da due oceani. Dunque, non succederà mai nulla, poiché agli occhi dell’impero nulla è davvero esistenziale. Secondo Todd tale asserzione è erronea, e sarebbe sbagliato per gli Stati Uniti (qui intesi come apparati militari-industriali e la cuspide corporativa, non i 330 milioni di cittadini, affetti da un diffuso analfabetismo politico) perseverare nell’autoconvincimento d’onnipresenza. Essi dovrebbero invece cambiare registro e prendere atto, tra le altre cose, della solidità dell’economia materiale russa (gas, petrolio e materie prime indispensabili al mondo) e della fragilità di quella immateriale fondata in parte eccessiva su valori cartacei.

Se Mosca resistesse all’impianto sanzionatorio dell’Occidente, generando benefici anche per il mondo emergente, sempre più infastidito dal costo di guerre occidentali che non lo riguardano, essendo alle prese con altre priorità (lotta a povertà e sottosviluppo), e se anche l’economia europea uscisse strutturalmente deteriorata dal conflitto, la capacità dell’America di controllare monete e finanza ne risentirebbe drammaticamente. Con la difficoltà a sostenere un’economia di carta e l’enorme deficit commerciale, gli Usa potrebbero dover fronteggiare l’inizio di un declino economico/politico/militare, mentre il mondo vedrebbe l’affermarsi di un crescente multipolarismo. Il terreno perso dall’uno verrebbe conquistato dall’altro, nel tragico gioco a somma zero. Su tale palcoscenico, cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, nascondono a malapena la loro esultanza.

Putin e il passato

L’esercito russo è stato forse sopravvalutato, ma esso resta tuttavia solido e ben equipaggiato. Putin d’altro canto può contare anche su altro. Gli anni ’90 furono un periodo d’inenarrabili sofferenze. Con la presidenza Putin, uno dei pochi collaboratori non corrotti si cui Yeltsin poteva contare, il paese è tornato alla stabilità e alla crescita, recuperando sicurezza e benessere. Sono scesi i tassi di suicidi e omicidi, insieme alla mortalità infantile, oggi sotto quella americana. Nella mente e nella prassi del popolo, Putin incarna tale percorso di recupero. Nel paese non manca chi giudica sbagliata la scelta della guerra, ma la maggioranza concorda con il presidente che questa operazione militare speciale sia un conflitto di natura difensiva. Inoltre, la buona tenuta del sistema economico accresce la fiducia di poter fronteggiare egregiamente l’Occidente collettivo, ovvero Stati Uniti e vassalli europei.

I russi, rileva Todd, hanno rispetto per il popolo e l’esercito ucraini, la cui resistenza avrebbe una spiegazione semplice: essi sono coraggiosi come i russi, mai gli occidentali combatterebbero così bene! Putin punta alla vittoria, ma mira anche al mantenimento della stabilità sociale, e la prima ne è il presupposto. La Russia combatte con uno sguardo al principio del risparmio, di uomini innanzitutto, perché il paese è alle prese con un drammatico calo demografico, la fertilità per donna essendo di 1,5 figli (2,1 è quella minima per non far scendere la popolazione). Se la guerra durerà cinque anni, una durata normale per un conflitto mondiale, occorre allora preservare al massimo la vita dei soldati, futuri padri-famiglia. Sorprende che al governo ucraino tale aspetto importi meno, mandando i soldati allo sbaraglio con scarsa considerazione: il ripiegamento russo a Kherson, dopo quelli a Kharkiv e Kiev, città non strategiche, trova spiegazione anche in questa logica.

Il governo di Mosca non nasconde l’auspicio che le economie europee vengano esaurite, poiché esse sono fragili, esposte sull’energia e guidate da governi non sovrani. La strategia russa è dunque intellegibile perché basata su una logica razionale, seppure dura, per usare l’aggettivo di Todd, mentre le incognite sarebbero altrove. Secondo alcuni critici, Mosca non avrebbe ragione a definire il conflitto ucraino come una guerra difensiva, poiché nessun paese ha tentano d’invadere la Russia. Secondo Todd, tuttavia, uno sguardo alla mappa del mondo evidenzia l’accerchiamento al quale la Federazione deve far fronte. Basi militari, dispiegamento di missili, navi, sommergibili Nato-Usa, tutti convergono sul territorio russo, un assedio iniziato ben prima del 24 febbraio 2022. Mentre le trincee dei due eserciti in guerra si trovano a 8400 chilometri da Washington, esse sono invece a soli 130 chilometri dal confine russo.

La dimensione mondiale

Il 75% dei paesi membri delle Nazioni Unite non applica le sanzioni dell’Occidente a guida Usa (rappresentanti 6,5 miliardi di persone i primi, 1,5 miliardi i secondi). I media occidentali si mostrano al riguardo tragicamente diversivi, oltre che divertenti, quando fanno rimarcare l’isolamento della Russia sul piano internazionale.

Jaishankar, ex-ministro indiano degli Affari Esteri (nel suo libro The India Way), pubblicato poco prima del febbraio 2022, ritiene che il confronto Cina-Stati Uniti, sulla scorta della debolezza di questi ultimi, darà più spazio a paesi come l’India e altri, ma non gli europei. Molti paesi hanno preso atto del pur relativo declino statunitense, ma non Europa e Giappone. Ciò avviene, riflette Todd, perché un riflesso del ritracciamento imperiale è la necessità di rafforzare la presa sui paesi-colonie. Ne La Grande Scacchiera Brzezi?ski ripercorre le tappe della formazione dell’impero americano al termine del secondo conflitto mondiale con la sconfitta/conquista di Germania e Giappone, divenuti da allora protettorati (questi dispongono di governi formalmente autonomi, diversamente dalle colonie, che sono invece guidate da governatori nominati). I primi a perdere l’autonomia furono inglesi e australiani (e ancor prima i canadesi). All’interno dell’anglosfera l’intreccio funzionale è tale che le loro élite politiche, mediatiche e accademiche sono ormai integrate nell’universo valoriale americano. Il continente europeo è parzialmente protetto dalle lingue nazionali, ma la sua cessione di sovranità è stata comunque profonda e nelle condizioni date è irreversibile. Solo pochi anni orsono, valutando l’inopportunità della guerra in Iraq, a Chirac, Schröder e Putin era consentito organizzare conferenze-stampa congiunte, esprimendosi in modo critico. Un tale scenario è oggi fantascienza.

Alcuni analisti fanno notare che il Pil (Prodotto interno lordo) della Russia è inferiore a quello della Spagna e dunque potere economico e capacità di resistenza sono sopravvalutate. Anche a tale riguardo, annota Todd, la guerra è un grande rivelatore. Il Pil combinato di Russia e Bielorussia rappresenta solo il 3,3% di quello dei paesi occidentali (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), sulla carta dunque incomparabile. Ciò induce a chiedersi come possa la Russia far fronte a un conflitto così gravoso, continuando a produrre armi sofisticate senza ridurre il benessere dei cittadini.  La spiegazione è legata alla struttura materiale dell’economia russa, la cui natura è messa in ombra dalla narrazione occidentale. Il Pil è una misura fittizia della produzione. Se a quello degli Stati Uniti si sottrae l’enorme spesa sanitaria, la ricchezza prodotta da avvocati, il costo dei penitenziari (i più affollati al mondo), i servizi pagati con carta-moneta, il prodotto di 20.000 accademici-economisti con stipendi di 120.000 dollari, emerge all’evidenza che una parte cospicua del Pil statunitense è solo vapore acqueo.

La guerra in Ucraina ci obbliga a guardare con maggior attenzione all’economia reale, secondo la quale la vera ricchezza di una nazione è costituita dalla capacità di produrre. Sulla base di tale postulato, l’economia russa è quanto mai solida. Nel 2014, sono state adottate le prime serie sanzioni contro la Russia. Da allora, la produzione di grano è passata da 40 milioni di tonnellate a 90 nel 2020. Negli Stati Uniti, grazie alle politiche neoliberiste, dal 1980 al 2020 la produzione di grano è scesa da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è diventata anche il più grande esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, secondo gli americani, la Russia era in tale stato di disfacimento che anche la sua forza militare e nucleare ne avrebbe risentito profondamente. Oggi Mosca dispone di missili ipersonici, anche nucleari, più potenti di quelli americani e mostra una straordinaria capacità di crescere e adattarsi. Quando si vuole irridere alle economie centralizzate, se ne enfatizza la rigidità, e quando si vuol glorificare il capitalismo, se ne loda la flessibilità. Bene. Per garantire flessibilità a un sistema economico sono necessari adeguati meccanismi di mercato, finanziari e monetari. Ma prima ancora è necessario disporre di forza lavoro e competenze. La popolazione degli Stati Uniti è oltre il doppio di quella della Russia (2,2 volte nelle fasce di età studentesche). Tuttavia, con percentuali comparabili di giovani nell’istruzione superiore, negli Stati Uniti il 7% studia ingegneria, in Russia il 25%. Con un numero 2,2 volte inferiore di studenti, i russi formano il 30% in più di ingegneri. Gli Stati Uniti cercano di attrarre studenti stranieri, che sono per lo più indiani o cinesi, un numero peraltro in diminuzione. Uno dei dilemmi paradossali della loro economia riguarda la competizione strategica con la Repubblica Popolare Cinese, che viene affrontata importando professionisti qualificati proprio dalla Cina. Quanto alla Russia, essa riproduce sotto tale profilo il modello cinese, poiché i settori fondamentali della sua economia sono controllati dallo stato, che tiene a bada in tal modo la pervasività del corporativismo internazionale (e dunque americano-centrico). In buona sostanza, Putin accetta le regole del mercato, ma si riserva la facoltà d’intervento dello stato a garanzia degli interessi collettivi e dunque anche, per quanto riguarda la guerra, della formazione professionale di maestranze essenziali allo sviluppo industriale, civile e militare del paese.

Alcuni in Russia reputano che V. Putin abbia fatto cattivo uso delle risorse disponibili, perché l’economia resterebbe debole e dipendente dall’esterno. Se così fosse, invero, la guerra non sarebbe nemmeno iniziata, elabora Todd. Ciò che rende incerto l’esito del conflitto è semmai il rapporto tra tecnologie militari avanzate e produzioni di massa. Certo, gli Stati Uniti dispongono di armi sofisticate, che sono poi quelli che consentono all’esercito ucraino di resistere. Tuttavia, in una guerra di logoramento che coinvolge ampie risorse umane e materiali, la differenza si misurerà sulla maggiore disponibilità di armamenti di fascia medio-bassa. Nell’attuale globalizzazione fondata sul profitto a ogni costo, l’Occidente ha delocalizzato molte attività industriali, comprese quelle militari o legate alla sicurezza. L’esito della guerra dunque si giocherà sulla capacità di produrre armamenti in quantità costante ed elevata.

Epilogo

In Occidente il conflitto viene presentato anche come una battaglia per la difesa di valori politici (democrazia contro autocrazia), mentre per la Russia, e non solo, esso ha una valenza antropologica, oltre che geopolitica. La Russia si è formata su strutture e valori centrati sul comunitarismo e la famiglia, che sopravvivono tuttora, sebbene in forma moderna. Il patriottismo russo sorge dal subconscio di una nazione che s’identifica con la struttura famigliare, in prevalenza di tipo patri-lineare, dove il genere maschile copre un ruolo centrale. Essa fa fatica ad aderire a quelle innovazioni di genere accettate in Occidente (la Duma ha approvato una legislazione assai restrittiva in merito). Se sotto il profilo della tolleranza sociologica si tratta di una postura discutibile, il 75% del pianeta condivide però tale centralità patri-lineare ed è dunque simpatetica con le posizioni russe. Per il non-Occidente, la Russia esprime valori conservatori, ma rassicuranti.

Sul piano geopolitico contano molto le disponibilità di energia, il potere militare, la produzione industriale e di armamenti, e via dicendo. Ad essa va tuttavia abbinata la dimensione ideologica e culturale, il soft power. L’Urss è stata una formidabile calamita per tutela politica, militare e ideologica, influenzando numerosi paesi, anche occidentali, italiani, francesi, cinesi, vietnamiti, sudamericani, e via dicendo. Il comunismo era però osteggiato nel mondo musulmano per il suo ateismo e ispirava scarsa simpatia in un paese come l’India (a parte il Bengala occidentale e il Kerala), che avrebbe dovuto essere attratto dalla calamita socialista. Ecco, al confronto, la Russia odierna, erede della statualità sovietica, sembrerebbe disporre di armi di seduzione più efficaci, perché si è riposizionata quale grande potenza anticolonialista, ma allo stesso tempo patri-lineare e conservatrice.

Gli americani accusano di tradimento l’Arabia Saudita perché contraria ad aumentare la disponibilità di petrolio diminuita a causa del conflitto, schierandosi di fatto con Mosca. Nella Russia odierna, invero, i sauditi vedono non solo cointeressenze, ma anche una possibile condivisione di valori conservatori. La guerra in Ucraina, in definitiva, ha accelerato l’affermarsi di un multipolarismo sia politico-economico che culturale. Essa ha aperto la strada ad accostamenti di natura antropologica tra nazioni resistenti all’impero unipolare, con riflessi ora poco intellegibili, ma che allargheranno ancor più il fossato da un Occidente destinato a non essere più il cuore del mondo.


[1] https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112

[2] https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-alberto_bradanini__come_opera_la_macchina_della_propaganda/39602_48347/

[3] Konstantin Gavrilov, capo della delegazione russa ai negoziati di Vienna sulla sicurezza militare e il controllo degli armamenti, ha dichiarato all’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa): Sappiamo che i carri armati Leopard 2, così come i veicoli da combattimento blindati Bradley e Marder, possono utilizzare proiettili all’uranio impoverito[3] in grado di contaminare il terreno, proprio come era accaduto in Jugoslavia e in Iraq. Se Kiev dovesse essere rifornita di tali munizioni per l’utilizzo in mezzi militari pesanti occidentali, lo considereremmo come un attacco con ‘bombe nucleari sporche’ contro la Russia, con tutte le conseguenze del caso. Il governo statunitense e la Nato hanno stoccato in Europa munizioni al berillio e all’uranio impoverito. Il cannone M-242 montato sui Bradley, che secondo Voice of America, arriveranno presto in Ucraina, utilizza munizioni all’uranio impoverito (UI), così come i carri britannici Challenger. L’UI è stato utilizzato in Afghanistan e in Iraq, nelle munizioni per aerei, carri armati e veicoli da combattimento[3], come riporta Iraq Veterans Against the War.Durante l’invasione di quel paese, il governo statunitense aveva autorizzato l’uso dei proiettili all’UI anche nei quartieri civili. Il gruppo pacifista olandese Pax ha ottenuto le coordinate dei siti iracheni dove jet e carri armati statunitensi avevano scaricato 10.000 proiettili all’UI nel solo 2003,” (The Guardian, 2014). Se si tenta di verificare tali informazioni sul sito dell’IKV Pax Christi, una pagina avverte che il sito è pericoloso e potrebbe essere hackerato. In altre parole, le notizie sull’UI in Iraq e Afghanistan, comprese quelle riguardanti gravi danni alla salute delle persone e  malformazioni neonatali, non possono essere di dominio pubblico. Gavrilov, il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov e il presidente della Duma, Vyacheslav Volodin, hanno segnalato che la consegna di missili a lunga gittata all’Ucraina porterà ad un disastro globale e misure di ritorsione da parte di Mosca con l’uso di armi più potenti. Nelle parole di Gavrilov Mosca intraprenderà dure azioni di ritorsione se il governo statunitense persisterà nel consegnare a Kiev missili a lungo raggio e munizioni all’uranio impoverito, che la Russia considera alla stregua di bombe nucleare sporche.

[4] https://contropiano.org/news/internazionale-news/2022/12/11/angela-merkel-ricordi-e-bugie-sugli-accordi-di-minsk-0155287

[5] https://press.un.org/en/2015/sc11785.doc.htmAlberto Bradanini

Alberto Bradanini

Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i molti incarichi ricoperti, è stato anche Ambasciatore d’Italia a Teheran (2008-2012) e a Pechino (2013-2015). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Ucraina: Tutte le maschere sono cadute

Nel gennaio 2023, tutte le maschere sono state gettate via. Le élite euro-atlantiche, motivate dopo gli incontri di Davos, hanno capito che non c’era più bisogno di coprire le loro vere intenzioni con appelli ipocriti a “salvare la giovane democrazia ucraina per il bene della pace nel mondo”. Sempre più rappresentanti del cosiddetto “miliardo d’oro” dell’Occidente riconoscono i veri obiettivi della politica bellicosa che conducono da decenni contro la Russia, ossia la distruzione dell’integrità della Federazione Russa come Stato e la privazione del popolo russo della statualità per ottenere il controllo su enormi risorse che “per qualche ingiustizia storica appartengono ai barbari russi”. Il destino dello Stato ucraino e la vita della sua popolazione sono di scarso interesse per loro, perché in caso di vittoria, il suo territorio fertile diventerà un piacevole bonus.

Le élite euro-atlantiche hanno scatenato e stanno conducendo una guerra aggressiva contro la Federazione Russa per i loro interessi personali. Inoltre, il continuo sviluppo del conflitto militare, la mancanza di volontà politica dell’Occidente di risolverlo e il rafforzamento della retorica bellicosa con il riconoscimento dei veri obiettivi della guerra indicano che queste élite sono pronte a intensificare il conflitto fino alla terza guerra mondiale, e nemmeno la minaccia nucleare li fermerà.

Il 20 gennaio, in occasione di una cerimonia a Madrid, Josep Borrel ha ricordato le grandi vittorie della Russia su Hitler e Napoleone, da cui ha concluso che è necessario continuare ad aumentare la pressione militare su di essa. Con la sua dichiarazione, il capo della diplomazia dell’UE ha messo l’Occidente collettivo moderno sullo stesso piano dell'”Occidente collettivo creato da Hitler” e dell'”Occidente collettivo di Napoleone”, entrambi sconfitti dalla Russia.

“La Russia è un grande Paese, è abituata a combattere fino alla fine, è abituata quasi a perdere e poi a ripristinare tutto. Lo hanno fatto con Napoleone, lo hanno fatto con Hitler. Sarebbe assurdo pensare che la Russia abbia perso la guerra o che i suoi militari siano incompetenti. Pertanto, è necessario continuare ad armare l’Ucraina”.

Le dichiarazioni di Borrel non hanno fatto scalpore. Non è stato il primo a esprimere tali minacce alla Russia. Tuttavia, la recente dichiarazione è diventata una delle più esplicite. Ha espresso il vero obiettivo della compagnia militare dell’Occidente, che è la distruzione della Russia e il sequestro dei suoi territori, come Hitler e Napoleone avevano già tentato di fare.

Tra le rivelazioni dei leader occidentali, le parole del vice primo ministro e ministro delle Finanze canadese Chrystia Freeland sono sembrate particolarmente interessanti al forum di Davos. Anche lei ha sostenuto la posizione di Borrel, specificando che la sconfitta della Russia “sarebbe un’enorme spinta per l’economia globale”. La Freeland, il cui nonno era membro del gruppo nazionalista OUN-UPA di Andrei Melnik, è salita alla ribalta più volte negli ultimi anni parlando a sostegno dei nazisti ucraini e facendo dichiarazioni russofobe.

La vittoria dell’Ucraina nella guerra contro la Russia di quest’anno “sarebbe un’enorme spinta per l’economia globale”, afferma Chrystia Freeland, vice premier di Trudeau e membro del consiglio di amministrazione del WEF.

“Questa è la guerra per le risorse del XXI secolo, in scala reale e semplice”. Così la portavoce del Ministero degli Esteri russo ha commentato le sue affermazioni.

Tra la retorica bellicosa dell’Occidente e la continua sconfitta dell’esercito ucraino sul campo di battaglia, l’inizio dell’anno 2023 è stato segnato anche dal rafforzamento del sostegno militare al regime fantoccio di Kiev.

Mentre l’Europa cerca nei magazzini i carri armati per i soldati ucraini, Washington ha già annunciato un nuovo pacchetto di aiuti militari da 2,5 miliardi di dollari.

La NATO e Washington non nascondono più che non solo mantengono l’esercito ucraino, ma forniscono anche le informazioni di intelligence necessarie, comandano le truppe ucraine sul campo di battaglia e hanno assunto il controllo del processo decisionale militare. I principali media statunitensi riportano spesso che “gli Stati Uniti hanno raccomandato all’esercito ucraino di ritirarsi da Bakhmut” o che “gli Stati Uniti stanno aiutando a pianificare operazioni di controffensiva in Ucraina”. Secondo quanto riportato, gli Stati Uniti aiuteranno l’Ucraina a pianificare controffensive per riprendere i “territori occupati, compresa la Crimea”.

“La Russia non ha cercato di inasprire il conflitto, ma i Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno oltrepassato le linee rosse e hanno iniziato a rappresentare una minaccia per i nostri interessi nazionali. Ora gli Stati Uniti parlano di sostenere l’aggressione ucraina contro la Crimea e i nuovi territori russi. Ma il regime di Kiev deve rendersi conto che il sostegno dei Paesi occidentali si ritorcerà contro di lui e contro l’Ucraina. Più i Paesi occidentali interferiscono negli affari dell’Ucraina, più il confine della nostra operazione speciale si sposterà per creare una zona cuscinetto e proteggere il nostro Paese dai vicini nemici”. Così il deputato della Duma di Stato della Federazione Russa proveniente dalla regione della Crimea Mikhail Sheremet ha commentato la questione.

Le azioni degli Stati Uniti e dei loro alleati europei stanno portando il mondo verso una catastrofe globale. Se Washington e i Paesi della NATO forniscono armi che saranno utilizzate per attaccare città pacifiche e tentare di impadronirsi dei territori russi, questo porterà a misure di ritorsione da parte dell’esercito russo che utilizzerà armi più potenti. Con le loro decisioni, Washington e Bruxelles stanno portando il mondo verso una guerra che sarà completamente diversa dalle ostilità in corso oggi, quando gli attacchi vengono effettuati esclusivamente su strutture militari e infrastrutture strategiche utilizzate dal regime di Kiev.

Le argomentazioni secondo cui non esiste una minaccia nucleare, poiché le potenze nucleari non hanno mai usato armi di distruzione di massa in conflitti locali, sono insostenibili perché questi Stati non hanno mai affrontato una minaccia alla sicurezza dei propri cittadini e all’integrità territoriale, come invece fa oggi la NATO minacciando la Russia.

L’inasprimento della retorica occidentale, fino a vere e proprie minacce di guerra e distruzione dello Stato russo, è stato chiaramente percepito a Mosca.

La leadership politica russa, che fino a poco tempo fa cercava di mantenere un dialogo con i “partner occidentali” basato sui principi della politica reale o almeno del diritto internazionale di base, sembra aver cambiato posizione.

Dopo un anno di ostilità in Ucraina, è diventato chiaro che l’attuale conflitto è stato orchestrato dall’Occidente collettivo non solo negli ultimi 8 anni, ma decenni fa, quando già nel 2004 era diventato evidente che la Russia stava cercando di uscire dalle catene neocoloniali del periodo post-sovietico. Di conseguenza, Mosca ha finalmente accettato le regole del gioco imposte dall’Occidente e chiarisce che, da parte sua, non vede più il modo di risolvere pacificamente le contraddizioni accumulate con i Paesi della NATO ed è pronta a entrare in una guerra su larga scala.

La recente conferenza stampa del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, che ha riassunto i risultati della diplomazia russa nel 2022, ne è stata un chiaro esempio. Il ministro russo ha descritto la situazione attuale con estrema durezza:

Quello che sta accadendo ora in Ucraina è il risultato dei preparativi degli Stati Uniti e dei loro satelliti per l’inizio di una guerra ibrida globale contro la Federazione Russa. Nessuno nasconde questo fatto. Lo dimostrano le dichiarazioni di politologi, scienziati e politici occidentali imparziali. In un suo recente articolo, Ian Bremmer, professore di scienze politiche alla Columbia University, ha scritto: “Non siamo in una guerra fredda con la Russia. Siamo in una guerra calda con la Russia. Ora è una guerra per procura. E la NATO non la sta combattendo direttamente. La stiamo combattendo attraverso l’Ucraina”. Questa ammissione è franca e questa conclusione è in superficie. È strano che alcuni cerchino di confutarla. Recentemente, il Presidente della Croazia Zoran Milanovic ha affermato che questa è una guerra della NATO. Una dichiarazione aperta e onesta. Diverse settimane fa, Henry Kissinger (prima di esortare la NATO ad accettare l’Ucraina nel suo recente articolo) ha scritto a chiare lettere che gli eventi in Ucraina sono uno scontro, una rivalità tra due potenze nucleari per il controllo di quel territorio. È abbastanza chiaro cosa intendesse.

I nostri partner occidentali sono astuti e cercano con veemenza di dimostrare che non stanno combattendo la Russia, ma stanno solo aiutando l’Ucraina a rispondere a un'”aggressione” e a ripristinare la sua integrità territoriale. L’entità del loro sostegno rende chiaro che l’Occidente ha puntato molto sulla sua guerra contro la Russia; questo è ovvio.

Gli eventi che circondano l’Ucraina hanno portato alla luce la spinta implicita degli Stati Uniti ad abbandonare i tentativi di rafforzare la propria posizione globale con mezzi legittimi e ad adottare metodi illegittimi per garantire il proprio dominio. Tutto è lecito. I meccanismi e le istituzioni un tempo venerati, creati dall’Occidente guidato dagli Stati Uniti, sono stati scartati (e non per quello che stiamo vedendo in Ucraina). Il libero mercato, la concorrenza leale, la libera impresa, l’inviolabilità della proprietà e la presunzione di innocenza, in una parola, tutto ciò su cui si basava il modello di globalizzazione occidentale è crollato da un giorno all’altro. Sono state imposte sanzioni alla Russia e ad altri Paesi discutibili che non rispettano questi principi e meccanismi. È chiaro che le sanzioni possono essere imposte in qualsiasi momento a qualsiasi Paese che, in un modo o nell’altro, si rifiuta di seguire pedissequamente gli ordini americani.

L’Unione Europea è stata completamente assorbita da questa dittatura statunitense (non ha senso parlarne a lungo)…

Come Napoleone, che mobilitò quasi tutta l’Europa contro l’Impero russo, e Hitler, che occupò la maggior parte dei Paesi europei e li scagliò contro l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno creato una coalizione di quasi tutti gli Stati europei membri della NATO e dell’UE e stanno usando l’Ucraina per condurre una guerra per procura contro la Russia con il vecchio obiettivo di risolvere definitivamente la “questione russa”, come Hitler, che cercava una soluzione definitiva alla “questione ebraica”. …

(Conferenza stampa del ministro degli esteri russo Lavrov del 18 gennaio 2023)

Recentemente sono stati segnalati alcuni cambiamenti nella leadership politica e militare russa. In particolare, sono stati cambiati alcuni funzionari che occupano posizioni di vertice in organismi politici chiave come l’amministrazione presidenziale, il Consiglio di sicurezza, i servizi speciali, ecc. Sono state avviate ispezioni per chiarire la conformità di diversi funzionari di alto rango alle loro posizioni, i loro legami con l’estero e la verifica di eventuali azioni di corruzione.

Cambiamenti sono avvenuti anche nel Ministero della Difesa russo. Il generale dell’esercito Valery Gerasimov è stato nominato comandante del gruppo di truppe russe nella zona dell’operazione militare speciale (SVO) in Ucraina. Ha combattuto i militanti ceceni alla testa dell’esercito, ha organizzato un’operazione in Siria e dal novembre 2012 è a capo dello Stato Maggiore delle Forze Armate russe. I cambiamenti nel comando militare russo potrebbero indicare la nuova fase delle ostilità in Ucraina. Inoltre, nuovi generali sono stati nominati in una serie di altre posizioni chiave del Ministero della Difesa.

A gennaio, le forze armate russe hanno iniziato a rafforzare in modo risoluto il sistema di difesa aerea nella capitale. Negli ultimi giorni sono stati ampiamente condivisi online filmati di nuovi sistemi di difesa aerea dispiegati vicino ai centri decisionali, come il Cremlino di Mosca e l’edificio del Ministero della Difesa.

Tutto ciò riflette un cambiamento nella visione del Cremlino dei processi in corso e la sua disponibilità ad affrontare la sfida dell’Occidente. La perseveranza delle élite euro-atlantiche è stata finalmente recepita dalla Russia e ha ricevuto una degna risposta. Purtroppo, la posizione dell’Occidente significa che il mondo non può più sperare in una rapida fine della guerra in Europa. Inoltre, il conflitto rischia di aggravarsi.

FONTE: https://southfront.org/all-masks-thrown-off/

(Traduzione: Cambiailmondo.org)

PER APPROFONDIMENTI:

Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp. “Il piano degli Stati Uniti contro la Russia è stato formulato 3 anni fa”.

Come gli Stati Uniti ottengono nuovi membri della NATO con la sovversione, seguita da un colpo di stato, seguito da una pulizia etnica

Ucraina: La guerra sbagliata

Il sostegno della NATO alla guerra in Ucraina, progettata per degradare l’esercito russo e cacciare Vladimir Putin dal potere, non sta andando secondo i piani. Il nuovo sofisticato hardware militare non aiuterà.

Di Chris Edges (da The Chris Edges Report)

Everything Must Go – Mr. Fish

Gli imperi in declino terminale passano da un fiasco militare all’altro. La guerra in Ucraina, un altro tentativo malriuscito di riaffermare l’egemonia globale degli Stati Uniti, rientra in questo schema. Il pericolo è che, più la situazione si aggrava, più gli Stati Uniti inaspriscono il conflitto, provocando potenzialmente un confronto aperto con la Russia. Se la Russia effettuerà attacchi di rappresaglia alle basi di rifornimento e addestramento nei Paesi NATO vicini, o utilizzerà armi nucleari tattiche, la NATO risponderà quasi certamente attaccando le forze russe. Avremo scatenato la Terza Guerra Mondiale, che potrebbe sfociare in un olocausto nucleare.

Il sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina è iniziato con le basi: munizioni e armi d’assalto. L’amministrazione Biden, tuttavia, ha presto superato diverse linee rosse autoimposte per fornire un’ondata di macchinari bellici letali: Sistemi antiaerei Stinger; sistemi anti-corazza Javelin; obici trainati M777; razzi GRAD da 122 mm; lanciarazzi multipli M142, o HIMARS; missili Tube-Launched, Optically-Tracked, Wire-Guided (TOW); batterie di difesa aerea Patriot; National Advanced Surface-to-Air Missile Systems (NASAMS); M113 Armored Personnel Carriers; e ora 31 M1 Abrams, come parte di un nuovo pacchetto da 400 milioni di dollari. A questi carri armati si aggiungeranno 14 carri tedeschi Leopard 2A6, 14 carri britannici Challenger 2 e carri armati di altri membri della NATO, tra cui la Polonia. La prossima lista è quella delle munizioni perforanti all’uranio impoverito (DU) e dei jet da combattimento F-15 e F-16.

Dall’invasione russa del 24 febbraio 2022, il Congresso ha approvato oltre 113 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina e alle nazioni alleate che sostengono la guerra in Ucraina. Tre quinti di questi aiuti, 67 miliardi di dollari, sono stati destinati alle spese militari. Sono 28 i Paesi che trasferiscono armi all’Ucraina. Tutti, ad eccezione di Australia, Canada e Stati Uniti, sono in Europa.

Il rapido aggiornamento di hardware militare sofisticato e gli aiuti forniti all’Ucraina non sono un buon segno per l’alleanza NATO. Ci vogliono molti mesi, se non anni, di addestramento per far funzionare e coordinare questi sistemi d’arma. Le battaglie con i carri armati – come reporter ho partecipato all’ultima grande battaglia con i carri armati fuori Kuwait City durante la prima guerra del Golfo – sono operazioni altamente coreografiche e complesse. I carri armati devono lavorare in stretta collaborazione con il potere aereo, le navi da guerra, la fanteria e le batterie di artiglieria. Ci vorranno molti mesi, se non anni, prima che le forze ucraine ricevano un addestramento adeguato per far funzionare queste attrezzature e coordinare le diverse componenti di un campo di battaglia moderno. In effetti, gli Stati Uniti non sono mai riusciti ad addestrare gli eserciti iracheno e afghano alla guerra di manovra ad armi combinate, nonostante due decenni di occupazione.

Nel febbraio 1991 ero con le unità del Corpo dei Marines che hanno spinto le forze irachene fuori dalla città saudita di Khafji. Dotati di un equipaggiamento militare superiore, i soldati sauditi che tenevano Khafji opponevano una resistenza inefficace.

Quando siamo entrati in città, abbiamo visto truppe saudite su autopompe requisite, che scappavano verso sud per sfuggire ai combattimenti. Tutto l’hardware militare di lusso, che i sauditi avevano acquistato dagli Stati Uniti, si è rivelato inutile perché non sapevano come usarlo.

I comandanti militari della NATO sono consapevoli che l’infusione di questi sistemi di armamento nella guerra non modificherà quello che è, nella migliore delle ipotesi, uno stallo, definito in gran parte da duelli di artiglieria su centinaia di chilometri di linea del fronte. L’acquisto di questi sistemi d’arma – un carro armato M1 Abrams costa 10 milioni di dollari se si includono l’addestramento e la manutenzione – aumenta i profitti dei produttori di armi. L’uso di queste armi in Ucraina permette di testarle in condizioni da campo di battaglia, rendendo la guerra un laboratorio per i produttori di armi come Lockheed Martin. Tutto questo è utile alla NATO e all’industria degli armamenti. Ma non è molto utile all’Ucraina.

L’altro problema dei sistemi d’arma avanzati come l’M1 Abrams, che ha motori a turbina da 1.500 cavalli che funzionano con il carburante dei jet, è che sono capricciosi e richiedono una manutenzione altamente qualificata e quasi costante. Non sono indulgenti con chi li utilizza e commette errori; anzi, gli errori possono essere letali. Lo scenario più ottimistico per il dispiegamento dei carri armati M1-Abrams in Ucraina è di sei-otto mesi, più probabilmente di più. Se la Russia lancia una grande offensiva in primavera, come ci si aspetta, gli M1 Abrams non faranno parte dell’arsenale ucraino. Anche quando arriveranno, non modificheranno in modo significativo l’equilibrio di potere, soprattutto se i russi saranno in grado di trasformare i carri armati, gestiti da equipaggi inesperti, in relitti carbonizzati.

Allora perché tutta questa infusione di armi ad alta tecnologia? Possiamo riassumerlo in una parola: panico.

Dopo aver dichiarato una guerra de facto alla Russia e aver chiesto apertamente la rimozione di Vladimir Putin, i protettori della guerra neoconservatori guardano con terrore l’Ucraina che viene martoriata da un’implacabile guerra di logoramento russa. L’Ucraina ha subito quasi 18.000 vittime civili (6.919 morti e 11.075 feriti). Ha inoltre visto distrutto o danneggiato circa l’8% del totale delle sue abitazioni e il 50% delle sue infrastrutture energetiche ha subito un impatto diretto con frequenti interruzioni di corrente. L’Ucraina ha bisogno di almeno 3 miliardi di dollari al mese di aiuti esterni per mantenere a galla la sua economia, ha dichiarato recentemente il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Quasi 14 milioni di ucraini sono stati sfollati – 8 milioni in Europa e 6 milioni internamente – e fino a 18 milioni di persone, ovvero il 40% della popolazione ucraina, avranno presto bisogno di assistenza umanitaria. L’economia ucraina si è contratta del 35% nel 2022 e, secondo le stime della Banca Mondiale, il 60% degli ucraini vive con meno di 5,5 dollari al giorno. Nove milioni di ucraini sono senza elettricità e acqua a temperature sotto lo zero, ha dichiarato il presidente ucraino. Secondo le stime dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, a partire dallo scorso novembre sono stati uccisi in guerra 100.000 soldati ucraini e 100.000 russi.

“La mia sensazione è che ci troviamo in un momento cruciale del conflitto, in cui lo slancio potrebbe spostarsi a favore della Russia se non agiamo con decisione e rapidità”, ha dichiarato l’ex senatore statunitense Rob Portman al World Economic Forum in un post del Consiglio Atlantico. “È necessario un aumento”.

Ribaltando la logica, i sostenitori della guerra affermano che “la più grande minaccia nucleare che abbiamo di fronte è una vittoria russa”. L’atteggiamento cavilloso nei confronti di un potenziale confronto nucleare con la Russia da parte dei sostenitori della guerra in Ucraina è molto, molto spaventoso, soprattutto alla luce dei fallimenti che hanno supervisionato per vent’anni in Medio Oriente.

Gli appelli quasi isterici a sostenere l’Ucraina come baluardo di libertà e democrazia da parte dei mandarini di Washington sono una risposta al palpabile marciume e al declino dell’impero statunitense. L’autorità globale dell’America è stata decimata da crimini di guerra ben pubblicizzati, dalla tortura, dal declino economico, dalla disintegrazione sociale – tra cui l’assalto alla capitale il 6 gennaio scorso, la risposta fallimentare alla pandemia, il calo delle aspettative di vita e la piaga delle sparatorie di massa – e da una serie di debacle militari dal Vietnam all’Afghanistan. I colpi di Stato, gli assassinii politici, i brogli elettorali, la propaganda nera, i ricatti, i rapimenti, le brutali campagne di contro-insurrezione, i massacri sanzionati dagli Stati Uniti, le torture nei siti neri globali, le guerre per procura e gli interventi militari condotti dagli Stati Uniti in tutto il mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale non hanno mai portato all’instaurazione di un governo democratico.

Invece, questi interventi hanno causato oltre 20 milioni di morti e hanno generato una repulsione globale per l’imperialismo statunitense.

Nella disperazione, l’impero pompa somme sempre maggiori nella sua macchina da guerra. L’ultima legge di spesa da 1.700 miliardi di dollari include 847 miliardi di dollari per le forze armate; il totale sale a 858 miliardi di dollari se si considerano i conti che non rientrano nella giurisdizione dei comitati per i servizi armati, come il Dipartimento dell’energia, che sovrintende alla manutenzione delle armi nucleari e alle infrastrutture che le sviluppano. Nel 2021, quando gli Stati Uniti avevano un bilancio militare di 801 miliardi di dollari, costituivano quasi il 40% di tutte le spese militari globali, più di quanto i nove Paesi successivi, tra cui Russia e Cina, spendessero per i loro eserciti messi insieme.

Come osservò Edward Gibbon a proposito della fatale brama di guerra infinita dell’Impero Romano: “Il declino di Roma fu l’effetto naturale e inevitabile di una grandezza smodata. La prosperità maturò il principio della decadenza; le cause della distruzione si moltiplicarono con l’estensione delle conquiste; e, non appena il tempo o il caso rimossero i sostegni artificiali, lo stupendo tessuto cedette alla pressione del suo stesso peso. La storia della rovina è semplice e ovvia; e invece di chiedersi perché l’Impero Romano sia stato distrutto, dovremmo piuttosto stupirci che sia esistito così a lungo”.

Uno stato di guerra permanente crea burocrazie complesse, sostenute da politici, giornalisti, scienziati, tecnocrati e accademici compiacenti, che servono ossequiosamente la macchina bellica. Questo militarismo ha bisogno di nemici mortali – gli ultimi sono la Russia e la Cina – anche quando coloro che vengono demonizzati non hanno alcuna intenzione o capacità, come nel caso dell’Iraq, di danneggiare gli Stati Uniti. Siamo ostaggio di queste strutture istituzionali incestuose.

All’inizio di questo mese, le commissioni per i servizi armati di Camera e Senato, ad esempio, hanno nominato otto commissari per rivedere la Strategia di Difesa Nazionale (NDS) di Biden per “esaminare i presupposti, gli obiettivi, gli investimenti nella difesa, la posizione e la struttura delle forze, i concetti operativi e i rischi militari della NDS”. La commissione, come scrive Eli Clifton del Quincy Institute for Responsible Statecraft, è “in gran parte composta da individui con legami finanziari con l’industria degli armamenti e con gli appaltatori del governo degli Stati Uniti, sollevando dubbi sul fatto che la commissione avrà un occhio critico nei confronti degli appaltatori che ricevono 400 miliardi di dollari degli 858 miliardi di dollari del bilancio della difesa per l’anno fiscale 2023”. Il presidente della commissione, osserva Clifton, è l’ex rappresentante Jane Harman (D-CA), che “siede nel consiglio di amministrazione di Iridium Communications, un’azienda di comunicazioni satellitari che si è aggiudicata un contratto settennale da 738,5 milioni di dollari con il Dipartimento della Difesa nel 2019”.

Le notizie sulle interferenze russe nelle elezioni e sui bot russi che manipolano l’opinione pubblica – che il recente reportage di Matt Taibbi sui “Twitter Files” smaschera come un elaborato pezzo di propaganda nera – sono state amplificate acriticamente dalla stampa. Ha sedotto i Democratici e i loro sostenitori liberali a vedere la Russia come un nemico mortale. Il sostegno quasi universale a una guerra prolungata con l’Ucraina non sarebbe stato possibile senza questa truffa.

I due partiti al potere in America dipendono dai fondi per le campagne elettorali dell’industria bellica e subiscono le pressioni dei produttori di armi dei loro Stati o distretti, che danno lavoro ai loro elettori, per approvare bilanci militari mastodontici. I politici sanno bene che sfidare l’economia di guerra permanente significa essere attaccati come antipatriottici e di solito è un atto di suicidio politico.

“L’anima schiava della guerra grida di essere liberata”, scrive Simone Weil nel suo saggio “L’Iliade o il poema della forza”, “ma la liberazione stessa le appare come un aspetto estremo e tragico, l’aspetto della distruzione”.

Gli storici definiscono “micro-militarismo” il tentativo donchisciottesco degli imperi in declino di riconquistare l’egemonia perduta attraverso l’avventurismo militare. Durante la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) gli Ateniesi invasero la Sicilia, perdendo 200 navi e migliaia di soldati. La sconfitta scatenò una serie di rivolte di successo in tutto l’impero ateniese. L’Impero romano, che al suo apice durò due secoli, divenne prigioniero del suo esercito di un solo uomo che, come l’industria bellica statunitense, era uno Stato nello Stato. Le legioni di Roma, un tempo potenti, nell’ultima fase dell’impero subirono una sconfitta dopo l’altra, estraendo sempre più risorse da uno Stato fatiscente e impoverito. Alla fine, l’élite della Guardia Pretoriana mise all’asta l’impero al miglior offerente. L’Impero britannico, già decimato dalla follia militare suicida della Prima Guerra Mondiale, esalò il suo ultimo respiro nel 1956, quando attaccò l’Egitto in una disputa sulla nazionalizzazione del Canale di Suez. La Gran Bretagna si ritirò umiliata e divenne un’appendice degli Stati Uniti. Una guerra decennale in Afghanistan segnò il destino di un’Unione Sovietica ormai decrepita.

“Mentre gli imperi in ascesa sono spesso accorti, persino razionali, nell’uso della forza armata per la conquista e il controllo dei domini d’oltremare, gli imperi in declino sono inclini ad esibizioni di potere sconsiderate, sognando audaci capolavori militari che possano in qualche modo recuperare il prestigio e il potere perduti”, scrive lo storico Alfred W. McCoy nel suo libro “In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of US Global Power”. “Spesso irrazionali anche da un punto di vista imperiale, queste micro-operazioni militari possono produrre un’emorragia di spese o umilianti sconfitte che non fanno altro che accelerare il processo già in atto”.

Il piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio Oriente. Sta alimentando una crisi alimentare globale e devastando l’Europa con un’inflazione quasi a due cifre. Sta mettendo a nudo l’impotenza, ancora una volta, degli Stati Uniti e la bancarotta degli oligarchi al potere. Come contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale negli Stati Uniti. Washington sta fornendo all’Ucraina sistemi di armamento sempre più sofisticati e aiuti per miliardi e miliardi nel futile tentativo di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di salvare se stessa.

(Traduzione Cambiailmondo.org)

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/ukraine-the-war-that-went-wrong?utm_source=twitter&utm_campaign=auto_share&r=1afom

La crisi della sanità italiana: dalla Riforma del Titolo V alle soglie della Pandemia

di Andrea Vento

Finanziaria governo Meloni in linea col piano Draghi 2022-25: tornano i tagli alla sanità

Il sistema sanitario italiano, a causa dell’attuazione di politiche neoliberiste e di austerità, soffre ormai da 15 anni di un sostanziale definanziamento che secondo l’ultimo rapporto Ocse disponibile “Health at a Glance, Europa 2020”, ha portato l’Italia agli ultimi posti fra i Paesi occidentali per esborso sanitario pro capite, destrutturando de facto uno dei principali diritti sociali1 sancito dall’articolo 32 della Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Dal rapporto, i cui dati si riferiscono al 2019, emerge infatti come a fronte di un media dei 27 Paesi Ue di 2.572 euro di spesa sanitaria pro capite a Parità di Potere d’Acquisto (Ppa), l’Italia si attesti non solo al di sotto, fermandosi a 2.473 euro, ma ben distante da Regno Unito (3.154), Francia (3.664) e Germania (4.504), senza considerare la Svizzera che si pone in testa alla classifica con 5.421 euro (cartogramma 1).

Cartogramma 1: Spesa sanitaria pro capite a Parità di Potere d’Acquisto (Fonte: Ocse 2020)

Anche in rapporto al Pil, la spesa sanitaria nazionale, pur mostrando una situazione lievemente migliore rispetto alla media Ue (8,7% del Pil contro 8,3%), registra un grave deficit rispetto a Francia (11,2%), Germania (11,7%) e Svizzera (12,1%). Prendendo in considerazione il dato disaggregato fra spesa pubblica e privata, rileviamo come la prima copra il 6,4% del Pil e la seconda, in costante aumento, si attesti al 2,3%, mentre in Germania la spesa pubblica arriva al 9,8% e in Francia al 9,3%, lasciando a carico dei cittadini in entrambi i Paesi solo una spesa pari all’1,9% del Pil. Ciò conferma il progressivo ricorso da parte degli italiani alle prestazioni sanitarie private a causa della contrazione di quelle pubbliche (grafico 1). In termini monetari secondo il Mef la spesa totale per la sanità nel 2019 ammontava a 152 miliardi di euro ripartito fra 117 miliardi di esborso pubblico e ben 35 a carico dei cittadini.

Grafico 1: Spesa sanitaria in percentuale sul Pil: in blu la spesa pubblica e in azzurro quella privata(Fonte: Ocse 2020)

L’impietoso quadro appena descritto risulta indubbiamente frutto della mancanza di razionale pianificazione settoriale e della riduzione, in termini reali, della spesa sanitaria degli ultimi tre lustri.

Come emerge dal rapporto Ocse, il nostro Paese rappresenta uno dei pochi, superato solo da Grecia, Croazia, Portogallo, Cipro, Spagna, oltre che dall’Islanda fuori dall’Ue, ad aver ridotto la spesa sanitaria media annua fra il 2008 e il 2013 (-0,9%), per poi riprendere a salire (+1%) fra 2014 e 2019. Ciò al cospetto di una media Ue a 27, nei due periodi esaminati, rispettivamente di +0,9% e +3%. Incremento determinato dal fatto che tutti i Paesi considerati dallo studio, salvo Grecia e Islanda entrambe colpite da pesanti crisi finanziarie, non hanno registrato alcuna riduzione degli investimenti nell’assistenza sanitaria fra il 2008 e il 2019 (grafico 2).

Il definanziamento della sanità pubblica viene confermato anche da uno studio dell’Osservatorio della Fondazione Gimbe2 dal quale emerge che al Servizio sanitario nazionale (Ssn), a seguito dei ridimensionamenti di spesa per non meglio definite “esigenze di finanza pubblica”, nel periodo compreso fra il 2010 e il 2019, sono stati sottratti rispetto alle spese preventivate, ben 37 miliardi di euro, dei quali 25 miliardi fra 2010 e 2015 ed i rimanenti 12 successivamente. In termini assoluti (nominali), puntualizza lo studio, il finanziamento pubblico nei 10 anni presi in considerazione è aumentato di appena 8,8 miliardi di euro, corrispondente allo 0,9%, un tasso inferiore rispetto a quello dell’inflazione media annua, pari all’1,07%, che si traduce in una riduzioni in termini reali.

Grafico 2: Tasso medio annuo di variazione (in termini reali) della spesa sanitaria pro capite(Ocse 2020)

Da uno studio dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica3 che analizza l’evoluzione della spesa sanitaria nazionale emerge, come fra il 2000 e il 2010, la stessa sia aumentata ad un tasso di crescita media del 5% annuo arrivando a 113,1 miliardi di euro, anche a causa di elevati disavanzi in alcune regioni. Il pesante deficit del bilancio dello Stato causato dalla crisi finanziaria 2008-2009 e la sconsiderata adozione di draconiane misure di austerità fiscale da parte dei governi Berlusconi e, soprattutto, Monti portò a significative misure di contenimento della spesa sanitaria attraverso piani di rientro finanziari e l’eliminazioni di sprechi per le regioni meno virtuose e, per l’intero sistema nazionale, all’introduzione dei costi standard e al blocco del turnover del personale. Conseguentemente l’esborso sanitario in termini nominali si è ridotto a 109,3 miliardi di euro nel 2013, per poi risalire a ritmi molto blandi a 115,4 miliardi nel 2019. Procedendo, tuttavia, ad una più appropriata analisi della spesa in termini reali, vale a dire al netto dell’inflazione, il livello di esborso del 2018 è grosso modo lo stesso del 2004 (grafico 3).

La riduzione della spesa sanitaria in termini reali verificatasi a partire dal 2010 ha comportato l’inevitabile corollario della diminuzione del personale sanitario e dei posti letti ospedalieri, a discapito dei servizi offerti ai cittadini, come ci confermano i dati dello stesso rapporto Ocse 2020.

Il nostro Paese, infatti, con 5,7 infermieri ogni 1.000 abitanti accusa un significativo deficit, non solo rispetto alla media Ue (8,2/1.000 ab.) ma, soprattutto, rispetto agli stati nord-occidentali del continente nei quali, a seguito di generalizzato trend rialzista, il dato si attesta sopra il 10/1.000, al cui cospetto stride pesantemente la contrazione nostrana che la Federazione Nazionale degli infermieri (Fnopi) nel 2020 stimava in una mancanza di ben 53.000 unità.

Grafico 3: la spesa sanitaria 2000-2019 a prezzi correnti e a prezzi costanti. Fonte: dati Mef

Ancora più marcata risulta la differenza per quanto riguarda la disponibilità di posti letto ospedalieri: l’Italia nel 2019 accusava un valore di 3,1 posti ogni 1.000 abitanti, dai 4,1 nel 2010, nettamente inferiore alla media europea (5/1.000) e, addirittura, meno della metà rispetto Germania (8/1.000), Bulgaria (7,6/1.000), Austria (7,3/1.000) Ungheria e Romania (7/1.000), Repubblica Ceca e Polonia (6,5/1.000) e Lituania (6,4/1.000) (grafico 4).

Grafico 4: letti ospedalieri per 1.000 abitanti nel 2000 e nel 2018 (Fonte: Ocse 2020)


La contrazione, a partire dal 2009, della spesa sanitaria in rapporto al Pil (grafico 5), si è verificata di pari passo con la chiusura di strutture ospedaliere, principalmente, ma non solo, nelle aree marginali del Paese, basti pensare ai capitolini Forlanini, Santo Spirito e San Giacomo, determinando un sensibile ridimensionamento dell’offerta di servizi sanitari.

Dal confronto fra gli Annuari statistici del Servizio sanitario nazionale del 2010 e del 20194, si apprende che a causa di tagli, beffardamente definiti dai manager e dai politici “razionalizzazioni di spesa”, sul territorio nazionale mancavano all’appello ben 173 ospedali, 42.380 fra dipendenti e medici convenzionati (-6,5%) e che l’assistenza territoriale è stata considerevolmente ridotta, salvo quella domiciliare integrata che registra scarsi progressi.

In sostanza si è passati dai 1.165 ospedali, fra pubblici e privati, del 2010 ai 992 del 2019 con una riduzione del 15% che ha inciso principalmente sulle strutture pubbliche le quali in 10 anni sono passate dal 54,4 al 51,0% del totale. Nello stesso arco temporale, la politica dei tagli non ha risparmiato nemmeno la sanità territoriale, accertata la chiusura di ben 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale.

Grafico 5: quota di Pil destinata alla spesa sanitaria fra il 2000 e il 2019 in Italia

Alla progressiva riduzione dei servizi sanitari sopra analizzata, si è sovrapposta una crescente sperequazione della situazione interna al Paese a causa dell’approvazione, da parte del solo centro-sinistra e, successivamente confermata dal referendum del 7 ottobre 2001, della legge costituzionale n.3 del 18 ottobre dello stesso anno che ha introdotto la riforma del Titolo V della Costituzione. Il nuovo testo dell’articolo 117 contempla, infatti, il “federalismo legislativo” tramite il quale viene ripartita la potestà legislativa fra Stato e Regioni. Da quel momento la “tutela della salute” è diventata materia di “legislazione concorrente” fra i due distinti livelli amministrativi, riservando esclusivamente allo Stato la determinazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), riguardanti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale, mentre alle Regioni spetta la determinazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). In pratica, il nuovo assetto costituzionale in merito all’ordinamento del Servizio sanitario nazionale prevede che lo Stato stabilisca i Lep e garantisca le risorse necessarie al loro finanziamento in condizioni di efficienza e di appropriatezza nell’erogazione delle prestazioni, mentre le Regioni, che hanno l’onere di organizzare i propri Servizi sanitari regionali (Ssr), debbono pianificare e garantire l’erogazione delle prestazioni comprese nei Lea.

Una riforma costituzionale approvata a livello parlamentare dalla sola maggioranza, a fine legislatura 1996-2001, che nel tempo ha prodotto effetti devastanti sulla sanità nazionale, in pratica frammentandola in 21 servizi regionali con gestioni autonome e differenziate che, fra le varie, ha innescato anche una accesa conflittualità fra il centro e la periferia legislativa causando ben 278 ricorsi alla Consulta nei primi 20 anni.

Come riporta lo studio settoriale “Prime riflessioni sulla Governance della Sanità in Italia dopo la riforma del Titolo V”5 pubblicato nel febbraio 2021, le differenze regionali nei livelli di Lea testimonia che la sanità italiana ha visto crescere in modo preoccupante le differenze interne. E’ venuta quindi a determinarsi la situazione per la quale accanto a sistemi sanitari regionali tutto sommato ancora efficienti (Veneto, Emilia-Romagna e Toscana), convivono altri che faticano a competere con la sanità dei Paesi in via di sviluppo (Pvs), salvo Cuba che rappresenta un’eccellenza a livello globale. I differenti livelli di Lea fra le Regioni italiane sono facilmente acquisibili dalla sottostante tabella 1 da cui rileviamo come l’indicatore del Veneto risultava del 37% superiore rispetto alla Calabria, a cui va aggiunto che quest’ultima insieme alla Campania, costituiscono le due regioni in cui la Verifica degli adempimenti registra il minor tasso di rispetto dei Lea.

Tabella 1: i livelli di Lea nei Servizi Sanitari Regionali fra il 2012 e il 2018

Se a questo quadro di frammentazione regionale vengono sommati alcuni mali endemici del nostro Paese quali corruzione, governance inefficienti e politiche clientelari, oltre alle infiltrazioni della criminalità organizzata, appare evidente come la sanità italiana, definanziata e sminuzzata, non risulti in grado di garantire uniformemente su tutto il territorio il diritto fondamentale alla salute, con particolari disservizi per le persone in condizioni di fragilità come i malati oncologici, le gestanti, i disabili e gli anziani.

L’impianto dell’analisi sovraesposta viene confermato anche dal presidente della Fondazione Gimbe, dr Nino Caltabellotta, le cui affermazioni in merito all’introduzione della “legislazione concorrente “Stato-Regioni” pongono in risalto, oltre agli effetti nefasti della riforma sulla sanità, anche l’incongruenza dell’assetto costituzionale introdotto: “Purtroppo, tale “concorrenza” ha perso il suo significato di complementarietà, configurando un’antitesi proprio sui principi fondamentali e generando un federalismo sanitario atipico e artificioso, non solo per le dinamiche istituzionali messe in campo (legislazione concorrente), ma anche per la sua genesi anomala visto che di norma i federalismi nascono da stati autonomi che si uniscono e non il contrario, come accaduto in Italia. In altre parole la riforma del Titolo V che, delegando a Regioni e Province autonome l’organizzazione e la gestione dei servizi sanitari, puntava ad un federalismo solidale, ha finito per generare una deriva regionalista, con 21 differenti sistemi sanitari dove l’accesso a servizi e prestazioni è profondamente diversificato e iniquo”6.

L’elenco di sanità regionali commissariate in un ventennio, insieme all’aumento del pendolarismo sanitario, rappresenta la cartina di tornasole del fallimento della modifica costituzionale del 2001. A maggio 2022 risultavano, infatti, rette da un commissario ad acta: Lazio, Campania, Molise e Calabria, mentre l’Abruzzo lo era stato fino al 20167.

La contrazione dell’offerta pubblica di servizi sanitari, il crescente finanziamento della sanità convenzionata e l’espansione di quella privata, (nel decennio 2010-2019 sono infatti 276 le strutture di assistenza territoriale pubbliche in meno e 2.459 quelle private in più, secondo la Fondazione Gimbe) stanno di fatto precludendo la possibilità di sottoporsi a visite, analisi diagnostiche e cure un numero crescente di persone che l’Istat nel solo 2018 ha stimato in oltre 4 milioni, con una maggior incidenza nelle regioni del Mezzogiorno (infografica 1), principalmente a causa di liste d’attesa lunghissime e di crescenti sofferenze sociali8.

Significativi cambiamenti rispetto al trend emerso dalla nostra ricerca, purtroppo, non è plausibile attenderli nel medio periodo, appurato che le prime mosse in campo sanitario del neogoverno Meloni si pongono in linea di continuità col precedente e non contemplano alcun progetto di potenziamento della sanità pubblica. La legge finanziaria, approvata a fine 2022, ha infatti sostanzialmente ricalcato le previsioni di spesa dell’esecutivo Draghi per il periodo 2022-2025: 134 miliardi di euro per il 2022, 131,7 mld per il 2023, 128,7 mld per il 2024 e 129,4 per il 20259. Tale piano finanziario, del tutto insufficiente a colmare le sofferenze del Servizio sanitario nazionale, si traduce in una diminuzione della quota annua di Pil destinata alla sanità che dal 7% dell’anno appena concluso, scenderà gradualmente al 6,6%in quello in corso, al 6,2% nel 2024 e al 6% nel 2025. Con l’indicatore percentuale di spesa che si contrarrà ad un livello inferiore del periodo 2001-2019 che si attestava i appena sotto il 6,5%10, mettendo in risalto un chiaro ritorno alle politiche di austerità fiscale di “montiana” memoria (grafico 6).

Un definanziamento inconcepibile al cospetto dello stato di inadeguatezza della sanità pubblica e del processo di invecchiamento della popolazione che spinge ulteriormente al rialzo la domanda di servizi sanitari, se non alla luce del sottaciuto obiettivo di spingere i cittadini a ricorrere ai servizi sanitari privati, il cui volume di affari risulta infatti in continua espansione.

La preoccupante situazione della sanità pubblica, che inevitabilmente incide gravemente sulla qualità della vita delle persone, nel caso venga approvato nella legislatura appena iniziata il cosiddetto “regionalismo differenziato”, tanto caro alla destra e al Presidente dell’Emilia-Romagna, le differenze interne non potranno che acuirsi ulteriormente, provocando il definitivo affossamento del principio dell’uguaglianza dei diritti dei cittadini e dell’unità dello Stato.

Occorre, ripensare l’infausto modello del regionalismo italiano e correggere le anomalie introdotte dalla riforma del Titolo V della Costituzione, che hanno mostrato evidenti limiti non solo in campo sanitario, e ripristinare, finanziandolo adeguatamente, la centralità del Servizio sanitario nazionale e dei suoi principi fondanti stabiliti dalla sua legge istitutiva (n. 833 del 1978): universalità, uguaglianza ed equità11.


Andrea Vento – San Giuliano Terme, 29 gennaio 2023

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Altri due Grafici significativi su % Pil con previsione al 2025 e gli italiani che hanno rinunciato alla salute nel 2018

Grafico 6: percentuale di Pil destinato alla spesa sanitaria pubblica fra il 2001 e il 2025



Infografica 1: gli italiani che hanno rinunciato alle cure nel 2018 (Fonte Istat)


NOTE:

1Il diritto alla salute viene quindi inteso come diritto soggettivo, protetto contro ogni aggressione ad opera di terzi e suscettibile di una tutela risarcitoria immediata, indipendente da qualsiasi altra conseguenza dannosa giuridicamente apprezzabile, nonché come diritto sociale la cui pratica attuazione è essenziale per la realizzazione di quel principio di libertà-dignità che è intrinseco nella Carta Costituzionale.

Fonte: https://www.diritto.it/la-tutela-della-salute-una-lettura-costituzionalmente-orientata/#_ftn8

2https://www.gimbe.org/pagine/1229/it/report-72019-il-definanziamento-20102019-del-ssn#:~:text=Fra%20tagli%20e%20minori%20entrate,2019%20del%20Servizio%20Sanitario%20Nazionale%E2%80%9D.

3 https://osservatoriocpi.unicatt.it/cpi-archivio-studi-e-analisi-l-evoluzione-della-spesa-sanitaria

4https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=96379

5https://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/scuola-sanita-e-servizi-pubblici/prime-riflessioni-sulla-governance-della-sanita-in-italia-dopo-la-riforma-del-titolo-v-conflitti-costituzionali-e-divari-regionali/

6https://www.saluteinternazionale.info/2015/05/diritto-alla-salute-e-riforma-del-titolo-v/#:~:text=3%20del%2018%20ottobre%202001,le%20competenze%20delle%20autonomie%20locali.

7https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/sanita/2018/11/13/ansa-sanita-7-regioni-in-piano-di-rientro-tutte-al-centro-sud_e8b04898-f0b7-450b-bdf7-29148210bf33.html

8https://www.repubblica.it/cronaca/2019/03/03/news/liste_d_attesa_e_problemi_economici_quattro_milioni_di_italiani_non_si_curano-300986888/

9 Nota di aggiornamento al Def 2022 versione integrale, pag 13. https://www.dt.mef.gov.it/export/sites/sitodt/modules/documenti_it/analisi_progammazione/documenti_programmatici/nadef_2022/NADEF_2022_VERSIONE_RIVISTA_-E_-INTEGRATA_STAMPA.pdf

10 Nota di aggiornamento al Def 2022 versione integrale, pag 14. Link alla nota 13

11https://www.salute.gov.it/portale/lea/dettaglioContenutiLea.jsp?area=Lea&id=5073&lingua=italiano&menu=vuoto

UMILIARE I POVERI

di Vittorio Stano

Un aspetto accomuna fascismo e capitalismo: l’omaggio servile nei confronti dei potenti.

Oggi prendersela con i deboli e lasciar stare i forti caratterizza il fascismo da operetta del nuovo duce in gonnella. C’è da chiedersi: che cosa hanno fatto i poveri alla destra di governo ? E al banchiere Draghi ?

La continuità, il feeling esistente tra il governo Draghi e quello della Meloni è il naturale estrinsecarsi delle dinamiche che legano questa destra, ala dura e coerentemente neoliberale, alla borghesia italiana. Questa borghesia ha operato (…e opera!) in continuità con tutti i governi che si sono susseguiti negli ultimi decenni: smantellamento dello stato sociale, attacco ai salari e all’occupazione, privatizzazioni, sottomissione ai vincoli feudali della NATO e a una UE allineata (contro i suoi interessi) ai desiderata di Washington.

La Meloni ha dismesso la manfrina “sovranista” e, incorporato il pilota automatico al suo governo, segue e sviluppa l’opera intrapresa dal banchiere che l’ha preceduta al governo. Infatti, si appresta a ratificare il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità). Questo è un marchingegno volto a ribadire la totale subalternità di ogni scelta di politica economica e di bilancio ai diktat dell’EU, la totale e sciagurata condivisione della NATO di continuare ad oltranza la guerra sulla pelle del popolo ucraino, contro la Russia, rasentando giorno dopo giorno il baratro della terza guerra mondiale, facendo rischiare all’Italia di caderci dentro.

È evidente l’intento di questo governo: umiliare i poveri. Questi da vittime diventano capri espiatori dell’attuale difficile situazione che attanaglia il Paese. …Cosa hanno fatto di male i poveri a Giorgia Meloni ? Lei che retoricamente gridava ai quattro venti nei meeting preelettorali : <<…Sono Giorgia, sono una mamma, sono cristiana, sono… ecc. >>?

Con lei nel Belpaese i lavoratori continuano a venir privati dei loro diritti, sospinti sempre di più nella palude del precariato, i salari continuano ad essere i più bassi dell’OCSE e a perdere potere d’acquisto. Inoltre, è alle porte la secessione dei ricchi. L’attuazione del disegno di legge proposto dal ministro per gli Affari regionali Calderoli, ddl già entrato nella legge di Bilancio 2023 (comma 791-805), sono già previsti i fondi per avviare il percorso che in pochi mesi (21?) può diventare legge. Si attuerebbe quello che Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata presso l’Università di Bari, ha definito la secessione dei ricchi, ovvero creare cittadini con diritti di cittadinanza di serie A o B a seconda delle regioni in cui vivono.

Una volta i leghisti prima maniera si erano messi in testa di separare l’Italia in due. Dicevano: il Nord ricco e produttivo non poteva più farsi carico dei parenti poveri del Sud. Dove finisse il Nord e iniziasse il Sud da cui separarsi nessuno l’aveva saputo dire. La secessione di Bossi e della sua Lega non si concretizzò mai. Oggi la sedicente nuova Lega, guidata dagli stessi personaggi di sempre, propone su iniziativa del ministro Calderoli l’autonomia differenziata. Il titolo del ddl Calderoli recita: “Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata di cui all’art. 116, terzo comma, della Costituzione”. Questa formula riduce il tutto a una pura questione burocratica di decentramento amministrativo, in ottemperanza all’art. 5 della Costituzione che riconosce e promuove le autonomie locali. Ma non è così. E’, invece, una grande questione politica, che riguarda tutti gli italiani (Viesti).

Il ddl Calderoli ha come fine ultimo l’accaparramento delle risorse dello Stato da parte delle regioni tradizionalmente più produttive e ricche del Nord (1) a danno di quelle più povere del Sud. Nei fatti è un trasferimento di risorse che impoverirebbe sempre di più il Meridione, creando di fatto la secessione dei ricchi, che si accompagnerebbe alla pretesa di trasferire competenze su materie riservate (ad es.: scuola, sanità, trasporti) dalla Costituzione, al legislatore nazionale.

Questo piano non è solo farina del sacco di un malefico dentista lombardo, ma di una classe dirigente che vuole spaccar il Paese. Questo avverrebbe così: le regioni possiedono un gettito fiscale, entrate economiche derivanti dalla riscossione dei tributi (es. Irap e addizionale Irpef). Questo gettito viene utilizzato per finanziare i servizi pubblici (sanità, asili nido, scuole, trasporti, centri per l’impiego, ecc.). se il gettito fiscale è maggiore della spesa per i servizi, rimane un avanzo in cassa, chiamato sovra-gettito. Questo avviene di norma nelle regioni più produttive: Veneto, Lombardia e Emilia Romagna, che riscuotono – a titolo d’esempio – 200 e di questi ne spendono 100. Le regioni meno produttive come Puglia e Sicilia, solitamente finiscono con un saldo in negativo perché spendono sempre 100 ma riscuotono 50 e non hanno abbastanza soldi per poter finanziare tutti i servizi necessari.

Secondo il sistema attuale, in questo momento scatta la redistribuzione delle risorse: lo Stato centrale riscuote i soldi in eccedenza delle regioni più ricche e li destina alle regioni più povere. Grazie a questi soldi le regioni più povere riescono a coprire la spesa per il finanziamento dei servizi ai cittadini. Questo fa si che si riequilibrino le diseguaglianze economiche tra il ricco Nord e il povero Sud e si provveda a un livellamento verso l’alto della qualità dei servizi forniti dagli Enti locali ai cittadini. È la Costituzione che prevede il meccanismo di redistribuzione della ricchezza da parte dello Stato centrale, attraverso l’istituzione di un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante (art. 119 della Costituzione).

Il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata vuole cancellare il meccanismo di redistribuzione e permettere alle regioni più ricche di trattenere il sovra-gettito fiscale. Questo verrebbe a minare il principio costituzionale di solidarietà politica, economica e sociale (art. 2 , Costituzione). Il ddl Calderoli è palesemente anticostituzionale. Solidarietà politica, economica e sociale sono pietre angolari dell’unità della Repubblica.

Le conseguenze pratiche in termini economici per le regioni più povere sarebbero drammatiche: non avrebbero più soldi sufficienti per finanziare i servizi o per mantenerli ad un livello di qualità accettabile. Inoltre, non potendo più coprire il disavanzo con la redistribuzione, dovrebbero aumentare le tasse, per cui i cittadini pugliesi e siciliani (ad es.) si troverebbero paradossalmente a pagare tasse più alte rispetto ai cittadini del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna, senza avere servizi migliori o senza averli del tutto.

Ma c’è di più! Il ddl vorrebbe far intendere che ogni Regione, con il decentramento amministrativo, può godere di una maggiore autonomia economica riguardante strutture e fondi. Si permetterebbe, ad esempio, la regionalizzazione delle scuole. Se ciò avvenisse l’Italia non sarebbe più uno Stato unitario e neppure federale. Ogni regione pretenderebbe di legiferare su materie legate alla centralità dello Stato. Inoltre, le risorse finanziarie sarebbero determinate nei termini di spesa storica (2).

Questo è un meccanismo perverso per cui lo Stato sosterrebbe le risorse delle regioni secondo quanto stanno spendendo, quindi se una regione spende di più perché più ricca, continuerà ad avere tanto, ma se è più povera e spende meno continuerà ad avere meno e non potrà mai più riprendere terreno e mettersi alla pari delle altre. Le ricadute sui servizi per i cittadini meridionali sarebbero catastrofali. Basti pensare allo stato degli asili e delle scuole, della sanità e della pubblica amministrazione, chi ha speso meno riceverà sempre meno. Si avrebbero regioni come Lombardia, Veneto e Emilia Romagna, le prime sostenitrici del ddl, con scuole e sanità in situazione migliore e una forte carenza delle stesse nelle regioni del Sud. In questo caso il divario tra Nord e Sud sul piano economico e culturale sarebbe irreversibile. Avremmo così cittadini di serie A e di serie B in base alla regione di residenza. L’affermazione del ddl Calderoli sarebbe una pietra tombale sulla tenuta del sistema Paese. Calderoli la prospetta come una semplice questione amministrativa, burocratica… mentre scardina la nostra bella Costituzione e l’unità della Repubblica.

È necessaria la massiccia mobilitazione di tutti i cittadini che hanno a cuore il futuro di questo Paese.

La democrazia è in pericolo ?

Questo governo sembra avere i numeri per far passare norme inique che nel passato sono state bocciate attraverso l’opposizione in Parlamento e le dimostrazioni di massa nel Paese. È necessario che l’opposizione si organizzi in Parlamento perché quando le piazze inizieranno a infuocarsi di contestazioni, questa destra senza qualità, inadeguata a governare, inizierà a prendersela con la democrazia. Diranno che troppa democrazia blocca la “bontà” delle loro decisioni e riduce l’efficienza delle stesse. Daranno la colpa all’inefficienza della democrazia.

Questa destra ha la testa voltata al secolo scorso. C’è tanto fascistume in azione che tiene l’orologio della storia fermo. C’è poca qualità in questa classe politica e i governanti di turno sono parecchio scarsi: sanno solo tutelare, e non del tutto, la loro area elettorale di riferimento.

La Meloni dietro slogan retorici è inconsapevole degli effetti della sua azione. Apparentemente sembra tosta e tonica ma è incapace e sprovveduta. È inconsapevole di quello che si può e non si può fare. Il PNRR da grande chance per un nuovo inizio dell’Italia sarà la trappola per i topi per questa classe dirigente. Il governo è imballato, l’apparato statale inadeguato, gli altri livelli politici, Regioni e Comuni, irresponsabili. Se questo è vero, ed è vero, l’Italia non riuscirà a spendere i soldi del PNRR. Hanno denari in cassa ma appalti zero. L’UE si farà sentire a breve e tirerà cazzotti sul muso dell’Italia. Quando questo avverrà Meloni se la prenderà con chi protesta. La democrazia è in pericolo ? L’opposizione si svegli !

Note:

1 …regioni più produttive e ricche del nord: Lombardia, Veneto e Emilia Romagna. Tra le prime 10 regioni in Europa per livello di valore aggiunto industriale ben 3 sono italiane. La Lombardia è prima, il Veneto è sesto e l’Emilia Romagna è ottava.

2 spesa storica: è l’ammontare effettivamente speso dal comune in un anno per l’offerta di servizi ai cittadini ricalcolato con l’ausilio delle informazioni raccolte attraverso i questionari.

Rapporto Oxfam 2023: per la prima volta negli ultimi 25 anni aumentano al contempo disuguaglianze, fame e povertà estrema

di Andrea Vento

L’annuale rapporto dell’organizzazione Oxfam sulla disuguaglianza globale viene regolarmente emesso in concomitanza del Word Economic Forum di Davos in Svizzera, allo scopo di indurre la leadership planetaria a riflettere sui nefasti effetti sociali e ambientali prodotti delle loro politiche, le quali continuano a portare esclusivo vantaggio ad una ristretta elite a discapito della maggioranza della popolazione mondiale.

Quest’anno, i 2.700 leader mondiali fra politici, amministratori delegati delle principali multinazionali e big della finanza presenti alla consueta passerella mondiale, ormai giunta alla 53esima edizione, hanno visto aleggiare sul loro summit l’immancabile ombra delle critiche dei movimenti e del rapporto Oxfam che non casualmente in italiano è stato tradotto in “La disuguaglianza non conosce crisi”.

La ratio del titolo è conseguente al fatto che nel biennio 2020-21, i più ricchi fra i ricchi del pianeta, vale a dire il top 1%, ha continuato come da trend consolidato ad accumulare ricchezza più di tutto il resto dell’umanità. Tale incremento ha, tuttavia, toccato livelli di crescita inediti, mentre, in contemporanea, per la prima volta, a livello mondiale negli ultimi 25 anni è aumentata anche la povertà e la fame.

Il dominante capitalismo liberista ha, dunque, impresso alla forbice della disuguaglianza un ampliamento mai registrato in precedenza. Ciò in conseguenza del sovrapporsi della crisi economica pandemica a quella ambientale, quest’ultima caratterizzata da fenomeni estremi, come siccità, cicloni e inondazioni, sempre più devastanti, i quali hanno inevitabilmente innescato una drammatica crisi sociale che ha spinto milioni di persone sotto la soglia della povertà estrema e nel baratro della fame, costringendone una massa crescente a migrare forzatamente. Tutto ciò mentre le grandi multinazionali, soprattutto quelle operanti in rete, hanno conseguito, al pari della grande finanza, profitti stratosferici, i quali hanno generato una concentrazione apicale della ricchezza mai registrata in precedenza.

Guardando alle cifre del rapporto rileviamo come nel biennio 2020-2021, l’1% più ricco della Terra si è accaparrato quasi 2/3 della nuova ricchezza generata, mentre le principali 95 multinazionali dell’energia e dell’agro-business hanno più che raddoppiato i profitti rispetto alla media del periodo 2018-2020. Con il drammatico paradosso che, nel 2022, mentre queste ultime si arricchivano col commercio di beni e prodotti alimentari e distribuivano, grazie agli extra-profitti, dividendi pari a 257 miliardi di dollari ai propri azionisti, al contempo 800 milioni di persone soffrivano la fame.

In sostanza, per ogni 100 dollari di nuova ricchezza prodotta, sempre nel biennio in questione, 63 dollari sono stati appannaggio dell’1% straricco e appena 10 dollari sono andati al 90% più povero, mentre i restanti 27 dollari ai restanti ricchi, pari al 9% della popolazione mondiale (grafico 1). In termini reali, in 2 anni, l’1% degli ultraricchi ha registrato un incremento dei propri patrimoni pari alla stratosferica cifra di 26.000 miliardi di dollari, poco più di una volta e mezzo il Pil della Cina (16.500 miliardi di dollari nel 2021), mentre il, redditualmente variegato, restante 99% dell’umanità si è fermato a 16.000 miliardi di dollari.

Gli effetti della crisi pandemica, secondo la Banca Mondiale, hanno prodotto sul 40% più povero dell’umanità, perdite di reddito doppie rispetto a quelle subite dal 40% più ricco, determinando inevitabilmente anche un aumento nella disparità globale di reddito, oltre a quelle di ricchezza.

L’eccezionale incremento della concentrazione di ricchezza risulta frutto, sia della compiacente azione dei governi, sia della politica monetaria non convenzionale adottata dalle Banche Centrali, il “Quantitavie Easing” (QE), tramite il quale le stesse hanno immesso una enorme massa di liquidità nei propri sistemi monetari1, ufficialmente per favorire la ripresa economica e far salire il tasso di inflazione intorno allo strategico obiettivo del 2%. Tali politiche monetarie espansive, attuate con tempistica ed entità differenziate dalle varie Banche Centrali occidentali2 nell’arco di tempo compreso fra la fase successiva alla crisi economico-finanziaria del 2008-2009 fino alla ripresa post-covid, hanno in realtà sortito principale effetto di incrementare i valori degli asset finanziari e, conseguentemente, i patrimoni dei miliardari.

Grafico 1: quote di nuova ricchezza acquisita dal 1% più ricco e dai restanti 99% e 90% , confronto 2012-2021 (colonna verde chiaro) e 2020-2021 (colonna verde scuro). Fonte: Oxfam su dati Credit Suisse

Sicuramente le misure di intervento dei governi a sostegno delle proprie economie e delle fasce sociali più deboli, durante la Grande crisi del 2008-2009, è stata una strategia appropriata; tuttavia, forti critiche hanno, invece, investito le politiche di austerità fiscale implementate nell’Area dell’euro nella successiva fase di ripresa, le quali hanno finito per innescare la crisi debitoria di inizio anni ’10 nei paesi marginali dell’Eurozona, denominati col dispregiativo appellativo di Piigs3. Infatti, mentre buona parte dell’area monetaria comune tornava in recessione, contemporaneamente negli Stati Uniti, grazie a tempestive politiche monetarie (QE) e fiscali espansive, la ripresa continuava ad apprezzabili tassi di crescita (grafico 2)

Grafico 2: variazione annua del Pil nell’Eurozona, negli Usa e in Giappone fra 2008 e 2015. Fonte: Ocse

La Bce a causa delle resistenze dei Paesi “falchi” dell’Austerity, Paesi Bassi, Finlandia e Germania in primis, il QE è stato introdotto dall’allora presidente della Bce, Mario Draghi, solo all’inizio del 2015, quando l’intera Eurozona si trovava sull’orlo del collasso. Tuttavia, gli effetti del QE sono risultati alquanto modesti sia in termini di ripresa economica, ad oggi il nostro Paese si trova ancora al di sotto del picco del 2007 (grafico 3), che di rialzo dell’inflazione, in quanto i governi e la Commissione Europea non si sono impegnati nel garantire che l’enorme liquidità immessa avesse concrete ricadute sull’economia reale o, quantomeno, che le cospicue plusvalenze ottenute dalla grande finanza venissero ridistribuite tramite la leva fiscale.

Grafico 3: andamento del Pil italiano su base trimestrale fra il 1996 e il 2022. Fonte: Istat

Conseguentemente le fortune dei miliardari, grazie anche al periodo pandemico, durante il quale alcune tipologie di imprese collegate alla rete hanno conseguito extraprofitti stratosferici, sono continuate ad aumentare, tant’è che l’1% più ricco della popolazione mondiale, a fine 2022, è arrivato a detenere il 45,6% della ricchezza globale, mentre la metà più povera dell’umanità appena lo 0,75%. Inoltre, il ghota degli 81 principali miliardari hanno accumulato più ricchezza di metà della popolazione mondiale.

Squilibri interni all’interno sistema economico-sociale globalizzato, non solo eticamente inaccettabili, ma addirittura nel medio periodo, forieri di destabilizzazione dello stesso.

Gli effetti della crisi economica, alimentare e ambientale

Contemporaneamente all’eccezionale aumento di ricchezza conseguito dal 1% più ricco a livello mondiale e agli extraprofitti delle grandi multinazionali di alcuni comparti, in questi primi anni del decennio ’20 a seguito della crisi pandemica, di inappropriate politiche governative e dell’impennata inflattiva, abbiamo registrato anche una crescita della povertà e della fame, oltre a una diminuzione dei posti di lavoro e dei salari che hanno pesantemente impattato sulle vite delle persone già in condizione di fragilità sociale.

Il consolidato trentennale trend globale di riduzione della povertà si è, infatti, bruscamente interrotto determinando la paradossale ed inedita situazione nella quale la ricchezza e la povertà, entrambe estreme, sono al contempo sensibilmente aumentate. Ben 70 milioni di persone sono, infatti, precipitate nel 2020 sotto la soglia di povertà, dei 2,15 dollari al giorno di reddito, corrispondenti ad un aumento dell’11%.

Nonostante nel 2021 tale tendenza abbia subito un’inversione, per l’anno appena concluso l’UNDP, il programma dell’Onu per lo sviluppo, stima che solo nel suo secondo trimestre 71 milioni di persone siano nuovamente scese in povertà a causa del rialzo dei prezzi delle materie prime (+ 18% beni alimentari e +59% energia). Le causa della fiammata inflattiva, peraltro iniziata già nell’autunno 2021, è riconducibile a difficoltà di approvvigionamento causati dalla ripresa della domanda nella fase post-pandemica e dalla guerra in Ucraina, alle spregiudicate attività della speculazione finanziaria ed alle ciniche strategie delle multinazionali, non che al crescente impatto dei cambiamenti climatici sulle produzioni agricole. Conseguentemente, sono state stimate dalla Banca Mondiale in 828 milioni le persone che nel 2021 hanno sofferto la fame, pari al 10% dell’umanità, il 60% delle quali donne e ragazze4.

Per quanto riguarda l’aspetto salariale, dall’analisi condotta in 96 Paesi da Oxfam sui valori delle retribuzioni, è emerso come 1,7 miliardi di lavoratori abbiano subito una crescita dell’inflazione superiore a quella dei salari. La contrazione dei salari reali, misurata in base all’effettivo potere d’acquisto, avrà come inevitabile riflesso sia un aumento dei lavoratori in condizione di povertà, i cosiddetti working poors, che delle disuguaglianze, queste ultime aggravate dalla crescita del lavoro informale che su scala globale sta superando addirittura quella dell’occupazione regolare.

Conclusioni

Il quadro appena dipinto caratterizzato da crescenti disuguaglianze e maggiori difficoltà sociali, rischia di aggravarsi nell’anno appena iniziato, anche alla luce delle dichiarazione della Presidente del Fmi Kristalina Georgieva, la quale, in una intervista di inizio gennaio alla Tv statunitense CBS, ha affermato che dal punto di vista economico il 2023 risulterà “più duro dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle” e che l’istituzione di cui è a capo ritiene che “un terzo dell’economia mondiale sarà in recessione” a causa del rallentamento di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Alla luce delle fosche previsioni della presidente del Fmi sull’andamento dell’economia mondiale, non vediamo altra strada possibile all’implementazione di politiche fiscali espansive (vale a dire aumentare la spesa pubblica) per far fronte all’aumento della povertà e della fame, ai cambiamenti climatici e all’impatto dell’inflazione sui ceti sociali più fragili. Ciò a causa del fatto che, ancora una volta, la maggioranza dei governi sono intenzionati a proseguire sulla fallimentare strada dell’austerità fiscale, riducendo la spesa pubblica, principalmente a causa delle imposizione delle istituzioni finanziarie sovranazionali. La stessa Oxfam prevede, infatti che, nel quinquennio 2023-27, attueranno politiche restrittive di bilancio a danno della spesa sociale, pari a ben 6.700 miliardi di dollari, circa 2/3 dei Paesi mondiali (148 per la precisione), e che nel 2023, il 54% degli Stati lo stanno già pianificando.

Le politiche economiche neoliberiste e restrittive di bilancio hanno già mostrato la loro inefficacia dal punto di vista economico, come nella crisi debitoria dei Paesi marginali dell’Eurozona, e i loro nefasti effetti a livello sociale. In considerazione di ciò, è assolutamente necessario un riposizionamento in senso diametralmente opposto introducendo misure straordinarie, come la tassazione aggiuntiva degli extraprofitti, e altre strutturali, come la reintroduzione di una fiscalità progressiva più incisiva sui redditi elevati e sul capital gain, l’utile da capitale.

Gli effetti socialmente disastrosi che abbiamo appena esposto, pur avendo radici profonde, risultano frutto anche delle politiche economiche attuate durante la crisi pandemica, nel cui contesto, non solo il 95% dei Paesi non ha aumentato la già discendente e blanda pressione fiscale in essere sui redditi più elevati (grafico 4), sulle grandi imprese e sul capital gain della speculazione finanziaria, ma, addirittura, in alcuni casi l’hanno anche diminuita, a beneficio dei “soliti noti”.

Grafico 4: l’andamento delle aliquote massime, quindi sui redditi più elevati, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche fra il 1980 e il 2022 in Africa (linea verde chiaro), America Latina (grigio), Asia (nero) OECED in italiano OCSE (verde scuro). Fonte: calcoli Oxfam su dati OCSE

La riduzione della pressione fiscale sui redditi più elevati in corso ormai da 40 anni e gli sgravi fiscali a vantaggio dei ricchi e delle multinazionali, risultano la causa originaria dell’aumento delle disuguaglianze, col paradosso che in molti Paesi i ceti sociali subalterni e i lavoratori risultano soggetti ad una tassazione maggiore. Il proprietario di Tesla, Elon Musk primo miliardario mondiale nel 2022 secondo Forbes5, fra il 2014 e il 2018, ha pagato un’irrisoria “effettiva aliquota fiscale” di circa il 3%.

A livello mondiale solo il 4% dell’intero gettito fiscale proviene dalle imposte sui patrimoni posseduti, anche a causa del fatto che circa la metà dei miliardari mondiali ha la residenza fiscale in Paesi che non contemplano tasse di successione sui discendenti diretti, avendo così l’opportunità di trasferire ai loro eredi ricchezze complessive pari a 5.000 miliardi di dollari,una cifra maggiore del Pil annuo dell’intero continente africano.

Il reddito dei miliardari, in prevalenza frutto di rendite, risulta tassato mediamente al 18%, la metà dell’aliquota massima applicata su salari e stipendi. Un sistema fiscale, frutto della visione neoliberista del sistema capitalistico che sta portando l’umanità verso il collasso economico e sociale e che necessita di essere radicalmente riformato, reintroducendo una significativa progressività fiscale, come era in vigore fino agli inizi degli anni ’80. Negli Stati Uniti, infatti, l’aliquota massima federale sullo scaglione più elevato di reddito, si attestava su di una media dell’81% fra il 1944 e il 1981, all’alba della nefasta era Reagan. Anche in Italia, fino agli anni ’80, l’aliquota massima raggiungeva il 73% ed era inserita in un contesto fiscale progressivo il cui gettito, impiegato tramite appropriate politiche ha consentito di coniugare crescita economica e progresso sociale, grazie alla creazione di un ampio Welfare state a vantaggio soprattutto dei ceti inferiori.

Per reintrodurre un minimo principio di equità fiscale, secondo Oxfam basterebbe applicare una tassa annua del solo 5% sui più ricchi della Terra per ottenere un gettito fiscale di 1.700 miliardi di dollari all’anno, i quali sarebbero sufficienti ad estirpare la povertà e la fame a livello mondiale, a varare un piano di riduzione degli impatti dei cambiamenti climatici e a garantire assistenza sanitaria e protezione sociale a tutte le popolazioni dei Paesi a medio e a basso reddito6.

Le strade per rimediare a questa catastrofe sociale, umanitaria e ambientale esistono, ce lo insegna la storia economia, sono le volontà politiche che, invece, mancano.

Non è pensabile di combattere l’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, l’aumento delle sofferenze sociali e le devastazioni ambientali procrastinando le stesse politiche che ne sono state causa; il cambio di paradigma potrà, tuttavia, avvenire solo tramite presa di coscienza della situazione da parte dei ceti sociali subalterni di ogni latitudine e imbastendo una lotta, duratura e coordinata a livello internazionale, contro la ristretta plutocrazia mondiale ed il ceto politico dominante ad essa subalterno.

Andrea Vento – 24 gennaio 2023

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Scarica il Rapporto Oxfam

NOTE:

1 Il QE realizzato dalla Fed dal 2009 al 2014 per un ammontare di oltre 3.500 miliardi di dollari  https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/saggi/1470-il-quantitative-easing-della-bce-unoperazione-necessaria-non-sufficiente

La Bce in 7 anni di QE (marzo 2015-luglio 22) ha acquistato titoli governativi e corporate per un totale di 4.900 miliardi di euro. https://www.ilsole24ore.com/art/liberarsi-titoli-stato-possibile-strategia-bce-e-sue-conseguenze-AElxiZKC

2 Fed, BoE, Bce e BoJ, rispettivamente Federal Reserve, Bank of England, Banca Centrale Europea e Bank of Japan.

3 Acronimo dispregiativo per indicare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna

4 https://www.worldbank.org/en/home

5 https://forbes.it/2022/04/05/elon-musk-e-per-la-prima-volta-al-comando-della-classifica-dei-piu-ricchi-del-mondo/

6 Fonte: Fight Inequality Alliance dell’Institute for Policy Studies di Oxfam e dei Patriotic Millionaires

Il generale tedesco Vad: L’est ucraino vuole stare coi russi. Gli Usa mettano fine a questa follia.

Erich Vad: Quali sono gli obiettivi di guerra?

Erich Vad è un ex generale di brigata. Dal 2006 al 2013 è stato consigliere per la politica militare del cancelliere tedesco Angela Merkel. È una delle rare voci che si è pronunciata pubblicamente contro le forniture di armi all’Ucraina fin dall’inizio, senza strategie politiche e sforzi diplomatici. Anche ora sta dicendo una verità scomoda.

di Annika Ross (dalla rivist Emma.de)

Signor Vad, cosa ne pensa della consegna dei 40 Marder all’Ucraina appena annunciata dal Cancelliere Scholz?
Si tratta di un’escalation militare, anche nella percezione dei russi – anche se il Marder, vecchio di oltre 40 anni, non è un’arma miracolosa. Stiamo scendendo su una china scivolosa. Questo potrebbe sviluppare una dinamica che non possiamo più controllare. Naturalmente era ed è giusto sostenere l’Ucraina e naturalmente l’invasione di Putin non è conforme al diritto internazionale – ma ora bisogna finalmente considerare le conseguenze!

E quali potrebbero essere queste conseguenze?
L’intenzione è quella di ottenere la disponibilità a negoziare fornendo carri armati? Vogliono riconquistare il Donbass o la Crimea? O vogliono sconfiggere del tutto la Russia? Non esiste una definizione realistica di stato finale. E senza un concetto politico e strategico generale, le consegne di armi sono puro militarismo.

Che cosa significa?
Abbiamo una situazione di stallo militare che non possiamo risolvere militarmente. Per inciso, questa è anche l’opinione del Capo di Stato Maggiore americano, Mark Milley. Ha affermato che non ci si può aspettare una vittoria militare per l’Ucraina e che i negoziati sono l’unica strada possibile. Qualsiasi altra cosa significherebbe un dispendio insensato di vite umane.

La dichiarazione del generale Milley ha provocato molta rabbia a Washington ed è stata anche pesantemente criticata pubblicamente.
Ha detto una verità scomoda. Una verità, tra l’altro, che non è stata quasi per nulla pubblicata dai media tedeschi. L’intervista a Milley da parte della CNN non è apparsa da nessuna parte, eppure è il Capo di Stato Maggiore della principale potenza occidentale. Quella che si sta conducendo in Ucraina è una guerra di logoramento. È una guerra di logoramento, con quasi 200.000 soldati uccisi e feriti da entrambe le parti, 50.000 morti tra i civili e milioni di rifugiati. Milley ha così tracciato un parallelo con la Prima guerra mondiale che non potrebbe essere più azzeccato. Nella Prima Guerra Mondiale, il cosiddetto “Mulino di sangue di Verdun”, concepito come una battaglia di logoramento, portò alla morte di quasi un milione di giovani francesi e tedeschi. All’epoca caddero per nulla. Il rifiuto delle parti in guerra di negoziare ha portato a milioni di morti in più. Questa strategia non ha funzionato militarmente allora – e non funzionerà adesso.

Anche lei è stato attaccato per aver chiesto un negoziato.
Sì, come l’ispettore generale della Bundeswehr, il generale Eberhard Zorn, che, come me, ha messo in guardia dal sopravvalutare le offensive regionali limitate degli ucraini nei mesi estivi. Gli esperti militari – che sanno cosa succede tra i servizi di intelligence, cosa sembra sul campo e cosa significa veramente la guerra – sono in gran parte esclusi dal discorso. Non si adattano alla formazione delle opinioni da parte dei media. In larga misura, stiamo assistendo a un conformismo mediatico che non ho mai visto prima nella Repubblica Federale Tedesca. Questa è pura speculazione. E non per conto dello Stato, come è noto nei regimi totalitari, ma per puro spirito di protagonismo.

Sono tutti attaccati dai media su un ampio fronte, dalla BILD alla FAZ e allo Spiegel, e così anche le 500.000 persone che hanno firmato la Lettera aperta al Cancelliere promossa da Alice Schwarzer.
Proprio così. Fortunatamente, Alice Schwarzer ha i suoi media indipendenti per poter aprire questo discorso. Probabilmente non avrebbe funzionato con i principali media. La maggioranza della popolazione è contraria a ulteriori forniture di armi da molto tempo e secondo gli ultimi sondaggi. Ma nulla di tutto ciò viene riportato. Non c’è più un discorso equo e aperto sulla guerra in Ucraina, e lo trovo molto preoccupante. Questo dimostra quanto avesse ragione Helmut Schmidt. In una conversazione con il Cancelliere Merkel ha detto: “La Germania è e rimane una nazione a rischio”.

Qual è la sua valutazione della politica del Ministro degli Esteri?
Le operazioni militari devono sempre essere collegate ai tentativi di trovare soluzioni politiche. La monodimensionalità dell’attuale politica estera è difficile da sopportare. È molto incentrato sulle armi. Ma il compito principale della politica estera è e rimane la diplomazia, la riconciliazione degli interessi, la comprensione e la risoluzione dei conflitti. Questo è ciò che mi manca qui. Sono felice che finalmente in Germania ci sia un ministro degli Esteri donna, ma non basta fare retorica di guerra e andare in giro per Kiev o per il Donbass indossando elmetto e giubbotto antiproiettile. Non è sufficiente.

Eppure Baerbock è un membro dei Verdi, l’ex partito della pace.
Non capisco la mutazione dei Verdi da partito pacifista a partito di guerra. Io stesso non conosco nessun Verde che abbia fatto il servizio militare. Anton Hofreiter è per me il miglior esempio di questo doppio standard. Antje Vollmer, invece, che annovererei tra i Verdi “originali”, chiama le cose con il loro nome. E il fatto che un singolo partito abbia così tanta influenza politica da poterci manovrare in una guerra è molto preoccupante.

Se il Cancelliere Scholz l’avesse sostituita al suo predecessore e lei fosse ancora il consigliere militare del Cancelliere, cosa gli avrebbe consigliato di fare nel febbraio 2022?
Gli avrei consigliato di sostenere militarmente l’Ucraina, ma in modo misurato e prudente, per evitare di scivolare sulla china scivolosa di un partito di guerra. E gli avrei consigliato di influenzare il nostro più importante alleato politico, gli Stati Uniti. La chiave per la soluzione della guerra risiede infatti a Washington e a Mosca. Mi è piaciuto il percorso del Cancelliere negli ultimi mesi. Ma i Verdi, l’FDP e l’opposizione borghese – affiancati da un accompagnamento mediatico ampiamente unanime – stanno esercitando una pressione tale che il cancelliere difficilmente può assorbirla.

E se venisse consegnato anche il Leopard?
Si ripropone quindi la domanda su cosa dovrebbe accadere con le consegne dei carri armati. Per conquistare la Crimea o il Donbass, il Marder e il Leopard non sono sufficienti. Nell’Ucraina orientale, nella zona di Bachmut, i russi sono chiaramente in avanzata. Probabilmente tra non molto avranno conquistato completamente il Donbass. Basta considerare la superiorità numerica dei russi rispetto all’Ucraina. La Russia può mobilitare fino a due milioni di riservisti. L’Occidente può inviare 100 Marder e 100 Leopard, ma non cambierà la situazione militare generale. E la domanda più importante è come superare un simile conflitto con una potenza nucleare belligerante – tra l’altro, la più forte potenza nucleare del mondo! – senza entrare in una terza guerra mondiale. E questo è esattamente ciò che i politici e i giornalisti qui in Germania non pensano!

L’argomentazione è che Putin non vuole negoziare e che bisogna metterlo all’angolo per evitare che continui a infierire sull’Europa.
È vero che bisogna dare un segnale ai russi: Fin qui e non oltre! Non si può permettere che una simile guerra di aggressione continui. Per questo è giusto che la NATO aumenti la sua presenza militare a est e che la Germania si unisca a essa. Ma il rifiuto di Putin di negoziare non è sostenibile. Sia i russi che gli ucraini erano pronti per un accordo di pace all’inizio della guerra, a fine marzo, inizio aprile 2022. Poi non se ne fece nulla. Dopo tutto, anche l’accordo sul grano è stato negoziato durante la guerra da russi e ucraini con il coinvolgimento delle Nazioni Unite.

Ora la morte continua.
Si può continuare a logorare i russi, il che significa centinaia di migliaia di morti, ma da entrambe le parti. E significa l’ulteriore distruzione dell’Ucraina. Cosa resta di questo paese? Sarà raso al suolo. In definitiva, anche questa non è più un’opzione per l’Ucraina. La chiave per risolvere il conflitto non sta a Kiev, né a Berlino, Bruxelles o Parigi, ma a Washington e Mosca. È ridicolo dire che l’Ucraina deve decidere.

Con questa interpretazione, in Germania si viene subito considerati teorici della cospirazione…
Io stesso sono un atlantista convinto. Vi dirò onestamente che, nel dubbio, preferirei vivere sotto un’egemonia americana piuttosto che sotto una russa o cinese. All’inizio, questa guerra era solo una disputa politica interna all’Ucraina. È iniziata nel 2014, tra i gruppi etnici di lingua russa e gli stessi ucraini. È stata quindi una guerra civile. Ora, dopo l’invasione della Russia, è diventata una guerra interstatale tra Ucraina e Russia. È anche una lotta per l’indipendenza dell’Ucraina e la sua integrità territoriale. È tutto vero. Ma non è tutta la verità. Si tratta anche di una guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, e nella regione del Mar Nero sono in gioco interessi geopolitici molto concreti.

Che cosa sono?
La regione del Mar Nero è importante per i russi e la loro flotta del Mar Nero quanto i Caraibi o la regione di Panama per gli Stati Uniti. Importante quanto il Mar Cinese Meridionale e Taiwan per la Cina. Importante quanto la zona di protezione della Turchia, che ha istituito contro i curdi in violazione del diritto internazionale. In questo contesto e per ragioni strategiche, anche i russi non possono uscirne. A parte il fatto che in un referendum in Crimea la popolazione si pronuncerebbe sicuramente a favore della Russia.

Come si può continuare?
Se i russi fossero costretti da un massiccio intervento occidentale a ritirarsi dalla regione del Mar Nero, prima di uscire dalla scena mondiale ricorrerebbero sicuramente alle armi nucleari. Trovo ingenua la convinzione che un attacco nucleare da parte della Russia non avverrà mai. Sulla falsariga di “stanno solo bluffando”.

Ma quale potrebbe essere la soluzione?
Bisognerebbe semplicemente chiedere alle persone della regione, cioè del Donbass e della Crimea, a chi vogliono appartenere. L’integrità territoriale dell’Ucraina dovrebbe essere ripristinata, con alcune garanzie occidentali. Anche i russi hanno bisogno di una simile garanzia di sicurezza. Quindi niente adesione alla NATO per l’Ucraina. Sin dal vertice di Bucarest del 2008, è stato chiaro che questa è la linea rossa dei russi.

E cosa pensa che possa fare la Germania?
Dobbiamo dosare il nostro sostegno militare in modo da non scivolare in una terza guerra mondiale. Nessuno di coloro che andarono in guerra nel 1914 con grande entusiasmo era ancora dell’idea che fosse la cosa giusta da fare. Se l’obiettivo è un’Ucraina indipendente, bisogna anche chiedersi in prospettiva come dovrebbe essere un ordine europeo che coinvolga la Russia. La Russia non scomparirà semplicemente dalla carta geografica. Dobbiamo evitare di spingere i russi nelle braccia dei cinesi, spostando così l’ordine multipolare a nostro svantaggio. Abbiamo anche bisogno della Russia come potenza leader di uno Stato multietnico per evitare l’esplosione di scontri e guerre. E francamente non vedo l’Ucraina diventare un membro dell’UE, tanto meno della NATO. In Ucraina, come in Russia, abbiamo un’elevata corruzione e il dominio degli oligarchi. Quello che noi in Turchia – giustamente – denunciamo in termini di Stato di diritto, lo abbiamo anche in Ucraina.

Cosa pensa, signor Vad, di quello che ci aspetta nel 2023?
A Washington deve esserci un fronte più ampio per la pace. E questo insensato attivismo della politica tedesca deve finalmente finire. Altrimenti ci sveglieremo una mattina e ci ritroveremo nel bel mezzo della Terza Guerra Mondiale.

(Traduzione Cambiailmondo.org)

Fonte: https://www.emma.de/artikel/erich-vad-was-sind-die-kriegsziele-340045


Erich Vad: Was sind die Kriegsziele?

Erich Vad ist Ex-Brigade-General. Von 2006 bis 2013 war er der militärpolitische Berater von Bundeskanzlerin Angela Merkel. Er gehört zu den raren Stimmen, die sich früh öffentlich gegen Waffenlieferungen an die Ukraine ausgesprochen haben, ohne politische Strategie und diplomatische Bemühungen. Auch jetzt spricht er eine unbequeme Wahrheit aus.

Herr Vad, was sagen Sie zu der gerade von Kanzler Scholz verkündeten Lieferung der 40 Marder an die Ukraine?
Das ist eine militärische Eskalation, auch in der Wahrnehmung der Russen – auch wenn der über 40 Jahre alte Marder keine Wunderwaffe ist. Wir begeben uns auf eine Rutschbahn. Das könnte eine Eigendynamik entwickeln, die wir nicht mehr steuern können. Natürlich war und ist es richtig, die Ukraine zu unterstützen und natürlich ist Putins Überfall nicht völkerrechtskonform – aber nun müssen doch endlich die Folgen bedacht werden!

Und was könnten die Folgen sein?
Will man mit den Lieferungen der Panzer Verhandlungsbereitschaft erreichen? Will man damit den Donbass oder die Krim zurückerobern? Oder will man Russland gar ganz besiegen? Es gibt keine realistische End-State-Definition. Und ohne ein politisch strategisches Gesamtkonzept sind Waffenlieferungen Militarismus pur.

Was heißt das?
Wir haben eine militärisch operative Patt-Situation, die wir aber militärisch nicht lösen können. Das ist übrigens auch die Meinung des amerikanischen Generalstabschefs Mark Milley. Er hat  gesagt, dass ein militärischer Sieg der Ukraine nicht zu erwarten sei und dass Verhandlungen der einzig mögliche Weg seien. Alles andere bedeutet den sinnlosen Verschleiß von Menschenleben.

General Milley löste mit seiner Aussage in Washington viel Ärger aus und wurde auch öffentlich stark kritisiert.
Er hat eine unbequeme Wahrheit ausgesprochen. Eine Wahrheit, die in den deutschen Medien übrigens so gut wie gar nicht publiziert wurde. Das Interview mit Milley von CNN tauchte nirgendwo größer auf, dabei ist er der Generalstabschef unserer westlichen Führungsmacht. Was in der Ukraine betrieben wird, ist ein Abnutzungskrieg. Und zwar einer mit mittlerweile annähernd 200.000 gefallenen und verwundeten Soldaten auf beiden Seiten, mit 50.000 zivilen Toten und mit Millionen von Flüchtlingen. Milley hat damit eine Parallele zum Ersten Weltkrieg gezogen, die treffender nicht sein könnte. Im Ersten Weltkrieg hat allein die sogenannte ‚Blutmühle von Verdun‘, die als Abnutzungsschlacht konzipiert war, zum Tod von fast einer Million junger Franzosen und Deutscher geführt. Sie sind damals für nichts gefallen. Das Verweigern der Kriegsparteien von Verhandlungen hat also zu Millionen zusätzlicher Toter geführt. Diese Strategie hat damals militärisch nicht funktioniert – und wird das auch heute nicht tun.

Auch Sie sind für die Forderung nach Verhandlungen angegriffen worden.
Ja, ebenso der Generalinspekteur der Bundeswehr, General Eberhard Zorn, der wie ich davor gewarnt hat, die regionalbegrenzten Offensiven der Ukrainer in den Sommermonaten zu überschätzen. Militärische Fachleute – die wissen, was unter den Geheimdiensten läuft, wie es vor Ort aussieht und was Krieg wirklich bedeutet – werden weitestgehend aus dem Diskurs ausgeschlossen. Sie passen nicht zur medialen Meinungsbildung. Wir erleben weitgehend eine Gleichschaltung der Medien, wie ich sie so in der Bundesrepublik noch nie erlebt habe. Das ist pure Meinungsmache. Und zwar nicht im staatlichen Auftrag, wie es aus totalitären Regimen bekannt ist, sondern aus reiner Selbstermächtigung.

Sie werden von den Medien auf breiter Front angegriffen, von BILD bis FAZ und Spiegel, und damit auch die 500.000 Menschen, die den von Alice Schwarzer initiierten Offenen Brief an den Kanzler unterzeichnet haben.
So ist es. Zum Glück hat Alice Schwarzer ihr eigenes unabhängiges Medium, um diesen Diskurs überhaupt eröffnen zu können. In den Leitmedien hätte das wohl nicht funktioniert. Dabei ist die Mehrheit der Bevölkerung schon länger und auch laut aktueller Umfrage gegen weitere Waffenlieferungen. Das alles wird jedoch nicht berichtet. Es gibt weitestgehend keinen fairen offenen Diskurs mehr zum Ukraine-Krieg, und das finde ich sehr verstörend. Das zeigt mir, wie recht Helmut Schmidt hatte. Er sagte in einem Gespräch mit Kanzlerin Merkel: Deutschland ist und bleibt eine gefährdete Nation.

Wie beurteilen Sie die Politik der Außenministerin?
Militärische Operationen müssen immer an den Versuch gekoppelt werden, politische Lösungen herbeizuführen. Die Eindimensionalität der aktuellen Außenpolitik ist nur schwer zu ertragen. Sie ist sehr stark fokussiert auf Waffen. Die Hauptaufgabe der Außenpolitik aber ist und bleibt Diplomatie, Interessenausgleich, Verständigung und Konfliktbewältigung. Das fehlt mir hier. Ich bin ja froh, dass wir endlich mal eine Außenministerin in Deutschland haben, aber es reicht nicht, nur Kriegsrhetorik zu betreiben und mit Helm und Splitterschutzweste in Kiew oder im Donbass herumzulaufen. Das ist zu wenig.

Dabei ist Baerbock doch Mitglied der Grünen, der ehemaligen Friedenspartei.
Die Mutation der Grünen von einer pazifistischen zu einer Kriegspartei verstehe ich nicht. Ich selbst kenne keinen Grünen, der überhaupt auch nur den Militärdienst geleistet hätte. Anton Hofreiter ist für mich das beste Beispiel dieser Doppelmoral. Antje Vollmer hingegen, die ich zu den ‚ursprünglichen‘ Grünen zählen würde, nennt die Dinge beim Namen. Und dass eine einzige Partei so viel politischen Einfluss hat, dass sie uns in einen Krieg manövrieren kann, das ist schon sehr bedenklich.

Wenn Kanzler Scholz Sie von seiner Vorgängerin übernommen hätte und Sie noch der militärische Berater des Kanzlers wären, was hätten Sie ihm im Februar 2022 geraten?
Ich hätte ihm geraten, die Ukraine militärisch zu unterstützen, aber dosiert und besonnen, um Rutschbahneffekte in eine Kriegspartei zu vermeiden. Und ich hätte ihm geraten, auf unseren wichtigsten politischen Verbündeten, die USA, einzuwirken. Denn der Schlüssel für eine Lösung des Krieges liegt in Washington und Moskau. Mir hat der Kurs des Kanzlers in den letzten Monaten gefallen. Aber Grüne, FDP und die bürgerliche Opposition machen – flankiert von weitestgehend einstimmiger medialer Begleitmusik – dermaßen Druck, dass der Kanzler das kaum noch auffangen kann.

Und was, wenn auch der Leopard geliefert wird?
Dann stellt sich erneut die Frage, was mit den Lieferungen der Panzer überhaupt passieren soll. Um die Krim oder den Donbass zu übernehmen, reichen die Marder und Leoparden nicht aus. In der Ostkukraine, im Raum Bachmut, sind die Russen eindeutig auf dem Vormarsch. Sie werden wahrscheinlich den Donbass in Kürze vollständig erobert haben. Man muss sich nur allein die numerische Überlegenheit der Russen gegenüber der Ukraine vor Augen führen. Russland kann bis zu zwei Millionen Reservisten mobil machen. Da kann der Westen 100 Marder und 100 Leoparden hinschicken, sie ändern an der militärischen Gesamtlage nichts. Und die alles entscheidende Frage ist doch, wie man einen derartigen Konflikt mit einer kriegerischen Nuklearmacht – wohlbemerkt der stärksten Nuklearmacht der Welt! – durchstehen will, ohne in einen Dritten Weltkrieg zu gehen. Und genau das geht hier in Deutschland in die Köpfe der Politiker und der Journalisten nicht hinein!

Das Argument ist, Putin wolle nicht verhandeln und dass man ihn in seine Schranken weisen müsse, damit er in Europa nicht weiter wütet.
Es stimmt, dass man den Russen signalisieren muss: Bis hierher und nicht weiter! So ein Angriffskrieg darf nicht Schule machen. Deshalb ist es richtig, dass die Nato ihre militärische Präsenz im Osten erhöht und Deutschland hier mitmacht. Aber dass Putin nicht verhandeln will, ist unglaubwürdig. Beide, die Russen und Ukrainer waren am Anfang des Krieges Ende März, Anfang April 2022 zu einer Friedensvereinbarung bereit. Daraus ist dann nichts geworden. Es wurde schließlich auch während des Krieges das Getreideabkommen von den Russen und Ukrainern unter Einbeziehung der Vereinten Nationen fertig verhandelt.

Nun geht das Sterben weiter.
Man kann die Russen weiter abnutzen, was wiederum Hundertausende Tote bedeutet, aber auf beiden Seiten. Und es bedeutet die weitere Zerstörung der Ukraine. Was bleibt denn von diesem Land noch übrig? Es wird dem Erdboden gleichgemacht. Letztendlich ist das für die Ukraine auch keine Option mehr. Der Schlüssel für die Lösung des Konfliktes liegt nicht in Kiew, er liegt auch nicht in Berlin, Brüssel oder Paris, er liegt in Washington und Moskau. Es ist doch lächerlich zu sagen, die Ukraine müsse das entscheiden.

Mit dieser Deutung gilt man in Deutschland schnell als Verschwörungstheoretiker…
Ich bin selber überzeugter Transatlantiker. Ich sage Ihnen ehrlich, ich möchte im Zweifelsfall lieber unter einer amerikanischen Hegemonie als unter einer russischen oder chinesischen leben. Dieser Krieg war anfangs nur eine innenpolitische Auseinandersetzung der Ukraine. Die ging bereits 2014 los, zwischen den russischsprachigen ethnischen Gruppen und den Ukrainern selber. Es ist also ein Bürgerkrieg gewesen. Jetzt, nach dem Überfall Russlands, ist es ein zwischenstaatlicher Krieg zwischen Ukraine und Russland geworden. Es ist auch ein Kampf um die Unabhängigkeit der Ukraine und ihrer territorialen Integrität. Das ist alles richtig. Aber es ist nicht die ganze Wahrheit. Es ist eben auch ein Stellvertreter-Krieg zwischen den USA und Russland, und da geht es um ganz konkrete geopolitische Interessen in der Schwarzmeerregion.

Die da wären?
Die Schwarzmeerregion ist für die Russen und ihre Schwarzmeerflotte so wichtig wie die Karibik oder die Region um Panama für die USA. So wichtig wie das südchinesische Meer und Taiwan für China. So wichtig wie die Schutzzone der Türkei, die sie völkerrechtswidrig gegenüber den Kurden etabliert haben. Vor diesem Hintergrund und aus strategischen Gründen können die Russen da auch nicht raus. Mal abgesehen davon, dass sich bei einer Volksabstimmung auf der Krim die Bevölkerung mit Sicherheit für Russland entscheiden würde.

Wie soll das also weitergehen?
Wenn die Russen durch massive westliche Intervention dazu gezwungen würden, sich aus der Schwarzmeerregion zurückzuziehen, dann würden sie, bevor sie von der Weltbühne abtreten, mit Sicherheit zu den Nuklearwaffen greifen. Ich finde den Glauben naiv, ein Atomschlag Russlands würde niemals passieren. Nach dem Motto, ‚Die bluffen doch nur‘.

Aber was könnte die Lösung sein?
Man sollte die Menschen in der Region, also im Donbass und auf der Krim, einfach fragen, zu wem sie gehören wollen. Man müsste die territoriale Integrität der Ukraine wiederherstellen, mit bestimmten westlichen Garantien. Und die Russen brauchen so eine Sicherheitsgarantie eben auch. Also keine Nato-Mitgliedschaft für die Ukraine. Seit dem Gipfel von Bukarest von 2008 ist klar, dass das die rote Linie der Russen ist.

Und was kann Deutschland Ihrer Meinung nach tun?
Wir müssen unsere militärische Unterstützung so dosieren, dass wir nicht in einen Dritten Weltkrieg gleiten. Keiner von denen, die 1914 mit großer Begeisterung in den Krieg gezogen sind, war hinterher noch der Meinung, dass das richtig war. Wenn das Ziel eine unabhängige Ukraine ist, muss man sich perspektivisch auch die Frage stellen, wie eine europäische Ordnung unter Einbeziehung Russlands aussehen soll. Russland wird ja nicht einfach von der Landkarte verschwinden. Wir müssen vermeiden, die Russen in die Arme der Chinesen zu treiben, und damit die multipolare Ordnung zu unseren Ungunsten zu verschieben. Wir brauchen Russland auch als Führungsmacht eines Vielvölkerstaates, um aufflammende Kämpfe und Kriege zu vermeiden. Und ehrlich gesagt sehe ich nicht, dass die Ukraine Mitglied der EU und erst recht nicht Mitglied der Nato wird. Wir haben in der Ukraine ebenso wie in Russland eine hohe Korruption und die Herrschaft von Oligarchen. Das, was wir in der Türkei – mit Recht – in puncto Rechtsstaatlichkeit anprangern, das Problem haben wir in der Ukraine auch.

Was meinen Sie, Herr Vad, was erwartet uns im Jahr 2023?
Es muss sich in Washington eine breitere Front für Frieden aufbauen. Und dieser sinnfreie Aktionismus in der deutschen Politik, der muss endlich ein Ende finden. Sonst wachen wir eines Morgens auf und sind mittendrin im Dritten Weltkrieg.

Fonte: https://www.emma.de/artikel/erich-vad-was-sind-die-kriegsziele-340045

“La terza guerra mondiale è già iniziata” tra Stati Uniti e Russia/Cina, sostiene lo studioso francese Emmanuel Todd

di Ben Norton

Il noto intellettuale francese Emmanuel Todd sostiene che la guerra per procura dell’Ucraina è l’inizio della terza guerra mondiale, ed è “esistenziale” sia per la Russia che per il “sistema imperiale” degli Stati Uniti, che ha limitato la sovranità dell’Europa, trasformando Bruxelles nel “protettorato” di Washington.

Al di là del confronto militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sulla contrapposizione tra l’occidente liberale e il resto del mondo conquistato a una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli in cui crediamo.

Emmanuel Todd è un antropologo, storico, saggista, futurista, autore di numerosi libri. Molti di loro, come “The Final Fall”, “The Economic Illusion” o “After the Empire”, sono diventati dei classici delle scienze sociali. Il suo ultimo libro,  La terza guerra mondiale è iniziata “, è stato pubblicato nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.

Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “distruttore ribelle” secondo le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia nessuno indifferente. L’autore di La Chute finale, che predisse il crollo dell’Unione Sovietica nel 1976, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina . L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi sul tema al pubblico giapponese, pubblicando anche un saggio dal titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è iniziata” (“La Troisième Guerre mondiale a commencé” in francese). Al momento è disponibile solo in Giappone. Nella intervista a Le Figaro dettaglia la sua tesi iconoclasta.

Un eminente intellettuale francese ha scritto un libro sostenendo che gli Stati Uniti stanno già conducendo la Terza Guerra Mondiale contro Russia e Cina. Ha anche avvertito che l’Europa è diventata una sorta di “protettorato” imperiale, che ha poca sovranità ed è essenzialmente controllato dagli Stati Uniti.

Todd ha delineato le principali argomentazioni che ha fatto nel libro in un’intervista in lingua francese al principale quotidiano Le Figaro , condotta dal giornalista Alexandre Devecchio. Secondo Todd, la guerra per procura in Ucraina è “esistenziale” non solo per la Russia, ma anche per gli Stati Uniti. Il “sistema imperiale” statunitense si sta indebolendo in gran parte del mondo, ha osservato, ma questo sta portando Washington a “rafforzare la presa sui suoi protettorati iniziali”: Europa e Giappone.

Ciò significa che “Germania e Francia sono diventate partner minori nella NATO”, ha detto Todd, e la NATO è davvero un blocco “Washington-Londra-Varsavia-Kiev”. Le sanzioni degli Stati Uniti e dell’UE non sono riuscite a schiacciare la Russia, come speravano le capitali occidentali, ha osservato. Ciò significa che “la resistenza dell’economia russa sta spingendo il sistema imperiale americano verso il precipizio” e “i controlli monetari e finanziari americani del mondo crollerebbero”.

L’intellettuale francese ha indicato i voti delle Nazioni Unite riguardanti la Russia e ha avvertito che l’ Occidente non è in contatto con il resto del mondo . “I giornali occidentali sono tragicamente divertenti. Non smettono di dire: “La Russia è isolata, la Russia è isolata”. Ma quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che poi sembra molto piccolo”, ha osservato Todd. Ha anche criticato le metriche del PIL utilizzate dagli economisti neoclassici occidentali per minimizzare la capacità produttiva dell’economia russa, esagerando contemporaneamente quella delle economie neoliberiste finanziarizzate come negli Stati Uniti.

Nell’intervista a Le Figaro, Todd ha sostenuto (tutte le sottolineature sono state aggiunte):

Questa è la realtà, la terza guerra mondiale è iniziata. È vero che è iniziato “in piccolo” e con due sorprese. Siamo entrati in questa guerra con l’idea che l’esercito russo fosse molto potente e che la sua economia fosse molto debole.

Si pensava che l’Ucraina sarebbe stata schiacciata militarmente e che la Russia sarebbe stata schiacciata economicamente dall’Occidente. Ma è successo il contrario. L’Ucraina non è stata schiacciata militarmente anche se in quella data ha perso il 16% del suo territorio; La Russia non è stata schiacciata economicamente. Mentre vi parlo, il rublo ha guadagnato l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dal giorno prima dell’inizio della guerra.

Quindi c’è stata una sorta di malinteso. Ma è evidente che il conflitto, passando da una limitata guerra territoriale a uno scontro economico globale, tra tutto l’occidente da un lato e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altro, è diventato un mondo di guerra. Anche se la violenza militare è bassa rispetto a quella delle precedenti guerre mondiali.

Il giornale ha chiesto a Todd se stesse esagerando. Ha risposto: “Forniamo ancora armi. Uccidiamo russi, anche se non ci esponiamo. Ma resta vero che noi europei siamo impegnati soprattutto economicamente. Sentiamo anche la nostra vera entrata in guerra attraverso l’inflazione e la penuria”.

Todd ha sottovalutato il suo caso. Non ha menzionato il fatto che, dopo che gli Stati Uniti hanno sponsorizzato il colpo di stato che ha rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina nel 2014, scatenando una guerra civile, la CIA e il Pentagono hanno immediatamente iniziato ad addestrare le forze ucraine per combattere la Russia.

Il New York Times ha riconosciuto che la CIA e le forze per le operazioni speciali di numerosi paesi europei sono sul campo in Ucraina. E la CIA e un alleato europeo della NATO stanno persino effettuando attacchi di sabotaggio all’interno del territorio russo.

Tuttavia, nell’intervista, Todd ha continuato:

Putin ha commesso un grosso errore all’inizio, il che è di immenso interesse storico-sociale. Coloro che lavoravano in Ucraina alla vigilia della guerra consideravano il paese non come una democrazia alle prime armi, ma come una società in decadenza e uno “stato fallito” in formazione.

Penso che il calcolo del Cremlino fosse che questa società in decomposizione si sgretolasse al primo shock, o addirittura dicesse “benvenuta mamma” nella santa Russia. Ma quello che abbiamo scoperto, al contrario, è che una società in decomposizione, se alimentata da risorse finanziarie e militari esterne, può trovare nella guerra un nuovo tipo di equilibrio, e anche un orizzonte, una speranza. I russi non avrebbero potuto prevederlo. Nessuno potrebbe.

Todd ha detto di condividere il punto di vista sull’Ucraina del politologo statunitense John Mearsheimer, un realista che ha criticato la politica estera aggressiva di Washington. Mearsheimer “ci ha detto che l’Ucraina, il cui esercito era stato rilevato dai soldati della NATO (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi un membro de facto della NATO, e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato una NATO membro dell’Ucraina”, ha detto Todd.

Per la Russia, questa è una guerra che è “dal loro punto di vista difensivo e preventivo”, ha ammesso. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata.

Tuttavia, Todd ha sostenuto che Mearsheimer “non va abbastanza lontano” nella sua analisi. Lo scienziato politico statunitense ha trascurato il modo in cui Washington ha limitato la sovranità di Berlino e Parigi, ha detto Todd:

Germania e Francia erano diventate partner minori nella NATO e non erano a conoscenza di ciò che stava accadendo in Ucraina a livello militare. L’ingenuità francese e tedesca è stata criticata perché i nostri governi non credevano nella possibilità di un’invasione russa. Vero, ma perché non sapevano che americani, inglesi e polacchi avrebbero potuto rendere l’Ucraina in grado di condurre una guerra più ampia. L’asse fondamentale della NATO ora è Washington-Londra-Varsavia-Kiev.

Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo paese. Ritiene che, se per i russi la guerra in Ucraina è esistenziale, per gli americani non è altro che un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una debacle in più o in meno… Che importa?

L’assioma fondamentale della geopolitica americana è: ‘Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al riparo, lontano, tra due oceani, non ci succederà mai niente’. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Insufficienza di analisi che oggi porta Biden a una serie di azioni sconsiderate.

L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa sta spingendo il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno si aspettava che l’economia russa avrebbe resistito alla “potenza economica” della NATO. Credo che gli stessi russi non l’avessero previsto.

Emmanuel Todd prosegue nell’intervista sostenendo che, resistendo a tutta la forza delle sanzioni occidentali, la Russia e la Cina rappresentano una minaccia per “i controlli monetari e finanziari americani del mondo”. Questo, a sua volta, mette in discussione lo status degli Stati Uniti come emittente della valuta di riserva globale , che gli conferisce la capacità di mantenere un “enorme deficit commerciale”:

Se l’economia russa resistesse indefinitamente alle sanzioni e riuscisse a esaurire l’economia europea, pur rimanendo essa stessa, sostenuta dalla Cina, crollerebbero i controlli monetari e finanziari americani del mondo, e con essi la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il loro enorme disavanzo commerciale.

Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti . Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono lasciarsi andare. Ecco perché ora ci troviamo in una guerra senza fine, in uno scontro il cui esito deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.

Todd ha avvertito che, mentre gli Stati Uniti si stanno indebolendo in gran parte del mondo, il loro “sistema imperiale” sta “rafforzando la presa sui suoi protettorati iniziali”: Europa e Giappone. E ha spiegato:

Ovunque vediamo l’indebolimento degli Stati Uniti, ma non in Europa e in Giappone, perché uno degli effetti del ritiro del sistema imperiale è che gli Stati Uniti rafforzano la presa sui loro protettorati iniziali.

Se leggiamo [Zbigniew] Brzezinski (The Grand Chessboard), vediamo che l’impero americano si è formato alla fine della seconda guerra mondiale con la conquista della Germania e del Giappone, che sono ancora oggi protettorati. Man mano che il sistema americano si restringe, pesa sempre più pesantemente sulle élite locali dei protettorati (e includo qui tutta l’Europa).

I primi a perdere ogni autonomia nazionale saranno (o lo sono già) gli inglesi e gli australiani. Internet ha prodotto un’interazione umana con gli Stati Uniti nell’anglosfera di tale intensità che le sue élite accademiche, mediatiche e artistiche sono, per così dire, annesse. Nel continente europeo siamo in qualche modo protetti dalle nostre lingue nazionali, ma la caduta della nostra autonomia è considerevole e rapida.

Come esempio di un momento della storia recente in cui l’Europa era più indipendente, Todd ha sottolineato: “Ricordiamo la guerra in Iraq, quando Chirac, Schröder e Putin hanno tenuto conferenze stampa congiunte contro la guerra” — riferendosi agli ex leader della Francia (Jacques Chirac) e Germania (Gerhard Schröder).

L’intervistatore del quotidiano Le Figaro, Alexandre Devecchio, ha ribattuto Todd chiedendo: “Molti osservatori sottolineano che la Russia ha il PIL della Spagna. Non stai sopravvalutando il suo potere economico e la sua resilienza?” Todd ha criticato l’eccessiva dipendenza dal PIL come parametro, definendolo una “misura fittizia della produzione” che oscura le reali forze produttive in un’economia:

La guerra diventa un banco di prova dell’economia politica, è il grande rivelatore. Il Pil di Russia e Bielorussia rappresenta il 3,3% del Pil occidentale (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), praticamente nulla. Ci si può chiedere come questo PIL insignificante possa far fronte e continuare a produrre missili.

Il motivo è che il PIL è una misura fittizia della produzione. Se togliamo al Pil americano la metà della sua spesa sanitaria sovrafatturata, allora la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più piene del mondo, quindi da un’intera economia di servizi mal definiti, compresi i “produzione” dei suoi 15-20 mila economisti con uno stipendio medio di 120.000 dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo PIL è vapore acqueo.

La guerra ci riporta all’economia reale, ci permette di capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità di produzione, e quindi la capacità di guerra.

Todd ha osservato che la Russia ha mostrato “una reale capacità di adattamento”. Ha attribuito questo al “ruolo molto ampio dello stato” nell’economia russa, in contrasto con il modello economico neoliberista statunitense:

Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014 abbiamo messo in atto le prime sanzioni importanti contro la Russia, ma poi ha aumentato la sua produzione di grano, che è passata da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Intanto, grazie al neoliberismo, la produzione di grano americana, tra il 1980 e il 2020, è passata da Da 80 a 40 milioni di tonnellate.

La Russia ha quindi una reale capacità di adattamento. Quando vogliamo prendere in giro le economie centralizzate, sottolineiamo la loro rigidità, e quando glorifichiamo il capitalismo, lodiamo la sua flessibilità.

L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole di funzionamento del mercato (è persino un’ossessione di Putin preservarle), ma con un ruolo molto ampio per lo Stato, ma trae la sua flessibilità anche dalla formazione di ingegneri, che ne consentono gli adattamenti industriali e militari.

Questo punto è simile a quanto sostenuto dall’economista Michael Hudson – che sebbene l’economia di Mosca non sia più socialista, come lo era quella dell’Unione Sovietica, il capitalismo industriale guidato dallo stato della Federazione Russa si scontra con il modello finanziarizzato del capitalismo neoliberista che gli Stati Uniti hanno cercato di imporre al mondo.

Da: https://www.acro-polis.it/2023/01/15/la-terza-guerra-mondiale-e-gia-iniziata-tra-stati-uniti-e-russia-cina-sostiene-lo-studioso-francese-emmanuel-todd/

Fonte originale: https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112

USA, i democratici sono ormai il partito della guerra.

di Mr. Fish

Il lato oscuro dei Democratici

I Democratici si posizionano come il partito della virtù, ammantando il loro sostegno all’industria bellica con un linguaggio morale che risale alla Corea e al Vietnam, quando il presidente Ngo Dinh Diem era osannato come il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Tutte le guerre che sostengono e finanziano sono guerre “buone”. Tutti i nemici che combattono, gli ultimi dei quali sono la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping, sono incarnazioni del male. La foto di una raggiante presidente della Camera Nancy Pelosi e della vicepresidente Kamala Harris che sorregge una bandiera di battaglia ucraina autografata dietro Zelensky mentre si rivolge al Congresso è un altro esempio dell’abietto asservimento del Partito Democratico alla macchina da guerra.

I Democratici, soprattutto con la presidenza di Bill Clinton, sono diventati degli intermediari non solo per l’America corporativa, ma anche per i produttori di armi e per il Pentagono. Nessun sistema di armamento è troppo costoso. Nessuna guerra, per quanto disastrosa, non viene finanziata. Nessun bilancio militare è troppo grande, compresi gli 858 miliardi di dollari di spesa militare stanziati per l’anno fiscale in corso, un aumento di 45 miliardi di dollari rispetto a quanto richiesto dall’amministrazione Biden. 

Lo storico Arnold Toynbee ha citato il militarismo incontrollato come la malattia fatale degli imperi, sostenendo che essi si suicidano definitivamente. 

Un tempo c’era un’ala del Partito Democratico che metteva in discussione e si opponeva all’industria bellica: I senatori J. William Fulbright, George McGovern, Gene McCarthy, Mike Gravel, William Proxmire e il membro della Camera Dennis Kucinich. Ma questa opposizione è evaporata insieme al movimento contro la guerra. Quando di recente 30 membri del caucus progressista del partito hanno chiesto a Biden di negoziare con Putin, sono stati costretti dalla leadership del partito e dai media guerrafondai a fare marcia indietro e a ritirare la lettera. Nessuno di loro, ad eccezione di Alexandria Ocasio-Cortez, ha votato contro i miliardi di dollari in armamenti inviati all’Ucraina o contro il bilancio militare gonfiato. Rashida Tlaib ha votato a favore. 

L’opposizione al finanziamento perpetuo della guerra in Ucraina è venuta soprattutto dai repubblicani, 11 al Senato e 57 alla Camera, molti dei quali, come Marjorie Taylor Greene, sono teorici della cospirazione. Solo nove repubblicani alla Camera si sono uniti ai democratici nel sostenere la legge di spesa da 1.700 miliardi di dollari necessaria per evitare la chiusura del governo, che includeva l’approvazione di 847 miliardi di dollari per le forze armate – il totale sale a 858 miliardi di dollari se si considerano i conti che non rientrano nella giurisdizione dei comitati dei servizi armati. Al Senato, 29 repubblicani si sono opposti alla legge di spesa. I democratici, compresi quasi tutti i 100 membri del Congressional Progressive Caucus della Camera, si sono schierati doverosamente a favore della guerra infinita. 

Questa smania di guerra è pericolosa e ci spinge a una potenziale guerra con la Russia e, forse più tardi, con la Cina, ognuna delle quali è una potenza nucleare. È anche economicamente rovinosa. La monopolizzazione del capitale da parte dei militari ha portato il debito degli Stati Uniti a oltre 30.000 miliardi di dollari, 6.000 miliardi in più rispetto al PIL degli Stati Uniti, che ammonta a 24.000 miliardi di dollari. Il servizio di questo debito costa 300 miliardi di dollari all’anno. Spendiamo per le forze armate più dei nove Paesi successivi, tra cui Cina e Russia, messi insieme. Il Congresso è anche in procinto di fornire al Pentagono 21,7 miliardi di dollari in più – rispetto al bilancio annuale già ampliato – per rifornire l’Ucraina.

“Ma questi contratti sono solo la punta di diamante di quello che si preannuncia come un nuovo grande potenziamento della difesa”, riporta il New York Times. “L’anno prossimo la spesa militare è destinata a raggiungere il livello più alto, in termini corretti dall’inflazione, dai picchi dei costi delle guerre in Iraq e Afghanistan tra il 2008 e il 2011, e il secondo più alto, in termini corretti dall’inflazione, dalla Seconda guerra mondiale – un livello che supera i bilanci delle 10 maggiori agenzie di governo messe insieme”.

Il Partito Democratico, che sotto l’amministrazione Clinton ha corteggiato in modo aggressivo i donatori aziendali, ha rinunciato a sfidare, per quanto tiepidamente, l’industria bellica. 

“Non appena il Partito Democratico ha deciso, forse 35 o 40 anni fa, di accettare i contributi delle aziende, ha cancellato ogni distinzione tra i due partiti”, ha detto Dennis Kucinich quando l’ho intervistato nel mio programma per The Real News Network. “Perché a Washington, chi paga il pifferaio suona la melodia. Ecco cosa è successo. Non c’è molta differenza tra i due partiti quando si parla di guerra”. 

Nel suo libro del 1970 “La macchina della propaganda del Pentagono”, Fulbright descrive come il Pentagono e l’industria degli armamenti versino milioni di euro per plasmare l’opinione pubblica attraverso campagne di pubbliche relazioni, film del Dipartimento della Difesa, controllo di Hollywood e dominio dei media commerciali. Gli analisti militari dei notiziari via cavo sono in genere ex funzionari militari e dell’intelligence che siedono in consigli di amministrazione o lavorano come consulenti per le industrie della difesa, un fatto che raramente rivelano al pubblico. Barry R. McCaffrey, generale dell’esercito a quattro stelle in pensione e analista militare per NBC News, era anche un dipendente della Defense Solutions, una società di vendita e gestione di progetti militari. Come la maggior parte di questi informatori della guerra, ha tratto personalmente profitto dalla vendita di sistemi d’arma e dall’espansione delle guerre in Iraq e Afghanistan.

Alla vigilia di ogni votazione del Congresso sul bilancio del Pentagono, i lobbisti delle imprese legate all’industria bellica incontrano i membri del Congresso e il loro staff per spingerli a votare a favore del bilancio per proteggere i posti di lavoro nel loro distretto o Stato. Queste pressioni, unite al mantra amplificato dai media secondo cui l’opposizione agli sperperati finanziamenti alla guerra è antipatriottica, tengono in schiavitù i funzionari eletti. Questi politici dipendono anche dalle generose donazioni dei produttori di armi per finanziare le loro campagne.

Seymour Melman, nel suo libro “Pentagon Capitalism”, ha documentato il modo in cui le società militarizzate distruggono le loro economie nazionali. Si spendono miliardi per la ricerca e lo sviluppo di sistemi d’arma, mentre le tecnologie delle energie rinnovabili languono. Le università sono inondate di borse di studio legate al settore militare, mentre faticano a trovare fondi per gli studi ambientali e le discipline umanistiche. Ponti, strade, argini, ferrovie, porti, reti elettriche, impianti di depurazione e infrastrutture per l’acqua potabile sono strutturalmente carenti e antiquati. Le scuole sono in rovina e mancano di insegnanti e personale sufficienti. Incapace di arginare la pandemia COVID-19, l’industria sanitaria a scopo di lucro costringe le famiglie, comprese quelle assicurate, alla bancarotta. L’industria manifatturiera nazionale, soprattutto con la delocalizzazione dei posti di lavoro in Cina, Vietnam, Messico e altre nazioni, crolla. Le famiglie annegano nel debito personale, con il 63% degli americani che vive di stipendio in stipendio. I poveri, i malati mentali, i malati e i disoccupati sono abbandonati. 

Melman, che ha coniato il termine “economia di guerra permanente”, ha osservato che dalla fine della Seconda guerra mondiale, il governo federale ha speso più della metà del suo bilancio discrezionale per le operazioni militari passate, presenti e future. Si tratta della più grande attività di sostegno del governo. L’establishment militare-industriale non è altro che un welfare aziendale dorato. I sistemi militari vengono venduti prima di essere prodotti. Le industrie militari sono autorizzate ad addebitare al governo federale gli enormi sforamenti dei costi. Sono garantiti profitti enormi. Ad esempio, lo scorso novembre, l’esercito ha assegnato alla sola Raytheon Technologies contratti per oltre 2 miliardi di dollari, che si aggiungono agli oltre 190 milioni di dollari assegnati in agosto, per la fornitura di sistemi missilistici destinati ad ampliare o rimpiazzare le armi inviate in Ucraina. Nonostante un mercato depresso per la maggior parte delle altre aziende, i prezzi delle azioni di Lockheed e Northrop Grumman sono aumentati di oltre il 36% e il 50% quest’anno. 

I giganti della tecnologia, tra cui Amazon, che fornisce software di sorveglianza e riconoscimento facciale alla polizia e all’FBI, sono stati assorbiti nell’economia di guerra permanente. Amazon, Google, Microsoft e Oracle si sono aggiudicati contratti multimiliardari per il cloud computing per la Joint Warfighting Cloud Capability e possono ricevere 9 miliardi di dollari in contratti del Pentagono per fornire alle forze armate “servizi cloud disponibili a livello globale in tutti i domini di sicurezza e livelli di classificazione, dal livello strategico al margine tattico”, fino alla metà del 2028.

Gli aiuti esteri vengono forniti a Paesi come Israele, con oltre 150 miliardi di dollari di assistenza bilaterale dalla sua fondazione nel 1948, o l’Egitto, che ha ricevuto oltre 80 miliardi di dollari dal 1978 – aiuti che richiedono ai governi stranieri di acquistare sistemi di armamento dagli Stati Uniti. Un tale sistema circolare deride l’idea di un’economia di libero mercato. Queste armi diventano presto obsolete e vengono sostituite da sistemi di armamento aggiornati e solitamente più costosi. Si tratta, in termini economici, di un vicolo cieco. Non sostiene altro che l’economia di guerra permanente.

“La verità è che siamo in una società fortemente militarizzata, guidata dall’avidità e dalla brama di profitto, e le guerre vengono create solo per continuare ad alimentarla”, mi ha detto Kucinich.

Nel 2014, gli Stati Uniti hanno appoggiato un colpo di Stato in Ucraina che ha insediato un governo composto da neonazisti e antagonista della Russia. Il colpo di Stato ha scatenato una guerra civile quando l’etnia russa dell’Ucraina orientale, il Donbass, ha cercato di separarsi dal Paese, causando oltre 14.000 morti e quasi 150.000 sfollati, prima dell’invasione della Russia a febbraio. L’invasione russa dell’Ucraina, secondo Jacques Baud, ex consulente per la sicurezza della NATO che ha lavorato anche per l’intelligence svizzera, è stata istigata dall’escalation della guerra ucraina nel Donbass. Inoltre, ha fatto seguito al rifiuto da parte dell’amministrazione Biden delle proposte inviate dal Cremlino alla fine del 2021, che avrebbero potuto evitare l’invasione russa l’anno successivo. 

Questa invasione ha portato a diffuse sanzioni statunitensi e europee contro la Russia, che si sono riversate sull’Europa. L’inflazione devasta l’Europa con la forte riduzione delle spedizioni di petrolio e gas russo. L’industria, soprattutto in Germania, è paralizzata. Nella maggior parte dell’Europa è un inverno di carenze, prezzi in crescita e miseria. 

“L’intera faccenda si sta ritorcendo contro l’Occidente”, ha avvertito Kucinich. “Abbiamo costretto la Russia a spostarsi in Asia, così come il Brasile, l’India, la Cina, il Sudafrica e l’Arabia Saudita. Si sta formando un mondo completamente nuovo. Il catalizzatore di tutto ciò è l’errore di valutazione che si è verificato sull’Ucraina e lo sforzo per cercare di controllare l’Ucraina nel 2014, di cui la maggior parte delle persone non è a conoscenza”.

Non opponendosi a un Partito Democratico la cui attività principale è la guerra, i liberali diventano i sognatori sterili e sconfitti di “Note dal sottosuolo” di Fëdor Dostoevskij. 

Ex detenuto, Dostoevskij non temeva il male. Temeva una società che non aveva più la forza morale di affrontare il male. E la guerra, per rubare una frase dal mio ultimo libro, è il male più grande.

(Traduzione: Cambiailmondo.org)

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/listen-to-this-article-the-democrats#details

Il teatro dell’assurdo in America

di Chris Hedges

Il teatro dell’assurdo in America
I 15 turni di votazione che hanno portato all’insediamento di Kevin McCarthy come Presidente della Camera fanno parte del carnevale della follia che passa per la politica.

La nostra classe politica non governa. Intrattiene. Gioca il ruolo che le è stato assegnato nella nostra democrazia fittizia, ululando di sdegno agli elettori e vendendoli. Lo Squad e il Caucus Progressista non hanno più intenzione di lottare per l’assistenza sanitaria universale, per i diritti dei lavoratori o per sfidare la macchina da guerra di quanto il Caucus della Libertà si batta per la libertà. Questi politicanti sono la versione moderna dell’astuto truffatore Elmer Gantry di Sinclair Lewis, che tradisce cinicamente un pubblico credulone per accumulare potere e ricchezza personali. Questa vacuità morale offre lo spettacolo, come scrisse H.G. Wells, di “una grande civiltà materiale, arrestata, paralizzata”. È successo nell’antica Roma. È successo nella Germania di Weimar. Sta accadendo qui.

La governance esiste. Ma non si vede. Di certo non è democratica. È fatta da eserciti di lobbisti e dirigenti aziendali, dell’industria dei combustibili fossili, dell’industria delle armi, dell’industria farmaceutica e di Wall Street. La governance avviene in segreto. Le corporazioni si sono impadronite delle leve del potere, compresi i media. Diventati oscenamente ricchi, gli oligarchi al potere hanno deformato le istituzioni nazionali, comprese le legislature statali e federali e i tribunali, per servire la loro insaziabile avidità. Sanno cosa stanno facendo. Comprendono la profondità della loro corruzione. Sanno di essere odiati. Sono preparati anche a questo. Hanno militarizzato le forze di polizia e costruito un vasto arcipelago di prigioni per tenere in schiavitù i disoccupati e i sottoccupati. Nel frattempo, pagano poche o nessuna imposta sul reddito e sfruttano la manodopera delle fabbriche all’estero. Finanziano lautamente i clown politici che parlano nell’idioma volgare e rozzo di un’opinione pubblica infuriata o nei toni dulcetati che servono a tranquillizzare la classe liberale.

Il contributo fondamentale di Donald Trump al panorama politico è la licenza di dire in pubblico ciò che un tempo il decoro politico proibiva. La sua eredità è la degradazione del discorso politico alle filippiche monosillabiche del Calibano di Shakespeare, che scandalizzano ed eccitano allo stesso tempo il teatro kabuki che passa per il governo. Questo burlesque differisce poco dal Reichstag tedesco, dove l’ultimo grido di dolore di Clara Zetkin, gravemente ammalata, contro il fascismo, il 30 agosto 1932, fu accolto da un coro di scherno, insulti e derisioni da parte dei deputati nazisti.

H.G. Wells chiamava la vecchia guardia, i buoni liberali, quelli che parlano con parole misurate e abbracciano la ragione, gli “uomini ineffabili”. Dicono le cose giuste e non fanno nulla. Sono vitali per l’ascesa della tirannia quanto i fascisti cristiani, alcuni dei quali hanno tenuto in ostaggio la Camera la scorsa settimana bloccando 14 turni di votazione per impedire a Kevin McCarthy di diventare Presidente della Camera. Quando McCarthy è stato eletto al 15° turno, ha ceduto a quasi tutte le richieste avanzate dagli ostruzionisti, tra cui quella di permettere a uno qualsiasi dei 435 membri della Camera di imporre un voto per la sua rimozione in qualsiasi momento, garantendo così la paralisi politica.

La guerra intestina alla Camera non è tra chi rispetta le istituzioni democratiche e chi no. McCarthy, sostenuto da Trump e dalla teorica della cospirazione di estrema destra Marjorie Taylor Greene, è moralmente fallito quanto coloro che cercano di farlo cadere. Questa è una battaglia per il controllo tra truffatori, ciarlatani, celebrità dei social media e mafiosi. McCarthy si è unito alla maggioranza dei repubblicani della Camera per sostenere una causa del Texas volta ad annullare il risultato delle Presidenziali del 2020, impedendo a quattro Stati – Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Georgia – di esprimere voti elettorali per Biden. La Corte Suprema ha rifiutato di ascoltare la causa. Non c’è molto che McCarthy non condivida nelle posizioni estremiste del Freedom Caucus, che assomigliano a quelle di Alternative fur Deutschland in Germania e di Fidesz in Ungheria. Sostengono maggiori tagli fiscali per i ricchi, un’ulteriore deregolamentazione delle aziende, una guerra ai migranti, più programmi di austerità, sostengono la supremazia bianca e accusano di tradimento i liberali e i conservatori che non si schierano dietro Trump.

“Voglio che guardiate Nancy Pelosi che mi passa il martelletto. Sarà difficile non colpirla”, ha detto McCarthy in un audio postato su YouTube da un reporter di Main Street Nashville nel 2021. Pelosi, da parte sua, ha definito McCarthy un “idiota”, dopo che questi aveva detto che un eventuale rinnovo del mandato per le maschere era “una decisione evocata da funzionari governativi liberali che vogliono continuare a vivere in uno stato di pandemia perpetua”. Questo è ciò che passa per discorso politico. Ho nostalgia del tempo in cui la retorica politica era orientata al livello di istruzione di un bambino di 10 anni o di un adulto con la sesta o la settima elementare. Ora parliamo per luoghi comuni imbecilli.

Questo vuoto politico ha generato l’antipolitica, o ciò che lo scrittore Benjamin DeMott ha definito “politica spazzatura”, che “personalizza e moralizza le questioni e gli interessi invece di chiarirli”. La politica spazzatura “massimizza le minacce provenienti dall’estero e miniaturizza i grandi e complessi problemi interni. È una politica che, guidata da ipotesi sui propri profitti e sulle proprie perdite, inverte bruscamente le posizioni pubbliche senza spiegazioni, spesso gonfiando in modo spettacolare i problemi precedentemente miniaturizzati (ad es: [la guerra in] Iraq sarà finita in giorni o settimane; l’Iraq è un progetto per generazioni)”.

“Uno dei principali effetti della politica spazzatura – il suo incessante flusso di fustigazione patriottica, religiosa, maschilista e terapeutica – è quello di staccare una posizione dopo l’altra da basi ragionate”, ha osservato DeMott.

Il risultato della politica spazzatura è che infantilizza il pubblico con “favole natalizie ottimistiche per tutto l’anno” e perpetua lo status quo. La classe miliardaria, che ha messo in atto un colpo di Stato aziendale al rallentatore, continua a saccheggiare; il militarismo incontrollato continua a svuotare il Paese; e il pubblico è tenuto in schiavitù dai tribunali e dalle agenzie di sicurezza interna. Quando il governo ti sorveglia ventiquattro ore al giorno, non puoi usare la parola “libertà”. Questo è il rapporto tra un padrone e uno schiavo. La ferrea supremazia del profitto fa sì che i più vulnerabili vengano scartati senza pietà. Sostenuta da repubblicani e democratici, la Federal Reserve sta aumentando i tassi di interesse per rallentare la crescita economica e aumentare la disoccupazione per frenare l’inflazione, imponendo un costo enorme ai lavoratori poveri e alle loro famiglie. Nessuno è tenuto a operare in quelle che John Ruskin chiamava “condizioni di cultura morale”. 

Ma il secondo risultato della politica spazzatura è più insidioso. Solidifica il culto dell’io, la convinzione amorale che abbiamo il diritto di fare qualsiasi cosa, di tradire e distruggere chiunque, per ottenere ciò che vogliamo. Il culto di sé favorisce una crudeltà psicopatica, una cultura costruita non sull’empatia, sul bene comune e sul sacrificio di sé, ma sul narcisismo sfrenato e sulla vendetta. Celebra, come fanno i mass media, il fascino superficiale, la grandiosità e la presunzione, il bisogno di stimoli continui, l’inclinazione alla menzogna, all’inganno e alla manipolazione, l’incapacità di provare colpa o rimorso. Questa è l’etica oscura della cultura aziendale, celebrata dall’industria dell’intrattenimento, dal mondo accademico e dai social media. 

Il saggista Curtis White sostiene che “è il capitalismo a definire il nostro carattere nazionale, non il cristianesimo o l’Illuminismo”. Egli valuta la nostra cultura come una cultura in cui “la morte si è rifugiata in una legalità che è sostenuta sia dai liberali ragionevoli che dai conservatori cristiani”. Questa “legalità” ratifica lo sfruttamento sistematico dei lavoratori. White critica il nostro trionfalismo nazionalista e il nostro scatenare “la potenza militare più fantasticamente distruttiva” che il mondo abbia mai conosciuto con il presunto obiettivo di “proteggere e perseguire la libertà”. 

“La giustizia, sotto il capitalismo, non nasce da una nozione di obbedienza alla legge morale, o alla coscienza, o alla compassione, ma dall’assunzione del dovere di preservare un ordine sociale e i ‘diritti’ legali che costituiscono tale ordine, in particolare il diritto alla proprietà e la libertà di farne ciò che si vuole”, scrive. “Questa è la vera e importante ‘valutazione morale’ che i nostri tribunali vogliono dare. Si arriva a questo: la decisione che sembrerà più giusta è quella che preserva il sistema di giustizia, anche se il sistema stesso è abitualmente ingiusto”.

La conseguenza è una società consumata da un eccessivo materialismo, da un lavoro inutile che distrugge l’anima, da insediamenti abitativi soffocanti più vicini a “cimiteri condivisi” che a veri e propri quartieri e da una licenza di sfruttamento che “condanna la natura stessa all’annientamento anche se la chiamiamo libertà di perseguire la proprietà personale”. 

La classe miliardaria, per la maggior parte, preferisce la maschera di un Joe Biden, che ha abilmente spaccato i sindacati delle ferrovie merci per evitare uno sciopero e li ha costretti ad accettare un contratto che la maggioranza dei membri del sindacato aveva rifiutato. Ma la classe miliardaria sa anche che gli scagnozzi e i truffatori dell’estrema destra non interferiranno nel loro sventramento della nazione; anzi, saranno più solidi nell’ostacolare i tentativi dei lavoratori di organizzarsi per ottenere salari e condizioni di lavoro decenti. Ho visto politici marginali in Jugoslavia, Radovan Karadžić, Slobodan Milošević e Franjo Tudjman, liquidati dalle élite politiche e istruite come buffoni, cavalcare un’onda antiliberale per raggiungere il potere sulla scia di una diffusa miseria economica. Walmart, Amazon, Apple, Citibank, Raytheon, ExxonMobile, Alphabet e Goldman Sachs si adatteranno facilmente. Il capitalismo funziona in modo molto efficiente senza democrazia.

Più a lungo rimaniamo in uno stato di paralisi politica, più queste deformità politiche si rafforzano. Come scrive Robert O. Paxton in “Anatomia del fascismo”, il fascismo è un’ideologia amorfa e incoerente. Si avvolge nei simboli più cari della nazione, nel nostro caso la bandiera americana, la supremazia bianca, il Pledge of Allegiance e la croce cristiana. Celebra l’ipermascolinità, la misoginia, il razzismo e la violenza. Permette agli esclusi, soprattutto agli uomini bianchi esclusi, di riacquistare un senso di potere, per quanto illusorio, e santifica l’odio e la rabbia. Abbraccia una visione utopica di rinnovamento morale e di vendetta che si coagula attorno a un salvatore politico consacrato. È militarista, anti-intellettuale e sprezzante della democrazia, soprattutto quando la classe dirigente affermata parla di democrazia liberale ma non fa nulla per difenderla. Sostituisce la cultura con il kitsch nazionalista e patriottico. Vede coloro che non rientrano nel cerchio chiuso dello Stato-nazione o del gruppo etnico o religioso come contaminanti che devono essere fisicamente epurati, di solito con la violenza, per ripristinare la salute della nazione. Si perpetua attraverso una costante instabilità, perché le sue soluzioni ai mali della nazione sono transitorie, contraddittorie e irraggiungibili. Soprattutto, il fascismo ha sempre una colorazione religiosa, mobilitando i credenti intorno a riti e rituali, usando parole e frasi sacre e abbracciando una verità assoluta che è eretico mettere in discussione.

Trump può essere finito politicamente, ma la decadenza politica e sociale che ha creato Trump rimane. Questa decadenza darà origine a nuovi demagoghi, forse più competenti. Temo l’ascesa di fascisti cristiani dotati dell’abilità politica, dell’autodisciplina, della concentrazione e dell’intelligenza che mancano a Trump. Più a lungo rimaniamo politicamente paralizzati, più il fascismo cristiano diventa certo. L’assalto alla capitale del 6 gennaio di due anni fa, la polarizzazione dell’elettorato in tribù antagoniste, la miseria economica che affligge la classe operaia, la retorica dell’odio e della violenza e l’attuale disfunzione del Congresso sono solo un assaggio dell’incubo che ci attende.

(Traduzione: Cambiailmondo.org)

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/americas-theater-of-the-absurd?utm_source=substack&utm_medium=email

LA MACCHINA DELLA PROPAGANDA

di Alberto Bradanini

Introduzione

Secondo la narrativa dominante, la propaganda, vale a dire la sistemica produzione di falsità, colpirebbe solo le nazioni prive di libertà di espressione, i paesi autocratici, autoritari o dittatoriali (appellativi, invero, attribuiti a seconda delle convenienze). Nei paesi autoritari, con qualche diversità dall’uno all’altro, il quadro è piuttosto evidente, domina la censura: alcune cose si possono fare, altre no. A dispetto delle apparenze, tuttavia, anche nelle cosiddette democrazie, l’obiettivo è il medesimo, controllare il disagio della maggioranza contro i privilegi della minoranza, cambia solo la tecnica, una tecnica basata sulla Menzogna, che opera in modo sofisticato, creando notizie dal nulla, mescolando bugie e verità, omettendo fatti e circostanze, rimestando abusivamente passato e futuro, paragonando ostriche a elefanti.

Confondendo ulteriormente il quadro, per il discorso del potere – in cima al quale, a ben guardare, troviamo sempre l’impero americano in qualche sua incarnazione – i paesi autoritari sono poi quelli che non si piegano al dominio dell’unica nazione indispensabile al mondo (Clinton, 1999), colonna portante del Regno del Bene.

Coloro che dominano la narrativa pubblica, dunque, controllano la società e per la proprietà transitiva la ricchezza e le inquietudini che vi si aggirano. D’altra parte, persino chi siede in cima alla piramide è inquieto, preso dall’angoscia di perdere ricchezza e potere. E la coercizione non basta, occorre il consenso e il ruolo della propaganda è quello di disarticolare il conflitto, contenere quel malessere che si aggira ovunque come un felino in attesa della preda. Essa è anche un aspetto costitutivo della più vasta nozione di egemonia, nell’accezione gramsciana del termine[1], secondo la quale il ceto dominante, oggi transnazionale, ha bisogno di guidare la narrazione pubblica, servendosi di un’impalcatura di servizio, politici, militari/burocrati, giornalisti, accademici.

Il potere è slegato da ogni ideologia, non essendo fondato su valori, ma solo su interessi: liberalismo o socialismo, conservatorismo o progressismo, fondamentalismo cristiano o islamico, suprematismo o meticciamento e via dicendo, il fine è solo uno, la massificazione di sè stesso e dei profitti correlati. Il Regno del Bene non ha sfumature di pensiero, tanto meno di azione.

La narrativa pubblica diffonde inoltre un messaggio inconscio: “sappiamo bene che la situazione non è ideale, le cose dovrebbero andar meglio, ma, ahimè, non vi sono alternative. D’altro canto, si faccia attenzione perché le cose potrebbero andare molto peggio, e solo noi siamo in grado di evitare che la situazione precipiti”.

Taluni sono persuasi che solo chi vive ai margini, i poveri di spirito e gli individui senza istruzione o acume siano esposti al sortilegio della propaganda. Uno sguardo disincantato rivela invece che tale dipendenza non ha nulla a che vedere con la cultura o l’intelligenza. Anzi, entrambe tendono a rafforzare la resistenza a riconoscere la porosità alla manipolazione. La capacità di opporsi al mainstream appare invero connessa con l’umile qualità di saper riconoscere i propri errori, e all’occorrenza la propria credulità. Si tratta di una caratteristica critica dell’essere umano che esprime maturità emotiva e spessore culturale. Sul piano filosofico, invece, l’abilità a smascherare l’inganno discende dall’aderenza al principio di verità, che non può prescindere da una vita condotta in coerenza. Si tratta di peculiarità poco diffuse, ma che fioriscono in ogni genere di individui e sono essenziali per la vita e la prosperità del genere umano.

Il trampolino della propaganda

Nell’incipit del saggio The Propaganda Multiplier[2], lo svizzero Konrad Hummler afferma che “davanti a qualsiasi genere di informazione non dovremmo mai tralasciare di chiederci: perché ci giungono queste notizie, perché in questa forma e in questo momento? In fin dei conti si tratta sempre di questioni che riguardano il potere”.

Forse, ciò chiarisce perché nessuno dà conto della singolare congiuntura – è questo un esempio tra i tanti – per la quale i cittadini russi possono leggere i nostri giornali e ascoltare le nostre TV, mentre noi non abbiamo il diritto di reciprocare, leggere e ascoltare i media russi[3]. In attesa di venirne informati, ci soccorre il vocabolario orwelliano, nel quale si scrive pace per significare guerra, democrazia per intendere oligarchia–plutocrazia, sovranità per esprimere sottomissione, libertà di giustizio per la sua soppressione.

Hummler aggiunge che un aspetto sostanzialmente ignoto del sistema mediatico riguarda la struttura del suo funzionamento, in specie la circostanza che la quasi totalità delle notizie che ci giungono sugli eventi del mondo è generato da tre sole agenzie internazionali di stampa. Il loro ruolo è talmente centrale che i fruitori mediatici – TV, giornali e internet – coprono quasi sempre gli stessi eventi con i medesimi argomenti, lo stesso taglio, il medesimo formato. Si tratta di agenzie che godono di coperture e sostegni di governi, apparati militari e intelligence, essendo da questi utilizzate quali piattaforme di diffusione di informazioni pilotate[4].

Come fa il giornale (o la TV) che leggo (o ascolto) a conoscere ciò che afferma di conoscere su un argomento internazionale? – si chiede Hummler – e la risposta è banale: quel giornale o quella TV non sa nulla, si limita a copiare da una delle citate agenzie. Queste lavorano in modo felpato, dietro le quinte. La prima ragione di tale discrezione è beninteso il controllo della notizia, la seconda risiede nella circostanza che giornali e TV non hanno interesse a far conoscere ai loro lettori di non essere in grado di raccogliere notizie indipendenti su quanto raccontano.

Le tre agenzie in questione sono:

​•​Associated Press (AP), che ha oltre 4000 dipendenti sparsi nel mondo. AP ha la forma di società cooperativa, ma è di fatto controllata da finanziarie quotate a Wall Street; dall’aprile 2017, il suo presidente è Steven Swartz, il quale è anche CEO di Hearst Communications, il colosso Usa dei media. AP fornisce informazioni a oltre 12.000 giornali e TV internazionali, raggiungendo ogni giorno oltre metà della popolazione mondiale; 

​•​Agence France-Presse (AFP)[5], partecipata dallo stato francese, ha circa 4000 dipendenti e trasmette ogni giorno oltre 3000 reportage a testate mediatiche di tutto il mondo; 

​•​Agenzia Reuters, con sede a Toronto, con migliaia di persone in ogni dove, dal luglio 2018 il 55% del suo capitale è proprietà di Blackstone Group, quotata a Wall Street; nel 2008 è stata acquisita dalla canadese Thomson Corporation e si è poi fusa nella Thomson-Reuters. 

Le corporazioni statunitensi (e con esse gli apparati militari e di sicurezza, lo stato profondo, etc…) dominano anche il mondo internet, poiché le prime dieci società mediatiche online, tranne una, sono di proprietà americana e hanno tutte sede negli Usa.

Essendo tale impalcatura alla radice della creazione, soppressione e adulterazione mediatica degli accadimenti nel mondo[6], è curioso che siano poche le persone interessate a conoscerne ruolo e meccanismi operativi.

Un ricercatore svizzero (Blum[7]) ha rilevato che nessun quotidiano occidentale può far a meno di tali agenzie se vuole occuparsi di questioni internazionali. Noi conosciamo solo ciò su cui queste decidono di riferire. La Grande Menzogna nella quale è immersa la popolazione (con eccezioni, beninteso) sta devastando l’etica pubblica e la sensibilità collettiva. Il lavaggio del cervello è implacabile, tutto è piegato alle esigenze del potere (l’Occidente e quella parte del mondo pilotata dall’Occidente), così gerarchicamente ordinato: impero Usa (corporazioni, stato profondo, forza militare), élite europee (finanza, banche, in prevalenza nordiche), classi dirigenti nazionali (politici, media, accademia).

Sebbene molti paesi dispongano di proprie agenzie – la tedesca DPA, l’austriaca APA, la svizzera SDA, l’italiana Ansa e così via – la carta stampata e le TV private/pubbliche, se vogliono occuparsi di temi internazionali, sono costrette a rivolgersi alle tre menzionate, le quali si sono appropriate di un ruolo insostituibile potendo contare su risorse, copertura geografica e capacità operativa: i reportage di tali agenzie vengono tradotti e copiati, talvolta utilizzati senza citare la fonte, altre volte parzialmente riscritti, altre ancora ravvivati e arricchiti con immagini e grafici per farli apparire un prodotto originale. Il giornalista che lavora su un dato argomento seleziona i passaggi che ritiene importanti, li manipola, li rimescola con qualche svolazzo e poi li pubblica (Volker Braeutigam)[8]”.

Quelli che il pubblico ritiene contributi originali del giornale o della TV sono in realtà rapporti fabbricati a New York, Londra o Parigi. Non sorprende che le notizie siano le stesse a Washington, Berlino, Parigi o Roma. Un fenomeno da brividi, poco dissimile dalle vituperate pratiche dei cosiddetti paesi illiberali.

Quanto ai corrispondenti, gran parte dei media non se ne può permettere nessuno. Quando esistono, coprono diversi paesi, anche dieci o venti, e si può immaginare con quale competenza! Nelle zone di guerra, raramente si avventurano fuori dall’hotel dove vivono, e pochissimi possiedono le competenze linguistiche per capire cosa succede intorno. Sulla guerra in Siria, scrive Hummler, molti riferivano da Istanbul, Beirut, Il Cairo, Cipro, mentre le citate agenzie dispongono di corrispondenti ovunque e ben addestrati.

Nel suo libro People Like Us: Misrepresenting the Middle East, il corrispondente olandese dal Medio Oriente, Joris Luyendijk, ha descritto candidamente come lavorano i corrispondenti e in quale misura dipendono dalle tre sorelle: “pensavo che questi fossero degli storici del momento, che davanti a un evento di rilievo, scoprissero cosa stesse davvero succedendo e riferissero in proposito. In verità nessuno va mai a verificare cosa accade. Quando succede qualcosa, la redazione chiama, invia per fax o e-mail comunicati-stampa già confezionati e il corrispondente in loco li rimbalza con parole sue, commentandoli alla radio o TV, oppure ne fa un articolo per il giornale di riferimento. Le notizie vengono nastro-trasportate. Su qualsiasi argomento o evento i corrispondenti aspettano in fondo al tapis-roulant, fingendo di aver prodotto qualcosa, ma è tutto falso”.

In altre parole, il corrispondente solitamente non è in grado di produrre inchieste indipendenti e si limita a rimodellare resoconti confezionati nelle redazioni o da una delle tre agenzie. È così che nasce l’effetto mainstream.

Ci si potrebbe chiedere perché i giornalisti non provano a produrre inchieste indipendenti. Luyendijk scrive in proposito: “ho provato a farlo, ma ogni volta, a turno, le tre sorelle intervenivano sulla redazione e imponevano la loro storia, punto“[9]. Talvolta alla TV alcuni giornalisti mostrano una preparazione che suscita ammirazione, perché rispondono con competenza e disinvoltura a domande difficili. La ragione, tuttavia, è banale: conoscono in anticipo le domande. Quello che si vede è puro teatro[10]. Talora, per risparmiare, alcuni media si servono dei medesimi corrispondenti e in tal caso i reportage che giungono alle testate sono due gocce d’acqua.

Nel libro The Business of News, Manfred Steffens, ex-redattore dell’agenzia tedesca DPA, afferma “non si capisce la ragione per la quale una notizia sarebbe attendibile se ne viene citata la fonte. Anzi, può esser vero il contrario, poiché la responsabilità viene in tal caso attribuita alla fonte citata, potenzialmente altrettanto inattendibile[11]“.

Ciò che le agenzie ignorano non è mai avvenuto. Nella guerra in Siria, l’Osservatorio siriano per i diritti umani – un’organizzazione di scarsa indipendenza, con sede a Londra e finanziata dal governo britannico[12] – ha avuto un ruolo di primo piano. L’Osservatorio ha inviato i suoi reportage alle tre agenzie, che li hanno inoltrati ai media, i quali a loro volta hanno informato milioni di lettori e telespettatori in tutto il mondo. La ragione per la quale le agenzie hanno fatto riferimento a tale Osservatorio – e chi lo finanziava – resta tuttora misteriosa.

Mentre alcuni temi sono semplicemente ignorati, altri sono enfatizzati, anche se non dovrebbero esserlo: “una plateale falsità o una messa in scena[13] sono digerite senza obiezioni davanti alla presunta rispettabilità di una blasonata agenzia di stampa o una rinomata testata, poiché in questi casi il senso critico tende a sfiorare lo zero[14]”. Tra gli attori più efficaci nell’iniettare menzogne troviamo i ministeri della difesa (in Occidente tutti a vario modo penetrati dall’intelligence Usa). Nel 2009, il capo dell’agenzia AP, Tom Curley, ha pubblicamente affermato che il Pentagono impiegava oltre 27.000 specialisti in pubbliche relazioni che con un budget annuale di cinque miliardi di dollari diffondevano quotidianamente informazioni manipolate (da allora budget e numero di specialisti sono cresciuti di molto!). Le agenzie di sicurezza americane hanno l’abitudine di raccogliere e distribuire a giornali e TV informazioni create a tavolino con una tecnica che rende impossibile conoscerne l’origine, facendo ricorso a formule quali ‘secondo fonti d’intelligence, secondo quanto confidenzialmente trapelato o lasciato intendere da questo o quel generale, e così via”[15].

Nel 2003, dopo l’inizio della guerra in Iraq, Ulrich Tilgner, veterano del Medio Oriente per TV tedesche e svizzere, ha parlato dell’attività manipolatoria dei militari e del ruolo dei media. “Con l’aiuto di questi ultimi, i militari costruiscono la percezione pubblica e la usano per i loro scopi, diffondendo scenari inventati. In questo genere di guerra, gli strateghi mediatici statunitensi svolgono una funzione simile a quella dei piloti dei bombardieri”.

 Ciò che è noto all’esercito Usa lo è anche ai servici d’intelligence. In tema di disinformazione, un ex-funzionario dell’intelligence Usa e un corrispondente della Reuters hanno riferito quanto segue alla TV britannica Channel 4: “Un ex-agente della Cia, John Stockwell, ha rivelato[16] che occorreva far sembrare la guerra angolana come un’aggressione nemica. Per tale ragione abbiamo sostenuto in ogni paese coloro che condividevano questa tesi. Un terzo del mio staff era formato da diffusori di propaganda, pagati per inventare storie e trovare il modo per farle arrivare alla stampa. Di solito, le redazioni dei giornali occidentali non sollevano dubbi quando ricevono notizie in linea con la narrazione dominante. Abbiamo inventato tante storie, che stanno ancor in piedi, ma è tutta spazzatura[17]“.

Fred Bridgland[18], riferendo del suo lavoro come corrispondente di guerra per la Reuters, afferma: “abbiamo basato i nostri rapporti sulle comunicazioni ufficiali. Solo alcuni anni dopo siano stati informati che un piccolo esperto di disinformazione della Cia da una scrivania situata in un’ambasciata degli Stati Uniti produceva comunicati che non avevano alcuna relazione con la verità o i fatti sul campo. Fondamentalmente, per dirla in modo crudo, puoi fabbricare qualsiasi schifezza e farla pubblicare su un giornale“.

I servizi d’intelligence, certamente, dispongono di un’infinità di contatti per far passare le loro menzogne, ma senza il ruolo servizievole delle tre agenzie in questione, la sincronizzazione mondiale della propaganda e della disinformazione non sarebbe così efficace[19]. Attraverso questo meccanismo moltiplicatore, racconti interamente fabbricati da governi, servizi militari e d’intelligence raggiungono il pubblico senza alcun filtro. La professione del cosiddetto giornalista meainstream, ormai ridotta a strapuntino del potere, si concretizza nel rabberciare, sulla scorta di veline elaborate altrove, questioni complesse di cui sanno poco o nulla in un linguaggio privo di logica fattuale e indicazione di fonti.

Per l’ex-giornalista di AP, Herbert Altschull, “secondo la prima legge del giornalismo i mezzi d’informazione sono ovunque uno strumento del potere politico e/o economico. Giornali, periodici, stazioni radiofoniche e televisive di mainstream non operano mai in modo indipendente, anche quando ne avrebbero la possibilità”[20].

Sino a poco fa, la libertà di stampa era ancor più teorica, date le elevate barriere d’ingresso, le licenze da ottenere, le frequenze da negoziare, i finanziamenti e le infrastrutture tecniche necessarie, i pochi canali disponibili, la pubblicità da raccogliere e altre restrizioni. Oggi, grazie a Internet, la prima legge di Altschull è stata parzialmente infranta. È così emerso un giornalismo di qualità finanziato dai lettori, di livello superiore rispetto ai media tradizionali, in termini di capacità critica e indipendenza.

Ciononostante, i media tradizionali restano cruciali, poiché disponendo di risorse ben più copiose sono in grado di catturare una moltitudine di lettori anche online. E tale capacità è collegata al ruolo delle tre agenzie, i cui aggiornamenti al minuto costituiscono la spina dorsale della maggior parte dei siti mainstream reperibili in rete.

In quale misura il potere politico ed economico, secondo la legge di Altschull, riuscirà a mantenere il controllo dell’informazione davanti all’avanzare di notizie incontrollate, cambiando così la struttura del potere e almeno in parte la consapevolezza della popolazione, solo il futuro potrà dirlo. Se si guarda ai rapporti di forza l’esito parrebbe scontato. L’uomo resta, tuttavia, arbitro del proprio destino. La lotta è sempre in corso.

Gli operatori mediatici internazionali

Noam Chomsky, forse il più grande intellettuale vivente, nel suo saggio “What makes the mainstream media mainstream“, afferma che: “se rompi gli schemi il potere ha molti modi per rimetterti in riga. Eppure, si può e si deve comunque reagire[21]. Alcuni grandi giornalisti affermano che nessuno ha mai detto loro cosa scrivere. Chomsky chiarisce così tale apparente contraddizione: “costoro non sarebbero lì se non avessero già dimostrato di scrivere o dire ogni volta, e spontaneamente, la cosa giusta. Se avessero iniziato la carriera scrivendo cose sbagliate, non sarebbero mai arrivati nel luogo dove ora possono dire, in apparenza, ciò che vogliono. Lo stesso vale per le facoltà universitarie nelle discipline che contano“[22].

Il giornalista britannico John Pilger[23], noto per le sue inchieste coraggiose, scrive di aver incontrato negli anni Settanta una delle principali propagandiste del regime di Hitler, Leni Riefenstahl, secondo la quale per giungere alla totale sottomissione del popolo tedesco era stato necessario, ma non difficile, manipolare le menti della borghesia liberale e istruita; il resto era venuto in automatico.

La tragedia di tale scenario è che gli accadimenti di valenza politica, geopolitica o economica con risvolti internazionali (ma in genere tutti gli argomenti sensibili) vengono accolti con minimo senso critico. I media occidentali vivono di pubblicità (corporazioni private) o di sovvenzioni pubbliche, e riflettono gli interessi della narrativa atlantica, sotto l’egida dell’architettura economica e di sicurezza americana.

I mass-media hanno l’obiettivo di distogliere le persone dalle questioni centrali: “puoi pensare quel che vuoi, ma siamo noi che gestiamo lo spettacolo. Lascia che s’interessino di sport, di cronaca, scandali sessuali, problemi delle celebrità, della finta dialettica governo-opposizioni, ma non di cose serie, poiché quelle sono riservate ai grandi“.

Inoltre, le persone-chiave dei media principali vengono cooptate dall’élite transatlantica, ottenendo in cambio carriere e posizioni. I circoli ristretti del potere transnazionale – quali il Council for Foreign Relations, il Gruppo Bilderberg, la Commissione Trilaterale, l’Aspen Institute, il World Economic Forum, Chatham House e altri – reclutano a man bassa operatori mediatici (i nomi degli italiani, insieme agli uomini politici, sono disponibili in rete).

Per Chomsky le università non fanno la differenza. La narrazione prevalente riflette quella mainstream. Esse non sono indipendenti. Possono esserci professori indipendenti, e questo vale anche per i media, ma l’istituzione come tale non lo è, poiché dipende da finanziamenti esterni o dal governo (a sua volta piegato ai menzionati poteri). Coloro che non si conformano sono accantonati strada facendo. Il sistema premia conformismo e obbedienza. Nelle università si apprendono le buone maniere, in particolare come interloquire con i rappresentanti delle classi superiori. È così che, senza dover ricorrere alla menzogna esplicita, l’accademia e i media interiorizzano valori e posture del potere da cui dipendono.

Come noto, ne La fattoria degli animali George Orwell fa una satira spietata dell’Unione Sovietica. Trent’anni dopo si scopre però che, nell’introduzione da lui scritta a suo tempo, e che qualcuno aveva soppresso, egli scriveva “la censura letteraria in Inghilterra è efficace come quella di un sistema totalitario, sola la tecnica è diversa, anche qui, a ulteriore evidenza che le menti indipendenti, quelle che generano riflessioni sbagliate, vengono ovunque ostacolate o estirpate.

Il Presidente statunitense Woodrow Wilson fu eletto nel 1916 su una piattaforma contro la guerra. La gente non voleva combattere guerre altrui. Pace senza vittoria, dunque senza guerra, era stato lo slogan. Una volta eletto, Wilson cambiò idea e si pose la domanda: come si fa a convertire una nazione pacifista in una disposta a far la guerra ai tedeschi? Fu così istituita la prima, e formalmente unica, agenzia di propaganda statale nella storia degli Stati Uniti, il Comitato per l’Informazione Pubblica (bel titolo orwelliano!), chiamato Commissione Creel, dal nome del suo direttore. L’obiettivo di spingere la popolazione nell’isteria bellicista e sciovinista fu raggiunto senza troppe difficoltà. In pochi mesi gli Stati Uniti entrarono in guerra. Tra coloro che furono impressionati da tale successo, troviamo anche Adolf Hitler. In Mein Kampf, questi afferma che la Germania fu sconfitta nella Prima guerra mondiale perché perse la battaglia dell’informazione, e promise: la prossima volta sapremo reagire con un adeguato sistema di propaganda, come in affetti avvenne quando giunse al potere.

Walter Lippmann, esponente di punta della Commissione Creel tra i più rispettati del giornalismo americano per circa mezzo secolo, affermava: “in democrazia esiste un’arte chiamata fabbricazione del consenso”, che non ha beninteso nulla di democratico. “Se si riesce a farla funzionare, si può accettare persino il rischio che il popolo vada a votare. Con adeguato consenso si riesce a rendere irrilevante anche il voto. Affinché gli umori siano allineati ai desideri di chi comanda occorre mantenere l’illusione che sia il popolo a scegliere governi e orientamenti politici. In tal modo, la democrazia funzionerà come deve. Ecco cosa significa applicare la lezione della propaganda”. Del resto, James Madison, uno dei padri della costituzione americana, affermava che l’obiettivo principale del sistema era quello di proteggere la minoranza dei ricchi contro la maggioranza dei poveri. E ancora una volta, a tal fine, lo strumento principe era la propaganda.

Il già citato John Pilger ricorda[24] che negli ultimi 70 anni gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare oltre cinquanta governi, in gran parte democrazie. Hanno interferito nelle elezioni democratiche di una trentina di Paesi. Hanno bombardato le popolazioni di trenta nazioni, la maggior parte povere e indifese. Hanno tentato di assassinare i dirigenti politici di una cinquantina di stati sovrani. Hanno finanziato o sostenuto la repressione contro movimenti di liberazione nazionale in una ventina paesi. La portata e l’ampiezza di questa carneficina viene evocata ogni tanto, ma subito accantonata, mentre i responsabili continuano a dominare la vita politica americana.

Lo scrittore statunitense Harold Pinter, ricevendo il premio Nobel per la letteratura nel 2005, aveva affermato: “la politica estera degli Stati Uniti si può definire come segue: baciami il culo o ti spacco la testa. Essa è semplice e cruda, e l’aspetto interessante è che funziona perché gli Usa hanno risorse, tecnologie e armi per spargere disinformazione attraverso una retorica distorsiva, riuscendo a farla franca. Essi sono dunque persuasivi, specie agli occhi degli sprovveduti e dei governi sottomessi. In definitiva, si tratta di una montagna di menzogne, ma funziona. I crimini degli Stati Uniti sono sistematici, costanti, feroci, senza remore, ma pochissime persone ne parlano e ne prendono coscienza. Essi manipolano in modo patologico il mondo intero, presentandosi come paladini del Regno del Bene. Un meccanismo di ipnosi collettiva che è sempre all’opera”.

Il lavaggio del cervello è sofisticato e va chiamato con il suo vero nome, se vi vuole contenerne gli effetti letali. I limitati spazi, un tempo aperti anche alle intelligenze controcorrente, si sono chiusi. Siamo in attesa di uomini valorosi, come negli anni Trenta contro il fascismo, insieme a intellettuali (quelli autentici), agli indignati, alle menti inquiete, a coloro che hanno pietà per i propri simili, a chi non deve vendere l’anima per dare un senso all’esistenza. La catarsi di una rivoluzione culturale, che resta il sale della storia, un giorno potrebbe forse indurci a gridare insieme a voce alta: basta, lorsignori, adesso basta! D’ora in avanti, il popolo spegne i vostri funesti apparati, generatori di menzogne e turpitudini, e torna a calpestare i sentieri della verità e della vita. Si sta facendo tardi, non c’è più molto tempo.

Alberto Bradanini 

(Ex diplomatico, ambasciatore italiano a Pechino) 

Note:

[1] “La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente” (Quaderni del carcere, Il Risorgimento, p. 70).

[2] https://swprs.org/the-propaganda-multiplier/

[3] Russia Today e Sputnik sono raggiungibili se si accede dal motore di ricerca Brave e da cellulari

[4] Hammler riferisce ad esempio che, secondo un rapporto sulla copertura della guerra in Siria (iniziata nel 2011) da parte di nove grandi testate europee, il 78% degli articoli erano copiati in tutto o in parte dai resoconti di una di queste agenzie. Nessun articolo era basato su ricerche indipendenti. Di conseguenza, ça va sans dire, l’82% degli articoli pubblicati era a favore dell’intervento militare di Stati Uniti-Nato.

[5] https://swprs.org/the-propaganda-multiplier/

[6] Höhne 1977, p. 11.

[7] Blum 1995, p. 9

[8] Per dieci anni redattore dell’emittente TV tedesca ARD

[9] Luyendijk p.54ff

[10] Luyendjik 2009, p. 20-22, 76, 189

[11] Steffens 1969, p. 106

[12] https://en.wikipedia.org/wiki/Syrian_Observatory_for_Human_Rights

[13] Blum 1995, p. 16

[14] Steffens 1969, p. 234

[15] Tilgner 2003, p. 132

[16] https://swprs.org/the-cia-and-the-media/

[17] https://swprs.org/the-propaganda-multiplier/

[18] Fred Bridgland – Wikipedia

[19] È istruttivo scorrere le informazioni che si trovano su questo sito https://swprs.org/media-navigator/.

[20] (Altschull 1984/1995, p. 298)

[21] Chomsky 1997, Cosa rende mainstream i media mainstream

[22] Chomsky 1997

[23] https://cambiailmondo.org/2022/12/28/il-silenzio-degli-innocenti-come-funziona-la-propaganda/

[24] https://cambiailmondo.org/2022/12/28/il-silenzio-degli-innocenti-come-funziona-la-propaganda/

Ucraina, piatto ricco mi ci ficco

di Fabrizio Casari

La trattativa per un cessate il fuoco in Ucraina non sembra nemmeno sul punto di nascere ma in realtà tutti gli addetti ai lavori sanno che da tempo ormai gli Stati Uniti, di fronte all’insostenibilità militare e finanziaria del confronto tra Ucraina e Russia, hanno dato luce verde alla CIA per dare vita ad una ipotesi di negoziato con mediazioni varie, ultima arrivata quella indiana.

C’è da essere fiduciosi sull’apertura di un negoziato? Tutto il sistema politico e mediatico scommette sulla sua impraticabilità, pur se in qualche momento di lucidità ne ravvisa l’improcrastinabilità, dato che Kiev è allo stremo e ancor più lo sono le finanze europee. A sostegno deciso di un’ipotesi che vorrebbe la fine della guerra in Aprile, arriva ora una notizia di assoluto interesse.

Il più grande fondo speculativo del mondo, Blackrock, il cui peso è dato dal volume dei suoi affari (ottomila miliardi di Dollari in portafoglio) e dalla rinomata influenza sulla politica statunitense, lavora alla raccolta fondi per la ricostruzione post-bellica dell’Ucraina. Le stime minori per rimettere in piedi il Paese arrivano a 350 miliardi di Dollari, quelle più pesanti si spingono a mille miliardi di Dollari.

Per la Blackrock sarebbe uno dei più colossali affari di questo decennio e, di fronte a questa prospettiva, non c’è afflato ideologico statunitense che tenga il confronto.

L’eventualità che ciò si realizzi rappresenterebbe una nuova applicazione sul campo della strategia “distruggi e terrorizza” poi divenuta “distruggi e ricostruisci”, iniziata con la prima guerra in Irak. La strategia prevede la distruzione dei paesi ostili a Washington, che oltre a liberarsi di avversari politici che questionano la sua legittimità di dominare il mondo a loro esclusiva convenienza, produce prima un gran guadagno per il settore bellico, volano centrale dell’economia statunitense, poi un business altrettanto grande per la ricostruzione di quello che prima si è distrutto.

Infatti, la fine delle ostilità si chiude sempre con in allegato un contratto che favorisce le multinazionali estrattive e le aziende di costruzione statunitensi, ai quali si aggiungono poi succosi contratti che il Pentagono firma con le società di mercenari incaricata di vegliare sul personale civile e diplomatico statunitense durante tutti gli anni della ricostruzione. I becchini si fanno medici: il tritolo di ieri diventa il cemento di domani.

La strategia del “distruggi e ricostruisci” è quindi portatrice per gli USA di grandi successi economici, oltre che geopolitici, ed è appunto legata ai successi militari a stelle e strisce. Infatti è fallita solo in Afghanistan e Siria, dove gli Stati Uniti hanno raccolto figuracce e disseminato il campo di mine e fughe. A Kabul sono stati letteralmente cacciati da alcune migliaia di uomini in ciabatte e turbante, a Damasco invece – aiutati da Iran e Hezbollah, oltre che dai siriani – ci hanno pensato i russi, che sono intervenuti ed hanno sbaraccato in poco tempo l’Isis e tutta la Nato.

Le tasche piene dei soliti noti

Dal punto di vista politico, economico e militare gli USA non usciranno comunque dall’Ucraina. La Monsanto (ora Bayern) resterà proprietaria della quota enorme di terra ucraina ottenuta praticamente in forma gratuita. Si è fantasticato in propaganda sull’impatto che l’assenza di grano ucraino sul mercato avrebbe sulla crisi alimentare africana, ma era una colossale fake news. I raccolti ucraini vanno per il 95% in Europa, in Africa solo va il 5% degli stessi.

L’acquisizione di campi coltivabili fu semplice, non certo un ricordo nobile per la sovranità ucraina. Monsanto ha preso le terre, i diritti di sfruttamento e persino i finanziamenti internazionali per la produzione, che l’Ucraina richiedeva e gli statunitensi incassavano. Secondo una interrogazione parlamentare di Die Linke al Bundestag, ci fu una linea di credito da 17,000 milioni di dollari concessa all’Ucraina nel 2014 da parte delle istituzioni finanziare internazionali guidate dal Fondo monetario internazionale e il denaro utilizzato da Kiev per far ripartire le coltivazioni. Se le accuse di Die Linke fossero vere, saremmo al paradosso di un governo che riceve finanziamenti che poi dà alle imprese straniere per fare landgrabbing in casa propria.

Idem dicasi per i 37 laboratori biologici per la guerra batteriologica aperti e gestiti dai militari USA in territorio ucraino. Secondo il Cremlino il Pentagono ha finanziato la modernizzazione di almeno sessanta laboratori biologici segreti lungo i confini cinese e russo e il ministero degli Esteri cinese afferma che dispone dei dati che mostrano che Washington ha 336 laboratori sotto il suo controllo in 30 stati al di fuori della giurisdizione nazionale.

Si ricordi che gli esperimenti sul guadagno di funzione, cioè gli studi che permettono di modificare geneticamente un virus animale al fine di trasformarlo in un patogeno che possa essere trasmesso da uomo a uomo, sono vietati negli Stati Uniti dal 2014. In questo l’Ucraina è una cuccagna: agli statunitensi i risultati degli esperimenti, agli ucraini i rischi di possibili contaminazioni.

I laboratori resteranno saldamente nelle mani statunitensi, così come saranno gli Stati Uniti i maggiori creditori dell’Ucraina, che dovrà passare l’eternità a risarcire Washington per le forniture di armamenti, che tutti fanno finta di credere siano aiuti quando in realtà sono contratti di vendita.

Dovranno rinunciare, forse, alle ricche miniere del Donbass ed ai relativi affari di Hunter Biden, che andrà a tirare crack altrove. Del resto il potere d’interdizione del Presidente Biden non sarà più quello avuto fino ad ora; le elezioni di middle term e la sua demenza avanzata lo rilegano ormai a un puro ruolo raffigurativo. La stessa ridicola cerimonia di Zelensky al Congresso con l’esultanza di congress-man democratici ormai scaduti e la presenza di solo 70 dei 238 senatori repubblicani, è stata in qualche modo il canto del cigno di Biden più che l’inizio di una nuova era. La pagliacciata sulla minaccia russa è servita soprattutto a sostenere l’enorme aumento del budget per le spese militari, portate alla stratosferica somma di 858 miliardi di Dollari (addirittura 45 in più di quelli richiesti dalla Casa Bianca!), record assoluto nella storia statunitense e indicatore di direzione per la prossima guerra alla Cina.

Un simile aumento di budget sembra anche ignorare i risultati di un audit interno, che rivela come il Pentagono non sappia dove siano andati a finire 6500 miliardi di Dollari, circa il 40% del PIL degli USA. Denari dei cittadini di cui mancano i rendiconti, che risultano “dispersi in azione”.

E se la lobby delle armi viene soddisfatta anche quella del petrolio avrà soddisfazione. La guerra voluta dagli USA ha ottenuto il principale risultato che si prefiggeva: bloccata la partnership commerciale tra Russia ed Europa, fine delle forniture energetiche che consentivano lo sviluppo dei paesi UE, blocco delle attività finanziarie e rottura delle relazioni politiche. La dipendenza europea dalla Russia è diventata dipendenza dagli Stati Uniti e dal loro gas liquido, di scarsa quantità, minor qualità e maggior prezzo.

Firmare una pace ma continuare la guerra

A questo punto, il proseguimento della guerra così com’è non avrebbe senso, i risultati che si volevano ottenere si sono ottenuti. Mosca è lontana dall’Occidente ed è sempre più ancorata ad Oriente. La pressione militare della Nato sulla Russia resterebbe alta e, anche se gli accordi di pace dovessero prevedere Crimea e Donbass come territori russi, il risultato sarebbe quello di mettere altri 300, utilissimi, chilometri tra Mosca e la linea del fronte ucraino. L’addio scontato alla nato da parte di Kiev potrà essere sostituito dall’abbraccio mortale della UE, così i drammi sociali e i costi del ripristino dell’economia ucraina verranno pagati dagli europei.

Continuare una guerra convenzionale sarebbe un enorme onere per Washington e Bruxelles senza nessuna possibilità di vittoria sul campo. Di contro, addestrare, armare e finanziare i gruppi neonazisti incaricati di continuare le azioni militari anche dopo il raggiungimento di un accordo di pace, costerebbe poco e renderebbe molto. Un po’ quello messo in opera dal 2014 al 2022 con gli Accordi di Minsk, il cui rispetto è stato una burla, serviva solo ad avere tempo per costruire l’esercito ucraino, come ha candidamente confessato Angela Merkel.

Nelle teste d’uovo del Pentagono e di Langley si prospetta uno scenario nel quale l’Ucraina viene ridotta sensibilmente nelle sue dimensioni, creando così una corrente politico-militare che non riconosce gli accordi e sceglie la via del conflitto. Si creerebbe così un modello di guerriglia permanente come quello dei mujaheddin afghani e dei ceceni, che tennero Mosca impegnata militarmente per anni, senza altro scopo che fiaccarla e metterla nelle condizioni di dirottare le risorse del comparto bellico orientato sulla guerra a bassa intensità, più che su quella convenzionale e nucleare che preoccupa USA e UE.

Perché come sempre avviene dopo un conflitto che ha radici lontane, la pace non comporta la pacificazione. Soprattutto se gli sponsor della guerra continuano a soffiare sul fuoco del terrore.

FONTE: http://www.altrenotizie.org/in-evidenza/9856-ucraina-piatto-ricco-mi-ci-ficco.html

Brasile: il discorso di insediamento del Presidente Lula davanti al Parlamento

Pubblichiamo il discorso pronunciato da Lula nel Parlamento della capitale Brasília il 1° gennaio 2023, in occasione dell’insediamento del nuovo governo.

Per la terza volta mi presento a questo Parlamento Nazionale per ringraziare il popolo brasiliano per il voto di fiducia ricevuto. Rinnovo il mio giuramento di fedeltà alla Costituzione della Repubblica, insieme al Vice Presidente Geraldo Alckmin e ai ministri che lavoreranno con noi per il Brasile.

Se siamo qui oggi, è grazie alla consapevolezza politica della società brasiliana e al fronte democratico che abbiamo formato durante questa storica campagna elettorale.

La democrazia è stata la grande vincitrice di queste elezioni, riuscendo a prevalere sulla più grande mobilitazione di risorse pubbliche e private mai vista; le più violente minacce alla libertà di voto, la più abietta campagna di bugie e odio tramata per manipolare e mistificare l’elettorato.

Mai prima d’ora risorse pubbliche statali sono state così mal utilizzate a vantaggio di un progetto autoritario di potere. Mai la macchina pubblica è stata così sottratta ai controlli repubblicani. Gli elettori non sono mai stati così vincolati dal potere economico e dalle bugie diffuse su scala industriale.

Nonostante tutto, ha prevalso la decisione delle urne, grazie a un sistema elettorale riconosciuto a livello internazionale per la sua efficacia nel ricevere e contare i voti. L’atteggiamento coraggioso della Magistratura, in particolare del Tribunale Superiore Elettorale, è stato fondamentale per far prevalere la verità delle urne sulla violenza dei suoi detrattori.

Signore e signori parlamentari,

Tornando a questa seduta plenaria della Camera dei Deputati, dove ho partecipato all’Assemblea Costituente del 1988, ricordo con commozione gli scontri che qui abbiamo combattuto, democraticamente, per inscrivere nella Costituzione il più ampio insieme di diritti sociali, individuali e collettivi, a vantaggio della popolazione e della sovranità nazionale.

Vent’anni fa, quando sono stato eletto presidente per la prima volta, insieme al collega vicepresidente José Alencar, ho iniziato il mio discorso inaugurale con la parola “cambiamento”. Il cambiamento che intendevamo era semplicemente quello di attuare i precetti costituzionali. A cominciare dal diritto a una vita dignitosa, senza fame, con accesso al lavoro, alla salute e all’istruzione.

In quell’occasione ho affermato che la missione della mia vita si sarebbe compiuta quando ogni uomo e donna del Paese avesse potuto consumare tre pasti al giorno.

Dover ripetere oggi questo impegno – di fronte all’aumento della povertà e al ritorno della fame, che avevamo superato – è il sintomo più grave della devastazione che si è imposta al Paese in questi anni.

Oggi il nostro messaggio al Brasile è di speranza e di ricostruzione. Il grande edificio di diritti, sovranità e sviluppo che questa Nazione ha costruito dal 1988 è stato sistematicamente demolito negli ultimi anni. È per ricostruire questo edificio di diritti e valori nazionali che dirigeremo tutti i nostri sforzi.

Signore e signori,

Nel 2002 dicevamo che la speranza aveva vinto la paura, nel senso di aver superato i timori di fronte all’inedita elezione di un rappresentante della classe operaia a presiedere ai destini del Paese. In otto anni di governo abbiamo chiarito che tali timori erano infondati. Altrimenti non saremmo qui di nuovo.

È stato dimostrato che un rappresentante della classe operaia può di fatto dialogare con la società per promuovere la crescita economica in modo sostenibile e a beneficio di tutti, specialmente dei più bisognosi. Si è dimostrato che era davvero possibile governare questo Paese con la più ampia partecipazione sociale, includendo i lavoratori e i più poveri nelle decisioni di bilancio e di governo.

Durante questa campagna elettorale ho visto brillare la speranza negli occhi di un popolo sofferente, a causa della distruzione delle politiche pubbliche che promuovevano la cittadinanza, i diritti essenziali, la salute e l’istruzione. Ho visto il sogno di una Patria generosa, che offra opportunità ai suoi figli e figlie, in cui la solidarietà attiva sia più forte del cieco individualismo.

La diagnosi che abbiamo ricevuto dal Gabinetto per la Transizione di Governo è spaventosa. Hanno svuotato le risorse sanitarie. Hanno smantellato Istruzione, Cultura, Scienza e Tecnologia. Hanno distrutto la protezione dell’ambiente. Non hanno lasciato risorse per mense scolastiche, vaccinazioni, sicurezza pubblica, protezione forestale, assistenza sociale. Hanno disorganizzato il governo dell’economia, il finanziamento pubblico, il sostegno alle imprese, agli imprenditori e al commercio estero. Hanno sperperato aziende statali e banche pubbliche; hanno consegnato il patrimonio nazionale. Le risorse del paese sono state saccheggiate per soddisfare l’avidità dei redditieri e degli azionisti privati delle aziende pubbliche.

È su queste terribili rovine che prendo l’impegno, insieme al popolo brasiliano, di ricostruire il Paese e costruire di nuovo un Brasile di tutti e per tutti.

Signore e signori,

Di fronte al disastro di bilancio che abbiamo ricevuto, ho presentato al Congresso nazionale proposte che ci consentono di sostenere l’immenso strato di popolazione che ha bisogno dello Stato semplicemente per sopravvivere.

Ringrazio la Camera e il Senato per la loro sensibilità alle urgenze del popolo brasiliano. Prendo atto dell’atteggiamento estremamente responsabile della Corte Suprema Federale e della Corte Federale dei conti di fronte a situazioni che avrebbero potuto distorcere l’arminia dei tre poteri repubblicani.

L’ho fatto perché non sarebbe giusto né corretto chiedere pazienza a chi ha fame. Nessuna nazione è risorta né può sollevarsi dalla miseria della sua gente.

I diritti e gli interessi della popolazione, il rafforzamento della democrazia e la ripresa della sovranità nazionale saranno i pilastri del nostro governo.

Questo impegno inizia con la garanzia di un Programma Bolsa Família [è un programma di assistenza sociale realizzato dal Governo del Brasile, fornisce aiuti finanziari alle famiglie in stato di povertà. NdT] rinnovato, più forte e più equo, al servizio dei più bisognosi. Le nostre prime azioni mirano a salvare 33 milioni di persone dalla fame e salvare dalla povertà più di 100 milioni di uomini e donne brasiliani, che hanno sopportato il peso più duro del progetto di distruzione nazionale che oggi si conclude.

Signore e signori,

Questo processo elettorale è stato caratterizzato anche dal contrasto tra diverse visioni del mondo. Il nostro, centrato sulla solidarietà e sulla partecipazione politica e sociale per la definizione democratica del destino del Paese. L’altro, nell’individualismo, nella negazione della politica, nella distruzione dello Stato in nome di presunte libertà individuali.

La libertà che abbiamo sempre difeso è quella di vivere con dignità, con pieni diritti di espressione, manifestazione e organizzazione.

La libertà che coloro che abbiamo battuto predicano è quella di opprimere i vulnerabili, massacrare l’avversario e imporre la legge del più forte al di sopra delle leggi della civiltà. Il nome di ciò è barbarie.

Ho capito, fin dall’inizio del percorso della campagna elettorale, che dovevo candidarmi con un fronte più ampio rispetto all’ambito politico in cui mi ero formato, mantenendo fermo il legame con le mie origini. Questo fronte è stato consolidato per impedire il ritorno dell’autoritarismo nel Paese.

Da oggi sarà nuovamente rispettata la Legge sull’accesso all’informazione, il Portale della Trasparenza svolgerà nuovamente il suo ruolo, saranno nuovamente esercitati i controlli repubblicani a difesa dell’interesse pubblico. Non abbiamo alcuno spirito di rivalsa contro chi ha cercato di soggiogare la Nazione ai propri disegni personali e ideologici, ma garantiremo lo stato di diritto. Chi ha sbagliato risponderà dei propri errori, con ampio diritto di difesa, entro le dovute vie legali. Il mandato che abbiamo ricevuto, contro oppositori ispirati dal fascismo, sarà difeso con i poteri che la Costituzione conferisce alla democrazia.

All’odio, risponderemo con amore. Alla menzogna, con la verità. Al terrore e alla violenza, risponderemo con la Legge e le sue più dure conseguenze.

Sotto i venti della ridemocratizzazione dopo il ventennio del golpe dei militari, affermammo: mai più dittatura! Oggi, dopo la terribile sfida vinta, dobbiamo dire: democrazia per sempre!

Per confermare queste parole, dovremo ricostruire la democrazia nel nostro Paese su basi solide. La democrazia sarà difesa dal popolo nella misura in cui garantisce a tutti i diritti sanciti dalla Costituzione.

Signore e signori,

Firmo oggi i provvedimenti per riorganizzare le strutture dell’Esecutivo, affinché consentano nuovamente al governo di funzionare in modo razionale, repubblicano e democratico. Salvare il ruolo delle istituzioni statali, delle banche pubbliche e delle aziende statali nello sviluppo del Paese. Pianificare investimenti pubblici e privati verso una crescita economica sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale.

Dialogando con i governatori dei 27 Stati della Federazione, definiremo le priorità per la ripresa dele opere pubbliche irresponsabilmente paralizzate, che nel Paese sono più di 14mila. Riprenderemo il Programma Minha Casa, Minha Vida [mira ad aiutare gli strati sociali più bassi ad acquisire la casa propria. NdT] e struttureremo un nuovo Programma di Accelerazione della Crescita [PAC, è un importante programma infrastrutturale del governo federale del Brasile. NdT] per generare posti di lavoro alla velocità nesessaria per il Paese. Cercheremo finanziamenti e cooperazione – a livello nazionale e internazionale – per gli investimenti, per potenziare ed espandere il mercato interno dei consumatori, per sviluppare il commercio, le esportazioni, i servizi, l’agricoltura e l’industria.

Le banche pubbliche, in particolare il BNDES [Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale è una banca di sviluppo strutturata come una società pubblica federale associata al Ministero dell’Economia del Brasile. L’obiettivo dichiarato è quello di fornire finanziamenti a lungo termine per gli sforzi che contribuiscono allo sviluppo del paese. NdT], e le aziende che promuovono la crescita e l’innovazione, come la Petrobras [è la compagnia pubblica brasiliana di ricerca, estrazione, raffinazione, trasporto e vendita di petrolio. NdT], giocheranno un ruolo fondamentale in questo nuovo ciclo. Allo stesso tempo, daremo impulso alle piccole e medie imprese, potenzialmente i maggiori generatori di posti di lavoro e reddito, all’imprenditorialità, al cooperativismo ed alla economia creativa.

La ruota dell’economia tornerà a girare e il consumo popolare giocherà un ruolo centrale in questo processo.

Riprenderemo la politica di valorizzazione permanente del salario minimo. E state pur certi che porremo fine, ancora una volta, alla vergognosa coda dell’INSS [Istituto di previdenza sociale brasiliano. NdT], un’altra ingiustizia ristabilita in questi tempi di distruzione. Apriremo un tavolo di dialogo, in modo tripartito – governo, sindacati e centrali d’impresa – su una nuova legislazione sul lavoro. Garantire la libertà di intraprendere, insieme alla protezione sociale, è una sfida importante nei tempi attuali.

Signore e signori,

Il Brasile è troppo grande per rinunciare al suo potenziale produttivo. Non ha senso importare carburanti, fertilizzanti, piattaforme petrolifere, microprocessori, aerei e satelliti. Disponiamo di capacità tecnica, capitale e mercato sufficienti per riprendere l’industrializzazione e offrire servizi a un livello competitivo.

Il Brasile può e deve essere in prima linea nell’economia globale.

Spetterà allo Stato articolare la transizione digitale e portare l’industria brasiliana nel 21° secolo, con una politica industriale che sostenga l’innovazione, stimoli la cooperazione pubblico-privata, rafforzi la scienza e la tecnologia e garantisca l’accesso a finanziamenti a costi adeguati.

Il futuro sarà di chi investe nell’industria della conoscenza, che sarà oggetto di una strategia nazionale, progettata in dialogo con il settore produttivo, i centri di ricerca e le università, insieme al Ministero della Scienza, Tecnologia e Innovazione, le banche pubbliche, le imprese statali e le agenzie di finanziamento della ricerca.

Nessun altro Paese ha le condizioni del Brasile per diventare una grande potenza ambientale, basata sulla creatività della bioeconomia e sulle attività basate sulla socio-biodiversità. Inizieremo la transizione energetica ed ecologica verso un’agricoltura e un’estrazione mineraria sostenibili, un’agricoltura familiare più forte e un’industria più verde.

Il nostro obiettivo è raggiungere deforestazione zero in Amazzonia e zero emissioni di gas che alimentano l’effetto serra nella matrice elettrica, oltre ad incoraggiare il riutilizzo dei pascoli degradati. Il Brasile non ha bisogno di disboscare per mantenere ed espandere la sua frontiera agricola strategica.

Incoraggeremo sicuramente la prosperità nel settore rurale. La libertà e l’opportunità di creare, piantare e raccogliere continueranno ad essere il nostro obiettivo. Quello che non possiamo ammettere è che ci sia un ambiente rurale senza legge. Non tollereremo la violenza contro le piccole proprietà agricole, la deforestazione e il degrado ambientale, che hanno già fatto tanto male al Paese.

Questo è uno dei motivi, non l’unico, per la creazione del Ministero dei Popoli Indigeni. Nessuno conosce meglio le nostre foreste o è più capace di difenderle di chi è qui da tempo immemorabile. Ogni terra indigena delimitata è una nuova area di protezione ambientale. A questi uomini e donne brasiliani dobbiamo rispetto e con loro abbiamo un debito storico.

Aboliremo tutte le ingiustizie commesse contro i popoli nativi. Cari amici e amiche,

Una nazione non si misura solo con le statistiche, per quanto impressionanti possano essere. Proprio come un essere umano, una nazione si esprime veramente attraverso l’anima della sua gente. L’anima del Brasile risiede nella diversità senza pari della nostra gente e delle nostre manifestazioni culturali.

Stiamo rifondando il Ministero della Cultura, con l’ambizione di riprendere più intensamente le politiche di incentivazione e di accesso ai beni culturali, interrotte dall’oscurantismo negli ultimi anni.

Una politica culturale democratica non può temere critiche o eleggere favoriti. Che tutti i fiori sboccino e tutti i frutti della nostra creatività siano raccolti, che tutti ne godano, senza censure o discriminazioni.

È inaccettabile che neri e mulatti continuino ad essere la maggioranza povera e oppressa di un paese costruito con il sudore e il sangue dei loro antenati africani. Abbiamo creato il Ministero per la promozione dell’uguaglianza razziale per ampliare la politica delle quote nelle università e nel servizio pubblico, oltre a riprendere le politiche pubbliche rivolte alle persone di colore nella sanità, nell’istruzione e nella cultura.

È inammissibile che le donne ricevano meno degli uomini, svolgendo la stessa funzione; o che non siano riconosciute in un mondo politico sessista. Che siano molestate impunemente nelle strade e sul lavoro. Che siano vittime di violenze dentro e fuori casa. Stiamo rifondando, quindi, anche il Ministero delle Donne per abbattere questo secolare castello di disuguaglianze e pregiudizi.

Non ci sarà vera giustizia in un paese in cui un solo essere umano subisca un torto. Spetterà al Ministero dei Diritti Umani garantire e agire affinché ogni cittadino abbia i propri diritti rispettati, nell’accesso ai servizi pubblici e privati, nella protezione contro i pregiudizi o davanti all’autorità pubblica. La cittadinanza è l’altro nome della democrazia.

Il Ministero della Giustizia e della Pubblica Sicurezza agirà per armonizzare i poteri e gli organismi federali al fine di promuovere la pace dove è più urgente, nelle comunità povere, tra le famiglie vulnerabili, dove agiscono la criminalità organizzata, le milizie e la violenza, da qualsiasi parte venga.

Stiamo revocando i decreti criminali che ampliavano l’accesso ad armi e munizioni e che hanno causato tanta insicurezza e tanti danni alle famiglie brasiliane. Il Brasile non vuole e non ha bisogno di armi nelle mani del popolo. Il Brasile ha bisogno di sicurezza, il Brasile ha bisogno di libri, istruzione e cultura per poter essere un paese più giusto. Sotto la protezione di Dio, questo mandato riafferma che in Brasile la fede può essere presente in tutte le abitazioni, nei vari templi, chiese e culti. In questo Paese tutti potranno esercitare liberamente la propria religiosità.

Signore e signori,

Il periodo che si chiude è stato segnato da una delle più grandi tragedie della storia. La pandemia di covid-19. In nessun altro paese il numero di vittime è stato così alto in proporzione alla popolazione come in Brasile. Uno dei Paesi meglio preparati ad affrontare le emergenze sanitarie, grazie alla competenza del nostro Sistema Sanitario Unificato [Pubblico. NdT] e alla competenza delle nostre persone nella vaccinazione. Questo paradosso si spiega solo con l’atteggiamento criminale di un governo negazionista, oscurantista, insensibile alla vita.

La responsabilità di questo genocidio va indagata e non deve restare impunita. Sta a noi, in questo momento, essere solidali con i parenti, i genitori, gli orfani, i fratelli e le sorelle di quasi 700mila vittime della pandemia. Il Sistema Sanitario Unificato è probabilmente la più democratica delle istituzioni create dalla Costituzione del 1988. Per questo da allora è sicuramente la più perseguitata ed è stata anche la più danneggiata da una stupidità chiamata “tetto di spesa” [legge inserita nella Costituzione che fissa limiti specifici per le spese pubbliche sociali primarie. NdT] che dovremo revocare.

Ricomporremo il budget sanitario per garantire l’assistenza di base, la farmacia popolare, promuovere l’accesso alla medicina specialistica. Ricomporremo il budget dell’istruzione, investiremo in più università nell’istruzione tecnica, nell’universalizzazione dell’accesso a internet, nell’espansione degli asili nido e nell’insegnamento pubblico a tempo pieno. Questo è l’investimento che porterà veramente allo sviluppo del Paese.

Il modello che proponiamo, approvato nelle urne, richiede un impegno di responsabilità, credibilità e prevedibilità. E non ci arrenderemo. È stato con realismo di bilancio, fiscale e monetario, ricercando la stabilità, controllando l’inflazione e rispettando i contratti che abbiamo governato questo Paese. Non possiamo fare diversamente. Ora abbiamo l’obbligo di fare meglio di quello che abbiamo fatto precedentemente.

Signore e signori,

Gli occhi del mondo erano puntati sul Brasile in queste elezioni. Il mondo si aspetta che il Brasile diventi ancora una volta un leader nell’affrontare la crisi climatica e un esempio di Paese socialmente e ambientalmente responsabile, capace di promuovere la crescita economica con distribuzione del reddito, combattere la fame e la povertà, con un processo democratico.

Il nostro protagonismo si materializzerà attraverso la ripresa dell’integrazione sudamericana, a partire dal Mercosur, dalla rivitalizzazione dell’Unasur e altre istanze di articolazione sovrane nella regione. Su questa base potremo ricostruire il dialogo fiero e attivo con gli Stati Uniti, la Comunità Europea, la Cina, i Paesi dell’Est e gli altri attori mondiali; rafforzando i BRICS, la cooperazione con i Paesi africani e rompendo l’isolamento in cui era relegato il Paese.

Il Brasile deve essere padrone di se stesso, padrone del proprio destino. Deve tornare ad essere un paese sovrano. Siamo responsabili della maggior parte dell’Amazzonia e di vasti biomi, grandi falde acquifere, giacimenti minerari, petrolio e fonti di energia pulita. Con sovranità e responsabilità saremo rispettati per condividere questa grandezza con l’umanità – in solidarietà, mai con subordinazione.

La rilevanza delle elezioni in Brasile si riferisce, infine, alle minacce che il modello democratico ha dovuto affrontare. In tutto il pianeta si sta articolando un’ondata di estremismo autoritario che diffonde odio e bugie attraverso mezzi tecnologici non soggetti a controlli trasparenti.

Difendiamo la piena libertà di espressione, consapevoli che è urgente creare istanze democratiche per l’accesso a informazioni affidabili e la responsabilizzazione dei mezzi con i quali vengono inoculati i veleni dell’odio e della

menzogna. Questa è una sfida di civiltà, allo stesso modo del superamento delle guerre, della crisi climatica, della fame e delle disuguaglianze nel pianeta.

Riaffermo, per il Brasile e per il mondo, la convinzione che la Politica, nella sua accezione più alta – e nonostante tutti i suoi limiti – sia la via migliore per il dialogo tra interessi divergenti, per la costruzione pacifica del consenso. Negare la politica, svalutarla e criminalizzarla è il percorso delle tirannie.

La mia missione più importante, da oggi, sarà quella di onorare la fiducia ricevuta e rispondere alle speranze di un popolo sofferente, che non ha mai perso la fiducia nel futuro e nella capacità di superare le sfide. Con la forza del popolo e la benedizione di Dio, dovremo ricostruire questo paese.

Viva la democrazia!
Lunga vita al popolo brasiliano! Grazie a tutti e tutte.

Traduzione in italiano a cura di Alessandro Vigilante

FONTE: http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2023/01/02/brasile-il-discorso-di-insediamento-del-presidente-lula-davanti-al-parlamento/

Israele e l’ascesa del fascismo ebraico

Chris Hedges*

Il governo di coalizione di estremisti ebrei e fanatici sionisti religiosi proposto da Benjamin Netanyahu rappresenta un cambiamento sismico in Israele, che aggraverà lo status di isolamento di Israele, eroderà il sostegno esterno a Israele, alimenterà una terza rivolta palestinese, o Intifada, e creerà divisioni politiche inconciliabili all’interno dello Stato ebraico.

Alon Pinkas, scrivendo sul quotidiano israeliano Haaretz, definisce il governo di coalizione, che dovrebbe insediarsi tra una o due settimane, “una straordinaria peggiocrazia: governo della peggiore e meno indicata specie di ultranazionalisti, suprematisti ebrei, antidemocratici, razzisti, fanatici, omofobi, misogini, politici degenerati e presumibilmente corrotti. Una coalizione di governo composta da 64 legislatori, di cui 32 ultraortodossi o sionisti religiosi. Certamente non una coalizione che Zeev Jabotinsky, il padre del sionismo revisionista, o Menachem Begin, il fondatore del Likud, avrebbero mai potuto immaginare”.

Itamar Ben-Gvir, del Partito ultranazionalista Otzma Yehudit, “Potere Ebraico”, sarà il nuovo Ministro della Sicurezza Interna. Otzma Yehudit è popolato da membri del Partito Kach del Rabbino Meir Kahane, a cui è stato vietato di candidarsi alla Knesset nel 1988 per aver sposato una “ideologia di tipo nazista” che includeva il sostegno alla pulizia etnica di tutti i cittadini palestinesi di Israele e di tutti i palestinesi che vivono sotto l’occupazione militare israeliana. La sua nomina, insieme a quella di altri ideologi di estrema destra, tra cui Bezalel Smotrich, a responsabile dei Territori Palestinesi Occupati, elimina di fatto la vecchia retorica che i sionisti liberali usavano per difendere Israele, che è l’unica democrazia del Medio Oriente, che cerca una soluzione pacifica con i palestinesi in una soluzione a Due Stati, che l’estremismo e il razzismo non hanno posto nella società israeliana e che Israele deve imporre forme drastiche di controllo sui palestinesi per prevenire il terrorismo.

Ben-Gvir e Smotrich rappresentano la feccia della società israeliana, quella che promuove “l’identità ebraica” e il “nazionalismo ebraico” in una versione sionista dell’appello del fascismo al Blut und Boden (Sangue e Terra). Sono l’equivalente israeliano di Lauren Boebert e Marjorie Taylor Greene (membre della Camera dei Rappresentanti rispettivamente per lo Stato del Colorado e della Georgia). Il loro blocco sionista religioso è ora il terzo più grande della Knesset.

Ben-Gvir, rifiutato per il servizio militare a causa del suo estremismo, rubò un ornamento del cofano dall’auto di Yitzak Rabin poche settimane prima che l’allora Primo Ministro fosse assassinato nel 1995 dall’estremista ebreo Yigal Amir. Amir, come molti israeliani di estrema destra, compreso probabilmente lo stesso Netanyahu, considerava il sostegno di Rabin agli accordi di Oslo un atto di tradimento. “Siamo arrivati ​​​​alla sua auto e arriveremo anche a lui”, ha detto Ben-Gvir all’epoca. Chiede la deportazione dei palestinesi che affrontano i soldati israeliani, dei membri del movimento antisionista ultra-ortadosso Naturei Karta, così come del parlamentare arabo-israeliano della Knesset Ayman Odeh e il parlamentare marxista antisionista della Knesset Ofer Cassif, che è ebreo.

La vecchia retorica che Israele usava per giustificarsi era sempre più finzione che realtà. Israele è diventato uno Stato di Apartheid molto tempo fa. Controlla direttamente attraverso i suoi insediamenti illegali per soli ebrei, zone militari interdette e complessi militari, oltre il 60% della Cisgiordania, e ha di fatto il controllo sulla rimanente. Esistono 65 leggi che discriminano direttamente o indirettamente i cittadini palestinesi di Israele e coloro che vivono nei Territori Occupati.

La vecchia retorica viene sostituita da diatribe piene di stereotipi che dipingono palestinesi e arabi (musulmani e cristiani) come impuri e una minaccia esistenziale per Israele. Questo incitamento all’odio è accompagnato da una feroce campagna interna per mettere a tacere i “traditori” ebrei, specialmente quelli che sono liberali o di sinistra e laici. Un’autocrazia gestita da Otzma Yehudit chiuderà il dibattito democratico, neutralizzerà le difese della società civile e sancirà ulteriormente ciò che è da tempo la realtà: la supremazia ebraica e la continua pulizia etnica dei palestinesi dalla loro terra che risale alla fondazione di Israele negli anni ’40.

Ciò che una volta era impensabile è ora pensabile, come l’annessione formale di vaste sezioni della Cisgiordania, compresa l’”Area C” dove vivono fino a 300.000 palestinesi. L’uccisione di circa 140 palestinesi quest’anno, tra cui la giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh, è ​​il numero più alto di vittime dal 2006 (escluse le gravi intensificazioni di violenza come i bombardamenti israeliani di Gaza). È stato accompagnato da attacchi palestinesi che hanno provocato la morte di 30 israeliani.

Il nuovo governo accelererà queste uccisioni insieme alla demolizione di case e scuole, espulsioni di palestinesi da Gerusalemme Est, lo sradicamento di uliveti palestinesi, l’incarcerazione di massa e la pulizia etnica dei palestinesi. La totalità di questi crimini equivale al crimine internazionale di Genocidio, ha spiegato nel 2016 il  Centro per i Diritti Costituzionali con sede a New York.

Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, continuerà a essere colpita e bombardata con maggiore frequenza. Le sue infrastrutture, compresi i suoi sistemi idrico, elettrico e fognario, nonché le strutture di stoccaggio del carburante, saranno oggetto di distruzione. Gli abitanti di Gaza e i loro compatrioti palestinesi in Cisgiordania saranno soggetti a blocchi sempre più stringenti, riducendoli a un livello di sussistenza che sarà un gradino sopra la fame. Invece di tentare di coprire l’assassinio di palestinesi da parte di coloni ebrei e dell’esercito israeliano, il nuovo governo celebrerà apertamente le atrocità.

Dopo la recente esecuzione di un palestinese disarmato che è stato colpito tre volte a bruciapelo e poi di nuovo mentre era a terra, da un poliziotto di frontiera israeliano durante una colluttazione che è stata ripresa in un video, Ben-Gvir ha definito l’agente un “eroe”.

Netanyahu, accusato di frode, abuso d’ufficio e accettazione di tangenti in tre casi di corruzione, è determinato a politicizzare il sistema giudiziario. Lui e i suoi alleati di coalizione ridurranno ulteriormente i diritti dei cittadini palestinesi di Israele che sono già discriminati. Continueranno a spingere aggressivamente per una guerra con l’Iran. Sosterranno gli sforzi per impadronirsi della Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, che gli ebrei israeliani chiamano il Monte del Tempio, il presunto sito del Secondo Tempio, distrutto dai Romani nel 70 d.C. Gli estremisti ebrei chiedono da tempo che la Moschea di Al-Aqsa, il terzo santuario più sacro per i musulmani, sia abbattuta e sostituita da un “Terzo” Tempio ebraico, un atto che farebbe insorgere il mondo musulmano. Ben-Gvir, che considera “un eroe” Baruch Goldstein, il colono ebreo che nel 1994 massacrò 29 fedeli musulmani a Hebron, ha annunciato un’imminente visita insieme ad altri estremisti ebrei al sito della Moschea. Quando Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione israeliana, si recò nel sito della Moschea nel settembre 2000, scatenò la Seconda Intifada.

Vorrei che questa fosse una congettura. Non lo è. È ciò che questi fanatici sostengono.

Avigdor Maoz del Partito estremista Noam, che si oppone ai diritti LGBTQ e vuole vietare alle donne di prestare servizio militare, è stato incaricato di supervisionare il programma scolastico israeliano, l’immigrazione russa e l’identità ebraica nazionale.

“Chiunque cerchi di danneggiare il vero giudaismo è l’oscurità”, ha detto questa settimana. “Chiunque cerchi di creare una nuova cosiddetta religione liberale è l’oscurità. Chiunque, con occultamento e offuscamento intenzionali, cerchi di fare il lavaggio del cervello ai figli di Israele con i loro programmi, all’insaputa dei genitori, è l’oscurità”.

Jeremy Ben-Ami, il Presidente dell’organizzazione liberale sionista di difesa, J Street, ha detto in una dichiarazione pubblica che il prossimo governo israeliano “probabilmente intraprenderà molte azioni che vanno contro i valori che gli ebrei americani insegnano ai propri figli come l’essenza dell’identità ebraica”, compreso il sostegno ai diritti civili, al movimento operaio, al movimento delle donne e alle libertà LGBTQ.

“Come possiamo spiegare ai nostri figli e nipoti, per non parlare di noi stessi, che questi valori sono il fulcro dell’identità ebraica mentre lo Stato del popolo ebraico sta negando ad un altro popolo i suoi diritti e l’uguaglianza e minando lo stato di diritto internazionale?”, ha chiesto. “Questa è una crisi fondamentale che incombe sulla nostra comunità nei prossimi anni. Quelli nell’istituzione della nostra comunità che insistono sul fatto che l’America ebraica deve rimanere unita e incondizionatamente leale a Israele, qualunque cosa faccia, forniscono un profondo disservizio all’integrità della comunità ebraica”.

Dopo la guerra del 1967 che ha visto Israele invadere e annettere la penisola egiziana del Sinai, le alture del Golan in Siria e Gaza e la Cisgiordania in Palestina, gli israeliani hanno frequentato il territorio palestinese per fare acquisti, mangiare nei ristoranti, trascorrere il fine settimana nell’oasi desertica di Gerico o far riparare le loro auto dai meccanici palestinesi.

I palestinesi erano un bacino di manodopera a basso costo e, a metà degli anni ’80, circa il 40% della forza lavoro palestinese era impiegata in Israele. Ma la crescente repressione da parte delle autorità israeliane in Cisgiordania e a Gaza, il sequestro di tratti sempre più ampi di terra palestinese per l’espansione degli insediamenti ebraici e l’aggravarsi della povertà, ha visto i palestinesi, la maggior parte dei quali troppo giovani per ricordare l’occupazione del 1967, insorgere nel dicembre 1987 per lanciare sei anni di proteste di piazza conosciute come la Prima Intifada. La rivolta alla fine portò agli accordi di Oslo del 1993 tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata da Yasser Arafat. Arafat, che aveva trascorso la maggior parte della sua vita in esilio, tornò trionfante a Gaza con la dirigenza dell’OLP.

Gli Accordi di Oslo sembravano annunciare una nuova era. Ero a Gaza quando sono stati firmati. Uomini d’affari palestinesi che avevano fatto fortuna all’estero tornarono per aiutare a costruire il nuovo Stato palestinese. Gli islamisti radicali si ridussero. Le donne palestinesi si sono tolte il velo. Proliferarono i saloni di bellezza. C’è stato un breve e luminoso momento in cui una vita normale, libera dall’occupazione e dalla violenza, sembrava possibile. Ma si è rapidamente rivelata un’illusione.

L’esclusione dei lavoratori palestinesi da Israele, unita all’aumento della violenza israeliana e al furto di terra, ha portato a un’altra rivolta nel 2000 che si è conclusa nel 2005. Questa, che ho documentato per il New York Times, è stata molto più violenta. I coloni ebrei furono evacuati da Gaza e Gaza fu blindata. Israele ha anche costruito una barriera di sicurezza, ad un costo di circa 1 milione di dollari per miglio (1,6 km) e ritenuta illegale dalla Corte Internazionale di Giustizia, per separare Israele dalla Cisgiordania e annettere altra terra palestinese. Il muro è stato costruito sulla scia di un’ondata di attentati suicidi che hanno preso di mira gli israeliani, sebbene l’idea sia stata lanciata dal Primo Ministro Rabin negli anni ’90 sulla base del fatto che “la separazione come filosofia” richiede un “confine netto”. Arafat, che ho incontrato molte volte, ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita agli arresti domiciliari israeliani. Il fallimento degli Accordi di Oslo ha posto fine alla pretesa di un processo di pace o di una soluzione negoziata.

Sospetto che ci troviamo sull’orlo di una terza e ben più micidiale Intifada. Una rivolta sarà usata da Israele per giustificare rappresaglie feroci che faranno impallidire il blocco economico punitivo e l’imponente massacro inflitti a Gaza durante gli assalti israeliani nel 2008, 2012 e 2014, che hanno causato circa 3.825 vittime palestinesi, 17.757 feriti e la distruzione parziale o totale di oltre 25.000 unità abitative, inclusi palazzi residenziali e interi quartieri. Decine di migliaia di persone sono rimaste senza casa e vaste aree di Gaza sono state ridotte in macerie. Durante le proteste della Grande Marcia del Ritorno del 2018, in cui i giovani dell’enclave assediata hanno manifestato davanti alla barriera israeliana, 195 palestinesi sono stati uccisi da cecchini israeliani, tra cui 41 bambini, oltre a medici come Razan al-Najjar.

Con l’aumentare della violenza e della repressione contro i palestinesi da parte delle forze di sicurezza, che presto saranno gestite da fanatici ebrei, un numero sempre maggiore di palestinesi, compresi i bambini, morirà in attacchi aerei, bombardamenti, fuoco di cecchini, omicidi e altri attacchi israeliani, compresi quelli effettuati da milizie ebraiche criminali, che attaccano anche i cittadini arabi all’interno di Israele. La fame e la miseria saranno diffuse.

La brutale sottomissione dei palestinesi, giustificata da un’ideologia malata di supremazia ebraica e razzismo, sarà fermata solo dal tipo di campagna di sanzioni montata con successo contro il regime di Apartheid in Sud Africa. In breve, Israele sarà una teocrazia dispotica.

*  *  *  *  *

* Chris Hedges è un giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il New York Times, dove ha lavorato come capo dell’ufficio per il Medio Oriente e capo dell’ufficio balcanico per il giornale. In precedenza ha lavorato all’estero per The Dallas Morning News, The Christian Science Monitor e NPR. È l’ospite dello spettacolo RT America nominato agli Emmy Award On Contact.

Fonte: invictapalestina.org

Foto: particolare da Chris Hedges Report

Fonte originale: Chris Hedges Report

La carica dei mercenari in Brasile: ecco chi c’è dietro l’intelligence parallela di Bolsonaro

Militari, contractor e fake news. È il servizio privato dell’ex presidente Jair Bolsonaro che teme il ritorno al potere del neo-eletto Lula. E in prima fila c’è un generale della riserva brasiliana. Ma è socio di un ex parà della Folgore, che a TPI annuncia: “Il Paese esploderà. Girano tante armi”

di Andrea Palladino

Ignazio Lula da Silva ha mostrato un aplomb non scontato dopo la sua vittoria, per un soffio, nel secondo turno delle presidenziali in Brasile. Parole misurate, una calma infinita e il continuo richiamo alla pacificazione nazionale. Il primo gennaio riprenderà possesso della presidenza e sa molto bene che i prossimi quattro anni saranno difficili. Il Paese è diviso, un’onda d’odio – alimentato da vere e proprie centrali di disinformazione – ha accompagnato gli ultimi anni della politica brasiliana, dalla caduta di Dilma Rousseff.

Il Pt ha vinto, Jair Bolsonaro è fuori dal palazzo dell’Alvorada, ma il Paese grande quanto un continente esce a pezzi dall’esperienza del governo di estrema destra. Dopo lo scrutinio del secondo turno per diversi giorni i gruppi dei supporter del presidente uscente hanno bloccato le autostrade, lasciati agire per molte, troppe ore dalla Polizia stradale federale. Hanno poi trasferito la loro protesta davanti alle caserme dell’esercito, chiedendo l’intervento dei tank, “per fermare il comunismo”.

Alcuni di loro – in un’immagine decisamente scioccante per il Paese dei tropici – cantavano l’inno nazionale con il braccio teso, schierati nelle strade. Militari della riserva si allineavano marciando e lanciando slogan all’unisono, con la mimetica e il basco. Non erano nazisti dell’Illinois, ma la punta d’iceberg di un magma cresciuto sotto l’ala del clan Bolsonaro. È poi partita la macchina della disinformazione, che in Brasile è stata particolarmente attiva durante la pandemia, ricalcando la strategia di Donald Trump, cercando di insinuare il dubbio sulla validità delle elezioni perse.

In Brasile da tantissimi anni si vota utilizzando le urne elettroniche e l’estrema destra ha preso di mira il sistema ormai collaudato, controllato dal Supremo tribunale elettorale. Bolsonaro ha perfino imposto una sorta di controllo ex post dei militari sul voto, che nei giorni scorsi hanno presentato una relazione di 63 pagine. Nessuna frode è stata riscontrata, ma il dubbio continua ad essere diffuso sui social, nelle manifestazioni che chiedono apertamente il Golpe, nei discorsi dei politici vicini al clan di Bolsonaro.

Al servizio della destra

Il Brasile ha riconquistato la democrazia dopo vent’anni di dittatura all’inizio degli anni ’80, con una transizione graduale e concordata. La nuova costituzione federale è stata promulgata il 22 settembre del 1988, superando quel regime di eccezione in vigore dal golpe del 1964. I militari, però, non hanno mai perso il peso specifico e, con la presidenza di destra, sono tornati in massa al governo.

A partire dal vice presidente Hamilton Mourão, fino a molti ministri e alti funzionari dell’esecutivo uscente, buona parte degli uomini di fiducia di Bolsonaro erano ufficiali della riserva, con una forte e mai celata nostalgia per il tempo che fu. Il mondo militare, insieme all’imponente apparato della sicurezza attivo nelle grandi città come São Paulo e Rio de Janeiro, non ha mai smesso di avere notevole peso in Brasile. Non solo politico, ma anche di presenza nel ricco mondo della sicurezza privata, fatto di appalti, agenzie di contractor e intelligence parallela.

Servizi paralleli

L’ormai ex presidente, con alle spalle una carriera militare nell’esercito, ha una vera e propria passione per le spie. Ha però preferito fare da sé, senza affidarsi alla Abin, l’agenzia di informazioni brasiliana, creando un vero e proprio servizio parallelo, come ha ammesso apertamente: «Può essere un vostro collega – rispose nel 2020 ad un gruppo di giornalisti che chiedevano chi ne facesse parte – o un sergente del battaglione delle forze speciali di Rio de Janeiro, oppure un capitano dell’esercito di un gruppo di artiglieria, o un poliziotto civile di Manaus. Può essere un amico che mi chiama, che mantiene contatti via Whatsapp. Così scopro molte cose che purtroppo non scopro con l’intelligence ufficiale della Polizia federale, della Marina, dell’aeronautica e la Abin». Che fine farà ora questo apparato informale non è noto; è probabile che rimanga in piedi, visto che Bolsonaro lo utilizzava già prima della sua elezione del 2018.

I nomi dei membri del servizio segreto parallelo brasiliano non sono finora usciti, salvo uno, rivelato, senza smentite, dal giornale Estado de São Paulo. È il generale della riserva Roberto Raimundo Criscuoli, un ex comandante delle forze speciali con alle spalle trent’anni di carriera militare. Dopo la pensione ha scoperto una seconda vita da contractor con un socio italiano molto noto nell’ambiente, Giovanni Piero Spinelli.

La rete della Stam

«È sempre un grande piacere incontrare veri amici. II generale delle forze armate brasiliane Roberto Criscuoli mio amico e socio dal 2005», scrive Spinelli sulla sua pagina Facebook nel 2017, commentando una sua foto insieme all’ex militare dell’esercito brasiliano. «Amico e socio dal 2005»: attenzione alle date, che in questa storia contano. Occorre un passo indietro.

Giovanni Piero Spinelli, ex parà della Folgore, diventa famoso nel 2004, quando in Iraq muore il contractor italiano Fabrizio Quattrocchi. Si scoprirà che era stata una sua agenzia di security a contrattarlo. Inizia un processo – la legislazione italiana vieta l’uso di mercenari – da cui Spinelli uscirà con una assoluzione piena. Nel 2007, però, ha un nuovo incidente di percorso, questa volta in Brasile, riportato da un articolo del giornale O Globo: «L’italiano Giovanni Piero Spinelli è stato arrestato dalla Polizia Federale con l’accusa di essere responsabile per la contrattazione illegale di ex militari brasiliani».

Nello stesso articolo, uscito il 25 febbraio 2007, si racconta dell’addestramento che avveniva in un «campo di istruzione dell’esercito a Gericinó, a Rio de Janeiro»; il responsabile di quella struttura era il «comandante dell’unità, il colonnello Roberto Raimundo Criscuoli, che ha permesso, tra l’altro, l’uso degli armamenti». È lo stesso militare che oggi opera come socio del contractor italiano. Giovanni Piero Spinelli, contattato da TPI, assicura che quell’inchiesta finì nel nulla: «All’epoca Criscuoli si occupava di recuperare i soldati congedati che finivano nel narcotraffico. Ci fu una lotta interna alle istituzioni, io ero stato coinvolto, ma ne uscì subito, ho ricevuto anche le scuse e Criscuoli è stato prosciolto dopo due anni. Criscuoli formava molti soldati che poi andavano a lavorare per il settore privato, anche per la Globo, tutto qui».

Criscuoli è oggi il referente brasiliano del gruppo Stam di Spinelli. Dal 2020 è socio e amministratore della Stam Strategic & Partners Group Latin America, le cui quote sono in parte controllate dalla Stam Strategic & Partners Group Ltd inglese, a sua volta posseduta dalla società del contractor italiano Gs Intelligencelab Consulting Ltd. Ma l’ex parà della Folgore diventato esperto contractor all’inizio degli anni 2000 ha una vera e propria passione per il Brasile. Oltre a Criscuolo nella sua Stam operano molti ufficiali provenienti dai reparti speciali della polizia di Rio de Janeiro e San Paolo. E Brasile, per lui, vuol dire soprattutto Bolsonaro.

Il giro della disinformazione

La pagina Facebook di Spinelli negli ultimi mesi è un susseguirsi di proclami a favore del presidente uscente e pesantissimi commenti contro il neo-eletto Lula: «Il suo partito e la sua organizzazione marxista, il cosiddetto “Forum de São Paulo”, è l’interfaccia del narcotraffico e del narcoterrorismo», scrive su Facebook.

Pochi giorni fa aggiunge: «L’ideologia malata e criminale di stampo socialista/comunista è alla base dello sviluppo esponenziale del fenomeno dell’Insorgencia Criminale, che ormai non è solo qualcosa che appartiene a Paesi come il Brasile, Messico, Colombia, Venezuela solo per citarne alcuni». All’anticomunismo viscerale aggiunge una passione aperta per gli slogan dell’estrema destra: «Oggi si vota in Brasile, una vera e propria lotta tra il bene e il male. Auguro al Presidente Bolsonaro la vittoria, affinché il bene regni sovrano in quel Paese. DIO-PATRIA-FAMIGLIA-LIBERTÀ».

Al telefono con TPI Spinelli ci tiene a ribadire la tesi che da giorni gira sui profili legati all’estrema destra brasiliana: «Il Brasile è una torta da spartirsi, che siano i cinesi, i russi o gli americani, tutti vogliono quel Paese. C’è il sospetto della frode, il Stf (Supremo tribunale elettorale) non rappresenta più il Brasile, ma interessi stranieri». Gli ambienti legati all’ideologia della sicurezza nazionale e alle dottrine della Scuola di Guerra di Brasilia hanno, da sempre, una vera e propria ossessione sull’ingerenza straniera, soprattutto quando si tratta di affrontare i temi della difesa dei diritti umani.

Le ong ambientaliste e di advocacy che denunciano le violenze arbitrarie, soprattutto nella zona amazzonica, vengono demonizzate e accusate di essere agenti di influenza. La parte politica legata al presidente di destra uscente da diversi mesi ha preso di mira i magistrati della Corte suprema brasiliana, che stanno cercando di imporre nel momento più delicato della storia recente del Paese il rispetto della costituzione.

Spinelli è poi sicuro che qualcosa accadrà: «Io come professionista e osservatore ti dico: quel Paese esploderà, le lotte davanti alle caserme andranno avanti, le armi in Brasile girano». Sostiene la tesi – ampiamente smentita dalle istituzioni brasiliane – di un voto condizionato da frodi, inviando un documento anonimo in inglese, con la classifica “Confidenziale”, che cerca di dimostrare la manipolazione delle urne elettroniche. Il titolo è “2022 FIRST ROUND BRAZILIAN PRESIDENTIAL ELECTIONS VULNERABILITY ANALYSIS REPORT”, è composto da 27 pagine ed è senza firma, con i meta-data vuoti.

Lo stesso documento il primo novembre scorso era stato diffuso sul social “locals.com” dal youtuber brasiliano Allan Lopes dos Santos, legato al guru dell’estrema destra Oleavo de Carvalho. Il suo nome è divenuto noto come una delle principali centrali di disinformazione in Brasile durante la pandemia. Secondo quanto aveva ricostruito la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle Fake news, Allan Lopes dos Santos faceva parte della struttura riservata “Gabinetto dell’odio”, gruppo specializzato nella diffusione di notizie false. Da alcuni mesi è fuggito negli Stati Uniti, inseguito da un ordine di cattura emesso dalla Polizia federale brasiliana.

Spinelli non è però un supporter qualsiasi del presidente Bolsonaro. La società che controlla in Brasile ha ricevuto il registro della Polizia civile di San Paolo per poter gestire informazioni sensibili e classificate. Ci tiene a mostrarlo, per accreditarsi come società che opera con l’appoggio del governo uscente. La Stam è stata poi inserita dal Ministero della Giustizia lo scorso primo dicembre in una lista per la fornitura di equipaggiamenti di sicurezza.

Da anni Spinelli opera esclusivamente con società estere, attraverso una fitta rete di sigle tra il Regno Unito, Malta e il Brasile. Non ha abbandonato completamente l’Italia, però. Nel novembre del 2019 è stato chiamato alla Camera dei Deputati per un’audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali, della Presidenza del Consiglio e Interni. È stata l’occasione, per lui, per difendere l’antico mestiere delle armi. Contractors, non mercenari, ha sempre specificato. Con un fronte che diventa sempre più sensibile per il settore, quello della “intelligence” privata.

Fonte: https://www.tpi.it/esteri/brasile-italia-intelligence-parallela-bolsonaro-contractor-spinelli-20221226962733/

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