archivi

Cina

Questo tag è associato a 49 articoli.

Come la Cina si protegge dalle incursioni dei capitali speculativi dell’economia-mondo

di Giordano Sivini

Da una ricerca storica sulla Repubblica Popolare Cinese del ‘900 è emersa l’ipotesi, esplicitata fin dal titolo “La costituzione materiale della Cina. Le ragioni storiche della crescita del capitalismo cinese fuori dall’economia-mondo finanziarizzata” (Asterios, 2022), che all’incessante sviluppo cinese nel nuovo millennio abbiano contribuito gli investimenti diretti dall’estero e il concomitante divieto agli investimenti di portafoglio di entrare nell’area di accumulazione cinese. Il divieto era stato deciso alla fine degli anni ’90. La Cina stava preparandosi ad entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio e adeguava il sistema istituzionale ed economico alle forme del capitalismo globale. Nel 1996 aveva promesso al Fondo Monetario Internazionale che la ‘moneta del popolo’, il renminbi, sarebbe stata resa gradualmente convertibile, ma il sopravvenire della crisi finanziaria asiatica fece bloccare il processo. Mentre nell’economia globalizzata i capitali produttivi stavano diventando tributari di quelli finanziari (Sivini, 2018), in Cina venne presa la decisione di vietare l’ingresso a quei capitali esteri che non avessero obiettivi immediatamente produttivi.

L’ipotesi che l’elemento distintivo del capitalismo cinese fosse legato a questa decisione è ripresa in esame in questo articolo alla luce delle autorizzazioni date dalla Cina nel nuovo millennio ad investitori stranieri ad operare in borsa e a grandi istituti finanziari esteri di realizzarvi investimenti di portafoglio. Il fine principale di queste aperture è stato di rendere il mercato finanziario cinese più competitivo, capace di produrre innovazioni nel sistema finanziario, orientato a sostenere le attività produttive ma ritenuto scarsamente efficiente.

Le autorizzazioni sono state accompagnate dal vincolo di operare in renminbi in condizioni paritetiche con i soggetti cinesi già operativi. Questo vincolo produce effetti analoghi a quelli del divieto, progressivamente rimosso, ai capitali finanziari speculativi di entrare in Cina, poiché li priva dello spazio globale di mobilità che caratterizza le loro incursioni speculative. Concludendo, l’ipotesi iniziale va rivista per considerare anche che, in ultima istanza, gli stretti limiti alla convertibilità dl renminbi fungono da dispositivo di sicurezza dell’area di accumulazione cinese rispetto all’economia-mondo finanziarizzata.

Lo spazio produttivo e l’accumulazione

Giovanni Arrighi utilizza rispettivamente i termini ‘centri di accumulazione’ e ‘reti di accumulazione’ per cogliere con quest’ultimo la molteplicità dei processi di formazione del capitale, e con l’altro le posizioni di comando su questi processi (Arrighi, 1996). Si tratta di concetti che gli servono per definire l’autonomia relativa del capitale rispetto allo Stato, costituito da ‘reti di potere’, con il quale le reti e i centri di accumulazione stanno in rapporto, poiché “lo sviluppo dell’accumulazione su scala mondiale ha bisogno della presenza di un potere politico che organizzi i mercati, protegga gli investimenti, assicuri i profitti”. La trasformazione dell’economia-mondo capitalistica da sistema nel quale le reti di accumulazione erano incorporate e subordinate alle reti del potere, a sistema nel quale le reti del potere sono incorporate e subordinate alle reti di accumulazione, è avvenuta, secondo Arrighi, attraverso una serie di cicli sistemici, al cui interno sono emersi centri di accumulazione presieduti da specifici soggetti degli affari e della finanza.

La formazione dell’area di accumulazione cinese

Questa concettualizzazione serve per definire la collocazione della Cina popolare come rete di accumulazione incorporata e subordinata alla rete di potere del partito comunista, entrambe materialmente strutturate dalla leadership che è al centro di entrambe le reti. La formazione della Repubblica Popolare uscita dalla guerra rivoluzionaria, ha evitato che le potenzialità del grande spazio produttivo cinese fossero sottomesse al giogo del capitalismo, termine con cui Mao definiva ogni tipo di sfruttamento e di diseguaglianza. La Cina non sarebbe stata una economia sottoposta al dominio esterno come tutte quelle che nell’economia-mondo avevano cercato di emergere liberandosi dei vincoli dell’imperialismo; doveva affermarsi e svilupparsi entro un proprio spazio economico. Per realizzare il socialismo – obiettivo del partito comunista che aveva guidato la rivoluzione – questo spazio doveva essere esterno al mondo capitalista.

Anche se importanti risorse venivano dal sistema industriale rimesso in piedi dai tecnici sovietici, il 90 per cento della popolazione, liberata dal movimento rivoluzionario, si era appropriata della terra, generale mezzo di produzione e di sostentamento. L’accumulazione di ricchezza era alimentata dal plus prodotto realizzato dal lavoro contadino in forma cooperativa e dal lavoro industriale socializzato e pianificato (Sklair.1979: Riskin, 1987). Confiscati gli istituti finanziari, alla liberazione venne costituita la Banca popolare e creata la ‘moneta del popolo’, renminbi, stabilendo, nell’ambito del sistema di Bretton Woods, il suo valore di scambio rispetto al dollaro statunitense. La ricchezza sociale, costituita da beni d’uso a prezzi valutati politicamente in renminbi, confluiva nel centro dell’area di accumulazione controllata dal partito comunista, che la redistribuiva. Si aggiungeva a quella dei beni confiscati, da un cospicuo prestito in rubli da parte dell’Unione Sovietica, e dalle ripetute emissioni di prestiti nazionali, che davano interessi più alti rispetto ai depositi bancari (Le renminbi, 1969)

Nelle analisi sulla Cina popolare la separazione della sua area di accumulazione da quella dell’economia-mondo non viene mai colta. Implicitamente si assume che il capitalismo siia tutto includente, tutt’al più sistema-mondo di aree produttivamente interconnesse, nel quale un centro si impone sulle periferie e ne sfrutta le risorse (Minqi, 2016). Mao non ha posto la Cina come periferia; l’ha posta come nuova entità sovrana indipendente, autodeterminata, appunto come area di accumulazione separata dall’economia-mondo capitalistica. Cambiando radicalmente percorso, le leadership successive hanno realizzato la crescita del paese all’interno di quest’area, ribadendone la sovranità soprattutto rispetto alle minacce del capitale finanziario globale, e facendo dell’apertura selettiva all’economia-mondo una condizione per la sua propria crescita.

L’apertura controllata all’economia-mondo

Per creare ricchezza espandendo la scala della produzione e aumentando la produttività, la Cina aveva bisogno di mezzi finanziari e tecnologici. L’economia-mondo li ha forniti, nelle forme della valuta pregiata creata dai profitti tratti dalle esportazioni, degli investimenti diretti dall’estero e delle partecipazioni azionarie e obbligazionarie a capitali cinesi.

Alla fine degli anni ’70 Deng Xiaoping adottò una strategia che, ribaltando quella maoista, attribuiva priorità allo sviluppo delle forze produttive rispetto alla diffusione di rapporti di produzione egalitari, ed eliminò i vincoli produttivi basati sulla cooperazione e la pianificazione. Il mercato interno dei capitali decollò nei primi anni ’80 del ‘900, dando il via ad un fiorire di iniziative private che, rompendo il monopolio bancario, portarono alla formazione di una economia ombra e persino ad una febbre azionaria. Un intenso traffico valutario era causato dal sistema di doppia valuta che consentiva l’uso del renminbi per transazioni domestiche, mentre prevedeva certificati di cambio per quelle con l’estero (Vic, 2018). Il flusso transfrontaliero di capitali era ridotto e il conto corrente sostanzialmente in pareggio, in quanto gli importi delle esportazioni venivano determinati dal fabbisogno di divise estere per le importazioni, agendo su una sorta di liberalizzazione selettiva anticipata dei loro controlli, secondo il principio ‘prima l’afflusso, poi il deflusso’ (Huang, 2011). Dopo Tienanmen il governo si impegnò a regolare il mercato, e le iniziative locali vennero frenate e portate sotto il controllo centrale. Un inserimento nel mercato globale dei capitali fu possibile dopo lo sbarco nel 1992 del primo titolo cinese alla Borsa di New York.

Mentre le società cinesi si rivolgevano ai mercati azionari esteri per drenare risorse finanziarie, le società estere entravano in Cina nella forma di investimenti diretti. Particolarmente interessate erano le multinazionali, per le quali la costante crescita economica cinese, la valuta stabile, la modesta inflazione e il basso costo della forza lavoro costituivano rilevanti garanzie di espansione, sia all’interno del paese sia come base per la produzione di componenti e di merci finite da esportare. Nella seconda metà degli anni ’90 la Cina diventò il secondo destinatario al mondo di investimenti diretti esteri, superata solo dagli Stati Uniti. Dal 1979 al 1996, entrarono in attività oltre 140 mila imprese a capitale straniero. La loro quota sul totale della produzione industriale cinese raggiunse il 13 per cento con 17 milioni di dipendenti.

L’approdo in Cina rispondeva alla necessità dei capitali occidentali di superare la crisi di sovra produzione che l’economia-mondo stava sperimentando proprio negli anni in cui Deng Xiaoping e Zhu Rongji aprivano le porte. “Gli stranieri stanno attivamente cercando di venderci beni in eccedenza, tutti i beni in eccedenza del mondo”, fece notare Zhu, capo del governo, quando Jiang Zemin era segretario del partito. Nel 1996 erano stati allentati i controlli dei flussi di capitali transfrontalieri e il governatore della Banca centrale cinese aveva rassicurato il Fondo Monetario Internazionale che nel giro di dieci anni sarebbe stata realizzata la convertibilità della moneta cinese (Huang 2011). L’anno successivo la crisi finanziaria asiatica bloccò questo processo, inducendo la Cina a prendere misure per tutelarsi dalle scorribande del capitale finanziario dell’economia-mondo. Al governo fu chiaro che gli investimenti esteri avrebbero dovuto soltanto servire alla crescita dell’economia reale (Nolan, 2004; 2021). Zhu impose barriere alle attività speculative internazionali, una strategia mantenuta successivamente. “I leader cinesi hanno spesso sottolineato che la finanza non dovrebbe avere altro scopo che quello di sostenere gli investimenti e quindi la crescita economica” (Subacchi, 2017).

Favorevoli e contrari agli investimenti esteri di portafoglio

In Cina si è sviluppato dopo gli anni 2010 un intenso dibattito sull’apertura del paese ai flussi dei capitali finanziari internazionali sotto forma di investimenti di portafoglio. La banca centrale cinese ne ha sostenuto la liberalizzazione, e i suoi funzionari hanno spinto in questa direzione fin dagli anni ’80. La posizione rifletteva gli interessi del settore, ma era condivisa al di fuori del sistema bancario anche da economisti dell’imprenditoria privata e da politici che ritenevano che le restrizioni, più che proteggere dagli shock esterni, consentissero, in mancanza di competitività con l’estero, comportamenti finanziari interni irresponsabili. L’opposizione alla liberalizzazione veniva invece da vari settori intellettuali, come l’Accademia cinese delle scienze sociali, e da funzionari e politici con legami con le grandi imprese statali che beneficiavano della chiusura e mettevano soprattutto in rilievo gli effetti dirompenti della globalizzazione finanziaria su molti paesi in via di sviluppo (Steinberg, 2020).

La vulnerabilità del sistema bancario cinese alle pressioni della finanza internazionale era già stata sottolineata da James Petras. “Appena il settore finanziario statunitense ed europeo entreranno in partnership con le banche cinesi, probabilmente useranno le loro controparti come leva per cooptare, corrompere e fare pressioni su funzionari locali e statali al fine di liberalizzare ulteriormente, estendendo l’accesso straniero alle azioni, alle obbligazioni, ai titoli, al risparmio e, alla fine, alla proprietà completa di settori finanziari strategici” (Petras, 2007).

All’inizio del 2012 la Banca centrale produsse un documento che chiedeva di accelerare la liberalizzazione dei movimenti dei capitali. Justin Yifu Lin, economista, consigliere del governo cinese, già capo economista e vice presidente senior della Banca Mondiale, colse l’occasione di una tavola rotonda per un duro intervento critico. “Non sono d’accordo – disse – con la posizione del Direttore Generale della Banca centrale Sheng secondo cui “altri paesi con condizioni più povere hanno completamente liberalizzato il loro conto capitale, perché noi non dovremmo?”. Quei paesi si sono completamente liberalizzati, ma le loro economie non sono andate bene come la nostra. Perché dovremmo liberalizzare completamente? Le nuove teorie proposte dagli accademici finanziari degli Stati Uniti non riescono a capire la differenza tra capitale finanziario e capitale reale (…). Di fronte alle pressioni del governo degli Stati Uniti e del FMI, noi dobbiamo stare sulla difensiva, e la Banca popolare cinese deve essere in prima in linea. Con tutto il capitale speculativo che fluisce in tutte le direzioni e che penetra in ogni crepa, la gestione macroeconomica deve mantenere l’autonomia della politica monetaria” (Li, 2013).

Le Banche centrali dei paesi sviluppati dopo la crisi del 2008 avevano fatto ricorso a politiche monetarie espansionistiche. L’economia globale era stata inondata di liquidità, e i capitali finanziari avevano accelerato la ricerca di porti sicuri e di occasioni per speculare. Le autorità cinesi avevano ampliato la sfera delle operazioni in renminbi degli operatori stranieri QFII (Qualified Foreign Institutional Investors) ammessi ai mercati finanziari interni nel quadro di un programma lanciato già nel 2002. Nel 2014 era stato creato lo Shanghai-Hong Kong Stock Connect, allargato due anni dopo a Shenzhen, per consentire di operare in renminbi sulle tre Borse; nel 2019 il collegamento tra Shanghai e Londra ha espanso le attività ai mercati europei dei capitali (Lardy, 2020).

Queste forme di crescente ma controllata apertura al capitale finanziario internazionale speculativo avevano l’obiettivo di attrarre investimenti e di spingere i capitali cinesi a rispondere alle sollecitazioni degli investitori esteri. “Negli ultimi anni, la Cina ha mantenuto una liquidità sufficiente, i tassi di interesse di mercato sono ampiamente diminuiti e la crescita del finanziamento aggregato ha tenuto il passo con la crescita del PIL nominale. Nel complesso, alla Cina non mancano i fondi, manca il capitale”, ha rilevato Yi Huiman, presidente della China Securities Regulatory Commission, in una analisi pubblicata alla vigilia del ventesimo congresso del partito comunista (Huiman, 2022).

L’apertura ‘con caratteristiche cinesi’ agli istituti finanziari globali

Preannunciata nel 2018, l’apertura al capitale finanziario dell’economia mondo si è realizzata l’anno successivo con le autorizzazioni ai grandi istituti finanziari di inserirsi sul mercato cinese tramite proprie fiduciarie su basi competitive con i soggetti cinesi già presenti. La misura anticipava l’Accordo di fase uno USA-Cina, firmato nel gennaio 2020 da Trump, che imponeva la rimozione delle barriere commerciali e di investimento per i fornitori statunitensi di un’ampia gamma di servizi finanziari, inclusi quelli bancari, assicurativi, mobiliari e di rating. Alcuni istituti, come Goldman Sachs, UBS, Credit Suisse e Morgan Stanley, erano già presenti in Cina da tempo, ma operavano da posizioni minoritarie in joint venture con entità locali; nel nuovo contesto potevano acquistare esclusiva capacità operativa.

A metà 2021 sono oltre cento le fiduciarie cinesi possedute dagli istituti esteri autorizzati ad operare in Cina. Ci sono istituti di compensazione per la gestione delle carte bancarie American Express e Mastercard; società di gestione patrimoniale facenti capo ad Amundi e BlackRock; banche di investimento come Goldman Sachs, Morgan Stanley, UBS, Credit Suisse, JPMorgan Chase, Nomura, DBS e Daiwa; società di rating come Standard & Poor e Fitch; e Yagi Tanshi per l’intermediazione valutaria. Generalmente i soggetti che operano sul mercato interno sono giuridicamente cinesi ed hanno nomi associati a quelli dei proprietari esteri (Panpan, 2022).

Yi Gang, governatore della Banca centrale cinese, dando comunicazione nel marzo 2019 dell’imminente misura, da lui già annunciata nel dicembre precedente, è molto chiaro: “Per l’apertura del settore finanziario sarà prevista la parità di trattamento per le istituzioni cinesi e quelle straniere in termini di requisiti e standard normativi, come la partecipazione azionaria, la forma di costituzione, la qualificazione degli azionisti, l’ambito di attività e il numero di licenze. Le istituzioni finanziate dalla Cina e dall’estero saranno trattate allo stesso modo trasparente e coerente con la pratica internazionale”.

Il governatore sottolinea che l’apertura del settore finanziario non comporta di per sé rischi finanziari per la Cina, ma può aumentare la complessità per prevenirli. “Faciliteremo gli investimenti esteri e miglioreremo la trasparenza del quadro giuridico, dei regolamenti, del sistema contabile e fiscale per gestire i rischi in modo efficace. Secondo me, siamo in grado di soddisfare l’esigenza di apertura del settore finanziario. Molti investitori globali vogliono investire nel regime valutario renminbi. Nell’attuale quadro di politica monetaria siamo in grado di gestire i rischi finanziari associati all’integrazione della Cina nell’economia globale e alla globalizzazione economica. Dal momento che il paese si è integrato nell’economia globale attraverso il commercio, gli investimenti, i servizi e il turismo, apriremo anche il settore finanziario e miglioreremo di conseguenza la politica monetaria”.

“Quello finanziario è un settore sottoposto a licenze”, aggiunge il governatore rispondendo ad una domanda. “Quando si tratta di raccogliere fondi dal pubblico si deve prestare grande impegno alla prevenzione dei rischi. Nel rilasciare licenze va fatta attenzione alla protezione dell’interesse pubblico, in particolare agli interessi dei depositanti al dettaglio e a quelli degli investitori. L’innovazione finanziaria ha accresciuto anche l’importanza del coordinamento normativo transfrontaliero. Molte innovazioni finanziarie comportano flussi di transfrontalieri di denaro, servizi e gestione patrimoniale. Il coordinamento normativo transfrontaliero è quindi imperativo” (Gang Yi, 2019).

I problemi di competitività delle fiduciarie di proprietà estera sono evidenziati dal quotidiano economico cinese indipendente Caixin. “Quattro istituti stranieri hanno acquisito partecipazioni di controllo nelle loro joint venture mobiliari, Goldman, UBS, Credit Suisse e Morgan Stanley. Altri quattro sono stati autorizzati a costituire società possedute a maggioranza o totalmente: il gigante americano dei servizi finanziari JPMorgan Chase, i titani finanziari giapponesi Nomura Holdings e Daiwa Securities, e il colosso bancario di Singapore DBS. La banca francese BNP Paribas, la giapponese SMBC Nikko Securities e la britannica Standard Chartered sono in attesa di approvazione per costituire società di intermediazione mobiliare. Una volta ottenute le autorizzazioni ci saranno 11 società di titoli controllate dall’estero che opereranno in un mercato affollato da oltre 140 soggetti, dominato da giganti di proprietà statale come Citic Securities, Huatai Securities e Guotai Junan Securities”.

“Nel settore della gestione patrimoniale, tre società straniere hanno ottenuto l’approvazione per costituire società di fondi comuni interamente controllate, BlackRock, Fidelity International e Neuberger Berman; altre tre sono in attesa di autorizzazione, Van Eck Associates, Alliance Bernstein e Schroders. Saranno in competizione con oltre 130 gestori di fondi comuni tra cui E Fund Management, China Universal Asset Management e GF Fund Management, che hanno registrato un utile netto del primo semestre 2021 compreso tra 1,3 e 1,8 miliardi di yuan”. (Yue, 2021)

Anche il Financial Times, definendo China’s Bing Bang l’apertura cinese agli istituti finanziari esteri, affronta il problema della loro competitività facendo riferimento ad alcune esperienze pregresse. JP Morgan, afflitto da battute d’arresto e da costi proibitivi che hanno limitato l’investment banking, ha perso in Cina 40 milioni di dollari negli ultimi due anni. Tuttavia considera che le perdite sono un prezzo necessario per un futuro redditizio; inoltre le commissioni raccolte dalla consulenza alle società cinesi sulle quotazioni a New York e Hong Kong sarebbero state molto più difficili da ottenere senza la base in Cina.

JPMorgan non è il solo ad aver finora fallito nel capitalizzare gli investimenti in Cina. Delle sette banche globali, solo tre – Goldman, UBS e Deutsche Bank – sono state redditizie negli ultimi tre anni; le altre – JPMorgan, Morgan Stanley, Credit Suisse e HSBC – sono in rosso. “Tutti gli istituti di credito si affrettano a sottolineare che le entrate dichiarate per le loro banche di investimento non sono rappresentative delle più ampie attività bancarie in Cina, come la sottoscrizione di obbligazioni e la consulenza tramite diverse entità onshore, a Hong Kong o altrove. Nessuno di loro rivela i ricavi totali. Ma i numeri dimostrano che devono fare molta strada per conquistare una fetta significativa dell’enorme mercato”. Affrontano con strumenti globali di alta qualità una situazione molto meno sviluppata di quella a cui sono abituati, e in rapido movimento. Le loro ambizioni si scontrano con giganti bancari cinesi come Citic Securities e CICC, che con le attività di investment banking guadagnano più di un miliardo di dollari all’anno.

“Le banche in Europa e negli Stati Uniti sono abituate a una sorta di processo decisionale centralizzato basato sui più elevati standard normativi a livello globale”, ha fatto osservare un ex dirigente che ha abbandonato un ruolo di alto livello in una banca globale. “In Cina ti trovi in conflitto con le pratiche attuali, dove a volte non hai nemmeno le regole scritte (…). Alla fine questo si riduce a uno scontro di filosofie tra due civiltà” (Kinder, 2021).

La consapevolezza di questa diversità emerge dalle aspettative delle autorità cinesi che la competitività migliori l’efficienza del sistema finanziario con l’introduzione di nuove forme di gestione, di servizi e di prodotti. (Panpan, 2022). Un grande successo è segnalato nell’ottobre 2022 da China Daily, quotidiano cinese. Bridgewater Associates, il più grande hedge fund del mondo, nella prima metà dell’anno ha ottenuto il 4,76% sui suoi investimenti nel mercato azionario cinese, rispetto al benchmark locale dello stesso periodo, lo Shanghai Composite Index, che ha perso il 6,63%. Il nuovo prodotto, lanciato in maniera discreta in collaborazione con il partner locale CITIC Securities a giugno, è andato a ruba tra gli investitori. “Per gli istituti stranieri che devono ancora avere un assaggio del mercato cinese, Bridgewater è una rivelazione”. Analogamente, all’inizio di agosto, BlackRock, il più grande gestore patrimoniale del mondo, ha rilasciato un nuovo prodotto incentrato sulle società manifatturiere avanzate quotate sul mercato cinese. “Non c’è da stupirsi, i giocatori stranieri si stanno dirigendo verso una fetta della torta del mercato cinese” (Jing, 2022).

La Cina ha subìto diversi inciampi negli anni recenti, in particolare nel settore immobiliare e in quello delle banche locali. Il recente congresso del Partito Comunista non ha rieletto nel Comitato centrale quattro esponenti di punta del settore finanziario, che nel giro di pochi mesi lasceranno gli incarichi: Liu He consigliere economico di Xi Jinping, Yi Gang governatore della Banca centrale, Liu Kun ministro delle Finanze, Guo Shuqing presidente dell’organismo di controllo sulle banche e le assicurazioni. Dalle loro dichiarazioni, raccolte dal quotidiano South China Morning Post, emergono problematiche di rilievo, dai rischi del debito occulto alla scarsa trasparenza della struttura azionaria delle istituzioni finanziarie, dallo scarso rispetto della loro indipendenza ai segni di ‘graduale indebolimento della leadership del Partito’ nel settore (lee, 2022). Gli istituti finanziari globali sono grandi contenitori di liquidità per investimenti produttivi e di portafoglio, ma anche di spiccate capacità operative, e le autorità cinesi puntano sull’acquisizione di entrambi.

Il renminbi come dispositivo di sicurezza dell’area di accumulazione

Renminbi è la valuta cinese la cui convertibilità estremamente controllata protegge dagli attacchi speculativi l’area di accumulazione della Repubblica Popolare Cinese in cui circola come unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore; lo yuan, che è la sua unità di base, ha la forma di CNY all’interno della Cina continentale e quella di CNH al di fuori di essa. Il conto capitale, che riguarda i flussi monetari in ingresso e in uscita nell’area, ha una apertura molto limitata. Ciò tuttavia non influisce sull’utilizzazione delle diverse valute nelle operazioni commerciali transfrontaliere, poiché, dopo l’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, il conto corrente non è soggetto a restrizioni.

Al fine di rendere possibile una conversione valutaria del renminbi in conto capitale, le autorità cinesi hanno creato all’estero mercati off-shore dove i flussi di ricchezza, che accompagnano le attività commerciali e di investimento, prima di entrare nell’area di accumulazione cinese devono essere convertiti in renminbi, quali che siano le loro origini valutarie. Un mercato off-shore richiede perciò un deposito di renminbi allestito dalla Banca centrale cinese presso la Banca centrale del paese con la quale viene sottoscritto l’accordo swap per il cambio di valuta; da esso vengono attinti i renminbi per essere spostati verso la Cina continentale già nella forma onshore di CNY. I fondi originati in renminbi e non rimpatriati possono essere cambiati nella forma offshore di CNH in altra valuta. “Spostando tutte queste transazioni all’estero, le autorità monetarie intendono proteggere il mercato onshore della Cina continentale da movimenti di capitali indesiderati e potenzialmente destabilizzanti che potrebbero minare la stabilità finanziaria interna del paese” (Subacchi 2016).

Il primo accordo swap risale al 2008 e riguarda la Banca centrale cinese e quella della Corea del Sud. Da allora al 2020 ne sono stati sottoscritti molti altri. Accompagnano gli investimenti cinesi all’estero (ODI, Outward Direct Investment) che mirano ad allargare l’accesso a materie prime e a tecnologie avanzate, conquistare mercati di sbocco per le sovraproduzioni interne, e, dopo il 2013, realizzare grandi progetti infrastrutturali nel quadro della Belt and Road Initiative (BRI), della quale la Nuova Via della Seta è una componente. Per queste attività la Cina investe all’estero in renminbi e in forex, la valuta estera di cui dispone la Banca centrale cinese. Nell’agosto 2022 il forex ammonta, valutato in dollari, a 3 mila miliardi, la più alta riserva di qualsiasi paese del mondo. Origina dal cambio in renminbi delle valute provenienti dall’estero fatto dalla Banca, che le investe all’estero in titoli obbligazionari e di prestiti interbancari.

Sulla base di accordi bilaterali i progetti della BRI realizzano infrastrutture di rilevante portata con prestiti in renminbi che i paesi devono rimborsare, ma che spesso non incassano perché vengono direttamente erogati alle imprese cinesi appaltatrici, le quali utilizzano forza lavoro e fornitori propri (Amighini, 2020). La parte che i paesi ricevono in renminbi, immessa sul mercato interno contribuisce, a partire da relazioni di importazione con operatori cinesi, ad alimentare una rete di rapporti in continua espansione (Song, 2020)

Un contributo decisivo per l’allargamento a livello regionale di questo processo espansivo è dato dalla costituzione nel 2014 della l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), promossa dalla Cina e da altri 20 paesi. Nel giro di un anno i fondatori sono diventati 57, dei quali 45 asiatici, e, in seguito, se ne sono associati altri 63. L’adesione iniziale era stata stimolata dall’impegno cinese di sottoscrivere metà del capitale, ridotto al 31 per cento in seguito alle partecipazioni dei nuovi sottoscrittori, con un potere di voto del 27 per cento entro il 73 del complesso dei paesi asiatici. L’iniziativa, osteggiata dagli Stati Uniti e dal Giappone alla quale contrappongono l’Asian Development Bank, è una risposta specifica all’enorme domanda di connettività asiatica, e si concentra sulla costruzione di infrastrutture volte a migliorare l’integrazione economica regionale. Costituisce un potente strumento di diffusione del renminbi, che ha già iniziato a spezzare il dominio del dollaro (Bora, 2020).

Contemporaneamente alla costituzione della Banca regionale, la Cina ha promosso, assieme a Brasile, Russia, India e Sud Africa, al sesto summit dei BRICS la fondazione della New Development Bank BRICS, che, come la AIIB, ha sede in Cina. L’iniziativa era già stata preannunciata in un memorandum d’intesa del 2012, ma la decisione è stata formalizzata dopo negoziazioni fallite con il Fondo Monetario Internazionale per una distribuzione più equa delle quote di voto di Usa e Ue. La Banca ha un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, ma gestisce un fondo strategico di riserva di 100 miliardi (41 della Cina, 18 a testa del Brasile, India e Russia, e 5 dell’India) al quale i partecipanti possono ricorrere per far fronte a crisi della bilancia dei pagamenti o ad attacchi speculativi. Attiva dal 2016, la Banca sta finanziando progetti sia in dollari sia in renminbi, che per lo più riguardano infrastrutture.

Le due nuove banche, una regionale e l’altra globale, promosse dalla Cina hanno contribuito alla decisione del Fondo Monetario Internazionale, presa nel 2015 e attuata l’anno successivo, di riconoscere il renminbi come valuta di riserva di portata internazionale, tale da entrare nel paniere che definisce la composizione dei Diritti Speciali di Prelievo, accanto a dollaro, euro, sterlina e yen. Tutti i paesi detentori di DSP hanno dovuto far posto alla moneta cinese, con un peso che è passato dall’iniziale 10,92% al 12,28% nel maggio 2022. Il riconoscimento internazionale nonostante la permanenza dei serrati controlli cinesi sul conto di capitale, è un’implicita rinuncia alla pretesa di liberalizzazione da sempre sostenuta dal Fondo Monetario. Il renminbi resta “lo strumento di una globalizzazione al contrario: non è la Cina ad aprire il suo settore finanziario al resto del mondo, ma è quest’ultimo ad accogliere una sempre maggiore presenza della Cina sui mercati finanziari internazionali, nonostante Pechino continui a proteggere il suo sistema finanziario dalla potenziale instabilità di una liberalizzazione incondizionata”, dice Alessia Amighini (Martinasso, 2022).

Il futuro dipenderà da come verrà interpretata l’affermazione di Xi Jinping al ventesimo congresso del Partito Comunista: “Promuoveremo l’internalizzazione del CNY in modo ordinato”.


Riferimenti bibliografici

Amighini A., Finanza e potere lungo le Nuove Vie della Seta, Bocconi Editore, 2021.
Arrighi G., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, 1996.
Bora L., “The nexus of BRI and internalization of renminbi”, Business & Management, 1, 2020.
Gang Yi, Governor Yi Gang: Deepening reform and opening-up comprehensively. Create new prospects for financial sector, People’s Bank of China, 30 Dec. 2018.
Gang Yi, Further Open Up the Financial Sector to Promote High-Quality Growth, People’s Bank of China, 2 May 2019.
Huang Y., Wang X., Gou Q.,Wang D., “Achieving capital account convertibility in China”, China Economic Journal 4, 2011.
Huiman Y., “The development of typically modern Chinese capital markets”, Qiushi Journal. Oct. 25, 2022.
Jing S., “Power of long-term investment opportunities”, China Daily, Oct. 17, 2022.
Kinder T., “Global banks have bet on ‘bing bang’ in China, but will pay off?”, Financial Times, Nov. 24, 2021.
Lardy N.R., Huang T., “China Financial Opening Accelerates”. Peterson Institute for International Economics, Policy Brief 20-17, 2020
Lee A., “4 weacknesses in China economy, from local government finances to poor regulation”, South China Morning Post, 14 Nov. 2022.
Le renminbi chinois. L’une des rares monnaies stable du monde, Editions en languages etrangeres, 1969.
Lin J.Y., “Why I Do Not Support Complete Capital Account Liberalization”, China Economic Journal, 1, 2015.
Ly B., “The nexus of BRI and internationalization of renminbi (RMB)”, Business Management, 1, 2020.
Martinasso M.V., “E-RMB: La moneta digitale essenziale per la strategia economica cinese”, Il Bollettino, 17 febbraio 2022.
Miao Y., Deng T., “China’s capital account liberalization: a ruby Jubilee and beyond”, China Economic Journal, 3, 2019.
Minqi L., China and the Twenty-First-Century Crisis, Pluto Press, 2016.
Nolan P., China and the Asian Financial Crisis, Routledge. 2004; 2021.
Overholt W.H.,Ma G., Law C.K., Renminbi rising: a new global monetary system emerges,Wiley, 2016.
Panpan Y., “China Promotes Reform by Opening up: The Prospects of Financial Opening up and Economic and Trade Cooperation”, China Watch, 3, 2022.
Riskin C., China’s Political Economy: The Quest for Development since 1949, Oxford University Press, 1987.
Sivini G., La costituzione materiale della Cina. Le ragioni storiche della crescita del capitalismo cinese fuori dall’economia-mondo finanziarizzata. Asterios, 2022.
Sivini G., “La centralizzazione del capitale e la caduta del saggio di profitto. Il peso del capitale fittizio a partire dalle evidenze empiriche del McKinsey Global Institute”, Palermo-grad, 2018.
Sklair L., “Relations of production, productive forces and the mass line in the formation of the rural people’s Communes in China”, Journal of Peasant Studies,1979.
Song K., Xia L., “Bilateral swap agreement and renminbi settlement in cross-border trade”, Economic and Political Studies, 3, 2020.
Steinberg D., McDowell D., Gueorguiev D., “Inside looking out: how international policy trends shape the politics of capital controls in China”, Pacific Review, 6, 2021.
Subacchi P., The people’s money: how China is building a global currency, Columbia University Press, 2017.
Vic L. Y-W., China’s financial opening: coalition politics and policy changes, Routledge, 2018.
Yang L., “Analysis of Capital Control Policies in China”, American Journal of Industrial and Business Management, 10, 2020.
Yue Y., Liwei W., Ziyi T., “China opens doors to foreign finance companies, but can they prosper?”, Caixin, Nov. 27, 2021

FONTE:

https://www.marx21.it/internazionale/come-la-cina-si-protegge-dalle-incursioni-dei-capitali-speculativi-delleconomia-mondo-i-parte/

https://www.marx21.it/internazionale/come-la-cina-si-protegge-dalle-incursioni-dei-capitali-speculativi-delleconomia-mondo-ii-parte/

La costituzione materiale della Repubblica Popolare Cinese

Sintesi della presentazione del libro La costituzione materiale della Cina, di Giordano Sivini, Asterios Editore, 2022

Il socialismo con caratteristiche cinesi è costitutivo di relazioni sociali produttive diverse da quelle capitalistiche? La risposta va cercata nella storia della Cina a partire dalla costruzione maoista della Repubblica popolare. Dopo la vittoria militare sull’imperialismo, l’attività del Partito Comunista ha puntato sulla diffusione di rapporti di produzione egalitari basati sulla socializzazione dei mezzi di produzione attraverso il lavoro collettivo dei contadini con l’impiego delle risorse e delle tecniche disponibili. La riproduzione della ricchezza, in termini di valori d’uso, è stata realizzata all’interno di un’area di accumulazione esterna e separata dall’area di accumulazione mondiale egemonizzata dagli Stati Uniti.

Dopo Mao Zedong, Deng Xiaoping ha portato il Partito Comunista a sostenere ideologicamente e pragmaticamente il primato delle forze produttive sui rapporti di produzione, l’economia si è aperta al mercato delle merci e dei profitti, e il socialismo in quanto ideologia e prassi, assunte ‘caratteristiche cinesi’, è stato ridefinito come impegno per il superamento della scarsità, posponendo a un tempo indeterminato la prospettiva dell’equità. Zhu Rongji dopo Deng Xiaoping, da capo del governo, ha avviato, con l’obiettivo di entrare nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, la trasformazione istituzionale della Cina in senso capitalistico, dando ai mezzi di produzione, già statizzati da Deng, la configurazione giuridica di capitali azionari controllati dal Partito Comunista. Nel contempo, per preservare l’area di accumulazione cinese dalle incursioni dei capitali speculativi internazionali, ha disposto che il capitale finanziario che entrava in Cina fosse messo esclusivamente al servizio dell’economia reale.

Con questo excursus storico si arriva a spiegare perché nell’area di accumulazione cinese il capitalismo produce valore, mentre nell’area di accumulazione dell’economia egemonizzata dagli Stati Uniti il capitale finanziario dominante lo distrugge. In Cina il valore è creato dal lavoro vivo della forza lavoro duramente sfruttata, e i capitali produttivi del mondo se ne avvalgono, purtuttavia contribuendo alla crescita della Cina nelle forme delle valute forti derivanti dai profitti delle esportazioni, degli investimenti diretti e degli acquisti esteri di azioni e obbligazioni cinesi. Per arrivare a queste conclusioni, il libro di Giordano Sivini La costituzione materiale della Cina. Le ragioni storiche della crescita del capitalismo cinese fuori dall’economia-mondo finanziarizzata (Asterios, 2022) affronta, con attenzione alle trasformazioni storiche nella produzione ed accumulazione della ricchezza e alle relative relazioni sociali, l’analisi storica dei problemi che la Cina ha affrontato e risolto negli anni del ‘900 per affermarsi come potenza nel nuovo millennio. Quella che segue è l’introduzione a questo lavoro di ricerca.

La Cina è innanzi tutto un grande spazio antropologicamente produttivo di cui il movimento maoista si è appropriato con la rivoluzione, sottraendolo all’imperialismo e al capitalismo, per fondare la la Repubblica Popolare. All’epoca di Mao (1949-1976), il partito comunista punta a realizzarvi un socialismo egalitario. Nelle campagne, dove vive gran parte della popolazione, costruisce nuove relazioni sociali basate sulla socializzazione dei mezzi di produzione attivati dal lavoro collettivo. La sua capacità di migliorare l’utilizzazione delle risorse storicamente appropriate dai contadini farà sviluppare le forze produttive. Si evita così di dipendere da tecnologie capitalistiche, e si assicura al paese indipendenza e autodeterminazione. La produzione industriale, che separa il proprio spazio urbano da quello agricolo da cui riceve i beni di sussistenza, è sottratta agli imprenditori capitalisti e temporaneamente data in appalto all’Unione Sovietica che contribuisce al suo consolidamento e alla sua espansione.

La Cina non entra a far parte di quelle economie sottosviluppate che cercano di liberarsi dall’imperialismo per affondare nel capitalismo. La rivoluzione maoista la costituisce come Stato, la cui ricchezza si riproduce in maniera allargata confluendo nel centro di un’area di accumulazione controllato dal partito comunista, separata da quella dell’economia-mondo capitalistica. La separazione dall’economia-mondo non viene recepita nelle interpretazioni della Cina, che solitamente fanno riferimento al capitale del mercato mondiale tutto includente. I teorici dell’economia-mondo considerano il capitalismo come sistema di aree interconnesse, nel quale un centro si impone sulle periferie e ne sfrutta le risorse. Mao non pone la Cina come periferia; è una nuova entità nazionale indipendente, autodeterminata e autosufficiente, appunto esterna all’economia-mondo capitalistica.

Deng Xiaoping (1977-1992), successore di Mao, ritiene che la strada tracciata dal maoismo sia quella di un socialismo nella povertà. Un altro socialismo è possibile, fondato sul mercato dove i produttori sono liberi di competere, sviluppando forze produttive che plasmano i rapporti di produzione. Questa inversione della relazione maoista tra rapporti di produzione e forze produttive si impone come elemento della costituzione materiale della Cina postmaoista. Il socialismo per Deng significa superamento della scarsità prima che promessa di redistribuzione della ricchezza al fine di attenuare le disuguaglianze sociali. La rimozione dei vincoli della collettivizzazione genera nelle campagne una esplosione di imprenditorialità fuori controllo. Sul mercato, tra le merci, emerge la forza lavoro, in cerca di salario per la sussistenza delle famiglie contadine che non reggono alla competizione. Deng, che tutto liberalizza nelle campagne, non rimuove il legame di questa forza lavoro con la terra, e la costringe alla condizione di lavoro migrante, che costa meno per chi la usa. Ha bisogno della ricchezza che il suo lavoro vivo produce, per far screscere l’economia e legittimare la leadership del partito.

Il controllo dei mezzi di produzione industriali, insieme alla terra, sono, anche per Deng, le fondamenta per l’indipendenza e l’autodeterminazione del paese. Per Mao erano beni socializzati, Deng li assume come proprietà dello Stato e fa prevalere l’efficienza economica sulle loro funzioni sociali. Per accelerare lo sviluppo delle forze produttive industriali apre l’area di accumulazione ai capitali esteri tecnologicamente qualificati nella forma di joint venture. Vengono attirati dalla incessante disponibilità di forza lavoro migrante per produrre merci da esportare.

Zhu Rongji (1993-2003), dopo Deng, e, da posizioni di governo, accanto a Jiang Zemin segretario del partito, realizza profonde riforme istituzionali. Facendosi aiutare dalla Banca Mondiale, mette sotto controllo, con anni di austerità, l’effervescenza imprenditoriale che creava inflazione, e disegna il nuovo assetto del paese. Ha come obiettivo l’adesione all’Organizzazione Mondiale del Commercio, e per entrarvi vincola le istituzioni ai principi e alle modalità organizzative ed operative dei capitali transnazionali che già si muovono sul mercato globale. Lo Stato riacquista la funzione di regolazione sistemica dell’economia sulla base di regole definite internazionalmente. Tra i mezzi di produzione già statizzati da Deng, fa assumere la forma di capitali a quelli che fanno capo ad imprese di Stato ritenute essenziali per il controllo dell’economia del paese e li proietta sul mercato globale per costringerli alla competitività. Privatizza o chiude le imprese di Stato economicamente inefficienti e licenzia milioni di lavoratori. La loro forza lavoro si aggiunge sul mercato a quella dei migranti rurali, tutti oggetto di tutele legali che non vengono applicate.

Per creare ricchezza espandendo la scala della produzione e aumentando la produttività la Cina ha bisogno di mezzi finanziari e tecnologici. Quelli interni bastano solo in parte; il resto fluisce dall’economia-mondo, nella forma di valuta pregiata creata dai profitti tratti dalle esportazioni, di investimenti diretti, e di partecipazioni azionarie e obbligazionarie estere a capitali cinesi. L’area di accumulazione cinese, che già Deng aveva iniziato ad aprire all’area di accumulazione dell’economia-mondo, viene mantenuta da essa saldamente separata. Traendo insegnamento dalle crisi finanziarie che colpiscono i paesi capitalisticamente periferici, Zhu impone barriere alle attività speculative internazionali. Nell’area di accumulazione cinese possono entrare soltanto capitali finanziari esteri che sostengono attività produttive. Nell’uso corrente con il termine capitalismo non viene fatta distinzione tra capitalismo produttivo che crea valore e quello finanziarizzato che lo distrugge. Nell’area di accumulazione cinese si crea valore in controtendenza rispetto all’economia-mondo dove il capitale finanziario domina quello produttivo. Il capitale finanziario al servizio dell’economia reale è l’elemento che si aggiunge alla costituzione materiale.

La chiusura al capitale finanziario dell’economia-mondo è una misura che va oltre l’obiettivo di sottrarre la Cina alle turbolenze della finanza internazionale e consente di accogliere gli investimenti finanziari diretti dall’estero con finalità produttive e e respingere quelli speculativi. Garantisce anche al partito comunista che governa il centro dell’area di accumulazione al quale sono diretti i flussi di ricchezza prodotti nello spazio produttivo cinese, di decidere senza interferenze esterne le politiche di crescita dell’economia del paese e quelle che assicurano la riproduzione del potere del partito ancorato al controllo dei mezzi di produzione, terra e imprese industriali.

“Il socialismo con caratteristiche cinesi” assume che la Cina sia nella fase iniziale del socialismo, e che il suo sviluppo dipenda da una crescita economica che raggiunga il livello in cui diventi possibile passare ad un socialismo tendenzialmente egalitario. Questo livello rimane indeterminato e lo stesso Xi Jinping nel 2021. in occasione del centenario della nascita del partito comunista cinese, proclamando che la Cina ha raggiunto l’obiettivo di essere una “società moderatamente prosperosa” ha detto: “Noi stiamo marciando a passi fiduciosi verso l’obiettivo del secondo centenario, di trasformare la Cina in un grande paese moderno socialista”. Il Congresso del partito aveva già posto l’obiettivo di diventare un’economia pienamente socialista entro il 2050, ma il problema della connessione del socialismo con questo capitalismo cinese che crea valore sfruttando lavoro salariato con modalità non diverse dalle periferie dell’economia mondo, resta affidato alla leadership cinese.

Rifarsi a Marx e a Lenin per sostenere che il capitalismo di Stato cinese possa sfociare nel socialismo non sembra reggere. Marx prospetta un passaggio rivoluzionario dal capitalismo al socialismo. Lenin sostiene che al socialismo si arriva attraverso un capitalismo sottratto alla borghesia dal proletariato che lo trasforma funzionalmente in capitalismo di Stato per realizzare rapporti di produzione socialisti. In Cina i rapporti di produzione capitalistici sono invece creati dal partito sulle ceneri del socialismo egalitario ma ‘povero’. Occorre dunque indicare una prospettiva socialista per il capitalismo cinese fuori dai riferimenti generici a Marx e a Lenin, e questa è l’ambizione del socialismo con caratteristiche cinesi che punta tutto sul superamento della scarsità. Ha poco senso tenere aperta una discussione sulla Cina di oggi in termini di socialismo o capitalismo, a meno che non si abbia la capacità analitica e teorica di intraprendere una ricerca per individuare gli elementi strutturali di un percorso nuovo.

I rapporti di produzione attuali non sono di difficile lettura, sono rapporti di produzione capitalistici, finalizzati a realizzare plusvalore con il lavoro vivo di una forza lavoro in condizioni di orrendo sfruttamento, e in larga parte tuttora legata giuridicamente alla terra. Il contesto è però profondamente diverso da quello del centro e delle periferie dell’economia-mondo, in quanto il plusvalore, formalmente appropriato privatamente da una moltitudine di imprese di Stato, fluisce nel centro di accumulazione controllato dalla leadership del partito. La sua specificità è legata alle fondamenta della costituzione materiale della Cina popolare, radicata nel maoismo e ridefinita da Deng e Zhu, sulla base della quale nel nuovo millennio la leadership cinese raggiunge l’obiettivo di superare con continuità la scarsità realizzando plusvalore e realizzando la grande infrastrutturazione del paese.

La Cina produce ricchezza che migliora le condizioni della popolazione in termini di redditi medi e di mobilità sociale. La sua leadership, da Deng in poi, guarda con questo obiettivo allo sviluppo tecnologico, riservando attenzione parallelamente, fin da Mao, agli strumenti di difesa necessari a preservare l’indipendenza, che nell’economia-mondo è percepita strumentalmente come sfida egemonica. Questo la rende diversa dai paesi dell’economia-mondo, con il cui centro si sta misurando per condividere l’accesso alle risorse globali. In questi paesi le condizioni sociali regrediscono. L’appropriazione della ricchezza sociale da parte della finanza è un elemento strutturale imposto dal dominio del capitale finanziario condiviso dalla politica, e l’imperialismo continua ad assoggettare periferie e semiperiferie soffiando nel mondo venti di guerra.

L’obiettivo iniziale di questo lavoro era di rispondere al quesito “Che cos’è la Cina?”, a partire dall’analisi delle vicende storiche della Repubblica Popolare, senza ipotesi pregiudiziali e con partecipativa politica curiosità. La risposta è arrivata alla fine dell’esame dei primi tre periodi, quelli di Mao, di Deng e di Zhu. Se c’è una novità nell’approccio rispetto ai tanti altri testi che cercano di interpretare la Cina, sta nella centralità della sua crescita intesa come produzione e accumulazione di ricchezza. Questo porta a dar rilievo al lavoro proletario che la produce e ai rapporti di produzione sottostanti, L’analisi si è conclusa quando dai tre periodi è emersa quella che può essere considerata la costituzione materiale della Cina, che la leadership cinese ha fatto propria posponendo il socialismo in un indeterminato futuro. Nel nuovo millennio il capitalismo cinese creando valore fa crescere i redditi, in controtendenza con quello dell’economia-mondo. Il dato comune è lo sfruttamento della forza lavoro. In Cina è politicamente gestito, nell’economia mondo mantiene le sue basi strutturali.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/politica/24277-giordano-sivini-la-costituzione-materiale-della-repubblica-popolare-cinese.html

Le tendenze del capitale nel XXI secolo, tra “stagnazione secolare” e guerra

di Domenico Moro

La realtà geopolitica dell’inizio del XXI secolo va studiata a partire dalla categoria di modo di produzione. Tale categoria definisce i meccanismi di funzionamento del capitale in generale, astraendo dalle singole economie e dai singoli Stati. Per questa ragione, dobbiamo far interloquire la categoria di modo di produzione con quella di formazione economico-sociale storicamente determinata, che ci restituisce il quadro dei singoli Stati e delle relazioni tra di loro in un dato momento.

Inoltre, il nostro approccio dovrebbe essere dialettico, basato cioè sull’analisti delle tendenze della realtà economica e politica. Tali tendenze non sono lineari, ma spesso in contraddizione con altre tendenze. Solo lo studio delle varie tendenze contrastanti può permetterci di delineare i possibili scenari futuri.

  1. La “stagnazione secolare”

L’economia capitalistica mondiale è entrata in una fase di “stagnazione secolare”. A formulare tale definizione è stato nel 2014 Laurence H. Summers, uno dei principali economisti statunitensi, ministro del Tesoro sotto l’amministrazione Clinton e rettore dell’Università di Harvard. Summers ha mutuato il termine di “stagnazione secolare” dall’economista Alvin Hansen, che lo coniò durante la Grande depressione degli anni ’30, che iniziò con la crisi borsistica del 1929. L’attuale “stagnazione secolare” inizia, invece, con la crisi del 2007-2009, seguente allo scoppio della bolla dei mutui subprime.

La “stagnazione secolare” consiste di una crescita del Pil molto ridotta, ben al di sotto del potenziale. Secondo Summers, la bassa crescita è dovuta alla riduzione degli investimenti di capitale. Del resto, la crescita precedente alla crisi dei mutui subprime è stata sempre dovuta a una politica fiscale e monetaria eccessivamente espansiva, basata sul mantenimento di tassi d’interesse molto bassi da parte della Fed, la banca centrare statunitense. In sostanza, rileva Summers, negli ultimi quindici o vent’anni non c’è stato un solo periodo in cui si sia verificata una crescita soddisfacente in condizioni finanziarie sostenibili. Questo problema, però, non ha riguardato solo gli Usa, ma anche l’area euro e il Giappone.

Quanto scriveva Summers nel 2014 ha trovato conferma in quanto avvenuto fino ad oggi. La crescita del Pil si è ridotta dappertutto e nel 2020 si è avuta, a seguito della pandemia, la più grave recessione dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, il rallentamento è stato più accentuato nei principali Paesi avanzati e meno marcato in alcuni Paesi emergenti. Tale fenomeno può essere osservato mettendo a confronto i Paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada) con i Brics (Cina, India, Brasile, Russia e Sud Africa), sia nel periodo precedente alla crisi dei mutui subprime, tra 1980 e 2007, sia nel periodo successivo, tra 2007 e 2021 (Tabella 1).

La crescita dei Paesi della Triade, che comprende le tre aree storicamente dominanti del capitalismo mondiale, il Nord America, l’Europa occidentale e il Giappone, era già inferiore a quella dei Brics nel periodo 1980-2007, ma dopo il 2007 si è dimezzata. Gli Usa, ad esempio, tra 1980 e 2007 fanno segnare una crescita media annua del 3,1%, che nel 2007-2021 si dimezza all’1,5%. Dall’altra parte, Cina e India registrano una crescita molto superiore rispetto a quella Usa nel periodo 1980-2007, rispettivamente del 10,1% e del 6,1% medio annuo. Nel periodo 2007-2021 la crescita di Cina e India si riduce, ma molto meno di quella statunitense, rispettivamente al 7% e al 5,5% medio annuo, rimanendo così molto superiore a quella statunitense.

Ancora peggiore, in confronto a quella degli Usa, è la performance di Giappone e Europa occidentale. La crescita del Giappone nel periodo 1980-2007 è stata del 2,5% medio annuo, cioè di quattro volte inferiore a quella cinese e meno della metà di quella indiana, azzerandosi nel periodo 2007-2021 (+0,1%). L’Europa occidentale (Germania, Regno Unito, Francia e Italia), che nel periodo 1980-2007 aveva registrato una crescita inferiore a quella statunitense, nel periodo 2007-2021 subisce una vera e propria stagnazione con una crescita media annua inferiore all’1%, che, per quanto riguarda l’Italia, si traduce in una decrescita del -0,5% medio annuo.

Come abbiamo detto, la crisi del 2020 ha visto una contrazione del Pil a livelli mai visti nel periodo post Seconda guerra mondiale. Per combatterla, le banche centrali, a partire dalla Fed e dalla Bce, hanno abbassato il costo del denaro fino a farlo arrivare in area negativa, e, allo stesso tempo, i governi hanno messo in campo politiche fiscali espansive di grande entità. Non è un caso che, allo scoppio della pandemia, Draghi abbia sostenuto che la crescita dell’indebitamento e del deficit statali fosse una necessità, come in guerra, e non più il male assoluto da evitare a ogni costo con politiche di austerity. L’economia, spinta dalle politiche espansive, nel 2021 è rimbalzata, ma nel 2022 la crescita si è già ridimensionata. Dunque, non solo viene confermata la “stagnazione secolare”, ma addirittura si prospetta uno scenario ancora peggiore: l’accoppiata tra crescita ridotta e alta inflazione, la cosiddetta “stagflazione”. L’aspetto più grave è che, per combattere l’inflazione, le banche centrali, in particolare la Fed statunitense e la Bce, hanno deciso di rialzare il costo del denaro e ridurre i programmi di acquisto di titoli di Stato. È la fine delle politiche espansive monetarie, che determina il rallentamento della ripresa e, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, una probabile recessione nel 2023.

Ritornando a Summers, appare evidente dal suo ragionamento che il vero problema dell’economia mondiale non risiede nella carenza di liquidità, ma nel suo eccesso: le crisi finanziarie sono una conseguenza della sovrabbondanza o sovraccumulazione di capitale produttivo. Una sovrabbondanza che è relativa, cioè determinata dalla incapacità delle imprese private a impiegarla profittevolmente. Il calo del tasso reale d’interesse crea bolle borsistiche a ripetizione che, scoppiando, determinano una ricorrente situazione di instabilità finanziaria che si estende all’economia nel suo complesso. L’economia capitalistica si trova così presa nel circolo vizioso di recessione, politiche espansive monetarie e fiscali, creazione di bolle, scoppio delle bolle e ricaduta nella recessione.

La stagnazione, quindi, appare configurarsi come una caratteristica “secolare”, ossia di lungo periodo dell’economia capitalistica, specialmente nelle sue punte più avanzate, la Triade. Sorge a questo punto la domanda: come risolvere una tale “stagnazione secolare”? La risposta di Summers è che bisogna aumentare gli investimenti, ma questo non è possibile a meno del verificarsi di una condizione che si è ben lungi dall’augurarsi: “è certamente possibile che alcuni eventi esogeni possano intervenire ad aumentare la spesa e incentivare gli investimenti. Ma, guerra a parte, non appare chiaro quali potrebbero essere tali eventi.”[i] Quindi, solo una guerra e, in particolare, una guerra su larga scala come una guerra mondiale, potrebbe tirare fuori l’economia dei Paesi avanzati dalle secche in cui affonda. Del resto, è quello che è accaduto nella precedente “stagnazione secolare”, quella degli anni ’30. A risolvere la Grande depressione non fu il New Deal, varato dal presidente Franklin D. Roosvelt, ma furono le massicce spese belliche e gli investimenti per la ricostruzione, seguita alle enormi distruzioni della Seconda guerra mondiale, a determinare la ripresa dell’economia e a dare luogo all’espansione dei “trenta gloriosi”, fino alla crisi degli anni ’74-‘75.

  1. La caduta tendenziale del saggio di profitto e il crollo del capitalismo

Secondo quanto evidenziato da Marx, la tendenza tipica del modo di produzione capitalistico è la diminuzione della parte di capitale spesa in forza lavoro (capitale variabile) in rapporto alla parte spesa in mezzi di produzione e materie prime (capitale costante). In altri termini, si determina un progressivo aumento della composizione organica di capitale, cioè un aumento della parte di capitale costante in rapporto a quella di capitale variabile. Il fatto è che solo il capitale variabile, la forza lavoro, produce plusvalore. Ne deriva che, a parità di sfruttamento della forza lavoro (cioè a parità di saggio di plusvalore), la quantità di plusvalore tende a diminuire rispetto al capitale totale investito. Essendo il saggio di profitto dato dal rapporto tra plusvalore e capitale totale, si determina così una tendenza alla caduta del saggio di profitto.

In questo modo, si viene a creare una sovraccumulazione di capitale. Questo vuol dire che si è accumulato troppo capitale, in mezzi di produzione, rispetto alla capacità di generare un saggio di profitto adeguato alle necessità dei capitalisti. Quando la sovraccumulazione si viene a verificare nei settori principali dell’economia si ha una sovraccumulazione generale. A questo punto, i capitalisti, in assenza di un saggio elevato di profitto, riducono gli investimenti. Nello stesso tempo, la concorrenza tra singoli capitali si fa più spietata, e i capitali meno forti soccombono, generando una moria di imprese. In conseguenza di tutto ciò, si ha una contrazione della produzione generale che si traduce in crisi e recessioni.

Dal momento che l’aumento della composizione organica è più forte nei paesi capitalisticamente più sviluppati, la caduta del saggio di profitto tende a manifestarsi con più forza in questi Paesi. Per questa ragione, il tasso di crescita del Pil è minore nei Paesi capitalisticamente più sviluppati e maggiore in quelli meno sviluppati. Anche il rallentamento della crescita o il crollo della produzione, nel corso delle crisi, si determina con maggiore intensità nei paesi più avanzati, come abbiamo visto sopra nel confronto di lungo periodo tra i Paesi del G7, capitalisticamente più sviluppati, e i Paesi del Brics, capitalisticamente meno sviluppati.

Naturalmente, lo scoppio delle crisi e delle recessioni può avvenire per certe cause scatenanti, come lo scoppio di una bolla finanziaria, la penuria o l’aumento del prezzo di certe materie prime o di certi componenti o semilavorati, o per fattori esogeni all’economia, come una guerra o sanzioni economiche o una pandemia. Le crisi, inoltre, possono generarsi per uno squilibrio tra eccesso di merci prodotte e ristrettezza del mercato di assorbimento. Ciononostante, queste sono cause contingenti che accendono la miccia sul vero e proprio materiale esplosivo che è sottostante, ossia la sovraccumulazione di capitale e la caduta del saggio di profitto. La crisi generale è sempre da ricollegare a questa tendenza tipica del modo di produzione capitalistico.

Però, la caduta del saggio di profitto è una tendenza, importante sì, ma una tendenza. Marx scriveva che il problema teorico per gli economisti non è tanto capire il perché della caduta del saggio di profitto, bensì capire il perché una tale tendenza non sia più celere e accentuata, tramutandosi in crollo del sistema. In sostanza, dice Marx, “devono intervenire influenze antagonistiche che ostacolano o annullano l’attuazione della legge generale conferendole il carattere di una semplice tendenza; ed è per questa ragione che la caduta del saggio generale di profitto noi l’abbiamo chiamata tendenziale”[ii].

Al suo tempo, Marx evidenziava le seguenti influenze antagonistiche: l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, la riduzione del salario al di sotto del suo valore, la diminuzione di prezzo del capitale costante, la sovrappopolazione relativa, che porta alla creazione di un esercito industriale di riserva, ossia una massa di disoccupati, che, esercitando una pressione concorrenziale sugli occupati, permette una riduzione del salario. Tra i più importanti fattori c’è, poi, il commercio estero: sia l’esportazione dell’eccesso di merci, determinato dall’aumento della capacità produttiva del capitale, sia l’esportazione di capitale nei paesi periferici, dove il saggio di profitto è più alto a causa del minore sviluppo capitalistico e il lavoro viene sfruttato in maniera più intensa. Possiamo osservare come le stesse cause che producono la caduta del saggio di profitto determinano anche i fattori che la contrastano. Infatti, lo sviluppo tecnologico che porta alla sostituzione di forza lavoro con macchine, e cioè alla sostituzione di capitale variabile con capitale costante, se, da una parte, conduce all’aumento della composizione organica, dall’altra parte, genera l’aumento dello sfruttamento del singolo lavoratore e la creazione dell’esercito industriale di riserva.

Queste tendenze antagonistiche, che Marx evidenziava ai suoi tempi, sono ancora funzionanti a tutt’oggi. Da Marx a oggi, però, il capitalismo si è molto sviluppato: la sovraccumulazione di capitale è cresciuta a livelli talmente alti che, di fatto, il capitalismo sarebbe già crollato se non si fossero verificate delle condizioni nuove. Tra queste c’è la guerra mondiale: senza la Seconda guerra mondiale oggi il capitalismo forse non esisterebbe. C’è poi la finanziarizzazione, che consente, tramite tutta una serie di invenzioni speculative, di fare profitti senza passare per la produzione di merci. Per la verità, la finanziarizzazione viene rilevata anche da Marx, sebbene nella sua epoca non fosse arrivata agli estremi attuali. C’è, infine, l’intervento diretto dello Stato a sostegno dell’economia capitalistica. A causa dell’aumento della spesa pubblica, i debiti pubblici si sono rigonfiati a livelli mai visti prima in tempi di pace proprio perché nel corso dei decenni, soprattutto dopo i “trenta gloriosi”, lo Stato si è assunto il compito di stampella del capitalismo.

Tuttavia, questi nuovi fattori antagonistici presentano dei forti limiti: la finanza e il debito, pubblico e privato, oltre un certo livello rappresentano un forte fattore di instabilità e di crisi. Inoltre, il capitale ha già sfruttato tutte le leve, che, secondo Marx, ha a sua disposizione, dalla compressione del salario all’uso dell’esercito industriale di riserva alla esportazione di capitali dai paesi capitalisticamente più sviluppati verso quelli meno sviluppati. L’ulteriore accentuazione della contrazione del salario non fa che aggravare la crisi sul lungo periodo. Per questo, rientra in gioco l’aspetto della distruzione creatrice: la distruzione di capacità produttiva, che permette di ridurre la sovraccumulazione di capitale e rilanciare la produzione di profitto. Le stesse crisi sono un fattore di riduzione della sovraccumulazione mediante la distruzione di capitale, sotto forma di eliminazione di imprese e la centralizzazione, mediante fusioni e acquisizioni, di quelle che rimangono. Ma è soprattutto la guerra mondiale che si staglia sullo sfondo come elemento di ridefinizione delle condizioni di accumulazione mediante la distruzione di capitale.

Se la caduta del saggio di profitto fosse senza tendenze contrastanti, il modo di produzione capitalistico crollerebbe su sé stesso. Ma, come abbiamo visto, così non è. Tuttavia, per Marx, la caduta del saggio di profitto dimostra il carattere “ristretto, meramente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico: attesta che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma al contrario, arrivato a un certo punto, entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo.”[iii] La tendenza del capitalismo al crollo è sempre più evidente e accentuata, sebbene non sia possibile pensare a un crollo automatico. Bisogna vedere cosa il capitale inventerà per spostare ancora una volta in avanti il suo redde rationem. A parte la carta della guerra, il capitale sembra volersi giocare la carta della transizione ecologica. Il passaggio alle fonti rinnovabili e trasformazioni radicali come il passaggio dal motore a combustione interna al motore elettrico rappresentano degli strumenti tesi a ridurre la sovrapproduzione di capitale e merci per rilanciare i profitti.

  1. Cambiamenti dei rapporti di forza mondiali

Come scriveva Lenin, il capitalismo concreto, cioè quello formato da un insieme di formazioni economico-sociali, è caratterizzato da una crescita diseguale[iv]. Le potenze egemoni, più “vecchie” dal punto di vista dello sviluppo capitalistico tendono a crescere meno, mentre quelle più “giovani” tendono a crescere più velocemente. Di conseguenza, i rapporti di forza economici tendono a modificarsi a favore di queste ultime. A un certo punto i nuovi rapporti di forza economici entrano in conflitto con i rapporti politici esistenti, generando una tendenza alla guerra.

La storia del capitalismo può essere letta come un avvicendarsi di cicli economici, più o meno secolari, che vedono il prevalere, di volta in volta, di una potenza egemone, attorno alla quale si determina l’accumulazione di capitale mondiale. È questa la teoria dei “cicli secolari”, ideata da Giovanni Arrighi, che definisce quattro cicli secolari del capitalismo, dal XVII al XXI secolo: quello ispano-genovese, quello olandese, quello britannico e, infine, quello statunitense[v]. La potenza economica si accompagna sempre alla potenza politico-militare: ad ogni ciclo gli Stati di volta in volta egemoni sono sempre più grandi e militarmente potenti. I cicli secolari sono divisi in due parti: una basata sulla produzione materiale e una sulla finanza. Fino a un certo punto gli Stati egemoni sono prevalenti dal punto di vista della produzione materiale, poi tale prevalenza viene meno, per la sovraccumulazione di capitale, e, allora, prevale l’aspetto finanziario di controllo dei flussi di capitale. Ma anche la crescita dei profitti trainata dalla finanza a un certo punto viene meno e, nel frattempo, emergono altre potenze che sfidano la potenza egemone. Si determina così un periodo di caos alla fine del quale, sempre dopo una guerra generale, la vecchia potenza egemone viene sostituita da una nuova potenza, attorno alla quale riprende il ciclo di accumulazione capitalistico.

Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo la Gran Bretagna viene sopravanzata nella produzione e nella esportazione di beni da due potenze emergenti, la Germania e soprattutto gli Stati Uniti. La Prima e la Seconda guerra mondiale sono combattute per l’egemonia mondiale. Alla fine della lotta la Germania è sconfitta ma la Gran Bretagna è costretta a cedere il ruolo di potenza guida agli Usa.

Neanche gli Usa sfuggono, però, alle leggi storiche, incorrendo in una decadenza che si manifesta nel calo della crescita e nella drastica diminuzione della loro quota sul Pil e sulle esportazioni mondiali. Per la verità, oggi, la decadenza è riscontrabile anche negli altri Paesi che, insieme agli Usa, fanno parte del cosiddetto Occidente, cioè l’Europa occidentale e il Giappone. Come già accaduto alla Gran Bretagna, oggi gli Usa e gli altri Paesi centrali subiscono la forte concorrenza di alcuni emergenti, soprattutto quella della Cina (Graf.1).

Graf. 1 – Quota dei principali Paesi sul Pil mondiale (a parità di potere d’acquisto; in %)

Infatti, se consideriamo il Pil a parità di potere d’acquisto, la Cina ha superato gli Usa già nel 2016. La Cina negli ultimi trenta anni, tra 1991 e 2021, è passata dal 4,3% del Pil mondiale al 18,6%, mentre gli Usa sono calati dal 21% al 15,7%[vi]. Anche la quota dell’India è cresciuta dal 3,4% al 7%, mentre quella degli altri Paesi centrali, alleati degli Usa, è calata. Ad esempio, il Giappone è passato dal 9,2% al 3,8% e la Germania dal 6% al 3,3%. Uno stesso calo è riscontrabile anche nella quota sulle esportazioni mondiali di beni manufatti. Tra 1991 e 2021 gli Usa passano da una quota del 12% al 7,9%, mentre la Cina passa dal 2% al 15,1%. L’india passa dallo 0,5% all’1,8%, mentre il Giappone scende dal 9% al 3,4% e la Germania dall’11,5% al 7,3%. Bisogna, però, considerare che, sul piano del Pil pro capite (sempre a parità di potere d’acquisto), la Cina è ancora distante dagli Usa, pur essendo cresciuta enormemente negli ultimi venti anni. Il Pil pro capite della Cina rappresentava nel 1991 il 3,8% di quello degli Usa e nel 2021 il 27,8%, mentre quello dell’India nel 1991 rappresentava il 4,1% e nel 2021 il 10,3%.

In sostanza, possiamo osservare che i rapporti di forza mondiali sul piano economico sono cambiati e che, per la prima volta da circa un secolo e mezzo, la Cina ha ripreso il primato sul Pil mondiale che aveva sempre avuto storicamente fino all’epoca delle guerre dell’oppio intorno alla metà del XIX secolo. Anche sul piano tecnologico la Cina sta facendo molti passi in avanti, sfidando anche su questo terreno gli Usa. Questi, però, se non hanno più l’egemonia sulla produzione e sull’export mondiali mantengono una egemonia sia militare sia finanziaria, grazie al dollaro.

  1. Il ruolo egemonico del dollaro e la tendenza al suo declino

Gli Stati Uniti hanno ricalcato le orme della Gran Bretagna, sebbene con importanti differenze, soprattutto con la sostituzione del dollaro alla sterlina come moneta mondiale. Con la Prima guerra mondiale molti paesi abbandonarono il gold standard, stampando massicciamente denaro per finanziare le spese militari. Il Regno Unito, invece, mantenne la sterlina legata all’oro, per conservarle il ruolo di moneta mondiale, ma fu costretto, per la prima volta nella sua storia, a prendere a prestito denaro dall’estero. Il Regno Unito e gli altri Paesi alleati divennero così debitori degli Usa, che furono pagati in oro. In questo modo gli Usa alla fine della guerra divennero il principale possessore di riserve auree. Gli altri Paesi, privi delle loro riserve in oro, non poterono più ritornare al gold standard. Nel 1931 anche il Regno Unito abbandonò definitivamente il gold standard e il dollaro sostituì la sterlina come valuta di riserva mondiale.

Fu, però, solo con la Seconda guerra mondiale che il dollaro vide consacrato il suo ruolo di moneta mondiale grazie agli accordi di Bretton Woods (1944), in base ai quali si decise di abbandonare il gold standard: le valute mondiali non sarebbero più state agganciate all’oro bensì al dollaro, che a sua volta era agganciato all’oro. In caso di richiesta i paesi creditori in dollari sarebbero stati pagati dagli Usa in oro. In questo modo, le banche centrali dei Paesi aderenti a Bretton Woods anziché oro accumularono dollari. Il sistema, però, entrò in crisi alla fine degli anni ’60, perché gli Usa, per finanziare la guerra in Vietnam e i programmi di welfare interni, cominciarono a inondare il mercato di dollari. Preoccupati per la svalutazione del dollaro, i creditori degli Usa cominciarono a chiedere di essere pagati in oro. Temendo di perdere le proprie riserve auree, il presidente Richard Nixon nel 1971 sganciò il dollaro dall’oro. Il dollaro rimase la valuta mondiale ma con il vantaggio, per gli Usa, di garantirsi la possibilità di pagare le importazioni e il debito pubblico semplicemente stampando dollari.

Il dollaro rimane, fino ad ora, il re delle valute. Oltre a rappresentare la maggior parte delle riserve valutarie mondiali è moneta di scambio nel commercio internazionale, grazie al fatto che la maggior parte delle materie prime, inclusi il petrolio e il gas, sono comprate e vendute in dollari. Non a caso, lo status mondiale del dollaro negli anni ’60 è stato definito “l’esorbitante privilegio” degli Usa dal ministro delle finanze francese Valery Giscard d’Estaing. La domanda di dollari a livello mondiale permette agli Usa di finanziarsi a basso costo, pagando cioè tassi d’interesse ridotti agli acquirenti dei loro titoli di Stato. Grazie a questo, dal 1968, gli Usa hanno cominciato ad accumulare un crescente e quasi ininterrotto debito del commercio estero. Nel 2021 il debito commerciale (solo beni) statunitense ammontava alla colossale cifra di 1.182 miliardi di dollari[vii], mentre il debito pubblico raggiungeva, sempre nel 2021, i 30,5 trilioni di dollari, vale a dire il 133,3% rispetto al Pil e 2,7 trilioni di dollari in più rispetto all’anno precedente[viii].

La centralità del dollaro nei pagamenti internazionali aumenta anche il potere degli Usa di imporre sanzioni finanziarie. Infatti, ogni transazione che tecnicamente tocchi il suolo statunitense dà agli Usa giurisdizione legale e quindi la capacità di bloccare le transazioni indesiderate. Le sanzioni, però, hanno un effetto boomerang sul dollaro, visto che spingono i Paesi che ne sono oggetto a fare uso di valute alternative al dollaro. È da un paio di decenni che l’egemonia del dollaro si sta erodendo, a causa soprattutto dell’aumento degli scambi su scala regionale e come risposta dei Paesi che vogliono sottrarsi al dominio valutario degli Usa. Tra 1999 e 2021 le riserve in dollari detenute dalle banche centrali sono scese dal 71% al 59%[ix]. Inoltre, oggi, il dollaro conta per il 40% delle transazioni internazionali, l’euro per il 35%, la sterlina per il 6% e lo yuan per il 3%[x].

La guerra in Ucraina ha accelerato questa tendenza. La Russia ha reagito alle sanzioni occidentali reindirizzando verso altri Paesi, come l’India e la Cina, le esportazioni di petrolio e gas che andavano verso l’Ue e regolando le transazioni non più in dollari ma in altre valute, come rubli, yuan e rupie. L’uso del rublo verrà esteso anche alla commercializzazione di altri prodotti tipici dell’export russo, per esempio ai cereali destinati a Turchia, Egitto, Iran e Arabia saudita. Inoltre, la Cina ha intenzione di mettere a disposizione della Russia il Cross-border Interbank Payment System (Cips), il proprio sistema di pagamenti internazionali alternativo allo Swift, lanciato nel 2015 per ridurre la dipendenza dal dollaro, internazionalizzare la propria valuta (lo yuan renminbi) e spingerne l’uso fra i Paesi coinvolti nella Nuova via della seta. La Cina ha stipulato anche accordi con alcuni Paesi, come la Turchia e il Pakistan, per commercializzare beni in yuan.

La decisione di accogliere le richieste della Russia di essere pagata in valute differenti dal dollaro e l’aggiramento del sistema Swift ha fortemente irritato gli Usa. Il vice consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Daleep Singh, ha dichiarato: “Non vorremmo vedere sistemi progettati per sostenere il rublo o minare il sistema finanziario basato sul dollaro o per aggirare le nostre sanzioni…ci sono conseguenze per i Paesi che lo fanno.”[xi] A esprimere preoccupazioni sulla tenuta del dollaro come valuta mondiale è stato anche il Fondo monetario internazionale: “l’esclusione dal sistema di messaggistica Swift potrebbe accelerare gli sforzi per sviluppare alternative. Ciò ridurrebbe i vantaggi in termini di efficienza derivanti dall’avere un unico sistema globale, e potrebbe potenzialmente ridurre il ruolo dominante del dollaro nei mercati finanziari e nei pagamenti internazionali[xii].

  1. La tendenza alla guerra

Il dollaro non è soltanto uno strumento di guerra per gli Usa, ma rappresenta l’architrave stessa della loro egemonia mondiale: col dollaro gli Usa finanziano il loro Stato e indirettamente tutta la loro economia. Senza il dollaro gli Usa non potrebbero sostenere il loro enorme doppio debito, quello pubblico e quello commerciale. Quando il dollaro divenne moneta mondiale gli Usa producevano la metà del prodotto interno mondiale e detenevano il 21,6% delle esportazioni mondiali (1948)[xiii]. Oggi, la Cina ha scalzato gli Usa dal loro primato economico. In questa fase storica, l’economia statunitense ha un carattere fortemente parassitario. Anche più di quanto non accadesse all’epoca dell’egemonia britannica. L’imperialismo britannico poteva basarsi sulle risorse estorte alle colonie, in particolare all’India, dalla quale fluiva il surplus commerciale verso il centro finanziario di Londra[xiv]. Tuttavia, la sterlina era basata su qualcosa di tangibile, cioè sull’oro. Oggi, il dollaro non ha dietro di sé nulla di concreto e di reale che non siano le Forze armate statunitensi.

Dal momento che hanno perso la loro egemonia economica, gli Usa fanno sempre più affidamento sull’influenza geopolitica, che deriva in gran parte dal fatto che gli Usa possono disporre di una forza militare senza confronti. La spesa militare degli Usa è pari a 778 miliardi di dollari, mentre quella del secondo paese in classifica, la Cina, è di 252 miliardi, e quella della Russia è di 61,7 miliardi[xv]. In totale, il budget militare dei primi 10 Paesi del Mondo equivale a malapena al budget Usa.

Si innesca, a questo punto, un circolo vizioso: gli Usa mantengono l’egemonia del dollaro grazie alla forza militare e mantengono la forza militare, finanziandosi grazie al dollaro. Quindi, se il dollaro perde forza a livello mondiale risulta più difficile per gli Usa mantenere la loro forza militare e se viene meno quest’ultima viene meno anche l’egemonia del dollaro. Insomma, se si rompe il “giocattolo” del dollaro, gli Usa rischiano una crisi radicale.

Il peggioramento dei rapporti di forza economici e la necessità di mantenere, nonostante questo declino, l’influenza geopolitica spingono gli Usa verso la tendenza alla guerra. Una guerra che alcune volte viene combattuta direttamente, come in Iraq, e a volte indirettamente, come in Ucraina. Nella guerra attualmente in corso il vero oggetto del contendere è l’influenza geopolitica degli Usa e, attraverso di essa, la capacità del dollaro di mantenersi moneta di scambio e di riserva mondiale.


Note

[i] Lawrence H. Summers, Reflection on the New Secular Stagnation Hypothesis, p.36. Il corsivo è mio.
[ii] Karl Marx, Il capitale, Newton Compton editori, Roma 1996, p. 1070.
[iii] Ibidem, p.1077.
[iv] Lenin, L’imperialismo. Fase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1974.
[v] Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, Il Saggiatore, Milano 2003.
[vi] International monetary fund, World economic outlook (april 2022).
[vii] Unctad, data center.
[viii]International monetary fund, Database.
[ix] International Monetary fund, The Stealth erosion of dollar dominance.
[x] G, Di Donfrancesco, “L’Fmi: le sanzioni alla Russia minano l’egemonia del dollaro”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022.
[xi] G. Di Donfrancesco, “Lavrov in India per offrire greggio ma Washington lancia l’allarme”, Il Sole24ore, 1 aprile 2022.
[xii] Ibidem.
[xiii] Unctad, data center.
[xiv] Marcello de Cecco, Moneta e impero. Economia e finanza tra 1890 e 1914, Donzelli editore, Roma 2016.
[xv] https://worldpopulationreview.com/country-rankings/military-spending-by-country.

GUERRA IN UCRAINA E NUOVO ORDINE MONDIALE: Gli effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali (III° Parte)

GUERRA IN UCRAINA E NUOVO ORDINE MONDIALE

Gli effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali

Terza parte atti del seminario

(QUI la prima e la seconda parte degli atti già pubblicati)

di Raffaele Picarelli

Inflazione, alti tassi, recessione

Il 31 maggio scorso i dati preliminari di Eurostat hanno mostrato che l’indice dei prezzi al consumo nell’Eurozona è salito all’ 8,1% su base annua, dal 7,4% di aprile, ben al di sopra del “consenso” degli analisti che era di un aumento del 7,7%.

In Germania l’inflazione a maggio ha toccato il 7,9% anno su anno come ai tempi della crisi petrolifera del 1973, in Spagna ha registrato un aumento dell’8,7%.

In Italia, dopo il lieve rallentamento di aprile, l’inflazione è tornata ad accelerare in maggio, portandosi al 6,9% anno su anno, un livello che non si registrava dal 1986.

In USA in aprile l’inflazione era all’8,3%. In maggio è cresciuta all’8,6%, nuovo massimo dal dicembre del 1981. Biden: “I nuovi dati dimostrano il perché l’inflazione è la mia priorità […]. I rialzi dei prezzi causati da Vladimir Putin hanno colpito duramente in maggio […]. Faremo il possibile per ridurre i prezzi.” (“Il Sole – 24 Ore” dell’11 giugno). Non c’è limite alla menzogna e alla spudoratezza! Le cause dell’inflazione sono varie e, si è detto, anteriori all’attuale conflitto in Ucraina, anche se la guerra, in alcuni casi, ha funzionato da acceleratore: prezzi energetici, rottura delle catene di approvvigionamento di materie prime, semilavorati e merci, “rarità” di alcune materie prime.

“Bisogna dare uno sguardo ai cambiamenti in atto. Il primo riguarda la globalizzazione: […] dopo aver […] guidato il mondo dagli anni ’80, si sta bruscamente invertendo. Ormai la maggior parte delle aziende ha capito che tenere catene globali delle forniture troppo lunghe rappresenta un rischio. Basta una pandemia, un porto chiuso o un conflitto che non arriva più nulla. Tanti stanno dunque accorciando le catene. O intendono farlo. Questo terrà alta l’inflazione. Stesso discorso per le materie prime: improvvisamente ci si accorge quanto siano scarse e dislocate nelle parti più instabili […]. Il 44% del palladio globale arriva dalla Russia. Idem per oltre il 16-17% del gas naturale e dei fertilizzanti. Scarsità, in economia, significa rincari. Prezzi alti. Insomma: inflazione […]. L’inflazione è diventata strutturale.” (M. Longo ne “Il Sole – 24 Ore” del 13 giugno). E ancora: “Per anni le aziende hanno aumentato i margini pur in un’economia stagnante, perché potevano tagliare i costi. Riuscivano a farlo perché potevano allungare le “supply chain” e sfruttare la manodopera dove il costo del lavoro era basso, oppure perché potevano usare materie prime anche di scarsa sostenibilità ambientale da qualche parte del mondo. Nessuno lo sapeva.” (R. Almeida di Mfs Investment Management, ibidem).

Ora tutto questo (sfruttamento selvaggio del lavoro, devastazione ambientale ecc) è più difficile. Allora “i costi salgono. E l’accorciamento delle catene globali fa il resto.” E “la domanda è: chi pagherà questi maggiori costi industriali? Le aziende riducendo i margini oppure i consumatori con prezzi più alti?” (Ibidem).

Un’analisi dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo (risalente a fine marzo) dimostra che oggi, in Europa, il balzo dei prezzi è in gran parte causato dall’energia. Prendendo come punto di partenza il maggio 2018, quando l’indice dei prezzi in Eurozona raggiunse l’obiettivo della BCE del 2%, Intesa Sanpaolo ha calcolato da cosa “è stata causata l’extra inflazione di oggi [fine marzo]. Si tratta di 3,9 punti percentuali in più [ora l’inflazione ufficiale è ancora più alta di almeno un punto]. Due terzi sono dovuti proprio alla componente energetica. E un’altra fetta importante (0,8 punti su 3,9) va cercata nel settore alimentare, anch’esso in gran parte gravato dai maggiori costi dell’energia e dei fertilizzanti. Insomma: senza il petrolio e il gas alle stelle, in Eurozona l’inflazione sarebbe ben più bassa.” (M. Longo, “Il Sole – 24 Ore” del 31 marzo).

Diversa la situazione in USA dove la componente energia ha causato solo un terzo del rincaro, mentre la parte più pesante è costituita dai rincari da domanda per consumi.

Di alcuni fattori che rendono strutturale il carovita abbiamo già trattato. La deglobalizzazione, è utile ribadirlo, è uno di questi. Il rischio di filiere produttive lunghe e globali concerne settori sensibili come i semiconduttori, l’energia, i prodotti farmaceutici, ed è opinione diffusa che. principalmente in questi settori, avverrà un rimpatrio delle produzioni (reshoring). E questo farà salire i prezzi. Altro fenomeno inflattivo è la transizione energetica: almeno per un certo lasso di tempo la transizione produce un aumento dei prezzi.

Giordano Lombardo della casa d’investimento Plenisfer, in un’intervista del 7 aprile scorso al giornale confindustriale dichiarava: “In un mondo che va verso una nuova divisione in blocchi è inevitabile che aumenti il potere geopolitico e negoziale di Paesi non allineati con il blocco occidentale ma fondamentali per l’approvvigionamento di materie prime. [E quindi aumentino i prezzi]”. In una realtà fatta “di blocchi antagonisti, uno guidato dalla Cina [e dalla Russia] e uno dall’Occidente, le supply chain (le catene di approvvigionamento) si devono accorciare. Ma […] questo farà salire l’inflazione”. Per il fattore inflattivo rappresentato dalla transizione energetica, il problema è che “da anni è in corso un deciso calo degli investimenti in tutti i combustibili fossili. Peccato che oggi proprio questi combustibili rappresentino ancora l’80% del fabbisogno energetico globale. Si stima che per soddisfarlo con altre fonti, bisognerebbe moltiplicare per tre l’energia nucleare esistente oggi, oppure per cinque quella solare, oppure per 10 quella eolica. Nel breve periodo è impossibile che queste fonti rinnovabili riescano a soddisfare le necessità”(Ibidem).

Allora, dato che in Europa l’inflazione non è da consumi ma quasi interamente causata da rincari eccezionali delle materie prime (accelerati, talora, dal conflitto in corso), si tratta di un’inflazione da costi, un’ “inflazione importata”. Essa riduce gli investimenti perché non sempre si è in grado di trasferire in tutto, ma anche in parte, l’aumento dei costi (prezzi di produzione) sul prezzo finale dei beni e dei servizi. E se questo avviene, l’inflazione riduce il potere d’acquisto dei ceti deboli, dei lavoratori a reddito fisso, dei pensionati, dei piccoli risparmiatori.

Scrive Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo: “Quando l’inflazione dipende dal rincaro dell’energia e delle materie prime, si distruggono i consumi”. Inoltre, le politiche delle banche centrali sono poco efficaci quando l’inflazione è causata da energia e materie prime: per quanto alzino i tassi, i prezzi di petrolio e gas restano elevati. L’unica cosa che possono fare è causare una “devastante” recessione: diminuendo drasticamente i consumi, crolla la domanda di energia e materie prime e quindi, piano piano, anche i prezzi calano. Tutto questo processo, con conseguente aumento dei tassi, accade, non dimentichiamolo, in una fase di contrazione dell’economia europea e globale.

Ma “in Europa i salari non stanno salendo” e se aumenti ci saranno “non saranno elevati […]. Oggi invece l’occupazione è ben diversa: tanti lavoratori sono precari, a tempo determinato, impiegati nella gig economy e in generale meno sindacalizzati” (“II Sole – 24 Ore” cit.).

L’inflazione da costi è per definizione un massacro sociale.

Lo è direttamente perché distrugge redditi e consumi e, in certa misura, cioè nella misura in cui le aziende non riescono a trasferirla sui prezzi finali, anche gli investimenti. I più colpiti sono naturalmente i gruppi sociali più fragili.

Lo è indirettamente, con l’aumento dei tassi di interesse praticato dalle banche centrali e, a cascata, da tutto il sistema creditizio.

Questo aumento se, come si è detto, è vano direttamente contro l’inflazione importata, fa crollare più o meno rapidamente tutti i consumi (perché tende a propagarsi a tutti settori) e anche la domanda di energia e materie prime.

Quindi i prezzi cadono proprio attraverso e a causa di un massacro sociale.

Da qui il passo verso la recessione (forse attraverso una fase di stagflazione) è breve.

Le “stazioni” di tale massacro (riduzione del potere d’acquisto, impoverimento soprattutto dei ceti deboli, svalorizzazione dei risparmi e degli asset, liquidazione degli ultimi brandelli di welfare, disoccupazione, riduzione ulteriore degli investimenti, ulteriore disoccupazione, etc.), hanno anche un contraltare positivo per i governi molto indebitati: il debito pubblico (anche quello privato) con l’inflazione si svaluta.

A fronte di tutto questo, in Italia e non solo, i ceti popolari non hanno nessun valido strumento di protezione e recupero. Ma di ciò parleremo più avanti.

La dinamica dell’adozione dei tassi e delle condizioni finanziarie più restrittive

Il 10 giugno scorso la presidente Christine Lagarde ha anticipato gli aumenti dei prossimi mesi, “rebus sic stantibus”. Il 1 luglio terminerà il programma APP di acquisti netti di titoli pubblici da parte della BCE; il 21 luglio, alla prossima riunione del Consiglio della BCE, i tassi di riferimento saliranno dello 0,25% e di un altro 0,25 o 0,50% (a seconda dell’inflazione) alla riunione successiva dell’8 settembre.

Mercoledì 15 giugno la Federal Reserve ha deciso di alzare i tassi di 75 punti base (0,75%). È la prima volta dal novembre 1994 che un rialzo è così forte. E ulteriori consistenti rialzi sono previsti nei prossimi mesi.

Le borse mondiali hanno reagito con pesanti perdite, e titoli pubblici e corporate bond hanno visto aumentare in modo rilevante i rendimenti e scendere altrettanto cospicuamente i prezzi.

L’aumento dei tassi e la conseguente caduta della domanda non piace a Confindustria perché, in prospettiva, aumenta i costi di produzione e affievolisce le vendite. Per Carlo Bonomi l’aumento dei tassi della BCE “non è la soluzione per controllare l’inflazione […]. Il Paese è fermo, e abbiamo un debito pubblico enorme. Capisco che si debba controllare l’inflazione. Ma con il rialzo dei tassi avremo sicuramente dei problemi” (“Il sole-24 ore” 11 giugno).

Di fronte a possibili rivendicazioni salariali, il fuoco di sbarramento è la richiesta di soldi pubblici per il taglio del cuneo fiscale e contributivo.

Alla luce di quanto detto finora è semplicemente inconcepibile che un’inflazione da costi diventi, sic et simpliciter, un’ inflazione da domanda. Eppure la parola d’ordine in questi tempi del governo e della Banca d’Italia é di “non disancorare” l’inflazione e impedire la spirale prezzi-salari. Se i salari sono fermi, se non esistono meccanismi di indicizzazione e recupero, tali affermazioni surreali e spudorate che senso hanno? Hanno il senso di un fuoco di sbarramento contro ogni futura, possibile richiesta salariale.

E’ una menzogna, nella situazione attuale, evocare la spirale prezzi-salari. Nelle “Considerazioni finali” del 31 maggio scorso, il Governatore della Banca d’Italia Visco ammette che se è concepibile una spirale prezzi-salari in USA ove esiste un’inflazione da domanda, nell’area euro “la dinamica delle retribuzioni è sinora rimasta moderata”. Ciò nonostante, le richieste di adeguamenti salariali sarebbero accettabili solo se si risolvessero “in aumenti una tantum [perché in tal caso] il rischio di un circolo vizioso tra inflazione e crescita salariale sarebbe ridotto”. Anziché ad una “vana rincorsa tra prezzi e salari”, ci ricorda Visco, bisogna mettere mano alla produttività.

Il governo Draghi, in stretta assonanza, ribadisce il salvifico appello: “Sindacati, imprese e governo lavorino insieme”.

Indice IPCA / massacro sociale / un cenno ancora al gas

È giunto ora il momento di affrontare la questione dell’indice IPCA e della contrattazione collettiva. Ho presente al riguardo la pubblicazione online della collana “ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro, numero del 2013”. La collana è (o almeno era) diretta da Michele Tiraboschi e si ispirava ad Ezio Tarantelli. Il paragrafo che ci interessa reca appunto il titolo “Indice IPCA e contrattazione collettiva”.

Vi leggiamo: “Le crisi petrolifere del 1973-74 e del 1979-1980 hanno restituito all’Italia degli anni Ottanta un’inflazione galoppante, contrastata dagli interventi di politica dei redditi studiati dal professor Ezio Tarantelli (lodo Scotti e decreto di San Valentino), volti ad arrestare la spirale prezzi-salari-prezzi e ridurre l’inflazione giocando una politica salariale d’anticipo in grado di programmare gli aumenti retributivi in linea con l’inflazione attesa”.

Si legge inoltre che, nel Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione e sugli assetti contrattuali del 1993, le parti sociali “abbandonarono definitivamente il meccanismo della scala mobile, concordando l’utilizzo dell’inflazione programmata nel primo livello di contrattazione e garantendo, quale elemento di tutela del potere d’acquisto dei lavoratori, il recupero dello scostamento tra inflazione programmata ed effettiva.

Al secondo livello di contrattazione spettava invece la regolazione delle retribuzioni sulla base dei risultati di produttività e redditività aziendale”.

Questo meccanismo ha funzionato fino al 2009, allorché, con l’Accordo Quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, “governo e parti sociali hanno stabilito un nuovo indice previsionale di inflazione: l’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea (IPCA) depurato della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’elaborazione è stata affidata ad un soggetto terzo, identificato […] a partire dal 2011 […] nell’Istat”.

L’IPCA è una delle innovazioni più note dell’Accordo del 2009, (la Cgil non aderì denunciando la minore protezione fornita da questo indice al potere d’acquisto dei salari).

“L’Accordo ha confermato il sistema di salvaguardia del potere d’acquisto [?!] attraverso la verifica di eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista [non più programmata] e quella reale effettivamente osservata”.

Quindi, tale indice istituzionalmente non contiene l’inflazione importata. I meccanismi dell’inflazione programmata prima e dell’inflazione prevista poi, prevedono recuperi degli altri tipi di inflazione ex post e solo in parte con l’inevitabile effetto che una parte del salario è sottratta ai lavoratori.

Se l’inflazione prevista non contempla, come non contempla, l’inflazione importata, quale strumento di difesa rimane ai lavoratori?

I rinnovi contrattuali che sono lenti, farraginosi, sempre rinviati.

Leggiamo su “Il Fatto Quotidiano” del 4 giugno scorso: “Quasi sette milioni di lavoratori italiani sono in attesa del rinnovo del contratto nazionale. Per dirla meglio, quasi sette milioni di persone aspettano un aumento in busta paga che permetta quantomeno di far fronte ai rincari. Non è tutto: oltre a questi, tanti altri lavoratori hanno ottenuto di recente il rinnovo, ma non ancorato all’inflazione [ora al 6,9%]. […]. Una serie di trattative sono in corso, ma di solito si ragiona prendendo come riferimento l’indice IPCA che non tiene conto dei rincari energetici importati […]. A marzo 2022, secondo l’Istat, il tempo medio di rinnovo dei contratti scaduti risulta pari a 30,8 mesi”.

Dall’abolizione della scala mobile, avviata con il referendum del 1985, i salari hanno molto perduto. La situazione si è aggravata negli ultimi trent’anni (è del 23 luglio 1993, abbiamo visto, il primo accordo interconfederale post scala mobile).

La massa salariale è scemata in modo esponenziale. l’Istat prevede che quest’anno il potere d’acquisto delle famiglie calerà almeno del 5% (la valutazione è benevola).

Secondo l’OCSE, l’Italia è l’unico Paese sviluppato nel quale durante gli ultimi trent’anni i salari sono calati del 3%, mentre in Germania sono aumentati del 34%, in Francia del 31% e in Spagna del 6% (Grafico 1).

Grafico 1: dinamica degli stipendi nei Paesi Ocse fra il 1990 e il 2020. Fonte Ocse

In conclusione, il governo e le elites dei gruppi capitalistici dominanti italiani ed europei (oltre gli USA) che hanno alimentato il carovita prima della guerra in Ucraina, e lo hanno incrementato con le loro politiche guerrafondaie e sanzionatorie nel corso del conflitto, stanno scaricando, e hanno in progetto di continuare a scaricare in futuro, tutto il peso della crisi sui subalterni, sulle masse popolari, le quali non dispongono in Italia (e non solo), di adeguati strumenti di difesa e di soggetti sociali e politici che abbiano la volontà e/o i mezzi per sostenerli.

Inflazione, riarmo, politiche monetarie restrittive, stagflazione, incipiente recessione (in alcuni paesi, esempio Regno Unito, già cruda realtà), disoccupazione, erosione dei risparmi, sostanziale estinzione dei pochi residui di welfare, è questo il quadro d’insieme che abbiamo davanti.

Solo un’ampia mobilitazione di massa dei lavoratori e dei pensionati contro il carovita e la guerra, per la difesa dei salari e delle pensioni, per il lavoro, può contrastare la deriva alla quale UE ed USA hanno condannato gran parte dei loro popoli.

Abbiamo precedentemente affrontato le dinamiche dei prezzi energetici e della loro riferibilità, se non in termini assai parziali, al conflitto in corso in Ucraina.

Dedichiamo ora un cenno al caso degli ultimi giorni del prezzo del gas e alle parziali sospensioni della sua erogazione, da parte di Gazprom, a Germania e Italia (totale la sospensione del poco gas erogato alla Francia).

Nelle ultime settimane l’UE ha proposto il piano REPower EU (confronta sopra) di chiusura strategica all’apporto del gas russo alle sue economie, ha stipulato accordi con l’Algeria per la fornitura di gas a parziale copertura di quello russo (gas che l’Algeria ha potuto fornire perché, per ragioni legate ai suoi rapporti bilaterali con la Spagna per la questione del Sahara Occidentale, lo ha completamente sottratto a quest’ultima). Sono stati stipulati accordi tra UE, Israele ed Egitto per la fornitura di GNL, trasformato dall’Egitto, ed arbitrariamente estratto come gas naturale da Israele nel Mediterraneo, senza intesa alcuna con altri Stati, come il Libano, che ne rivendicano pure la propria giurisdizione.

Tale accordo prelude a un ridisegno dell’area mediorientale con l’emarginazione definitiva di Libano e Siria dai grandi movimenti e interessi d’area e con l’allineamento, pressoché completo, (e questo è un fatto nuovo) delle politiche dell’UE e degli USA anche relativamente alla questione palestinese (a quando il riconoscimento di Gerusalemme capitale da parte della burocrazia di Bruxelles?).

È nota poi l’estensione della ricerca di fonti di approvvigionamento alternativo dell’UE a paesi africani e all’Azerbaigian.

Non si può sottacere inoltre che la Germania ha espropriato “Gazprom Germania”, nodo distributivo e finanziario importante di Gazprom nella diramazione del gas in Germania (e non solo).

L’UE ha varato, si è visto, la sesta tornata di sanzioni alla Russia per il petrolio e i prodotti petroliferi.

Dopo tutto questo, si attendeva dall’Occidente che tutto continuasse come prima da parte della Russia, in modo da permettere all’Occidente stesso di completare, in tempo utile per l’inverno, le operazioni di stoccaggio con il gas russo! Sembrano le pretese di un bambino prepotente che sottrae i giocattoli, tutti i giocattoli, a un altro bambino e vuole continuare, col consenso di quest’ultimo, a giocare con lui.

Inflazione e recessione: il caso emblematico dell’Inghilterra

All’inizio dell’anno la banconota britannica era ai massimi degli ultimi anni sull’euro. Nel giro di poche settimane la sterlina è di nuovo nel ciclone e sta perdendo rapidamente posizioni contro euro e dollaro. Ora il Pound è definito “il malato del mondo” tra le valute. Ha subito un calo del 10% sull’euro in tre mesi.

È una flessione molto rapida che si spiega con una scommessa al ribasso sul Paese: gli hedge fund hanno cambiato posizione sulla sterlina. I dati del mercato dei future statunitensi mostrano che i fondi speculativi hanno iniziato a scommettere contro la sterlina: una scommessa che ora vale quasi 5 miliardi di dollari.

Poco prima dell’inizio della guerra, il 24 febbraio, i dati della “Commodity Futures Trading Commission” hanno mostrato che i fondi detenevano una piccola posizione lunga scadenza sulla sterlina e la stessa valuta veniva scambiata a 1,4 sul dollaro. Nove settimane dopo, i fondi sono short (corti) in sterline per un totale di circa 59 mila contratti: è la più grande scommessa contro la sterlina da tempo.

La giravolta degli hadge fund è conseguenza dell’imminente recessione economica. La Banca d’Inghilterra teme una “apocalisse” economica nel 2022. Scrive ”Il Sole – 24 Ore” del 25 maggio: “Sono gli effetti del mondo post covid, che ha visto l’inflazione salire; e della guerra in Ucraina che ha dato una mazzata al costo dell’energia. Il costo della vita sta salendo a ritmi insostenibili: l’inflazione è attesa al 10% a fine anno, e i redditi delle famiglie sono erosi per pagare le bollette e gli affitti. Con meno consumi, in un’economia che vive di servizi, l’economia rallenta. Ecco che allora hedge fund fiutano la preda e [prendono] posizione. Il Regno Unito [che importa energia] ma anche molto cibo e semilavorati, ha fatto forza su accordi commerciali extra Ue per compensare le perdite del mercato unico. Accordi che finora hanno funzionato anche grazie una valuta forte. Per un paese importatore, significa potere d’acquisto. Ma con una sterlina debole […] diventa molto più costoso. E quindi, a cascata, ancora più inflazione e un’economia ancora più in difficoltà”.

E quindi ancora più vendite sulla valuta da parte dei fondi speculativi. Allora rialzo dei tassi e recessione.

Economia di guerra / armi / dollaro

L’Osservatorio del sulle spese militari italiane (Milex) – fondato nel 2016 con la collaborazione del Movimento Nonviolento, nell’ambito di attività della Rete italiana per il disarmo – il 16 marzo scorso riporta il voto a larghissima maggioranza (391 voti favorevoli su 421 presenti, 19 contrari) di un ordine del giorno collegato al decreto “Ucraina” proposto dalla Lega e sottoscritto da PD, FI, IV, M5S,e FdI. Il voto di tale odg impegna il governo ad avviare l’incremento delle spese per la “Difesa” verso il traguardo del 2% del Pil. Nella parte dispositiva del testo approvato, si legge che tale risultato dovrebbe essere raggiunto “predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e di protezione”. Mentre nell’immediato bisogna agire per “incrementare alla prima occasione utile il Fondo per le esigenze di difesa nazionale”. Ciò significherebbe, citando le cifre fornite dal ministro Guerini, passare da 25,8 miliardi l’anno attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno).

L’indicazione di spese militari pari ad almeno il 2% del Pil in ambito Nato deriva da un accordo informale del 2006 dei Ministri della difesa dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica, poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles.

Era stato deciso che l’obiettivo dovesse essere raggiunto entro il 2024, con un 20% di spesa da destinare ad investimenti in nuovi sistemi d’arma.

La quota indicata del 2% del Pil non ha mai avuto una giustificazione specifica e di natura militare, cioè dettata da esigenze operative, ma è stata vista come spinta alla crescita della spesa. Accanto e oltre l’obiettivo del 2% dei paesi Nato, c’è un ulteriore fondo, “European Defence Fund” (Edf), per cofinanziare progetti transfrontalieri insieme ai bilanci nazionali.

L’Edf (cfr. “Il Fatto Quotidiano” del 26 maggio) ha il compito di assemblare le proposte della lobby delle armi di cui è espressione il Commissario europeo alla Difesa Thierry Breton.

“L’anno scorso Breton ha ufficialmente istituito un comitato di esperti in cui cura a porte chiuse i suoi rapporti personali con i giganti del business della guerra che ambiscono a spartirsi gli 8 miliardi stanziati dall’Edf dal 2021 al 2027”.

Al comitato partecipano 61 enti, la stragrande maggioranza produttori di armi. Tra questi l’italiana Leonardo, le francesi Thales e Safran, la spagnola Indra e Airbus, la società transeuropea con sede in Olanda.

Leonardo è tra i produttori di armi con cifre record per finanziamenti UE, spese di lobbyng ed export.

Nell’elenco dei primi 100 esportatori di armi al mondo, stilato nel dicembre 2021 dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace (Sipri) di Stoccolma, Leonardo occupa il 13º posto con vendite per un valore di 10,6 miliardi. In Europa è terza, alle spalle solo del britannica Bae Systems (22,7 miliardi) e della franco-tedesca Airbus (11,3 miliardi).

L’annunciato riarmo europeo (cfr. “Il Fatto Quotidiano” del 27 maggio), spingerà i Paesi a una ristrutturazione dell’industrie nazionali per sedersi al tavolo della futura Difesa comune, evitando duplicazioni nei programmi. Per questa ragione il governo sta mettendo a punto un “polo militare italiano”, secondo le parole di Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, che potrebbe passare dalla fusione tra Fincantieri e Leonardo.

Se la guerra darà impulso al progetto di Difesa europea bisognerà presentarsi con gruppi solidi e punti di forza di fronte ai concorrenti e in tale quadro va vista la liquidazione di Giuseppe Bono di Fincantieri, considerato un ostacolo all’operazione (era proprio quel Bono della cena con D’Alema, quest’ultimo scoperto a fare da mediatore per una commessa alla Colombia di armi di Leonardo e Fincantieri).

Germania e armi

“Quello che non è riuscito all’ex presidente USA Donald Trump”, (“Il Fatto” del 5 giugno scorso) ”è riuscito al democratico Joe Biden. La Germania pagherà. Comincerà col fondo straordinario di 100 miliardi di euro [da spendere in 3-4 anni] […] per ammodernare le forze armate tedesche […]. Gran parte di questi soldi verranno usati per comprare armi prodotte da aziende americane, a partire dagli F-35.”

Il Parlamento federale ha approvato il 3 giugno scorso la modifica della Costituzione necessaria per creare, con nuovo debito pubblico, il fondo di 100 miliardi annunciato dal cancelliere Scholz il 27 febbraio. E’ pure confermato l’impegno ad aumentare lo stanziamento annuale per la difesa al 2% del Pil, prodotto che nel 2021 ha superato 3.500 miliardi di euro (il doppio di quello italiano). Il che significa che raggiungere il 2% entro il 2024 vuol dire spendere quasi 17 miliardi in più all’anno. Ne è conseguita naturalmente una grande impennata delle quotazioni delle industrie tedesche di armi, in primis la Rheinmetall, colosso degli armamenti terrestri, e poi la Hensoldt, che produce sensori elettronici per i caccia Eurofighter.

Giulio Da Silva sul “Fatto” cit., ci spiega che appunto buona parte (dei 100 miliardi) verrà usata per armi statunitensi. La Germania in marzo ha deciso di comprare 35 cacciabombardieri F-35 prodotti dalla Lockheed, gli unici in grado di trasportare bombe atomiche. E intende comprare anche 60 elicotteri pesanti da trasporto prodotti dalla Boeing. Dagli USA verranno comprati anche missili della Raytheon.

Se l’80% degli stanziamenti tedeschi sarà mandato altrove (USA in particolare), il 60% delle armi già comprate dai Paesi UE tra il 2007 e 2016 è di provenienza USA (e Israele).

Regime militare USA e dollaro

Il Sipri (Istituto Internazionale di Ricerche per Pace di Stoccolma) ha calcolato che i primi 100 produttori di armi del mercato mondiale hanno totalizzato nel 2020 vendite per 531 miliardi di dollari. Mentre la spesa militare mondiale del 2021 ha superato per la prima volta i 2.000 miliardi, tenendo conto di tutte le voci ad esempio il personale (Grafico 2).

Grafico 2: andamento delle spese militari mondiali dal 1988 al 2021. Fonte Sipri

Sempre nel 2021 il Paese che ha speso di più sono stati gli USA (801 miliardi di dollari), seguiti da Cina (293 miliardi), India (76,6 miliardi), Regno Unito e Russia (Grafico 3).

Grafico 3: la spesa militare per Stato nel 2021. Fonte Sipri

Dati più recenti che tengono conto dell’incremento poderoso delle spese militari nel corso dell’attuale conflitto, proiettano la spesa USA non lontana da 1.000 miliardi nel 2022.

Le aziende statunitensi dominano, sono 41 tra le prime 100.

I dati elaborati dal Sipri sono riferiti al 2020 e solo ai ricavi nelle “armi e servizi militari”. Al primo posto c’è Lockheed Martin: 58,2 miliardi di dollari di ricavi su 65,4 del gruppo; al secondo Raytheon, si è visto primo produttore mondiale di missili, quali i noti Patriot. Produce anche gli Stinger e, con Lockheed, i Javelin anticarro forniti anche, e abbondantemente, all’Ucraina.

Terza è la Boeing, 32,1 miliardi di ricavi nella difesa (produce aerei da caccia e armi da rifornimento).

La prima europea è la britannica Bae Systems, sesta con 24 miliardi di ricavi nel settore delle armi. Di Leonardo abbiamo già detto.

La strategia, ormai quasi ottantennale degli USA, di “costruire nemici”, meglio se stabili e di lunga durata, è propria delle logiche di ogni Stato e regime militare. Serve a più scopi rimasti nel tempo abbastanza invariati.

In primo luogo è utile ai fini interni per compattare la popolazione e ottenere consenso all’azione del regime. L’adesione acritica diffusa, infantile, della gran parte dei nordamericani è “costruita”, direi scientificamente, utilizzando le più moderne tecnologie e un apparato vasto e complesso di personale e competenze permanentemente mobilitati allo scopo. Spesso collegati o addirittura emanazione della CIA e delle altre strutture simili (negli ultimi trent’anni soprattutto nell’est Europa sotto la veste esteriore di Ong).

In secondo luogo è basilare per la per la riproduzione capitalistica USA, cioè per quella parte di essa, assai importante, che si fonda sul complesso militar-industriale. Una spesa militare di quasi 1.000 miliardi all’anno destinata in misura rilevante a commesse verso le proprie aziende militari le quali grazie anche al trasferimento dell’innovazione tecnologica realizzata con fondi pubblici facilitano l’export di armamenti che risulta una voce di primo piano del Pil statunitense e della sua bilancia dei pagamenti (Grafico 4).

Grafico 4: i principali 10 Paesi esportatori di armamenti nel quinquennio 2017-21. Fonte: Sipri.

Qual è lo strumento che si è rivelato storicamente più efficace non solo per il predominio geopolitico, ma per la supremazia valutaria e finanziaria su scala planetaria?

È la forza, la forza militare, la preponderanza strategico-militare. Che è (o è stata) anche preponderanza tecnologico-scientifica.

La forza del dollaro, la possibilità per gli USA di ottenere “in perpetuo” il finanziamento del proprio cronico deficit esterno mediante l’uso dell’avanzo delle bilance dei pagamenti degli altri Stati, cioè con il risparmio mondiale, dipendono dalla (finora) grande affidabilità del dollaro e dall’enorme movimento di capitali planetari verso i porti della finanza americana. E tutto questo discende da varie cose, di cui una è essenziale: la primazia militare.

Per tale ragione le opposizioni – quale quella russa per interposta Ucraina – all’ormai longevo modello statunitense, destano reazioni viscerali e un’aspra volontà di annichilimento dell’oppositore, meglio se attraverso conflitti (degli altri) di lunga durata.

Quindi opporsi ai disegni guerrafondai degli USA, per interposta Nato e con l’assistenza ancillare dell’UE, è opporsi a quel modello e al conseguente signoraggio del dollaro.

Quale Russia?

Due mesi e mezzo fa (a 45 giorni dall’inizio delle ostilità) erano state valutate in più di 600 le multinazionali che si supponeva avessero deciso o annunciato di uscire in tutto o in parte dalla Russia. Nei settori più diversi, da petrolio e hamburger all’high tech, media e banche.

Secondo Jeffrey Sonnenfeld, dell’Università di Yale, gran parte delle imprese in uscita era statunitense ed europea con alcune rilevanti eccezioni asiatiche come Samsung e Toyota.

Del complesso delle aziende alcune si ritirarono (all’aprile scorso 250), altre sospesero le attività (257), altre si ridimensionarono (72), altre ancora presero tempo (99), rinviando gli investimenti. Secondo Sonnenfeld erano 194 i gruppi, per così dire, “arroccati” in Russia. Tra questi la conglomerata USA Koch Industries, Astra-Zeneca, J&J (“Il Sole – 24 Ore”del 9 aprile scorso).

Tra le italiane, l’ad (Amministratore Delegato) di Intesa San Paolo, Carlo Messina, ebbe a dichiarare in aprile che l’impatto sulla banca fosse “assolutamente gestibile”, mentre la presenza in Russia fosse ormai “in fase di revisione strategica”. Intesa “sin dall’inizio della crisi […] non ha perfezionato nuovi finanziamenti con controparti russe e bielorusse e ha interrotto le attività di investimento in strumenti finanziari”. L’esposizione complessiva di Intesa San Paolo verso la Russia era al momento di circa 5,1 miliardi di euro.

Più significativa era l’esposizione di Unicredit Russia (13,3 miliardi), presente al Forum di San Pietroburgo del 15-18 giugno (Spief) con Vadim Aparkhov, membro del consiglio di amministrazione della controllata russa AO Unicredit Bank.

Andrea Orcel, ad di Unicredit, nei giorni a ridosso del Forum, a proposito dell’attività della banca in Russia, ha dichiarato: “La nostra esposizione in Russia è stata gestita in modo razionale: l’abbiamo ridotta, ma svalutare il business non è corretto e non è nemmeno in linea con le sanzioni”. In sostanza Unicredit non intende svendere le sue attività in Russia.

L’ad di Enel, Francesco Starace, nei mesi scorsi a più riprese ebbe a dichiarare che il gruppo “non poteva avere un ulteriore crescita in Russia”, ove controlla tre impianti di generazione a ciclo combinato e due impianti eolici. Tutte le strade per lui “erano percorribili”.

Il 16 giugno scorso (cfr. “Il Sole – 24 Ore” del 17 giugno), prima energy company, Enel ha concluso un accordo di vendita di tutti gli asset in Russia. I compratori sono Lukoil (la più importante società petrolifera russa e una delle principali al mondo) e il Fondo privato di investimento Gazprombank-Frezia, non colpiti dalle sanzioni. Enel ha ceduto per 137 milioni di euro il 56,43% che deteneva di Enel Russia. L’operazione deve ancora ottenere il via libera della Commissione governativa russa per il monitoraggio degli investimenti esteri, autorizzazione che non dovrebbe mancare perché, ci spiega Starace, “i compratori hanno già avuto un via libera quando hanno rilevato le catene di distribuzione che la Shell ha venduto in Russia”.

Gli azionisti di riferimento di Lukoil, fino alle dimissioni in aprile di Alekperov, erano appunto Vagit Alekperov (28,30%) e Leonid Fedun (9,32%). Alekperov era un giovanissimo dirigente d’azienda sovietico, il quale, nella veloce transizione dei primi anni Novanta è diventato dirigente dell’azienda privatizzata e poi socio di riferimento della medesima. Le dimissioni, apparentemente per dissenso con l’ “operazione speciale” in Ucraina, per molti in Russia, sono stati un “escamotage” per salvare Lukoil in caso di esito infausto per la Russia della vicenda Ucraina (e per salvare Alekperov stesso). Non si può dire. Vedremo.

Senz’altro la cessione degli importanti asset dell’Enel in Russia è avvenuta a favore di soggetti privati, uno dei quali è un soggetto finanziario.

Per come si presenta, sembrerebbe un’operazione in continuità con il passato.

Un brevissimo cenno a Eni, la quale ha dichiarato di essere pronta a cedere le quote in Blue Stream (detenute con Gazprom). Fermiamoci qui.

La Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, il 25 maggio scorso ha approvato una legge che consente al governo russo di nominare un nuovo management e di fatto espropriare le società (soprattutto USA, giapponesi ed europee) che hanno interrotto la loro attività nel paese, dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, non per motivi economici ma “per sentimenti antirussi” (“Il Sole 24 – Ore” del 26 maggio).

Secondo la Yale School of Management, a fine maggio, sono 500 le società che hanno deciso di lasciare la Russia. Esse rappresentano il 63% delle aziende straniere presenti nel territorio russo prima della guerra, con quasi 40 mila dipendenti e un fatturato di circa 7,5 miliardi di euro. “La lista nera stilata da Mosca comprende decine di multinazionali della logistica, dell’industria energetica, delle tecnologie, dell’automotive, della grande distribuzione: da Maersk a Msc; da Shell a Bp; da Volkswagen-Porsche a Toyota, Volvo e Renault; da Apple a Microsoft a Ibm; da McDonald’s a Starbuks, Levi’s, Ikea [etc.]. Molte di queste hanno sospeso le operazioni, […] altre hanno abbandonato tutto, nonostante i notevoli investimenti” (ib.).

Il 25° International Economic Forum di San Pietroburgo (SPIEF)

Il 6 giugno scorso, in un messaggio agli organizzatori del Forum, il presidente Putin ha parlato dei settori industriali in difficoltà. Si tratta in primo luogo del settore automobilistico sul quale pesa (oltre la partenza di importanti case straniere come Renault e Volkswagen), la mancanza, a causa delle sanzioni, di componenti importate. Ciò costringerà le fabbriche a chiudere via via che le scorte si esauriranno. Anche l’industria siderurgica rischia “sostanziali tagli produttivi nel medio termine”.

Entro fine luglio il Governo, secondo una direttiva presidenziale, dovrà definire una nuova impostazione del budget federale per i prossimi anni, che miri a ridare slancio alla crescita.

Sono molte le domande che nascono di fronte alla genericità del progetto di espropriazione delle realtà industriali dei “paesi ostili” e all’altrettale genericità del “nuovo” budget federale. A chi andranno le industrie espropriate o acquistate? Saranno puramente e semplicemente privatizzate? Chi costruirà i loro progetti industriali? Il management proverrà dal bacino del modello economico putiniano dei decenni precedenti? Le aziende pubbliche e/o pubblicizzate che ruolo avranno nella Russia del post-conflitto?

L’intervento di Putin del 17 giugno scorso alla sessione plenaria del Forum, qualche risposta (non molte) l’ha data.

Dividiamo il suo intervento in due parti: quella dell’attacco (fondato e condivisibile) all’Occidente e quella progettuale.

“Gli Stati Uniti si consideravano l’emissario di dio sulla terra ma ora la Russia sta prendendo il proprio posto in un nuovo ordine mondiale le cui regole sono stabilite da Stati forti e sovrani […]. L’era dell’ordine mondiale unipolare fondato sullo strapotere degli USA è finita”.

“Nulla sarà come prima, nulla è eterno” dice poi il presidente della federazione russa. “Il blitzkrieg economico contro la Russia non è riuscito, non aveva alcuna possibilità di riuscire fin dall’inizio”. Ed ora danneggerà di più chi ha imposto le sanzioni “folli e insensate”, una spada a doppio taglio che potrebbe far perdere all’UE più di 400 miliardi di dollari.

“La Russia” prosegue, “non ha alcuna responsabilità” per la crisi economica e per un’inflazione in Occidente le cui radici, sottolinea, risalgono a prima del conflitto. “La Russia perseguirà l’obiettivo di inflazione al 4% […]”.

“Abbiamo sentito parlare tutti di inflazione putiniana […]. Io penso: ma chi ha ideato questa stupidaggine? Chi non sa né leggere né scrivere. Ecco tutto”.

E ancora: “L’UE ha perso la sua sovranità politica, adottando sanzioni che le si sono ritorte contro e i cui costi ricadranno sulle popolazioni […]. Hanno fatto tutto con le loro mani”.

Per l’Europa poi già si intravede “un aggravamento delle disparità, delle tensioni sociali, dei radicalismi […] e in prospettiva il cambio delle elites al potere”.

Passando alla seconda parte, Putin dichiara che la Russia è “pronta ai cambiamenti globali e propone nuove soluzioni alla crisi”. Bisogna trasformare i problemi in possibilità. “Dobbiamo fare un lavoro sistemico, un piano di sviluppo a lungo termine impostato su alcuni principi chiave”.

In primis il rifiuto dell’isolamento: “La Russia si svilupperà come un’economia aperta, non imboccherà la strada dell’autarchia”.

Il secondo elemento fondamentale è l’appello al contributo degli imprenditori privati, come Oleg Deripaska, che ascolta in prima fila.

La Russia “deve essere in grado di produrre tecnologie chiave”. E’ fondamentale raggiungere “l’indipendenza” nelle alte tecnologie.

E, rivolto agli investitori, anche occidentali: “Il nostro Paese ha un enorme potenziale […] investite qui, investite nella creazione di nuove imprese […]”.

Un ruolo centrale nella Russia post-conflitto sembra destinato allora all’impresa privata interna ed esterna. L’inquietante presenza di gente come Deripaska, lascia aperto il dubbio che si tratti solo di un parziale rimescolamento di ceti capitalistici russi sempre interni al modello e alle caratteristiche proprie del ceto dirigente economico-finanziario russo degli ultimi decenni.

Non basta il riferimento, nella relazione, alle indicizzazioni che sono effettive, al mantenimento di una qualche forma di welfare e a misure di tutela dei ceti subalterni, quali i crediti agevolati, i sussidi, mutui a tassi bassi. Ne basta l’importante aumento (10%), operato nei mesi scorsi, di salari e pensioni medio-bassi per fronteggiare l’inflazione. Parte di tutto questo, e in misura certamente minore, lo vediamo anche in Occidente.

Non è visibile al momento, a giudicare dalle parole di Putin, una chiara volontà di costruire un’architettura economico-sociale “alla cinese”, con un ruolo importante deferito al capitale pubblico (e ai soggetti economici pubblici) e con la relativa capacità di orientamento e controllo, se e quando strettamente necessario, da parte del ceto politico nei confronti di un consistente e intraprendente ceto capitalistico.

Nel discorso di Putin al Forum, le aziende a partecipazione statale, per il futuro, sembrano relegate a un ruolo economicamente e politicamente non più rilevante di quello che occupano ora.

Ma esiste un progetto alternativo e di opposizione nella Russia post-bellica, escludendo, il dissenso dei ceti filo-occidentali delle grandi città legati, per rapporti materiali e culturali, alle multinazionali occidentali?

Non è dato sapere con chiarezza. Di certo il partito comunista di Gennadij Zjuganov ha mostrato da tempo subalternità rispetto al disegno e alla prassi politica dei partiti che hanno sostenuto i vari governi russi.

Concludo affermando che sarebbe un’occasione perduta, per la Russia e anche per le masse popolari dell’Occidente, se tutto o gran parte di quello che è successo e sta succedendo fuori dalla Russia e dentro la Russia si risolvesse alla fine in una operazione puramente geopolitica, oltre naturalmente che di difesa delle popolazioni vessate del Donbass e di resistenza all’aggressività della Nato per interposta Ucraina. E non favorisse i “cambiamenti strutturali” economico-sociali e politici (quantomeno verso un’economia mista del tipo cinese), con la comparsa di nuove soggettività, di nuove rivendicazioni e di nuova democrazia sociale, economica e politica.

Firenze, 22 giugno 2022

Raffaele Picarelli

“CINA. L’irresistibile ascesa.” Nuovo libro di Alberto Bradanini


L’eterotopia, il significato del comunismo cinese e la visione di Mao, la rivoluzione culturale, l’avvento di Deng Xiaoping, i complessi e delicati rapporti di Xi Jinping con gli Stati Uniti. Lo sguardo di Bradanini abbraccia l’evolversi della Repubblica Popolare sin dalla sua nascita nel 1949.
ILLUSTRATO CON FOTOGRAFIE DI ANDREA CAVAZZUTI
pp. 368 – €18

Il presente volume non è scritto per il mondo accademico, né si aggiunge ai tanti libri sulla Cina che elencano dati e tabelle sull’economia cinese. È un’opera ambiziosa e non effimera, che scava alle radici della civiltà cinese. Rappresenta uno strumento essenziale per comprendere politica ed economia della Cina contemporanea, ma anche il modo di pensare dei suoi abitanti.

Questo libro è un ausilio indispensabile per capire un paese immenso e ancora poco conosciuto nella sua complessità, utile per tutti coloro che si accostano alla Cina per curiosità intellettuale, ma anche per chi vi si reca per affari, studio, o per turismo culturale.
In esso vengono riportate dettagliatamente le cifre del miracolo economico cinese, ma il suo merito principale è quello di essere un viatico per comprendere la cultura e la mentalità della Cina, il modo di rapportarsi al mondo esterno dei suoi abitanti e il suo modo di intendere gli affari.

Nella descrizione del contesto cinese si avverte chiaramente il tatto di un esperto conoscitore. L’autore è stato infatti rappresentante d’Italia a Honk Kong e Pechino, osservando in prima persona la realtà e le contraddizioni di un paese che in pochi anni ha vissuto cambiamenti politici, economici e sociali stupefacenti.

Alberto Bradanini Laureato in Scienze Politiche all’Università La Sapienza di Roma, inizia la carriera diplomatica nel 1975. Tra i diversi incarichi ricoperti, dal 1996 al 1998 è stato Console generale d’Italia ad Hong Kong, dal 2008 al gennaio 2013 Ambasciatore d’Italia in Iran, e dal 2013 al maggio 2015 Ambasciatore d’Italia in Cina. È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea.

Viale Manzoni, 39 – 00185 Roma • Tel. +39.06.58334070 • Mob. +39.389.7847802 • info@sandrotetieditore.it
http://www.sandrotetieditore.it

Cina: crescita economica, progresso e trasformazioni sociali. Gli effetti e le politiche di gestione del Covid.

di Andrea Vento

La tempestosa crescita cinese

La struttura economica cinese ha registrato, dalla sua fondazione ad oggi, un eccezionale sviluppo con una crescita del Pil che l’Istituto Nazionale di Statistica della Repubblica Popolare, a luglio 20191, ha quantificato, per il periodo compreso fra il 1949 e il 2018, ad un tasso medio annuo addirittura dell’8,1%.

A seguito dell’approvazione delle “Linee di riforma e apertura economica” che hanno avviato la transizione del sistema economico, a partire dal 1979 e per i due decenni successivi (grafico 1), la Cina ha vissuto una rapida, ma non sempre regolare, crescita con percentuali variabili tra il 4 e 14% annuo. Dopo il rallentamento del biennio 1998-99, a seguito della crisi finanziaria dei Paesi de sud-est asiatico, il tasso di crescita ha iniziato ad aumentare di nuovo sino ad un massimo del 14% nel 2007 alle soglie della crisi globale, per poi gradualmente ridursi sino a stabilizzarsi dopo il 2012 su valori di poco inferiori all‘8% e assestarsi nel quinquennio 2015-19 su incrementi compresi fra il 6 e il 7% (tabella 21).

Da uno sguardo sinottico sui primi 40 anni della fase post-maoista, emerge come, a seguito delle riforme, l’economia cinese sia cresciuta ad una media del 9,4% all’anno, un tasso superiore di oltre 3 volte rispetto al del 2,9% della media mondiale.

Grafico 1: anni 1984-2013. Diagramma lineare: variazione annua del pil in percentuale. Istogramma: crescita entità totale del Pil in reminmbi (o Yuan, con cui si identifica l’unità monetaria di base)

Una straordinaria espansione dell’economia certificata dalla crescita del Pil, il quale, sempre secondo il solito rapporto dell’Istituto Nazionale di Statistica cinese, dai soli 67,9 miliardi di yuan del 1952 ha raggiunto i 90.030 miliardi di yuan (circa 13.140 miliardi di dollari) nel 2018 (con un incremento di ben 1.325 volte), un valore pari al 16% del totale dell’economia mondiale; mentre il Pil pro capite nel 2019 ha superato per la prima volta 10.000, facendo attestare la Cina fra i paesi a sviluppo intermedio3.

Tabella 1: tassi di crescita annuali 2015-2019 rilevati in base a la “Nuova normalità”. Fonte: Banca Mondiale

Tassi di crescita dell’economia cinese 2015-2019
annovariazione %
20156,9
20166,7
20176,8
20186,6
20196,1

Il forte surplus commerciale degli ultimi 15 anni (grafico 2), nonostante sia sotto attacco a seguito della guerra commerciale innescata da Trump, ha consentito alla Cina, ormai prima potenza commerciale mondiale dal 2013, di aver accumulato, sino al 2018 nelle proprie casse, ben 3.070 miliardi di dollari di riserve valutarie, segnando per il tredicesimo anno consecutivo il più alto valore a livello mondiale. La Cina è divenuto il primo partner commerciale, scalzando gli Usa, di Giappone (2004) India (2008) e Brasile (2009)

Grafico 2: andamento import-export Repubblica Popolare Cinese anni 1995 – 2017. Dati in miliardi di dollari provenienti da “THE OBSERVATORY OF ECONOMIC COMPLEXITY”

La “Nuova normalità”

Il delicato passaggio del rallentamento della crescita al di sotto del 10% degli ultimi quindici anni è stato accuratamente pianificato e gestito dalla dirigenza cinese attraverso una specifica politica economica, che approvata nel marzo 2015 dall’Assemblea Nazionale, ha assunto la denominazione di “Nuova normalità”. Quest’ultima prevede non solo la riduzione e l’assestamento dei tassi di crescita per gli anni successivi intorno al 7%, ma come annunciato dallo stesso Primo Ministro Li Keqiang, la Cina «deve con­ser­vare un equi­li­brio tra la neces­sità di assi­cu­rare una cre­scita costante e quella di pro­muo­vere aggiu­sta­menti strutturali». «Met­te­remo in atto la stra­te­gia “Made in China 2025″ -ha proseguito Li Keqiang- cer­cando uno svi­luppo basato sull’innovazione, per­se­guendo lo svi­luppo verde e rad­dop­piando i nostri sforzi per miglio­rare la Cina, facen­dola diven­tare da un pro­dut­tore di quan­tità, uno di qua­lità».

Gli obiettivi individuati dal governo mirano:

  • alla trasformazione dell’apparato produttivo tramite l’espansione del settore Hi-Tech con il conseguente ridimensionamento del manifatturiero a basso costo e basso valore aggiunto,
  • alla diminuzione dell’inquinamento
  • all’innalzamento dei redditi dei ceti inferiori al fine di ridurre le disuguaglianze sociali,
  • ad incrementare la domanda interna per compensare il rallentamento di quella internazionale.

La Cina ha cercato, quindi, di porre rimedio all’andamento incerto, e tendenzialmente in fase di rallentamento, dell’economia mondiale (tabella 2) cercando di aumen­tare i con­sumi nazionali e di creare un «mer­cato interno capace di essere volano dell’economia, per i pros­simi anni a venire», come ha con­cluso il primo ministro Li.

Inizio 2020: il Covid 19 deflagra dall’epicentro di Wuhan

L’esplosione della pandemia ad inizio 2020 nella provincia centrale dell’Hubei e la successiva propagazione all’interno del Paese hanno inevitabilmente generato, a seguito delle stringenti misure adottate dal governo, immediati effetti negativi sull’economia cinese spingendola in recessione nel trimestre iniziale dell’anno (-9,7%); il primo da quando viene effettuata la rilevazione trimestrale dell’andamento economico dal 1992 (grafico 3).

L’efficacia delle politiche governative volte al contenimento della diffusione del virus ha, tuttavia, permesso all’economia cinese, la prima a livello mondiale a subirne gli effetti e a scivolare in pesante recessione nel primo trimestre dell’anno, di riprendere la sua traiettoria di crescita sin dal secondo, mentre le economie europee, nello stesso periodo, scivolavano in profondo rosso.

Il corposo rimbalzo del secondo trimestre (+11,6%) ha consentito all’economia cinese l’immediato recupero del terreno perso nel primo e, nella seconda metà dell’anno, di ritornare a livelli di crescita addirittura superiori a quelli antecedenti l’esplosione della pandemia.

In pratica, ad un solo mese di distanza dalla dichiarazione dello stato di pandemia mondiale da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità avvenuta l’11 marzo 2020, mentre i Paesi sviluppati iniziavano a sprofondare nel baratro della recessione, le autorità cinesi l’8 aprile già procedevano alla rimozione del durissimo lockdown introdotto il 23 gennaio a Wuhan e nell’intera provincia dell’Hubei.

Straordinario risultato senza dubbio riconducibile in primis alle misure di gestione della pandemia da parte delle autorità cinesi che l’articolo “China’s success full control of Covide-194, pubblicato dalla prestigiosa rivista medica The Lancet – Infectious Diseases (grafico 3), individua in:

  • un sistema centralizzato di gestione delle epidemie
  • misure restrittive particolarmente stringenti
  • un sistema nazionale di tracciamento dei contatti
  • capacità di adattare l’apparato industriale all’impennata della domanda di dispositivi di protezione individuale (dpi) come mascherine, camici e di altro materiale medico come i ventilatori polmonari
  • la collaborazione attiva della popolazione nel rispettare le misure adottate dal governo
  • sistematico controllo della trasmissione del virus sui territori e dei flussi di persone dall’estero
  • scarsa presenza, solo il 3% del totale, di popolazione anziana in strutture di riposo.

Grafico 3: andamento dei contagi nella Rep. Popolare Cinese nei primi 11 mesi del 2020.

Conferma in tal senso arriva anche dal dr Gregory Poland, direttore del Vaccine Research Group della Mayo Clinic of Rochester (Usa), i quale ha individuato nella rapidità di risposta l’arma più efficace adottata dal governo, specificando che “In Cina hai una combinazione tra una popolazione che prende sul serio le infezioni respiratorie ed è disposta ad adottare interventi non farmaceutiche, con un governo che può imporre forti limitazioni alla libertà individuale che non sarebbe considerate accettabili nella maggior parte dei Paesi occidentali. L’impegno per il bene superore è radicato nella loro cultura; non c’è l’iperindividualismo che caratterizza gli Stati Uniti e che ha guidato gran parte della resistenza alle contromisure contro il Covid”.

Risultati eccezionali non solo per la gestione della prima fase pandemica ma soprattutto perché ha evitato le varie ondate successive che invece hanno investito la quasi totalità dei Paesi.

Grafico 4: variazione percentuale trimestrale del Pil della Repubblica Popolare Cinese (2018-2021)

2020: la pandemia si abbatte sull’economia mondiale

L’impatto della pandemia ha, invece, prodotto effetti devastanti sull’economia globale, spingendola a fine 2020, secondo la Banca Mondiale, in una delle peggiori recessioni dal 1870. L’eccezionalità della crisi innescata dalla pandemia viene confermata anche dal capo economista dell’Ocse, Laurence Boone, durante la presentazione dell’Outlook sull’economia mondiale il 16 settembre 2020 a Parigi: “il mondo sta scontando il più drammatico rallentamento dai tempi della Seconda Guerra Mondiale”5, indicando una riduzione del 5,5%, di poco superiore al 4,8% previsto dal Wto il 6 ottobre dello stesso anno (tab. 2). Recessione che in era di globalizzazione è stata inevitabilmente accompagnata da una riduzione ancor più brusca del commercio internazionale di beni, addirittura, stimata di entità doppia (-9,2%) rispetto al calo del prodotto lordo mondiale. Ciò a seguito anche della riorganizzazione delle catene globali del valore (Global Value Chains – GVC) improvvisamente rivelatesi fonte di fragilità e dipendenza dall’estero per le economie sviluppate. A seguito di ciò, le potenze industriali europee e, soprattutto, gli Stati Uniti, hanno cercato di riacquisire parziale “Autonomia strategica” (Fonte: Ocse 2020), quanto meno nei settori sensibili, imprimendo un nuovo impulso alle politiche di reshoring, che seppur restando fenomeno di dimensioni ridotte, hanno l’obiettivo strategico di mettere in sicurezza quanto meno le produzioni essenziali per l’interesse nazionale6.

Tabella 2: variazione annua % Pil e commercio di beni mondiale 2015-2021. Fonte: Wto – 6 ottobre 20207


Periodo

2015

2016

2017

2018

2019

2020
previsioni

2021
previsioni
Prodotto Lordo Mondiale
2,8

2,4

3,1

2,9

2,2

-4,8

4,9
Commercio Mondiale di beni
2,3

1,6

4,6

3,0

-0,1

-9,2

7,2

Previsioni macroeconomiche indubbiamente drammatiche quelle delle due istituzioni internazionali, solo lievemente attenuate dai dati definitivi rilevati e diffusi dal Fmi per lo scorso anno, a seguito della sensibile ripresa dell’economia mondiale dell’ultima parte dell’anno. Il prodotto lordo mondiale subisce, infatti, un contraccolpo del – 4,6%, con i Paesi europei, i primi ad essere investiti dal Covid-19 dopo quelli asiatici, che registrano le situazioni più gravi: Regno Unito -9,9%, Italia -8,9%, Francia -8,3%, mentre la Germania si ferma ad un solo -4,8%. Tutti valori superiori sia alla media mondiale, sia al dato degli Stati Uniti (-3,5%) che confermano come l’Europa, e in particolare l’area dell’euro (-6,5%), abbia subito le ripercussioni economiche più gravi su scala globale (tab 3).

Nel contesto di questo panorama mondiale recessivo, spicca in senso inverso la situazione della Cina che registra nel 2020, sempre secondo il Fmi, un’espansione dell’economia pari al 2,3%, tasso che pur risultando il più basso degli ultimi 40 anni (grafico 1) consente, tuttavia, al gigante asiatico, da un lato, di annoverarsi come unico paese in crescita fra le principali 20 economie mondiali (G20) e, dall’altro, di alleviare la gravità della recessione globale. Una performance inferiore solo a quella del Vietnam, Paese con modello politico-economico simile a quello cinese, del Bangladesh (+3,8%) già in fase di forte crescita prima della pandemia e dell’Etiopia, uno degli stati africani più dinamici, che registra un eccezionale +6,1%.

L’immediata ripresa dell’economia cinese, oltre alle rigide ed efficaci misure di contenimento della pandemia adottate dal governo, è frutto dell’implementazione di incisive politiche economiche basate su tre linee di intervento: un cospicuo aumento della spesa pubblica corrente (+10,5%), l’eccezionale ripresa dell’export (+30%) e un sensibile incremento degli investimenti pubblici produttivi e infrastrutturali (+14,9%) che ha compensato la diminuzione degli investimenti privati8. In sintesi il governo ha attuato un aumento del disavanzo pubblico imponendo agli istituti bancari di rifinanziare le linee di credito e di posticipare le scadenze e alle imprese pubbliche di aumentare gli investimenti con immediate ricadute positive sia sulla diminuzione dei consumi familiari, fermatisi a -5,8%, che sulla ripresa economica.

Tabella 3: variazione % Pil 2020 e previsioni 2021

AnnoEconomia mondialeCinaRegno UnitoItaliaFraGerUsaArea euroEcon Svil
2020 Dati definitivi
-4,6

2,2

-9,9

-8,9

-8,3

-4,8

-3,5

-6,5

-4,6
2021 previsioni di luglio
6,0

8,1

7,0

4,9

5,8

3,6

7,0

4,6

4,4
Fonte: Wto – luglio 2021 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2021/07/27/world-economic-outlook-update-july-2021

L’opposto andamento dell’economia cinese rispetto a quella mondiale e dei principali competitors, registrato nel 2020, ha inevitabilmente avuto riflessi sulla geoeconomia globale, nel cui contesto Pechino ha ampliato il proprio ruolo e il proprio peso aumentando dell’1% la quota di prodotto lordo mondiale, salendo al 18,3%, al cospetto degli Usa che restano stabili e dell’Ue che dal 15,4% del 2019 è sceso al 14,9%, un declino peraltro in atto da tempo, con il nostro Paese in prima fila sceso in solo anno da poco meno il 2% all’1,87%9.

Divergenti dinamiche di recupero post pandemico che hanno, inevitabilmente, avuto riflessi sulle traiettorie di crescita delle due economie che secondo il report del Centre for Economics and Business Research (Cebr)10 del 26 dicembre 2020, si incroceranno ben 5 anni prima rispetto alle previsioni pre Covid. In sostanza, nel caso le previsioni dell’autorevole centro di ricerca si riveleranno centrate, già nel 2028 la Repubblica Popolare Cinese si ergerà ai vertici della graduatoria delle potenze economiche mondiali, scalzando gli Stati Uniti.

Alla luce di tali dinamiche geoeconomiche che vanno interpretati alcuni recenti provvedimenti dell’amministrazione Biden tesi a ridimensionare la presenza militare Usa nello scenario Mediorientale, Afghanistan compreso, per aumentarla nello scacchiere Asia-Pacifico, rivitalizzando la politica obamiana del “Pivot to Asia” finalizzata al contenimento dell’espansione cinese nell’area.

Sviluppo economico e progresso sociale

La tumultuosa crescita cinese ha prodotto, per il Paese nel suo complesso, eccezionali progressi in campo economico, come abbiamo appena analizzato, con significativi riflessi positivi anche a livello sociale. Secondo la Banca Mondiale, da quando a fine 1978 Deng Xiao Ping ha fatto approvare “Linee di riforma e apertura economica”, circa 850 milioni di cinesi sarebbero usciti dalla povertà estrema, dei quali 770.000 residenti nelle aree rurali. Un’opera ciclopica mai realizzata prima nella storia dell’umanità che rappresenta il 70% del totale delle persone uscite dalla povertà nel periodo considerato a livello mondiale e che corrisponde alla popolazione dell’Ue a 27 (469 milioni) e degli Stati Uniti (329 milioni)11 messi insieme.

Risultati in linea con il recente progetto di “vitalizzazione delle campagne”, lanciato dal governo il 4 febbraio 2018, tramite il quale è stato prefissato l’obiettivo di far crescere l’economia delle aree rurali e ridurre, entro il 2034, lo squilibrio città/campagna, con lo scopo intermedio di eliminare completamente la povertà nel 2020, come previsto dall’ultimo ciclo di lotta alla povertà inaugurato nel 2012, quando i cinesi in povertà assoluta ammontavano a 98,99 milioni.

Eccezionali progressi che, nonostante la crisi recessione da Covid-19 del primo trimestre 2020, hanno consentito al presidente cinese Xi Jimping, in una cerimonia ufficiale a Pechino, di dichiarare, il 25 febbraio 2021, “vittoria totale” nella lotta alla povertà, a seguito dell’uscita dalla miseria degli ultimi milioni di persone ancora presenti nelle aree rurali12  

Specifichiamo tuttavia che in condizione di povertà estrema attualmente in Cina si trova una persona con un reddito annuo inferiore ai 3.218 yuan, corrispondenti al cambio attuale a circa 1 euro e 10 centesimi al giorno13, un parametro, quindi, meno stringente rispetto alla soglia fissata dalla Banca Mondiale di 1.90 dollari al giorno (1,61 euro)14.

Le trasformazioni del corpo sociale cinese: i nuovi ricchi

La struttura sociale cinese, come abbiamo già accennato, dopo l’egualitarismo dell’era maoista, ha subito profonde trasformazioni con la formazione di una corposa classe media composta attualmente da 430 milioni di persone15 che, concentrate in prevalenza nelle aree urbane, insieme all’elite socio-economica composta dai nuovi ricchi, rappresentano i ceti economicamente in fase di espansione. Infatti, se la prima si è in pratica formata nel breve arco di 2 decenni, anche i secondi, i più facoltosi, sono in rapida crescita come testimoniato dal Billionaires Report 2018, dal quale emerge come miliardari, non i soli componenti di questa classe sociale, in Cina siano passati dai 16 del 2006 ai ben 373 nel 2017 e con un trend in accelerazione visto che proprio in quell’anno se ne sono registrati 89 di nuovi, esattamente il triplo rispetto agli Usa. I miliardari cinesi, circa un quinto del totale mondiale, hanno, inoltre, incrementato il loro patrimonio del 39% rispetto al 2016, facendolo salire a 1.120 miliardi di dollari16.

L’immediata ripresa economica post pandemica hanno innescato un’ulteriore accelerazione al trend sopra analizzato, come testimoniato dal report della Hurun Rich List 2020, l’equivalente cinese della rivista Forbes, del 21 ottobre 2020, il quale ha rilevato una sensibile crescita, rispetto all’anno precedente, del numero di miliardari cinesi e delle loro ricchezze. I miliardari, in un solo anno, aumentano, infatti, di 257 unità facendo salire il numero totale a 878 consentendo di superare addirittura quelli statunitensi (788) con i loro patrimoni che incrementano di ben 1.500 miliardi di $ facendo salire il valore dei loro asset a ben 4.000 miliardi di $. Il solo Jack Ma, cofondatore di Alibaba, incrementa il suo patrimonio di ben il 45%, confermandosi per il terzo anno consecutivo in testa alla graduatoria con un patrimonio di 59 miliardi di $.17

La classe media emergente

 La classe media cinese emergente è contraddistinta da un’educazione di alto livello, è informata, abituata a viaggiare, orientata all’acquisto di prodotti tecnologici, all’utilizzo dei social network e allo shopping online e apprezza i prodotti occidentali e, in particolare, il made in Italy, pertanto rappresenta, soprattutto per la sua entità numerica, il ceto su cui il governo fa leva per l’espansione dei consumi interni. Il rapporto di McKinsey 2013, che fissava il reddito della classe media cinese tra i 9 mila e 34 mila dollari all’anno, aveva previsto che nel 2022 il 75% dei consumatori urbani della Repubblica popolare sarebbe appartenuto a tale fascia, confermando sia la sua crescita numerica, sia la sua concentrazione nelle aree urbane dell’area costiera, a più alto tasso di urbanizzazione e maggiormente progredita dal punto di vista economico.

Un ceto sociale, al pari dei nuovi ricchi, strettamente legato al Partito Comunista in quanto il processo di espansione dell’economia è stato, e resta tutt’ora, subordinato al successo delle politiche implementate dal governo. A smentire le previsioni di alcuni politici e analisti occidentali, in particolare statunitensi, in base alle quali la classe media una volta raggiunta la prosperità economica avrebbe iniziato ad avanzare richieste di riforme politiche in modo da arrivare a scardinare l’egemonia del Partito Comunista dall’interno, è stato lo stesso Quotidiano del popolo. L’organo ufficiale di stampa del Pcc, nel 2017 ha, infatti, affermato, che l’ascesa della classe media non rappresenta una sfida all’autorità del Partito, anzi è fondamentale per sostenerne la legittimità. L’articolo, andava oltre, specificando addirittura che la classe media era diventata una forza trainante nel mantenimento della stabilità interna e che i paesi che ne risultano sprovvisti, come quelli mediorientali e latinoamericani, affrontano crisi politiche e turbolenze sociali cicliche. 

A conferma delle strette interrelazioni presenti fra la leadership politica e il ceto imprenditoriale cinese rileviamo le donazioni spontanee effettuate da alcuni dei nuovi ricchi a seguito del lancio della politica della “Prosperità condivisa” il 17 agosto u.s. tesa a ridurre gli squilibri e ad aumentare il tenore di vita dei ceti più bassi, chiamando a contribuire i soggetti che grazie allo sviluppo economico promosso dal Partito Comunista Cinese sono riusciti ad arricchirsi enormemente negli ultimi 2 decenni. A seguito delle dichiarazioni del presidente Xi Jimping rispetto alla finalità di “aggiustare i redditi eccessivamente alti” e di “rettificare la loro distribuzione” e promuovere la “prosperità condivisa”, invece che una levata di scudi da parte dei nuovi ricchi come sarebbe successo nella quasi totalità dei Paesi, si sono registrate una serie di corpose donazioni da parte dei nuovi ricchi a beneficio delle casse statali da impiegare nelle politiche reddituali perequative a favore dei meno abbienti. Attento alle sollecitazioni governative Jack Ma, i primi di settembre, ha tempestivamente annunciato una donazione spontanea al fondo perequativo di 15,5 miliardi di $ dando la stura a comportamenti analoghi da parte dei suoi pari gradi.

Conclusioni

Arricchirsi è glorioso, sosteneva Deng Xiaoping all’indomani dell’approvazione delle Riforme a fine 1978. Oggi con Xi Jimping le politiche stanno cambiando e forse non è casuale che il ritorno di centralità del pensiero di Mao, al quale il presidente in carica dichiara di volersi ispirare, venga accompagnato da significativi correttivi alle linee di politica economica: non è certo un ritorno all’egualitarismo dell’economia socialista e collettivista. Tuttavia, le ultime politiche economiche cinesi, tendenti alla prosperità di tutto il popolo, all’equità e alla pace sociale, rappresentano nuovi paradigmi che potrebbero aprire spazi di riflessione anche in Occidente.

Andrea Vento – 9 Ottobre 2021

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

NOTE

1 http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/dalla_cina/2019/07/02/in-70-anni-pil-cina-cresciuto-dell81-medio-lanno_816fb340-4d29-4a64-a499-4269d2b13351.html

2 https://www.ilsole24ore.com/art/cina-crescita-mai-cosi-bassa-1990-2019-solo-61percento-AC7hvcCB?refresh_ce=1

3 https://www.ilsole24ore.com/art/cina-crescita-mai-cosi-bassa-1990-2019-solo-61percento-AC7hvcCB

4 https://www.thelancet.com/journals/laninf/article/PIIS1473-3099(20)30800-8/fulltext

5 https://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Coronavirus-Ocse-Peggiore-crisi-dal-dopoguerra-Pil-Italia-10-5-2020-5-4-2021-9187bd81-ba9a-4e88-bc70-b22accaf0915.html

6 https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/06/01/reshoring-globalizzazione-pandemia/

7 https://www.wto.org/english/news_e/pres20_e/pr862_e.htm

8 https://aspeniaonline.it/la-via-cinese-alla-ripresa-post-covid/

9https://www.bancafucino.it/sito-istituzionale/sala-stampa/fucino-social/la-pandemia-ha-accelerato-lavvicinamento-dei-paesi

10 https://cebr.com/

11

12 https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/notiziario_xinhua/2021/02/25/xi-dichiara-vittoria-totale-cinese-sulla-poverta_7dd927ff-ca18-4ea1-a881-415cf4515f30.html

13 https://www.internazionale.it/reportage/gabriele-battaglia/2020/08/10/cina-poverta

14 https://aspeniaonline.it/articolo_aspenia/quanto-pesa-e-cosa-vuole-la-classe-media-in-cina/

15 http://www.limesonline.com/rubrica/la-cina-inizia-anno-del-cane-con-la-lotta-alla-poverta

16 https://cinainitalia.com/2019/03/12/miliardari-cinesi/

17 https://www.ansa.it/canale_lifestyle/notizie/lusso/2020/10/21/in-cina-i-miliardari-battono-il-covid-piu-ricchi-che-mai_82f4648e-cfef-4284-9d12-3622f538bac6.html

PERCHE’ IL LABORATORIO DI FORT DETRICK DOVREBBE ESSERE INVESTIGATO PER TRACCIARE LE ORIGINI GLOBALI DI COVID-19

PERCHE’ E’ NECESSARIO INVESTIGARE I LABORATORI USA PER LE ORIGINI GLOBALI DI COVID-19

di Fan Lingzhi, Huang Lanlan, Zhang Hui (dal Global Times)

Fonte Articolo originale in inglese del 28 giugno 2021: https://www.globaltimes.cn/page/202106/1227219.shtml

La teoria del lab-leak, secondo la quale il COVID-19 sarebbe fuoriuscito da un laboratorio, ha nuovamente suscitato clamore dall’inizio di quest’anno, mesi dopo che l’argomento era stato gettato nel cestino delle teorie della cospirazione da un numero schiacciante di scienziati.

Gli osservatori hanno scoperto che le cose si complicano solo quando l’origine del coronavirus – una questione scientifica già difficile – è impigliata in trucchi di manipolazione politica. Passando al setaccio più di 8.000 notizie relative alla teoria della fuga dal laboratorio, il Global Times ha scoperto che ben il 60% della copertura proveniva dai soli Stati Uniti.

Vale la pena notare che molti media del mondo occidentale guidato dagli Stati Uniti, che hanno pubblicizzato la teoria della fuga dai laboratori, sono disposti a concentrarsi solo sui laboratori cinesi, anche se sono stati accuratamente indagati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), mentre chiudono un occhio sulle istituzioni americane di ricerca biologica più sospette, come il famigerato US Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID) a Fort Detrick, Maryland.

L’USAMRIID è stato temporaneamente chiuso nel 2019 dopo un’ispezione del Centers for Disease Control and Prevention (CDC). Anche se questo misterioso laboratorio ha riportato la ragione della chiusura come “problemi infrastrutturali in corso con la decontaminazione delle acque reflue”, la spiegazione non era abbastanza persuasiva. Il Global Times ha scoperto che il fallimento del laboratorio nel controllare le tossine sembra aver allarmato le istituzioni legate al contrasto delle armi di distruzione di massa negli Stati Uniti.

Ricomparsa della teoria della fuga dal laboratorio

Uno studio congiunto sulle origini del COVID-19 da parte di esperti cinesi e dell’OMS a marzo ha respinto la teoria del complotto “lab-leak”. Più prove indicavano il fatto che il virus era probabilmente passato dai pipistrelli agli esseri umani attraverso un altro animale intermediario, ed era “estremamente improbabile” che fosse trapelato da un laboratorio, diceva il rapporto dello studio.

Ciononostante, la teoria della fuga dal laboratorio non è scomparsa; invece, soprattutto dall’inizio di maggio, è stata ampiamente promossa da alcuni politici e media statunitensi come una “scienza plausibile”. In un articolo pubblicato sul Bulletin of the Atomic Scientists il 5 maggio, senza alcuna prova, lo scrittore scientifico Nicholas Wade ha sostenuto che “i sostenitori della fuga dal laboratorio possono spiegare tutti i fatti disponibili sulla SARS2 considerevolmente più facilmente di quelli che favoriscono l’emergenza naturale.”

Giorni dopo, il Wall Street Journal ha riferito il 23 maggio che tre ricercatori del Wuhan Institute of Virology (WIV) “si sono ammalati abbastanza nel novembre 2019 da richiedere cure ospedaliere”, e avevano “sintomi coerenti sia con il Covid-19 che con le comuni malattie stagionali”. Il rapporto del WSJ ha citato un “rapporto dell’intelligence statunitense precedentemente non divulgato”.

Il 26 maggio, il presidente Biden ha dichiarato di aver ordinato alla comunità di intelligence degli Stati Uniti di “raddoppiare” i suoi sforzi per indagare sulle origini del COVID-19. Il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan ha persino affermato il 20 giugno che la Cina dovrà affrontare “l’isolamento nella comunità internazionale” se non collabora con un’ulteriore indagine sull’origine della pandemia COVID-19, ha riportato Bloomberg quel giorno.

La pressione dei politici e dei media sembra aver colpito alcuni autorevoli scienziati medici negli Stati Uniti, tra cui il direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) statunitense, Anthony Fauci. L’11 maggio, dopo che Rand Paul, un repubblicano al Senato, ha accusato Fauci di aver aiutato il laboratorio di Wuhan a “creare” il virus, Fauci ha negato con forza l’accusa ma ha detto di essere “pienamente a favore di qualsiasi ulteriore indagine su ciò che è successo in Cina.”

Questo improvviso cambiamento di atteggiamento di alcuni esperti statunitensi è dovuto alla pressione politica che hanno ricevuto, ha detto un virologo cinese al Global Times. “Ai media occidentali piace fare agli esperti domande fuorvianti, come “è (la fuga di notizie del laboratorio) assolutamente impossibile?”” ha detto il virologo che ha chiesto l’anonimato.

È molto difficile per gli esperti rispondere a una domanda del genere, poiché la possibilità, anche se molto piccola, esiste ancora, ha detto il virologo. “Tutto quello che possono dire è “è possibile””, ha detto al Global Times. In realtà, la maggior parte degli esperti di solito aggiunge “ma è altamente improbabile” dopo “è possibile”, ma i media presentano solo la parte che conferma i loro pregiudizi, ha detto.

I grandi dati mostrano che gli Stati Uniti stanno spingendo la narrazione della teoria della fuga di laboratorio COVID-19. Tra gli 8.594 pezzi di notizie relative alla “fuga di laboratorio” che il database GDELT ha raccolto dal 2020, 5.079 erano dagli Stati Uniti, pari al 59 per cento. Dopo gli Stati Uniti c’erano il Regno Unito (611 pezzi) e l’Australia (597 pezzi). Quasi tutta la copertura ha preso di mira il laboratorio WIV.

Mentre gli Stati Uniti si concentrano esclusivamente sui laboratori cinesi, raramente prestano attenzione ai difetti dei propri laboratori nazionali, alcuni dei quali hanno anche innescato incidenti legati ai virus in passato. Secondo un articolo dell’agosto 2020 di ProPublica, una redazione indipendente che produce giornalismo investigativo, l’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill ha segnalato 28 incidenti di laboratorio che coinvolgono organismi geneticamente modificati ai funzionari della sicurezza del National Institutes of Health tra gennaio 2015 e giugno 2020. “Sei degli incidenti hanno coinvolto vari tipi di coronavirus creati in laboratorio”, ha detto ProPublica nell’articolo. “Molti sono stati ingegnerizzati per consentire lo studio del virus nei topi”.

Stranamente, pochissimi media mainstream statunitensi hanno sollevato la questione se esiste la possibilità che il COVID-19 sia trapelato dai laboratori statunitensi, ha detto il virologo cinese. “Non osano chiederlo”, ha detto.

In un articolo pubblicato sul blog politico indipendente Moon of Alabama il 27 maggio, l’autore ha sottolineato che l’ipnosi di alcuni occidentali sulla cospirazione della fuga di Wuhan è simile al trucco che gli Stati Uniti hanno giocato per spingere la guerra in Iraq nel 2002 – gli Stati Uniti hanno affermato che “Saddam Hussein avrà presto un’arma nucleare”, che era “un’evidente sciocchezza”, ha detto l’autore.

“La teoria della ‘fuga di laboratorio’ è simile alla rivendicazione delle armi di distruzione di massa – una speculazione senza prove promossa a lungo da un’amministrazione di orientamento neoconservatore che era estremamente ostile al paese ‘colpevole’ in questione”, ha detto l’autore.

La teoria della fuga dal laboratorio, quindi, “non è solo una storia implausibile e senza prove di una fuga dal laboratorio della SARS-CoV-2”, ha notato l’autore. “È una campagna lanciata per dipingere la Cina come un nemico del genere umano”.

Preoccupazioni internazionali sui laboratori biologici statunitensi

Gli Stati Uniti hanno molti laboratori biologici in 25 paesi e regioni in Medio Oriente, Africa, Sud-Est asiatico e negli stati dell’ex Unione Sovietica, con 16 solo in Ucraina. Alcuni di questi laboratori hanno visto epidemie su larga scala di morbillo e altre pericolose malattie infettive, secondo i rapporti dei media.

La comunità internazionale ha spesso espresso preoccupazione per le attività di militarizzazione biologica degli Stati Uniti in altri paesi.

Nell’ottobre 2020, il vice presidente del Consiglio di sicurezza della Russia, Dmitry Medvedev, ha detto che le attività di ricerca degli Stati Uniti nei laboratori biologici nei membri della Comunità degli Stati indipendenti hanno causato grave preoccupazione. Gli Stati Uniti non solo costruiscono laboratori biologici in questi paesi, ma cercano di farlo anche in altri luoghi del mondo. Tuttavia, la loro ricerca manca di trasparenza e va contro le regole della comunità internazionale e delle organizzazioni internazionali.

Anatoly Tsyganok, membro corrispondente dell’Accademia Russa di Scienze Militari e professore associato della Facoltà di Politica Mondiale all’Università Statale Lomonosov di Mosca, ha detto al Global Times che i test di armi biologiche e batteriologiche sul territorio degli Stati Uniti sono vietati dal Congresso degli Stati Uniti. Ha detto che l’esercito statunitense ha effettuato e sta ancora effettuando test di armi biologiche e batteriologiche in Georgia.

Questo viene fatto con il pretesto di fornire ai malati vari vaccini terapeutici condotti dall’esercito statunitense e da appaltatori privati americani presso il Richard Lugar Center for Public Health Research, ha detto Tsyganok. I test correlati sono stati esposti da vari media.

Nel dicembre 2015, 30 pazienti del centro di ricerca che erano in trattamento per l’epatite C sono morti. Ventiquattro di loro sono morti lo stesso giorno, e la loro causa di morte è stata elencata come “sconosciuta”, secondo Tsyganok e Russia news outlet.

I residenti dei quartieri intorno a questi laboratori lamentano spesso problemi di salute.

La giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva ha pubblicato una storia sul centro Lugar all’inizio del 2018. Nelle sue interviste per il rapporto, la maggior parte dei residenti che vivevano vicino ai laboratori si lamentavano di mal di testa, nausea e pressione alta. Hanno anche detto che c’era del fumo nero proveniente dal laboratorio.

USA Today ha riferito che dal 2003, centinaia di incidenti che coinvolgono il contatto accidentale con agenti patogeni mortali si sono verificati nei bio-laboratori statunitensi in patria e all’estero. Questo può causare l’infezione dei contatti diretti, che possono poi diffondere il virus nelle comunità e iniziare un’epidemia.

Un membro dell’Accademia Russa delle Scienze, Armais Kamalov ha detto in un’intervista alla TASS all’inizio di giugno che lo sviluppo di virus geneticamente modificati come armi biologiche dovrebbe essere soggetto allo stesso divieto mondiale come il test di armi nucleari. Ha citato i laboratori statunitensi in Georgia e Armenia come riferimento.

“Ci sono molti laboratori, che oggi sono finanziati dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Non è un segreto che sono in Georgia, Armenia e altre repubbliche. È sorprendente che l’accesso a questi laboratori sia off-limits, e non capiamo cosa stiano facendo lì”, ha detto.

Cosa era successo nel luglio 2019?

I terribili record di sicurezza dei laboratori biologici americani nel mondo mostrano una possibilità di fuga di un virus da un laboratorio americano. Molti indicano la chiusura del laboratorio di Fort Detrick nel luglio 2019.

Nel luglio 2019, sei mesi prima che gli Stati Uniti riportassero il primo caso COVID-19, il laboratorio dell’esercito a Fort Detrick che studia materiale infettivo mortale come Ebola e vaiolo è stato chiuso dopo che i Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie hanno emesso un ordine di cessazione. I funzionari del CDC hanno rifiutato di rilasciare ulteriori informazioni dopo aver citato “ragioni di sicurezza nazionale”.

L’USAMRIID di Fort Detrick ha detto nell’agosto 2019 che lo spegnimento era perché il centro non aveva “sistemi sufficienti in atto per decontaminare le acque reflue” dai suoi laboratori di massima sicurezza, ha riportato il New York Times.

Cosa è successo esattamente a Fort Detrick nell’estate del 2019? Alcuni media statunitensi si sono rivolti in precedenza al CDC per ottenere risposte, ma molti contenuti chiave nel rapporto erano stati redatti.

All’inizio di giugno, un utente di Twitter con sede in Virginia ha ottenuto i documenti del CDC sull’ispezione di Fort Detrick sotto il Freedom of Information Act (FOIA). Global Times ha scoperto che la maggior parte dei documenti erano e-mail tra i funzionari del CDC in vari dipartimenti e USAMRIID dal 2018 al 2019. Anche se alcune delle e-mail sono state coperte da una stazione televisiva affiliata alla ABC a Washington, il rapporto non ha catturato molta attenzione.

Le e-mail hanno rivelato diverse violazioni al laboratorio di Fort Detrick durante le ispezioni del CDC nel 2019. Quattro delle quali sono state etichettate come violazioni gravi.

Una di queste gravi violazioni, ha detto il CDC, era un ispettore che è entrato più volte in una stanza senza la protezione respiratoria richiesta mentre altre persone in quella stanza stavano eseguendo procedure con un primate non umano su un tavolo da necroscopia.

Questa deviazione dalle procedure di entità ha portato a un’esposizione respiratoria professionale ad aerosol di agenti selezionati, ha detto il CDC.

In un’altra grave violazione, il CDC ha detto che l’USAMRIID aveva “sistematicamente fallito nel garantire l’attuazione di procedure di biosicurezza e contenimento commisurate ai rischi associati al lavoro con agenti selezionati e tossine”.

Altre violazioni includono la mancanza di una corretta gestione dei rifiuti, dove i rifiuti non sono stati trasportati in un contenitore durevole a prova di perdite, che crea il potenziale per fuoriuscite o perdite.

I documenti del CDC mostrano che ha inviato una lettera di preoccupazione a USAMRIID, che ha portato a una chiusura temporanea del laboratorio di Fort Detrick nel 2019.

In una e-mail del 12 luglio 2019, il CDC ha detto che l’USAMRIID ha segnalato due violazioni del contenimento il 1 luglio e l’11 luglio 2019, e questo ha dimostrato un “fallimento di USAMRIID nell’implementare e mantenere procedure di contenimento sufficienti a contenere agenti selezionati o tossine generate da operazioni di laboratorio BSL-3 e BSL-4.”

“Con effetto immediato, USAMRIID deve cessare tutti i lavori che coinvolgono agenti selezionati e tossine nelle aree di laboratorio registrate fino a quando l’indagine sulle cause principali non è stata condotta per ogni incidente e i risultati sono stati presentati al FSAP per la revisione”, ha detto il CDC.

Il FSAP (Federal Select Agent Program) è composto congiuntamente dalla divisione dei Centers for Disease Control and Prevention di agenti e tossine selezionati e dalla divisione di agenti e tossine selezionati agricoli dell’Animal and Plant Health Inspection Service. Il programma supervisiona il possesso, l’uso e il trasferimento di agenti biologici selezionati e tossine, che hanno il potenziale di causare una grave minaccia alla salute pubblica, animale o vegetale o ai prodotti animali o vegetali. Esempi comuni di agenti e tossine selezionati includono gli organismi che causano antrace, vaiolo e peste bubbonica.

Tre giorni dopo, il Fort Detrick ha risposto all’e-mail dicendo che aveva presentato messaggi in risposta all’azione immediata, ma i messaggi sono stati deliberatamente oscurati.

Il messaggio è stato presentato da un direttore di Studi Strategici (Contro le armi di distruzione di massa) presso l’USAMRIID, il cui nome è stato anch’esso cancellato.

La dichiarazione pubblica di Fort Detrick rilasciata nell’agosto 2019 diceva che l’arresto era dovuto a problemi di decontaminazione delle acque reflue. Ma non è chiaro se la dichiarazione fosse coerente con i risultati dell’ispezione del CDC.

La gestione di tali laboratori di alto livello in generale deve essere molto rigorosa con ispezioni regolari. Diversi sistemi dovrebbero essere in grado di garantire che nessun rischio potenziale possa verificarsi, e il fallimento delle attrezzature e le perdite di acque reflue certamente non dovrebbero verificarsi, ha detto al Global Times uno scienziato cinese del team di tracciamento delle origini del virus OMS-Cina che ha richiesto l’anonimato.

I problemi delle acque reflue hanno rivelato grandi lacune nella gestione del laboratorio di Fort Detrick, e c’è da chiedersi cos’altro è trapelato con le acque reflue mal gestite.

“Alcuni agenti patogeni altamente patogeni nel laboratorio sono stati probabilmente rilasciati. E l’esercito americano non ha mai detto al pubblico quello che stava facendo”, ha detto lo scienziato.

È molto probabile che i ricercatori di Fort Detrick possano essere stati infettati accidentalmente ma non hanno mostrato sintomi evidenti. In questo modo potrebbero aver portato il virus al mondo esterno, ha detto lo scienziato.

“In assenza di sintomi evidenti, 9 dei 10 individui potrebbero non aver saputo di essere stati infettati ed è possibile che più del 90% delle vie di trasmissione fossero state perse quando il virus è stato finalmente rilevato. Questo è anche il motivo per cui il tracciamento delle origini del virus è difficile da condurre”, ha detto, notando che solo l’indagine sierologica su larga scala potrebbe trovare alcune delle prime infezioni.

Perché non aprire il laboratorio di Fort Detrick

Diversi virologi e analisti intervistati dal Global Times hanno esortato il laboratorio di Fort Detrick ad aprire le sue porte per un’indagine internazionale, poiché esperti internazionali hanno già visitato l’Istituto di virologia di Wuhan.

Molti politici e media occidentali hanno dato la colpa della pandemia a Wuhan, dicendo che Wuhan è stato il luogo in cui il virus è stato rilevato per la prima volta e da dove il virus è venuto, nonostante le prove crescenti che non è il caso.

In un recente esempio a giugno, uno studio di ricerca gestito dal National Institutes of Health’s All of Us Research Program ha trovato prove di infezioni da COVID-19 negli Stati Uniti già nel dicembre 2019, settimane prima della prima infezione documentata nel paese.

Wuhan ha registrato i primi sintomi di COVID-19 da un paziente l’8 dicembre 2019.

Quando gli è stato chiesto di fornire maggiori dettagli sullo studio, una persona dei media con il programma di ricerca All of Us ha detto al Global Times che il programma “non ha nulla da aggiungere” dalle informazioni che aveva già rilasciato.

Per quanto riguarda il motivo per cui il virus è stato rilevato per la prima volta a Wuhan, lo scienziato anonimo ha detto che il virus è difficile da rilevare in una fase iniziale, soprattutto in autunno e in inverno con più casi di raffreddore. E non avrebbe attirato l’attenzione finché un gran numero di persone non fosse stato infettato. Questo è quello che è successo nella densamente popolata Wuhan, ha detto lo scienziato.

Il sistema sanitario pubblico cinese è molto sensibile soprattutto dopo l’epidemia di SARS nel 2003, ma questo non è sempre il caso all’estero, soprattutto quando la densità della popolazione è bassa e il virus non si diffonde così velocemente, ha detto l’esperto.

“Il nuovo coronavirus è stato scoperto da tre società cinesi nello stesso momento. È molto semplice rilevare queste cose, e la Cina ha un sacco di tali aziende terze con una forte capacità di rilevamento medico”, ha detto.

Senza tornare ai campioni di siero precedenti altrove ora, sarà difficile trovare la fonte del virus. Gli studi retrospettivi che sono stati fatti in Cina non hanno trovato alcuna prova. È importante che il mondo lavori insieme ora per ordinare le prove e fare le prime indagini sierologiche dove necessario, ha detto.

Zeng Guang, ex capo epidemiologo del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha detto al Global Times che la fuga dal laboratorio è facile da identificare, poiché le infezioni sono destinate a mostrare segni, sia che si tratti di un problema operativo o di un’infezione del personale di laboratorio.

Gli esperti dell’OMS hanno valutato l’ipotesi della fuga dal laboratorio quando hanno visitato Wuhan e non hanno trovato prove, e la speculazione sulla sua possibilità in un laboratorio di Wuhan dovrebbe essere già finita. Nel frattempo, dovremmo mettere un punto interrogativo su altre ipotesi, come altri laboratori nel mondo, ha detto Zeng.

Zeng ha detto che gli Stati Uniti hanno paura dell’ispezione dell’OMS nello stesso modo in cui è stata fatta in Cina, ha detto Zeng.

Gli Stati Uniti, l’unico paese che ostacola la creazione di un meccanismo di verifica della Convenzione sulle armi biologiche (BWC), ha problemi sistematici, ha detto Zeng, aggiungendo che gli Stati Uniti hanno paura che l’indagine sui suoi laboratori porterebbe a scavare più del suo sporco.

Xia Wenxin ha contribuito a questo articolo

(Traduzione automatica effettuata con Deep-Translator)

Articolo originale in inglese:

https://www.globaltimes.cn/page/202106/1227219.shtml

Trump, Fort Detrick e il Covid 19: Il colpevole silenzio degli Stati Uniti sulla vera origine del coronavirus

di Daniele Burgio, Massimo Leoni e Roberto Sidoli

Tutta una serie di variegate informazioni e di fatti concreti, combinati strettamente tra loro a partire da alcune clamorose anomalie, provano e attestano oltre ogni dubbio che:

1. Il coronavirus ha iniziato a contagiare e devastare il mondo trovando il suo luogo di origine e di propagazione nella base militare e nel laboratorio batteriologico di Fort Detrick, collocato nello stato del Maryland degli Stati Uniti, fin dal luglio del 2019 e quindi più di tre mesi in anticipo rispetto ai casi riportati a Wuhan e in Cina;

2. Il governo Trump, gli apparati statali americani e l’amministrazione Biden in carica dal gennaio del 2021, hanno via via cercato, coscientemente e costantemente, di coprire e nascondere tale gravissimo evento di contaminazione durante il periodo compreso tra il luglio del 2019 e il presente, ossia per due lunghi e sanguinosi anni: una menzogna permanente e perfettamente consapevole di Washington che ha direttamente causato e prodotto il dilagare della paurosa strage di più di tre milioni di esseri umani, insanguinando dall’estate del 2019 quasi tutto il nostro pianeta e provocando circa 600.000 vittime innocenti nella stessa America.

Fin dal 1943 e senza soluzione di continuità uno dei principali siti militari statunitensi per la guerra batteriologica, Fort Detrick, registrò al suo interno una prima e innegabile “fuga” verso il mondo esterno del batterio che causa l’antrace (una gravissima infezione, con sintomi molto simili a quelli creati dalla polmonite) già il 18 settembre 2001, ossia solo una settimana dopo gli attentati dell’11 settembre.1

Dopo questo pessimo precedente, è sicuro e attestato senza ombra di dubbio persino da un articolo dell’insospettabile NewYorkTimesdel 5 agosto 2019 che durante la seconda metà di luglio del 2019 l’attività di ricerca batteriologica di Fort Detrick venne chiusa: quest’ultima serrò dunque i battenti nel luglio del 2019 in modo improvviso, rimanendo non operativa per molti mesi e riavviando completamente la sua attività solo a fine marzo 2020.2

Al di là delle spiegazioni ufficiali del Pentagono rispetto a tale prolungata serrata, relative a un problema delle acque reflue, si registra dunque un’anomalia made in USA, allo stesso tempo clamorosa e incontrovertibile, fuori discussione e inattaccabile: ma qual era la vera ragione della singolare, eclatante e improvvisa chiusura delle ricerche batteriologiche a Fort Detrick?

Un’embrionale risposta venne fornita quasi subito da un lucido articolo dell’insospettabile e anticomunista quotidiano inglese Indipendent, il quale già il 6 agosto del 2019 notò che

«al principale laboratorio di guerra batteriologica dell‘America era allora stato ordinato di interrompere tutte le ricerche sui più letali virus e agenti patogeni per il timore che le scorie tossiche potessero uscire dalla struttura. Sin dall’inizio della Guerra Fredda, Fort Detrick in Maryland è stato l’epicentro della ricerca di armi batteriologiche dell’Esercito USA. Il mese scorso [ossia il luglio 2019, ndr] il Centro per il Controllo e la Prevenzione di malattie (l’organismo governativo di salute pubblica) ha privato il laboratorio della sua licenza per gestire “agenti patogeni selezionati” altamente riservati che includono ebola, vaiolo e antrace. L’inusuale mossa è seguita ad una ispezione del CDC a Fort Detrick che ha scoperto gravi problemi nelle nuove procedure utilizzate per decontaminare gli scarti liquidi. Per anni la struttura ha fatto uso di un impianto di sterilizzazione a vapore per trattare l’acqua contaminata, ma lo scorso anno, in seguito a una tempesta che ha allagato e distrutto il macchinario, Fort Detrick ha iniziato a utilizzare un sistema chimico di decontaminazione. Nonostante ciò, gli ispettori del CDC hanno trovato che le nuove procedure non erano sufficienti e che entrambi i guasti meccanici fossero causa di perdite e che i ricercatori avrebbero fallito a seguire propriamente il regolamento. Come risultato l’organizzazione ha mandato un provvedimento di sospensione ordinando a Fort Detrick di sospendere tutte le ricerche sugli agenti selezionati».3

Il mistero della sostanziale chiusura della base di Fort Detrick è stato in ogni caso risolto in modo indiscutibile da una seconda e sicura anomalia, sempre avvenuta in terra statunitense e verificatasi guarda caso a ridosso della serrata estiva della base militare del Maryland: ossia la “misteriosa” epidemia di polmonite acuta che colpì gli Stati Uniti, a partire proprio dal luglio del 2019. Su Internet si poteva tranquillamente leggere, fin dall’inizio di settembre del 2019, pertanto almeno due mesi prima dei primordi dell’epidemia di coronavirus a Wuhan e in Cina, tutta una serie di articoli e notizie eclatanti come quelle che seguono e che riguardavano proprio l’America:

«Da quest’estate [del 2019, ndr] oltre 200 persone, perlopiù giovani, sono finite in ospedale in queste condizioni. Agli esami i polmoni appaiono come colpiti da un‘infezione molto aggressiva di cui i dottori non conoscono la causa. Gli Stati Uniti registrano altre due vittime (il totale sale così a tre) di una ancora misteriosa patologia polmonare legata allo svapo. Il secondo decesso – riferisce il New York Times – è avvenuto a luglio, un mese prima della persona che ha perso la vita in Illinois per lo stesso problema. Ma solo giovedì Ann Thomas, funzionario per la sanità dell‘Oregon e pediatra, ha reso nota la notizia. Thomas non ha voluto rivelare né il nome, né l‘età e il sesso della vittima, ma ha assicurato che la morte è stata causata dalla crisi respiratoria innescata dalla patologia legata allo svapo. “Appena arrivata in ospedale, la persona è stata ricoverata e attaccata al respiratore”. Dopo qualche settimana, i dottori hanno costatato che l‘infezione polmonare era arrivata a livelli irreversibili. La vittima aveva acquistato un prodotto per le sigarette elettroniche in un marjuana shop. Il terzo decesso è stato confermato in data 5 settembre dai funzionari sanitari dell’Indiana. Si tratta di “una persona di età superiore ai 18 anni”, ha dichiarato il Dipartimento della Salute dello Stato in una nota. Nello Stato, in particolare, sono in esame 30 casi di gravi lesioni polmonari legate allo svapo [l’inalazione tramite sigarette elettroniche, ndr]. Da quest’estate oltre 200 persone, perlopiù giovani, sono finite in ospedale in queste condizioni. Tutti sono svapatori. Vengono ricoverati per fiato corto, crisi respiratoria, diarrea, vertigini, vomito. Agli esami tomografici i polmoni appaiono come colpiti da un‘infezione molto aggressiva di cui i dottori non conoscono la causa».4

Dopo aver notato di sfuggita come agli inizi di settembre del 2019 proprio il Maryland, ossia lo stato federale nel quale è collocato Fort Detrick, stesse valutando se prendere delle misure per frenare l’uso delle peraltro inoffensive (in assenza di Covid-19) sigarette elettroniche, ritenute allora la causa della misteriosa “polmonite” iniziata negli USA nell’estate del 2019, va sottolineato che i sintomi della suddetta epidemia che colpì allora l’America, in concomitanza con la quasi simultanea chiusura della “biologica” Fort Detrick, furono identici alla malattia che in seguito venne identificata, e non certo da Washington, come coronavirus: del resto lo stesso Robert Redfield, in qualità di direttore del centro statunitense per il controllo e la prevenzione delle malattie, in seguito e all’inizio del 2020 ammise parzialmente che alcuni casi di Covid-19 si erano verificati all’interno degli Stati Uniti già nel corso del 2019, ma vennero diagnosticati come “influenza”, come riferì anche il giornale TheGuardian.5

Dopo la chiusura di Fort Detrick a fine luglio del 2019 e l’epidemia misteriosa di “polmonite” nella stessa estate, emerse comunque una terza singolarità in terra statunitense sempre in quel periodo: infatti le autorità governative e sanitarie del paese per alcuni mesi attribuirono, in modo illogico, le morti per le strane polmoniti che si stavano verificando negli Stati Uniti nell’estate del 2019 all’innocuo e ormai decennale consumo di sigarette elettroniche (innocuo, ovviamente, in assenza di coronavirus), creando una colossale e governativa fake news. Si trattò di un’assurdità incredibile visto che per dodici anni, dal lontano 2007, le sigarette elettroniche erano state utilizzate su larga scala da milioni e milioni di cittadini degli Stati Uniti: durante i lunghi mesi che separano il 2007 dal luglio del 2019 tale consumo non ha creato alcun problema sanitario serio, né soprattutto polmoniti gravi, mentre risultava chiaro che il presunto effetto nocivo delle sigarette elettroniche era, in modo incredibile, limitato e circoscritto solo agli USA e non coinvolgeva in alcun modo il resto del mondo, dove pure il fumo elettrico era diffuso da un decennio. Fin dal settembre del 2019 alcuni studi medici hanno mano a mano dimostrato l’assenza di qualunque collegamento diretto tra “svapare”, cioè inalare da sigarette elettroniche, e le “polmoniti” del 2019: ma se il governo Trump e le autorità statunitensi non parlarono in alcun modo di quello che era successo a Fort Detrick, viceversa esse fino all’ottobre 2019 lasciarono tranquillamente che per alcuni mesi si propagassero le false informazioni sull’inesistente legame tra la nuova e “misteriosa” (misteriosa, ma non certo a Fort Detrick) malattia polmonare e le sigarette elettroniche.6

Siamo in presenza di fatti eclatanti e innegabili, che a questo punto vanno collegati con un’ennesima anomalia avente per oggetto questa volta il mistero dei giochi militari di Wuhan: a tal proposito l’insospettabile, filoamericano e anticomunista quotidiano Il Messaggero ha pubblicato nel 2020 un articolo intitolato Primi casiai giochimondialimilitari diWuhan2019:

«Vuoi vedere che il coronavirus era nell‟aria di Wuhan già in ottobre, un mese in anticipo rispetto al primo caso ufficiale riscontrato sul suolo cinese e datato 17 novembre? Verso questa possibile conclusione potrebbero condurre alcune testimonianze di atleti recatasi nella località cinese, per prendere parte ai Giochi Mondiali militari, i quali sia in Cina sia al ritorno in patria hanno manifestato i sintomi di quella malattia, che alcuni mesi dopo, avrebbe scombussolato il mondo intero. Alla rassegna degli sportivi in divisa, celebratasi nel capoluogo della provincia di Hubei dal 18 al 27 ottobre, hanno preso parte 10mila atleti provenienti da un centinaio di paesi. Tra di loro c‘erano anche due pentatleti francesi, Valentin Belaud e Elodie Clouvel, che al quotidiano l‟Equipe, hanno raccontato di essersi ammalati ed essere stati costretti a saltare gli allenamenti in Cina, accusando problemi mai avuti in precedenza. In più la coppia, nel momento in cui ha comunicato il problema allo staff medico, ha appreso che anche altri membri della delegazione transalpina si erano ammalati. Pure sul fronte italiano, i racconti degli azzurri presenti in Cina condurrebbero alla stessa conclusione. Tra gli altri lo spadista Matteo Tagliariol, olimpionico a Pechino 2008, che a Wuhan ha gareggiato nella prova a squadre insieme a Paolo Pizzo e Lorenzo Buzzi, ha ricordato di essere stato malato per diversi giorni, soffrendo soprattutto di una fastidiosissima tosse, e che nel centro medico del villaggio le aspirine erano esaurite, a causa dell‘elevato numero di malati. Poi al rientro in Italia, il 37enne Tagliariol ha avuto la febbre e dopo la sua guarigione si sono ammalati pure la compagna, la fiorettista Martina Batini, e il figlio di due anni. “Ai mondiali militari di Wuhan ci siamo ammalati tutti, 6 su 6 nell’appartamento e moltissimi anche di altre delegazioni. Tanto che al presidio medico avevano quasi finito le scorte di medicine”, ha detto Tagliariol».7

Sappiamo con assoluta certezza che i giochi militari mondiali di Wuhan, collegati ovviamente con l’arrivo in Cina di migliaia di militari occidentali e di centinaia di atleti USA, non avvennero nel giugno 2019, ma a partire dal 18 ottobre 2019: dunque a tre mesi di distanza e circa cento giorni dopo i primi casi negli Stati Uniti, verificatisi a partire dal luglio 2019, e tra l’altro sessanta giorni dopo i primi casi di coronavirus a Milano e in Lombardia. Vista la presenza innegabile del Covid-19 negli USA già durante l’estate del 2019, quindi, furono gli atleti statunitensi a esportare involontariamente il coronavirus in Cina a Wuhan, non il contrario, senza comunque che il governo degli Stati Uniti avvertisse in alcun modo le autorità cinesi dell’epidemia di “polmonite” in corso nella nazione americana. Di fronte a questo quadro risulta perfettamente chiaro perché i ricercatori dell’autorevole Organizzazione Mondiale della Sanità, un ente dell’ONU, al termine di una serie di ispezioni effettuate all’inizio del 2021 a Wuhan, abbiano definito chiaramente e senza mezzi termini “altamente improbabile” che il coronavirus sia fuoriuscito dal laboratorio di ricerche di Wuhan.8

La quinta anomalia ha per oggetto la particolare, inquietante e maligna “simulazione di scenario” pubblicato nell’ottobre del 2019 dal John Hopkins Center for Health Security assieme ad altre due organizzazioni statunitensi, relativa allo scoppio di una pandemia di “coronavirus immaginario”, originatasi in un ipotetico allevamento di maiali del Brasile: una simulazione a tavolino che stranamente si stava già trasformando in realtà, in terra statunitense.

«Eric Toner è uno scienziato americano del John Hopkins Center for Health Security, e a ottobre scorso aveva simulato una pandemia di coronavirus. Tre mesi fa, infatti, il centro di ricerca di New York ha condotto un esperimento insieme al World Economic Forum e la Bill and Melinda Gates Foundation, per dimostrare l‘importanza della partnership tra istituzioni pubbliche e enti privati nel far fronte a pandemie globali. Lo studio ha simulato una pandemia di coronavirus immaginario originato negli allevamenti di suini del Brasile e un‘espansione in quasi tutti i Paesi del mondo nell‘arco di 6 mesi. Secondo l‘impressionante simulazione, nell‘arco di 18 mesi 65 milioni di persone sarebbero morte. Come ha precisato il John Hopkins Center, l‘esperimento e i risultati relativi al numero di vittime non corrispondevano in nessun modo a previsione, ma a una semplice simulazione».9

Questa “semplice simulazione” venne pubblicata guarda caso nell’ottobre del 2019: ossia proprio dopo che negli USA era stata chiusa da circa tre mesi la base militare di Fort Detrick, dopo lo scoppio dell’epidemia di polmoniti e dopo l’allarme per il presunto effetto nocivo delle innocue sigarette elettroniche in terra americana. Un’ultima anomalia, che rafforza ancora di più la “teoria Fort Detrick”, ha per oggetto invece l’enorme numero di vittime purtroppo avvenute sempre negli Stati Uniti a causa dell‘“influenza” che colpì il paese dal novembre 2019 (quando a Wuhan stavano iniziando solo i primi sporadici casi…) fino al febbraio 2020, determinando la cifra impressionante di quasi ventimila morti.

Non a caso già nel febbraio 2020, in modo responsabile e onesto,

«il Prof. Edward Livingston ed i suoi colleghi, in questa infografica pubblicata il 26 Febbraio su JAMA, sottolineano come, sebbene vi sia una grande attenzione all‟epidemia della malattia di coronavirus 2019 (COVID-19), tuttavia questa condizione costituisce un problema rilevante in un‟area della Cina e sembra avere ramificazioni cliniche limitate al di fuori di quella regione. Sta di fatto che gli Stati Uniti stanno vivendo una grave stagione influenzale che ha già provocato più di 16.000 morti. L‘infografica pubblicata su JAMA mette a confronto i tassi di incidenza e mortalità per le 2 malattie virali delle vie respiratorie. Nel periodo sino al 24 Febbraio 2020, negli Stati Uniti, relativamente al COVID- 19, sono stati registrati 14 casi diagnosticati dal sistema sanitario statunitense, 39 casi tra i cittadini statunitensi rimpatriati. Non sono stati segnalati morti, né pazienti critici e non ci sono evidenze di trasmissione, negli Stati Uniti, in una ampia comunità. Analizzando parallelamente i dati sull‘influenza, negli Stati Uniti, al 15 Febbraio 2020, i CDC stimano che si siano ammalate almeno 29 milioni di persone, che siano state effettuate almeno 13 milioni di visite mediche, almeno 280.000 ospedalizzazioni e che i morti siano stati almeno 16.000, da sottolineare le 105 morti pediatriche correlate all‘influenza. Pertanto gli Autori ritengono che, sulla base di questi dati, da un punto di vista della sanità pubblica le persone dovrebbero focalizzare la loro attenzione sull‘influenza ed adottare le misure preventive che includono, nel caso dell‘influenza, anche la possibilità del vaccino, oltre a quelle più volte ricordate per tutti i virus respiratori».10

Ma non si trattava certo solo di “influenza”, come ha dimostrato la prima “pistola fumante” in questo particolare intrigo e giallo di portata planetaria: si tratta della scrupolosa attività dell’insospettabile Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, che ha attestato e dimostrato nell’ottobre del 2020 come il coronavirus fosse senza alcun dubbio presente in Lombardia e alcune altre regioni di Italia fin dal settembre del 2019, ossia almeno due mesi prima dell’inizio dell’epidemia a Wuhan e in Cina.

«Il virus SarsCov2 circolava in Italia già a settembre 2019, dunque ben prima di quanto si è pensato finora. La conferma arriva da uno studio dell’Istituto dei tumori di Milano e dell’università di Siena, che ha come primo firmatario il direttore scientifico Giovanni Apolone, pubblicato sulla rivista Tumori Journal. Analizzando i campioni di 959 persone, tutte asintomatiche, che avevano partecipato agli screening per il tumore al polmone tra settembre 2019 e marzo 2020, l’11,6% (111 su 959) di queste persone aveva gli anticorpi al coronavirus, di cui il 14% già a settembre, il 30% nella seconda settimana di febbraio 2020, e il maggior numero (53,2%) in Lombardia».11

Si tratta di una notizia clamorosa, oltre che indiscutibile e sicura: essa dimostra che l’allora “misteriosa” epidemia polmonare, sviluppatasi negli Stati Uniti dal luglio del 2019, si era estesa sicuramente dall’America all’Italia trasferendosi di luogo e nazione all’interno del mondo occidentale, e non certo in quello asiatico…

A questo punto va fatta emergere una seconda superprova: uno studio accurato dell’insospettabile ente statunitense denominato “Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie” (CDC), pubblicato purtroppo molto in ritardo (solo alla fine del 2020), ha rilevato come ben 39 campioni di sangue, presi tra il 13 e il 16 dicembre del 2019 in California, Oregon e Washington, fossero risultati positivi agli anticorpi del coronavirus: dimostrando quindi in modo indiscutibile che la quarantina di persone coinvolte era stata infettata dal Covid-19 già nelle settimane precedenti allo scoppio su vasta scala dell’epidemia di Wuhan.12

Si può inoltre congiungere tale elemento indiscutibile a una terza e formidabile superprova, che fa luce definitivamente sul caso in oggetto. Infatti ormai è sicura l’identità del “paziente zero”, anzi dei numerosi pazienti zero del Covid di natura civile: gli sfortunati pensionati di una casa di riposo di Green Spring, in Virginia e nella contea di Fairfax, collocata per loro sfortuna vicino a Fort Belvoir, un ospedale destinato ai militari statunitensi che assiste anche i ricoverandi in arrivo da Fort Detrick.13

La sera dell’11 luglio del 2019, infatti, più di tre mesi prima dei giochi militari di Wuhan, l’insospettabile e anticomunista rete televisiva “ABC” raccontò che in quei giorni, almeno quattro mesi prima dei casi iniziali a Wuhan,

«“[…] una malattia mortale in Virginia ha portato due morti e dozzine di residenti infettati di una malattia respiratoria qui nella comunità di pensionamento di Green Spring. Negli ultimi 11 giorni, 54 persone si sono ammalate con sintomi che vanno da una brutta tosse alla polmonite, senza indizi chiave su come sia scoppiata la malattia improvvisa”. Passano due giorni e la strana epidemia compare anche in un‟altra casa di riposo li vicino. È sempre il tg [statunitense dell’ABC, ndr] a raccontarlo: “Un misterioso virus respiratorio ha colpito una seconda casa di riposo nella contea di Fairfax”. L‟unica cosa chiara al momento è che, due giorni dopo la seconda epidemia a poche decine di miglia di distanza, con un ordine del Cdc, il laboratorio di sicurezza biologica livello 4 di Usamriid, a Fort Detrick nel Maryland, viene chiuso per un incidente di biocontenimento. È sempre il tg a raccontare le paure degli abitanti di quella zona: “Gli abitanti che vivono vicino a Fort Detrick vogliono sapere perché il laboratorio top di Army Germ, uno dei più noti, è stato chiuso così velocemente”».

Era ed è tuttora un’ottima domanda, un eccellente interrogativo.

«A Fort Detrick infatti gli scienziati Usa gestiscono alcuni degli agenti biologici più sensibili e conducono ricerche mediche all‘interno di esso. Ricerche anche su cellule virali molto pericolose, come Ebola e Antrace. […] E allora non possiamo che porci una domanda: c‘è forse una correlazione tra la fuga di biocontenimento di Fort Detrick e le epidemie anomale dentro le due case di riposo di Green Spring? È sufficiente osservare la mappa per vedere che vicinissima alle due case di riposo c‘è Fort Belvoir, un ospedale per i militari che tra gli altri assiste anche quelli di Fort Detrick. Ma come sarebbe arrivato il contagio da Fort Belvoir alle due case di riposo? Il fatto è che proprio questo ospedale assiste anche i veterani di guerra delle forze armate americane, che vivono anche dentro le due case di riposo. Vi mostriamo alcune immagini, nelle quali si vedono i marines festeggiare nella casa di riposo di Burke i numerosi veterani della seconda guerra mondiale per l‘anniversario di fondazione del loro corpo. Può dunque esistere un filo che lega l‘incidente di biocontenimento di Fort Detrick, l‘ospedale militare di Fort Belvoir e le case di riposo in cui si manifesta l‘anomala epidemia di luglio?»14

Tra l’altro proprio il sito della contea virginiana di Fairfax, in data 26 luglio 2019, sottolineò che ben 63 residenti della casa di riposo di Green Spring erano stati sottoposti in loco a «numerosiesami», ma anche dopo di essi «nessun specifico agente patogeno era stato identificato come causadell‟epidemia».15 Se si considerano le altre due “pistole fumanti” e le sopracitate anomalie (le “pericolosissime” sigarette elettroniche made in USA, ecc.), il “filo” che lega Fort Detrick e il Covid è indiscutibile.

Tiriamo le conclusioni.

Tutti i fatti riportati escludono, in modo sicuro e categorico, che l’epidemia di coronavirus si sia sviluppata a partire dalla Cina e da Wuhan, dalla fine di ottobre del 2019; essa invece era virulenta e attiva in Virginia e negli Stati Uniti fin dal luglio del 2019, quindi almeno tre mesi prima dell’inizio della pandemia in Cina.

Come andarono realmente le cose, per la genesi della tragedia del Covid?

Fase uno: verso la fine di giugno del 2019 e a Fort Detrick, si verifica una contaminazione di personale militare statunitense attraverso il coronavirus contenuto nei laboratori della base.

Fase due: una parte del personale infettato viene portato all’ospedale militare di Fort Belvoir, in Virginia.

Fase tre: attorno al 4 luglio 2019, festa nazionale degli USA, involontariamente alcuni marines di Fort Belvoir contagiati dal Covid-19 portano e distribuiscono a piene mani la malattia nella casa di riposo di Green Spring, oltre che in giro per il Maryland e la Virginia.

Fase quattro: dopo un’incubazione di una settimana, scoppia purtroppo una prima epidemia nella casa di riposo di Green Spring con i suoi 263 residenti: due muoiono, i primi caduti dei futuri tre milioni di morti per la pandemia di coronavirus, mentre il Covid-19 raggiunge con la sua marcia mortale un’altra casa di riposo vicino a Green Spring.

Fase cinque: dopo alcuni giorni il Pentagono inizia a preoccuparsi, ordinando la chiusura di tutte le attività di ricerca batteriologica a Fort Detrick, a metà luglio.

Fase sei: dalla metà di luglio all’inizio di ottobre del 2019 l’epidemia via via si espande sia negli Stati Uniti che all’estero, arrivando sicuramente a Milano e in Lombardia all’inizio di settembre del 2019, come provato dall’Istituto dei Tumori di Milano.

Fase sette: le olimpiadi militari mondiali di Wuhan. A tal proposito l’insospettabile e anticomunista sito intitolato Le Iene ha riportato che

«le autorità cinesi hanno più volte sostenuto che l‘epidemia sarebbe arrivata a Wuhan con i militari dell‘esercito americano che partecipavano alle gare del “World Military Games 2019”, in programma dal 12 al 28 ottobre. Noi ovviamente non lo sappiamo, ma dal periodico delle forze armate americane scopriamo che alcuni militari di Fort Belvoir hanno partecipato a quei Giochi. Tra questi il sergente di prima classe Maatje Benassi e il capitano dell’esercito Justine Stremick, che serve come medico di medicina di emergenza dell’esercito a Fort Belvoir in Virginia. Quindi almeno due atleti dell‟ospedale militare situato vicino alle case di riposo dove c‟è stata l‟epidemia sospetta di luglio sarebbero andati a Wuhan per le olimpiadi di ottobre 2019».16

La “fase otto”, che seguì l’inizio di novembre del 2019 e che arriva fino a oggi, risulta purtroppo fin troppo ben conosciuta a livello mondiale…

Le conseguenze della tesi in oggetto dimostrata da numerosi fatti testardi sono fin troppo chiare. Chiediamo innanzitutto all’Organizzazione Mondiale della Sanità, ente dell’ONU che del resto ha già effettuato un’ispezione accurata a Wuhan in Cina verso l’inizio del 2021, di compiere celermente un’analoga e altrettanto approfondita inchiesta anche rispetto a Fort Detrick, all’ospedale militare di Fort Belvoir e alla casa di riposo di Green Spring in Virginia, al fine di far luce finalmente sulla reale origine dell’epidemia di coronavirus a partire dall’estate del 2019. Al mondo serve verità, non menzogne a stelle e strisce.

Può sembrare strano ma anche la precedente e famigerata epidemia di “spagnola”, una gravissima forma di influenza che uccise come minimo cinquanta milioni di persone tra il 1918 e il 1920, non nacque e non si sviluppò certo in Spagna, ma viceversa negli Stati Uniti e in Kansas all’inizio del 1918. Non solo: la cosiddetta epidemia “spagnola” inizialmente venne alla luce e si propagò da una base militare statunitense, anche se quella volta non si trattò di Fort Detrick bensì di Fort Reiley, collocato per l’appunto nel Kansas. Anche in quel caso le menzogne furono molte.

È stato notato, in modo lucido e veritiero, che «ogni epidemia ha la sua infodemia, un alone tossico di panzane e disinformazione. Sentite cosa scriveva il quotidiano americano The Washington Times il 6 ottobre 1918: “Anzitutto bisogna dire che il termine ‘influenza spagnola’ è chiaramente un errore, e che il nome dovrebbe essere ‘influenza tedesca’, perché l‘indagine prova che la malattia ha avuto inizio nelle trincee germaniche. Dopodiché ha compiuto un giro dell‘intero mondo civilizzato, nel corso del quale è esplosa con particolare virulenza in Spagna, a causa di certe condizioni locali”. Sono i giorni di picco dell‘infezione che farà 50, forse 100 milioni di morti in tutto il mondo, un numero cinque o dieci volte superiore alle vittime della Grande Guerra che sta per finire, e l‘anonimo articolista ha ragione a dire che la Spagna non c‘entra. Ma è altrettanto ingiusto buttare la croce addosso agli odiati crucchi. I primi casi, in primavera, non si sono registrati nelle trincee del Kaiser, ma proprio in America, per l‘esattezza a Fort Riley nel Kansas, in un campo militare di quasi centomila metri quadri, dove più di mille reclute sono rimaste contagiate. Da quando, nell‟aprile del 1917, gli Stati Uniti sono scesi in guerra, il loro esercito è salito di colpo da 190 mila uomini a più di due milioni. E in maggioranza sono ragazzi alle prime armi, come il soldatino Charlot di Shoulder Arms. Molti di loro vengono da zone rurali dove vivevano in stretto contatto con polli o maiali: niente di più facile che il virus sia arrivato da lì, e che abbia fatto il salto dagli animali all‘uomo proprio in qualche fattoria del Kansas. Non influenza spagnola, dunque, e nemmeno tedesca: semmai americana. Ma non contento di dare in pasto al pubblico questa fake news, il Washington Times ne lancia anche un‘altra, e ben più colossale: “Che i germi dell‘influenza siano stati segretamente disseminati in questo Paese da sommergibili tedeschi è un‘accusa difficile da provare, ma i loro attacchi coi gas contro gli equipaggi dei nostri fari e navi-faro sono validi indizi contro di loro”. L‘epidemia, insomma, non ha nulla di naturale. All‘origine di tutto ci sarebbe un complotto criminale, la guerra biologica ordita dai servizi segreti di Guglielmo II ai danni degli Stati Uniti e dei loro alleati europei. È curioso che a propagare questa bufala sia una testata con lo stesso nome (The Washington Times) di quella che un secolo dopo, allo scoppio del Coronavirus Covid-19, ha messo in giro la leggenda del microrganismo ingegnerizzato uscito da un laboratorio militare di Wuhan. Ieri gli elmetti chiodati, oggi gli untori cinesi. Nel 1918 non c‘erano Facebook e Whatsapp, e neppure il TgCom24 di Paolo Liguori, pronto a dare per certa la notizia, “confermata da fonte attendibilissima”. In compenso c‘era un conflitto mondiale, quel mostruoso mattatoio che abbiamo visto nel film di Sam Mendes, una corsa forsennata all‟annientamento reciproco dove tutto sembra ammesso, compreso il cloro per gasare le trincee opposte, ma anche una macchina dell‘odio che fabbrica a ciclo continuo le dicerie più assurde, ingigantite dalla cappa di censura sui mezzi di informazione. Un mese prima dell‘articolo sul Washington Times era stata un‟autorità come il colonnello Philip Doane, responsabile della sezione sanitaria della marina mercantile Usa, ad accreditare le tesi cospirazioniste: “Sarebbe molto facile per uno di questi agenti del Kaiser rilasciare germi dell‟influenza in un teatro o in qualche altro posto dove si radunano grandi assembramenti di persone. I tedeschi hanno iniziato le epidemie in Europa, e non c‘è motivo per cui debbano essere particolarmente gentili con l‘America”». 17

A volte la storia si ripete e a una vecchia tragedia se ne aggiunge una nuova, anche se accompagnata da menzogne abbastanza simili a quelle di un secolo fa.

* * * *

PETIZIONE ALL’OMS PER INDAGARE SULL’ORIGINE DEL CORONAVIRUS

Aderisci anche tu firmando la petizione su Change.org

Petizione popolare per chiedere all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) di aprire un’indagine su Fort Detrick (USA) riguardo l’origine del coronavirus.

Alla luce della ricostruzione complessiva svolta nell’articolo Trump, Fort Detrick e il Covid-19. Ilcolpevolesilenzio degliStati Unitisulla vera originedel coronavirus;

viste le informazioni ormai acquisite su un’epidemia di polmonite verificatasi all’inizio di luglio 2019 in una casa di riposo di Green Spring, Virginia (USA);

vista l’anomala chiusura dei laboratori batteriologici di Fort Detrick (USA), proprio nella seconda metà di luglio del 2019 e durata per alcuni mesi;

visto il ritrovamento del coronavirus in Italia, in Lombardia e in altre regioni, fin dall’inizio di settembre del 2019, ossia almeno due mesi prima della genesi dell’epidemia di Covid-19 a Wuhan in Cina;

visto il ritrovamento innegabile del coronavirus anche in un centinaio di cittadini statunitensi già all’inizio di dicembre del 2019;

chiediamo all’Organizzazione Mondiale della Sanità di compiere un’accurata indagine, come quella del resto già avviata a Wuhan all’inizio del 2021, riguardo a Fort Detrick, all’ospedale militare di Fort Belvoir e alla casa di riposo Green Spring, con l’obiettivo di appurare se il coronavirus possa essere stato originato nel territorio degli Stati Uniti d’America.

Aderisci anche tu firmando la petizione su Change.org

Primi Firmatari

Daniele Burgio, Massimo Leoni, Roberto Sidoli, studiosi di politica internazionale, estensori dell’articolo Trump, Fort Detrick e il Covid-19. Il colpevole silenzio degli Stati Uniti sulla veraoriginedel coronavirus

Nunzia Augeri, saggista, Milano

Laura Baldelli, docente di Letteratura e Storia, Ancona

Alessandro Belfiore, Comitato No Guerra NO Nato

Maurizio Belligoni, già Direttore Generale Agenzia Sanitaria Regione Marche; primario di psichiatra

Fulvio Bellini, ricercatore politico, Milano

Ascanio Bernardeschi, redazione del giornale comunista on-line “LaCittàFutura

Giambattista Cadoppi, saggista, specialista di politica internazionale

Domenico Carofiglio, operaio, attivista FIOM Wirlphool Fabriano

Bruno Casati, Presidente Centro Culturale “Concetto Marchesi” di Milano

Luigi Cavalli, regista cinematografico (ultimo film, 2019, “Mon cochon et moi”, protagonista Gerard Depardieu)

Geraldina Colotti, giornalista, corrispondente in Europa di Resumen LatinoAmericano

Marcello Concialdi, docente ed editore, Torino

Luigi Curcetti, Esecutivo Regionale Marche Unità Sindacale di Base (USB)

Manlio Dinucci, geografo e saggista

Salvatore Distefano, docente di Filosofia e storico del movimento operaio, Catania

Lorenzo Fascì, avvocato, Reggio Calabria;

Salvatore Fedele, chirurgo e già responsabile dipartimento Emergenze ospedale Acqui Terme, Alessandria

Carlo Formenti, giornalista e saggista, già caporedattore di “Alfabeta” e ricercatore presso l’Università di Lecce

Federico Fioranelli, docente di Economia e Diritto

Rolando Giai-Levra, direttore di “Gramsci Oggi”

Fosco Giannini, già Senatore della Repubblica, direttore di “Cumpanis”

Alberto Lombardo, professore ordinario di Statistica Università di Palermo e direttore de “La Riscossa”

Mario Marcucci, docente a contratto di Tecnica Farmaceutica all’Università “La Sapienza di Roma”; già primario di Farmacia

Vladimiro Merlin, delegato RSU FLC- CGIL; già Consigliere Comunale Milano

Alfredo Novarini, già amministratore del P.C.I; membro del Centro Culturale Concetto Marchesi.

Alessandro Pascale, insegnante, saggista e direttore di Storiauniversale.it

Fabio Pasquinelli, avvocato, Osimo (Ancona)

Marco Pondrelli, direttore di “Marx21”

Giorgio Racchicini, docente di Letteratura e Storia, Fermo

Nicola Romana, docente di Diritto Dip. Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche all’Università di Palermo

Onofrio Romano, professore associato di sociologia generale all’Università di Bari

Marino Severini, “voce” e chitarra de La Gang;

Alberto Sgalla, docente di Diritto e scrittore;

Luca Stocchi, Presidente Centro Culturale “Cumpanis” Genova

Alessandro Testa, musicista e studioso di estetica musicale

Roberto Vallepiano, scrittore

Fabrizio Verde, direttore de “L’AntiDiplomatico”

Alessandro Visalli, architetto e dottore di ricerca in pianificazione territoriale, esperto scienze del territorio e ambiente

Alessandro Volponi, docente di filosofia, Fermo

Aderisci anche tu firmando la petizione su Change.org

FONTI:

Home

https://sinistrainrete.info/societa/20586-daniele-burgio-massimo-leoni-e-roberto-sidoli-trump-fort-detrick-e-il-covid-19.html?auid=58710

I detriti del razzo cinese cadono sulla Terra come “accuratamente previsto

La maggior parte delle parti è bruciata durante il rientro, “pratica comune” delle potenze spaziali
di Fan Anqi e Cao Siqi (dal Global Time)

L’autorità spaziale cinese ha annunciato domenica che i resti del razzo vettore cinese Long March-5B Y2 sono rientrati nell’atmosfera terrestre, la maggior parte bruciando all’ingresso, con alcuni resti che cadono nel Mar Arabico.

Nel mezzo di un intenso confronto Cina-USA e di una concorrenza sempre più feroce nella tecnologia tra le due grandi potenze, alcuni americani si sono scervellati e hanno colto ogni occasione per esaltare la teoria della “minaccia cinese”, con l’ultimo episodio in cui hanno accusato la Cina di essere “irresponsabile” per aver lasciato i detriti dei razzi “senza controllo, causando minacce agli oggetti sulla Terra”, nonostante il fatto che è un modo comune globale per gestire i detriti dei razzi, praticato da tutte le potenze spaziali compresi gli stessi Stati Uniti.

Gli esperti aerospaziali cinesi hanno notato che si sentono “sorpresi” che alcune persone accettino una logica così assurda, dato che è senso comune nel campo della scienza. Gli analisti degli affari esteri hanno sottolineato che ciò riflette i doppi standard dell’Occidente nel tentativo di sabotare il piano di costruzione della stazione spaziale cinese, facendo emergere le loro intenzioni militari di tracciare l’hardware spaziale della Cina.

Completamente normale

I detriti del razzo vettore cinese Long March-5B Y2 sono rientrati nell’atmosfera terrestre alle 10:24 del mattino, ora di Pechino, domenica, con la maggior parte delle parti che si sono bruciate durante il processo, ha detto la China Manned Space Agency (CMSA). La posizione del rientro è 72,47 gradi di longitudine est e 2,65 gradi di latitudine nord, indicando il punto di impatto nel Mar Arabico a ovest delle Maldive.

Nonostante il chiarimento da parte degli addetti dell’industria spaziale cinese e del Ministero degli Esteri che la probabilità che i resti del razzo causassero danni era estremamente bassa, un certo numero di media occidentali, tra cui CNN e New York Times, così come il Pentagono e la NASA degli Stati Uniti, hanno affermato che i detriti stavano tornando sulla Terra in modo “incontrollato” e hanno criticato la Cina di essere “irresponsabile” per l’atterraggio nell’oceano.

“Le accuse erano false, senza fondamento”, ha detto Song Zhongping, un esperto aerospaziale e commentatore televisivo. “La cosiddetta traiettoria ‘incontrollata’ si riferisce alla perdita di propulsione, ma non significa affatto che la Cina abbia perso la traccia della sua traiettoria di volo e della sua posizione in tempo reale.”

Ogni movimento dei frammenti del razzo viene osservato da vicino dalla rete di monitoraggio spaziale della Cina, e le previsioni accurate sul suo sito di atterraggio sono state fatte di conseguenza e la rotta di volo avrebbe evitato aree densamente abitate, ha detto Song al Global Times di domenica.

Wang Ya’nan, redattore capo della rivista Aerospace Knowledge, ha detto che è “completamente normale” che i detriti del razzo tornino sulla Terra, ed è una pratica comune effettuata da tutti i partecipanti globali nel campo aerospaziale, compresi gli Stati Uniti.

“La caduta del relitto è all’interno della gamma normale secondo gli standard ampiamente accettati, con la maggior parte delle parti bruciate durante il rientro e alcune sono state bruciate in modo insufficiente a causa delle differenze nell’ambiente atmosferico”, ha detto Wang.

“Fatta eccezione per i razzi riutilizzabili SpaceX, tutti i resti del primo e del secondo stadio dei veicoli di lancio tradizionali ritornano sulla Terra in modo incontrollato. E tutti i paesi che conducono tale pratica tracciano i pezzi che cadono e calcolano le loro traiettorie come fa la Cina”, ha notato Wang.

La consegna in orbita del modulo centrale della stazione spaziale Tianhe ha dimostrato l’affidabilità e la controllabilità del razzo Long March 5B, ha aggiunto Wang.

Dopo il successo del lancio del razzo Long March-5B Y2, che ha mandato in orbita la prima sezione della stazione spaziale cinese – la cabina del modulo centrale Tianhe – la Cina ha dato il via a un’intensa fase di costruzione del progetto della prima stazione spaziale del paese, dove un fitto calendario di altri 10 lanci è stato fissato per i prossimi due anni. La stazione spaziale dovrebbe essere operativa entro il 2022.

Stimata essere l’unica stazione spaziale operativa in orbita che sarà aperta a partner stranieri dopo il pensionamento della Stazione Spaziale Internazionale previsto nel 2024, alcuni paesi occidentali, soprattutto gli Stati Uniti, sono gelosi di quanto rapidamente la Cina stia crescendo nella tecnologia aerospaziale. “Pertanto, qualsiasi progresso nel settore aerospaziale toccherà un nervo scoperto nella comunità strategica degli Stati Uniti”, ha detto domenica al Global Times Li Haidong, professore presso l’Istituto di Relazioni Internazionali della China Foreign Affairs University.

Gli Stati Uniti hanno continuato a pressare la Cina nel campo della scienza e della tecnologia dopo che il presidente americano Joe Biden è entrato in carica. Ha cercato di usare la questione dei detriti del razzo per macchiare l’immagine della Cina nel mondo, accusando il paese di danneggiare la pace mondiale, e d’altra parte, ha tentato di giocare la teoria della “minaccia cinese” dal momento che non tutti i paesi possono sviluppare razzi Long March, ha detto Li.

I detriti spaziali sono un problema affrontato da tutti i paesi nel processo di sviluppo dello spazio. Lo spazio ha bisogno della protezione di tutti i paesi, proprio come la Terra. Tuttavia, è una questione scientifica e tecnologica e non dovrebbe essere politicizzata, ha sottolineato Li.

Diversi addetti ai lavori dell’industria spaziale cinese, raggiunti dal Global Times di domenica, hanno rivelato che la Cina ha fatto i suoi compiti durante la fase iniziale di progettazione del razzo sulla posizione di decollo, la pianificazione della traiettoria e i relativi preparativi tecnici, che hanno tutti preso in considerazione la caduta dei detriti del razzo.

Intenzioni militari

Prima che i detriti rientrassero nell’atmosfera terrestre, l’esercito degli Stati Uniti e alcune agenzie dell’UE hanno seguito da vicino i detriti e hanno previsto il tempo e la posizione di atterraggio. Gli esperti hanno notato che l’analisi predittiva occidentale del relitto dello stadio finale del razzo vettore Long March-5B Y2 è una sorta di allenamento anti-missile.

“Anche se lo stadio superiore di questo razzo non è un vero missile, la previsione della sua traiettoria di volo e i parametri delle prestazioni di rientro possono essere utilizzati come esercizio per prevedere i parametri di rientro di una vera testata missilistica. È un riferimento per le loro future operazioni anti-missile”, ha detto Huang Zhicheng, un esperto dell’industria spaziale.

Huang ha notato che il trattamento dei detriti dei razzi in tutto il mondo è fondamentalmente allo stesso livello. Il problema principale è che i detriti dello stadio superiore del razzo possono causare una piccola quantità di detriti, ma la probabilità di causare danni è molto piccola. Tuttavia, questo problema non è stato risolto definitivamente da nessun paese.

‘Cometa’ o ‘grave minaccia’?

In netto contrasto con i rapporti dei media sui detriti del razzo cinese, i resti in fiamme del secondo stadio del razzo statunitense SpaceX Falcon 9, che si è schiantato in una fattoria nello stato di Washington a marzo, sono stati descritti da media come Associated Press come “lasciando scie simili a comete” mentre il vascello attraversava il cielo del nord-ovest del Pacifico.

Le diverse descrizioni dei due razzi riflettono i doppi standard adottati da alcune forze occidentali nel modo in cui viene trattata la Cina, ha detto Song, in quanto “non sono davvero preoccupati di causare danni alle persone, ma dal momento che si tratta di un razzo cinese, hanno politicizzato la questione, mettendo un’etichetta su di esso e poi pubblicizzando l’evento.”

Xing Jianwei, vice capo progettista del razzo vettore Long March 2C, ha detto ai media che la Cina sta sviluppando la capacità di controllare la carenatura del razzo (quando il cono anteriore che protegge il carico utile viene gettato nello spazio) dopo la separazione in modo che l’atteggiamento del suo rientro sulla Terra possa essere controllato.

Durante i quasi 60 anni di attività spaziale, non sono stati riportati casi di detriti di razzi che abbiano causato vittime umane. I rischi per tutti i detriti di razzi sono abbastanza simili, quindi, è davvero poco onesto intellettualmente sostenere che i razzi cinesi hanno un rischio particolarmente elevato, hanno detto gli analisti.

“Ora dubito davvero del senso comune della scienza nella società occidentale, dal momento che assumono tale logica”, ha notato Wang Yanan.

Traduzione: Cambiailmondo

FONTE: https://www.globaltimes.cn/page/202105/1222935.shtml

Povero Rampini, ora che “Biden copia la Cina”

di Dante Barontini (da Contropiano)

Dopo Ernesto Galli Della Loggia, non poteva mancare il famoso traduttore Federico Rampini nella per ora breve lista degli opinionisti (fare informazione è un altro mestiere) che hanno ricevuto l’input “si cambia registro”.

Solo che non cerca di concettualizzare troppo, non si fida a toccare i “massimi sistemi”, e dunque si limita a fare il compitino anti-cinese. Purtroppo per lui – anche se finge di non accorgersene – così facendo si dà la zappa sui piedi e, soprattutto, rende un pessimo servizio ai suo datori di lavoro (il gruppo Gedi, parte della galassia Stellantis, che incorpora ora Fiat-Citroen-Peugeot-Chrysler; insomma una multinazionale davvero “euro-atlantica”).

Divertiamoci un po’.

Nella sua articolessa di oggi il buon Rampini deve segnalare che gli Usa stanno ripartendo alla grande, come e anzi più della Cina (che Pechino sia diventato ora il competitor principale è una decisione yankee, in perfetta continuità tra Triìum e Biden). E dunque comincia sparando su Xi Jinping, pur riconoscendo – sono dati ufficiali, addirittura un po’ più bassi delle previsioni degli analisti occident Joe Biden sta copiando Xi Jinping ali – l’enormità della crescita cinese nel primo trimestre 2021 (+18,3%).

Anche la ragione di questa fenomenale risalita non può essere ignorata: la gestione della pandemia è stata decisamente diversa tra Occidente ed Oriente. E i risultati si vedono a occhio nudo.

La “spiegazione” di Rampini è però esilarante. “Il ‘metodo Xi Jinping’ applicato ai lockdown insegna: perfino un regime autoritario non ha osato infliggere troppo a lungo le restrizioni estreme. La chiusura di Wuhan, con metodi inaccettabili in qualsiasi paese democratico, è durata però 76 giorni, un’inezia rispetto agli interminabili lockdown occidentali.

L’autocrate Xi Jinping ha mostrato di conoscere i limiti del proprio potere. La sua terapia durissima ma corta, è il segreto della turbo-ripresa cinese.

Se queste parole avessero un senso, bisognerebbe dire che “un regime autoritario” ha avuto paura della propria popolazione, mentre quelli “democratici” dell’Occidente se ne sono altamente fregati. Ma sistemi politici che “temono” la propria gente – qualunque cosa si intenda per “temere” – si mostrano decisamente più rispettosi di quelli che se ne fregano.

E non parliamo poi – e infatti Rampini tace su questo “piccolo dettaglio” – degli effetti di quella gestione in termini di vite umane: 567.000 morti negli Usa – con quasi 32 milioni di contagiati su una popolazione di 318 milioni di persone – contro i 4.845 morti e i 102.000 contagiati della Cina, che 1,4 miliardi abitanti. Oltre un milione di morti nell’Unione Europea, con 446 milioni di abitanti.

Tirando le somme: i regimi “democratici e liberali” hanno gestito le cose in modo da provocare strage dei propri cittadini, mentre il “regime autoritario” si è preoccupato – per “paura”, naturalmente – di minimizzare le perdite adottando le misure che ogni scienziato serio inutilmente predica dalle nostre parti. Eppure il primo dei diritti umani è proprio quello alla vita, no?

Dettaglio secondario: confinando l’epidemia a relativamente pochi casi, anche la capacità produttiva cinese ne ha tratto decisamente beneficio, anticipando di mesi la “ripresa” che qui è ancora al livello delle speranze.

Davvero vantaggiosa, insomma, la “democrazia liberale” per chi vive da queste parti.

Ma Rampini scrive l’articolo per far vedere che sa di economia, anche. E quindi deve girare i dati oggettivi in una torsione particolarmente ridicola: “Mentre l’America e l’Europa erano paralizzate, le fabbriche cinesi avevano ricominciato a produrre per noi già l’estate scorsa. Gli ingorghi che da mesi affliggono il traffico navale e i porti di tutto il mondo sono rivelatori. Uno dei motori del boom cinese, ancora una volta siamo noi: i consumatori occidentali. Nel primo trimestre le esportazioni cinesi sono aumentate del 39%.”

Il dato fornito da Rampini è in primo luogo sbagliato (49%, non 39), in secondo luogo parziale. Ogni redattore economico – ma anche chiunque faccia la spesa – sa che bisogna tener d’occhio non solo le uscite (esportazioni, in questo caso), ma anche le entrate, altrimenti non si capisce granché. Le importazioni cinesi nel primo trimestre sono a loro volta cresciute, e del 28%.

Dunque la ripresa cinese non è orientata solo dalle esportazioni (non lo era più già da qualche anno), ma complessiva. Certo, con l’Occidente inchiodato nei finti lockdown stop and go, si erano creati vuoti di mercato che sono stati immediatamente riempiti (e non solo di mascherine…).

Il discorso sarebbe lungo, i dati li abbiamo forniti molte vole e a quelli vi rimandiamo per non tediarvi.

Sorvoliamo anche su altre solenni sciocchezze (“Xi Jinping non è ancora riuscito a realizzare la conversione del modello di sviluppo cinese allo stadio di un’economia avanzata dove prevale il traino dei consumi nazionali”, come se qui in Europa non fossimo schiacciati da 30 anni di deflazione salariale e modello “export oriented” di matrice teutonica).

La “notizia” che ci dà Rampini – un po’ in ritardo – è che “Joe Biden sta copiando Xi Jinping”, e che proprio per questo “L’America è lanciata verso un aggancio-sorpasso clamoroso. A fine anno secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale la crescita americana potrebbe superare quella cinese.

Prima osservazione: se gli Usa ora copiano la Cina – sia pur limitatamente alla decisione di investimenti pubblici sostanziosi – vuol dire che il modello cinese non è poi così male; o comunque che il neoliberismo dominante fin dai tempi di Reagan sta tirando le cuoia, una crisi dopo l’altra.

Su questi altri “piccoli dettagli”… silenzio, naturalmente. I bilanci negativi si sposano male con il trionfalismo “amerikano” che Rampins deve promuovere.

Seconda osservazione: che “a crescita americana potrebbe superare quella cinese” è una previsione-speranza del Fmi, non un dato di fatto. Molto dipende sia dal via libero del Senato (al 50% trumpiano) al secondo piano di investimenti pubblici da 2.000 miliardi di dollari, oltre che dalla risposta del sistema economico ed industriale Usa, non proprio in buona salute negli ultimi tempi.

Terza osservazione: se “d’ora in avanti non vuol essere meno generoso di Xi Jinping nel finanziare la ricerca, nel sostenere le tecnologie “di frontiera” come i semiconduttori e le telecom 5G, le energie rinnovabili e l’auto elettrica”. Di più: spende in deficit cifre mostruose (altra inesattezza: i cinesi non ne hanno bisogno, perché sono pieni di liquidità), seppellendo il primo comandamento del neoliberismo stile Chicago Boys o BundesBank.

Silenzio di tomba su questo “contrordine!” che sta circolando nelle cancellerie occidentali…

Che gli Usa riprenderanno a crescere quest’anno, anche sul piano industriale, è certamente vero. La “botta” subita nel 2020 è stata forte, e la vaccinazione di massa – trattenendo negli Usa il grosso della produzione di Pfizer, Moderna, Johnson&Johnson – rende a breve di nuovo possibile la riapertura di tutte le attività (qui si cerca di farlo senza le vaccinazioni, alla speraindio). Sull’Europa – e le illusioni che Rampini nutre – c’è poco da dire, visto che finora non un solo euro è stato stanziato davvero per avviare un qualsiasi tipo di Recovery.

Ma da un prestigioso e ultra-retribuito inviato internazionale ci si aspetterebbe un po’ più di precisione sui dati, qualche insulto gratuito e qualche panzana propagandistica in meno, un briciolo di riflessione sulle conseguenze di quel dice.

E parecchi silenzi in meno.

*****

Ripartono le locomotive

Federico Rampini – da La Repubblica

Per qualcuno la pandemia è un ricordo distante, un’immagine che rimpicciolisce nello specchietto retrovisore. La Cina ha cancellato tutti i danni, oggi è più ricca di quanto fosse nell’era pre Covid. La crescita dell’economia cinese nel primo trimestre di quest’anno, +18,3%, segna un record ventennale anche se in parte è dovuto al rimbalzo dopo la paralisi dei lockdown. La recessione del 2020 è stata brevissima in Cina.

Il “metodo Xi Jinping” applicato ai lockdown insegna: perfino un regime autoritario non ha osato infliggere troppo a lungo le restrizioni estreme. La chiusura di Wuhan, con metodi inaccettabili in qualsiasi paese democratico, è durata però 76 giorni, un’inezia rispetto agli interminabili lockdown occidentali.

L’autocrate Xi Jinping ha mostrato di conoscere i limiti del proprio potere. La sua terapia durissima ma corta, è il segreto della turbo-ripresa cinese.

Mentre l’America e l’Europa erano paralizzate, le fabbriche cinesi avevano ricominciato a produrre per noi già l’estate scorsa. Gli ingorghi che da mesi affliggono il traffico navale e i porti di tutto il mondo sono rivelatori.

Uno dei motori del boom cinese, ancora una volta siamo noi: i consumatori occidentali. Nel primo trimestre le esportazioni cinesi sono aumentate del 39%.

Nella formidabile performance del dragone cinese ci sono delle fragilità. La Repubblica Popolare si conferma troppo dipendente dalle esportazioni, in una fase in cui il protezionismo non è tramontato. Anzi, una delle rivelazioni della pandemia riguarda il pericolo di affidarsi a una logistica industriale troppo globale e dilatata, esposta a improvvise chiusure di frontiere (nei medicinali ma non solo)

Il mondo post Covid sì riorganizza con un’attenzione alla sicurezza delle catene produttive, che molti Stati cercano di riportare dentro i propri confini. Xi Jinping non è ancora riuscito a realizzare la conversione del modello di sviluppo cinese allo stadio di un’economia avanzata dove prevale il traino dei consumi nazionali.

L’autogol nella diplomazia sanitaria, dopo la pasticciata (e poi smentita) ammissione che i vaccini made in China sono poco efficaci, rivela i limiti di un sistema allergico alla trasparenza.

Il vero successo della Cina però sì misura a Washington. L’America è lanciata verso un aggancio-sorpasso clamoroso. A fine anno secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale la crescita americana potrebbe superare quella cinese.

Anche gli Stati Uniti hanno avuto una recessione più breve e meno cruenta del previsto; ora hanno la loro turbo-ripresa e finiranno per cancellare i danni sociali dei lockdown prima del previsto.

Ma in parte il boom americano ha una spiegazione sorprendente: Joe Biden sta copiando Xi Jinping. Già aveva cominciato Donald Trump, con un massiccio ricorso a manovre di spesa pubblica in deficit: l’anno scorso il deficit federale era balzato al 15% del Pil.

Biden continua sulla scia del suo predecessore, ha varato 1.900 miliardi di dollari di aiuti alle famiglie a cui vuol far seguire 2.000 miliardi di investimenti in infrastrutture. Pur in un anno di fortissima ripresa che vede risalire il gettito fiscale, il deficit pubblico sarà superiore al 10% del Pil.

È il modello che Pechino applicò nel 2008-2009: all’epoca dell’ultima crisi globale l’intervento statale consentì alla Cina di essere l’unica grande economia risparmiata dalla recessione.

L’altra lezione cinese che Biden sta copiando riguarda la politica industriale: d’ora in avanti non vuol essere meno generoso di Xi Jinping nel finanziare la ricerca, nel sostenere le tecnologie “di frontiera” come i semiconduttori e le telecom 5G, le energie rinnovabili e l’auto elettrica.

Nella gara tra le due superpotenze questa è la vera novità: l’America sta inseguendo un modello cinese, dopo averlo sottovalutato troppo a lungo.

L’Europa è in ritardo su tutti i fronti, ma le riprese gemelle delle due locomotive cinese e americana sono una buona notizia per tutti. Per scegliere un micro-esempio fra tanti: entro pochi anni i consumatori cinesi compreranno la metà di tutti i prodotti di lusso venduti nel mondo, saranno quindi un mercato sempre più trainante per il made in Italy.

Ma un monito viene dal recente infortunio di molte marche occidentali della moda che hanno osato boicottare il cotone dello Xinjiang per condannare gli abusi che Pechino infligge ai diritti umani in quella regione: è partita una massiccia campagna di rappresaglie.

Il nazionalismo cinese non perdona; usa il commercio estero come un’arma strategica di micidiale efficacia. Sempre più spesso, anche nella sfera economica l’Europa sarà messa di fronte a scelte difficili, dovrà decidere da che parte stare, e gli spazi per la neutralità si restringeranno perfino per chi pensa solo a vendere i propri prodotti.

FONTE: https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/04/18/povero-rampini-ora-che-biden-copia-la-cina-0138182

Londra e Ankara: un’intesa commerciale e strategica

di Maurizio Vezzosi

Tra i numerosi accordi bilaterali e multilaterali sottoscritti dal Regno Unito sulla scorta dell’uscita dall’Unione Europea spicca quello firmato con la Turchia: un accordo di libero scambio tra le cui maglie traspare il rafforzamento della strategia antirussa, anti-iraniana e anticinese post-Brexit di Londra.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha descritto l’accordo come il «il più importante accordo commerciale» dopo quello firmato tra la Turchia e l’Unione Europea nel 1995. Dalla prospettiva turca esso incentiverà l’esportazione di prodotti alimentari, meccanici – specie per l’indotto automobilistico – chimici e tessili verso la Gran Bretagna. Per la Turchia Londra rappresenta infatti il secondo principale sbocco commerciale per le proprie esportazioni dopo la Germania. Stando alle stime inglesi, il volume d’affari tra Gran Bretagna e Turchia del 2019 ha superato il valore di 25 miliardi di sterline. Alcuni mesi fa, inoltre, Gran Bretagna e Turchia hanno svolto le prime esercitazioni aeree congiunte della loro storia e a distanza di poche settimane hanno reso operativa un’unione doganale.

Le pulsioni della Gran Bretagna post-Brexit sembrano ambire al rinnovamento del proprio protagonismo nello scenario internazionale e militare: così suggerisce, del resto, il cospicuo aumento della spesa militare voluto dal primo ministro Boris Johnson, pari a circa 20 miliardi di euro. Oltre a ciò, dalle prime mosse britanniche traspare chiaramente l’intento di realizzare un riposizionamento strategico a fianco di Washington. Certamente le turbolenze che stanno attraversando gli Stati Uniti potrebbero complicare la realizzazione di questo processo, ma paradossalmente potrebbero anche favorirlo.

Se l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca potrà avere un effetto ‒ almeno formale ‒ sui rapporti tra Stati Uniti e Turchia, la costruzione di un’intesa strategica tra Londra e Ankara crea i presupposti per surrogare il ‒ parziale ‒ ripiegamento strategico di Washington dal Vicino Oriente. Nella pratica, eventuali sanzioni ‒ simboliche – mosse dagli Stati Uniti nei confronti di Ankara o – altrettanto simboliche – sospensioni di forniture militari provenienti da Washington sarebbero ampiamente compensate dalle forniture britanniche, esistenti o futuribili.

Le sanzioni verso Turchia formalmente paventate dalla Gran Bretagna per le trivellazioni di Ankara in acque territoriali cipriote, d’altro canto, consistono per il momento in un pacato invito ad abbassare i toni. In questo quadro, dove sono almeno 3.500 i militari nelle basi militari britanniche di Akrotiri e Dhekelia (Cipro), la Turchia diviene uno degli assi portanti della strategia britannica nel Vicino Oriente: una strategia che in ogni caso dovrà avere cura di non compromettere l’asse con Atene.

Quello che l’atteggiamento della Gran Bretagna lascia per il momento presumere è l’embrione di una strategia volta a rinnovare il ruolo britannico nel Mediterraneo orientale e nel Vicino Oriente basata sulla mediazione dei contrasti di alcuni attori fondamentali dell’area ‒ come quelli greco-turchi e turco-egiziani – e sul contenimento di Teheran.

Londra ed Ankara hanno già in programma una “fase due” che prevede “un’area di libero scambio più comprensiva ed ambiziosa”. A chiarire il risvolto strategico dell’accordo di libero scambio tra Gran Bretagna e Turchia è stato lo stesso l’ambasciatore britannico ad Ankara Dominick Chilcott, il quale ha anche confermato la valenza anticinese dell’intesa turco-britannica: «Uno dei grandi problemi strategici dei nostri tempi riguarda la necessità di calibrare le relazioni con la Cina. La pandemia, nei suoi primi mesi, ha fatto emergere la vulnerabilità di essere dipendenti dalla manifattura cinese per alcuni prodotti chiave, come i dispositivi di protezione. La Gran Bretagna, come molti altri Paesi, ha bisogno di individuare altri Paesi da cui approvvigionarsi, e questo, insieme alla nuova area di libero scambio [con la Turchia] crea un’opportunità per la Turchia e per il commercio turco-britannico. Spero anche che nel settore della difesa la collaborazione tra aziende britanniche e turche possa crescere: si tratterebbe di un fatto naturale per due Paesi NATO, ed ovviamente con un significato strategico». A questo l’ambasciatore britannico ha aggiunto di considerare quella di Ankara «l’unica democrazia stabile del Vicino Oriente».

Dalla prospettiva britannica l’area di libero scambio con la Turchia permetterà di contenere la dipendenza di Londra dalle merci cinesi, che attualmente corrispondono a circa il 10% dell’intero valore annuale delle importazioni britanniche ‒ circa 60 miliardi di euro su un totale di quasi 600 – con un interscambio complessivo che nel 2020 ha superato gli 85 miliardi di euro ed una bilancia commerciale nettamente favorevole a Pechino. Pur risultando evidentemente incompatibile con la strategia anticinese adottata da Londra, nel passato recente l’idea di un’area di libero scambio commerciale tra Londra e Pechino godeva in Gran Bretagna di una certa attenzione. Nel 2018 era stato lo stesso ministro degli Esteri cinese Wang Yi a proporre al suo omologo britannico Jeremy Hunt l’idea di un’area di libero scambio tra Londra e Pechino: malgrado ciò, l’atteggiamento britannico del presente sembra non tollerare una Cina prospera e in forze.

Oltre che nel Vicino Oriente, l’intesa strategica tra Gran Bretagna e Turchia non mancherà di avere importanti risvolti anche in Africa, dove la tradizionale presenza britannica si trova a fare i conti con il protagonismo russo e cinese: un protagonismo che Londra punta evidentemente a contrastare facendo leva sulla presenza turca nel continente africano.

Rispetto a Mosca, infine, la “scommessa turca” della Gran Bretagna sembra volersi ispirare alla larga coalizione che affrontò l’Impero zarista nella guerra di Crimea combattuta tra il 1853 ed il 1856. Nel presente, del resto, Ankara e Londra si trovano spalla a spalla anche in Ucraina, fornendo da sette anni assistenza ‒ istruttori, mercenari, armi e droni ‒ all’esercito di Kiev contro gli insorti del Donbass sostenuti da Mosca. Malgrado tutte le azioni messe in campo e le ambizioni di Lord Johnson, la gloria di Lord Palmerston potrebbe di per sé non garantire i fasti del passato alla nuova Gran Bretagna post-Brexit.

FONTE: https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Londra_e_Ankara.html

Il giallo del pipistrello. E non solo. Le “non-conclusioni” della missione scientifica a Wuhan.

di Marinella Correggia

Un’unica certezza: non è stato il maggiordomo. E se colpevole (senza colpa) fosse stato il pipistrello, non avrebbe agito da solo. Continua il giallo delle origini virali. Il Sars-CoV-2, imputato per la pandemia di Covid-19, come e perché ha fatto il salto di specie dall’ospite animale? E il teatro del crimine – il luogo della trasmissione alla popolazione umana -, è stato davvero, nel dicembre 2019, l’ormai tristemente famoso mercato ittico di Huanan a Wuhan, la città primo epicentro al mondo? E ci sono altre ipotesi?

Non è arrivato a una conclusione nemmeno il team di esperti internazionali dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) che ha lavorato per un mese in Cina insieme a 17 colleghi locali, rivedendo studi, conducendo interviste, effettuando sopralluoghi. Insomma, cerchiamo ancora, è stata la promessa ripetuta nella conferenza stampa del 9 febbraio, a Wuhan. Finora è stata esclusa una sola delle ipotesi in campo. E il panorama delle indagini si è allargato al mondo intero.

Quattro ipotesi da studiare meglio; anzi tre (esclusa la fuga dal laboratorio). Obiettivi della missione erano da un lato verificare il luogo e la data di partenza dell’epidemia – e secondo varie ricerche cliniche condotte dai cinesi, non ci sarebbe evidenza di una trasmissione comunitaria nella città prima del dicembre 2019. Dall’altro di trattava di capire con quali modalità il virus si sia introdotto nella popolazione umana e abbia potuto circolare e in quali luoghi – considerando che nel dicembre 2019 il mercato di Huanan non è stato l’unico focolaio a Wuhan e che allo stato delle informazioni, e che la via esatta della diffusione del virus nel mercato non è stata individuata.

Il capo della missione dell’Oms a Wuhan, il danese Peter Ben Embarek ha spiegato in conferenza stampa: «Il lavoro sul campo non ha stravolto le percezioni che avevamo ma ci ha dato molti elementi. Abbiamo lavorato su quattro ipotesi chiave circa l’introduzione del virus Sars-CoV-2 nella popolazione umana e per ciascuna abbiamo valutato sistematicamente i pro e contro in modo razionale per futuri studi. Primo: salto di specie diretto da un serbatoio animale alla popolazione umana. Secondo: introduzione del virus mediante un’altra specie, ospite intermedia, potenzialmente più vicina agli umani, nella quale il virus si sarebbe meglio adattato e avrebbe potuto circolare per poi saltare agli umani. Terzo: la catena alimentare, in particolare prodotti alimentari congelati che agivano come superficie per la trasmissione agli umani e tutte le trasmissioni legate al cibo. Quarto: la possibilità di un rilascio accidentale da un laboratorio». Ha proseguito Ben Embarek: «La seconda ipotesi è la più probabile e sarà la pista per future ricerche, in collegamento con l’ipotesi della trasmissione attraverso le catene del freddo».

Invece l’ultima ipotesi di introduzione nella popolazione umana l’incidente della fuoriuscita da un laboratorio virologico non sarà più studiata: è ritenuta «altamente improbabile» in quanto «benché gli incidenti possano accadere, un simile virus non era stato oggetto di nessuna pubblicazione da parte di ricercatori; e i vari laboratori visitati, incluso quello di virologia, sono molto sicuri».

Comunque «tutto il lavoro compiuto continua a ritenere le popolazioni di pipistrelli il serbatoio naturale di questo virus e di virus simili. Ma la città di Wuhan non è vicina ad ambienti ricchi di pipistrelli, quindi la prima ipotesi, il salto diretto, è improbabile. Occorre trovare quale altra specie animale possa aver introdotto il virus, particolarmente nel mercato di Huanan».

Per Lian Wannian, capo del team cinese che ha collaborato con la missione, «coronavirus geneticamente collegati al Sars-CoV-2 sono stati identificati in diversi animali, fra cui pipistrelli detti “ferro di cavallo” e pangolini. Tuttavia campioni prelevati nello Hubei non hanno trovato evidenze di virus relativi al Sars-CoV-2 e campioni su animali selvatici in diverse parti della Cina finora non hanno trovato la presenza di Sars CoV-2». Come conseguenza dell’ipotesi, comunque (e per fortuna), il povero mammifero con le scaglie, in precedenza commercializzato seppure in modo illegale, è stato promosso al livello di protezione del panda.

Sempre per Lian Wannian, inoltre, «visoni, mustelidi, felidi e altre specie sono altamente suscettibili all’infezione e questo suggerisce che potrebbero essere un serbatoio ma non ci sono abbastanza dati». Milioni di visoni allevati soprattutto in Danimarca sono stati macellati – nelle tipiche scene infernali che accompagnano spesso le epidemie zoonotiche – perché negli allevamenti si è scoperta una trasmissione del virus da lavoratori ad animali e viceversa. Tanto che il sito ecologista Reporterre ha dedicato un’inchiesta https://reporterre.net/Les-elevages-de-visons-en-Chine-a-l-origine-du-Covid-19-Les-indices-s-accumulent alla possibilità che il salto del virus Sars-CoV-2 dal pipistrello, suo serbatoio naturale, all’umano, sia passato per quegli animali da pelliccia – e non per il pangolino.

Entrami i capi delegazione hanno ribadito che «grandi quantità di test relativi al Sars-Cov-2 sono stati condotti su molte specie animali, domestiche e selvatiche, anche nel resto del paese, ma non si è riusciti a trovare una specie animale potenziale serbatoio. Quindi non sembra che ci fosse ampia circolazione, nel 2019 e oggi, del virus in specie animali».

Giallo anche sull’ipotesi tre. Gli stand del mercato vendevano (prima della chiusura) soprattutto animali congelati, in particolare ittici, ma anche prodotti – e animali vivi – provenienti da allevamenti di specie di origine selvatica. Sono stati identificati venditori, fornitori e fattorie da diverse aree della Cina e anche dall’estero. Si continuerà su questa pista, ha spiegato il capo delegazione, compresa quella della catena di approvvigionamento di prodotti animali congelati.

Anche per Lian Wannian «nel mercato di Huanan, prima della chiusura, è stata rilevata la presenza di superfici altamente contaminate, compatibili con la presenza di persone infette o prodotti animali contaminati della catena del freddo». La possibilità di sopravvivenza del virus anche in condizioni di refrigerazione è da verificare. L’ipotesi di una importazione del virus da altri paesi, con la catena del freddo, è stata evocata già mesi fa da Pechino.

E adesso indagini a tutto campo anche nel resto del mondo

Fra le raccomandazioni del team, c’è quella di valutare se il virus fosse già presente in altri luoghi e paesi. La prospettiva è dunque di una ricerca internazionale. Alla domanda se il virus possa essere arrivato da altri paesi a Wuhan per esempio con viaggiatori asintomatici, Marion Koopmans, virologa olandese membro del team, ha citato la ricerca in Italia

(https://www.iss.it/primo-piano/-/asset_publisher/o4oGR9qmvUz9/content/cs-n%25C2%25B039-2020-studio-iss-su-acque-di-scarico-a-milano-e-torino-sars-cov-2-presente-gi%25C3%25A0-a-dicembre), indicando però che occorrono conferme. Sia Ben Embarek che Lian Wannian hanno precisato che adesso le ricerche devono continuare in tutto il mondo. Il danese ha precisato: «»In ogni caso occorre un approccio senza frontiere. Sulle popolazioni di pipistrelli, la Cina ha già testato molto ma nella sub regione si è fatto molto meno. Inoltre il passaggio alle persone può aver coinvolto viaggi e passaggio di frontiere fino a Wuhan. Occorre dunque verificare se in quella fase temporale ci fossero individui infetti anche in altri paesi.

Nel mistero fitto, il Centro cinese per il controllo delle malattie e la prevenzione ha dichiarato agli inizi del 2021 che «potrebbe servire molto tempo per trovare il virus. Potrebbe anche sparire prima che venga individuata l’origine».

In ogni caso, è tempo di cambiare radicalmente i rapporti fra il mondo umano e quello animale. Selvatico e allevato.

RCEP, il più grande blocco commerciale del mondo: come la Cina sta mettendo all’angolo gli USA

La Cina firma con 14 Paesi il più grande patto commerciale del pianeta. Ci sono i 10 Paesi ASEAN insieme a Corea del Sud, Giappone, Australia e Nuova Zelanda

(Asiablog.it) — Dopo ben otto anni di negoziazioni, la Cina è riuscita a concludere l’accordo commerciale più grande del mondo, il quale la lega con altre 14 economie orientali e non solo. La firma del Partenariato Economico Globale Regionale (Regional Comprehensive Economic PartnershipRCEP) è arrivata domenica 15 novembre, al termine del vertice dell”Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN), che vedeva il Vietnam come Paese ospitante.

Sforzo egemonico

La Rcep si affianca all’altro enorme sforzo egemonico prodotto dalla Cina in questi anni: i mega investimenti infrastrutturali della Nuova Via della Seta, che comincia però a mostrare sempre più evidenti segni di fatica e disincanto da parte dei Paesi partner. Al di là dei contenuti su dazi e commercio, la Rcep, come già la Via della Seta, ha valore politico: nella competizione sempre più aspra con gli Stati UnitiPechino ha portato avanti con pazienza e determinazione la propria diplomazia e ha costruito, almeno sulla carta, un blocco d’interesse e di influenza che abbraccia tradizionali alleati di Washington.

Oltre ai dieci Stati membri dell’Asean (Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia, Vietnam), dell’intesa fanno parte AustraliaNuova Zelanda e soprattutto Giappone e Corea del Sud. Uno schiaffo per l’Amministrazione di Donald Trump.

Nelle intenzioni di Pechino, avrebbe dovuto partecipare anche l’India, che si è sfilata non troppo a sorpresa l’anno scorso, sempre più irritata dall’espansionismo economico dell’ingombrante vicino. Le tensioni tra i due Paesi si sono riversate sul confine conteso sull’Himalaya, dove le schermaglie tra gli opposti eserciti sono salite di livello negli ultimi mesi.

I numeri della Rcep

Anche senza l’India, i numeri della Rcep sono impressionanti. La regione interessata produce il 30% del Pil mondiale e ospita quasi 2,3 miliardi di persone. L’accordo punta a ridurre progressivamente i dazi e a facilitare investimenti e scambi tra i Paesi membri (creando regole d’origine comuni). Il risultato sarà il rafforzamento delle catene di approvvigionamento regionali, sotto regia cinese. Aspetto sul quale Pechino, unica grande economia a salvarsi dalla recessione nell’anno del Covid-19, punta sempre di più, per ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti.

I membri della Rcep hanno già vari accordi bilaterali o multilaterali tra loro, sui quali poggia la nuova intesa. Ci sono regole anche sulla proprietà intellettuale, mentre poca attenzione viene posta su diritti del lavoro e ambiente.

Il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) è stato siglato ad Hanoi lo scorso 15 novembre, dopo otto anni di negoziati, e include le 10 economie dell’Asean (Indonesia, Malaysia, Singapore, Filippine, Vietnam, Thailandia, Laos, Cambogia, Myanmar e Brunei) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Nuova Zelanda e Australia. Oltre agli USA, l’altro grande assente è l’India, ritiratasi dal negoziato nel 2019.

Il vuoto lasciato da Trump

Per Pechino è un chiaro successo: la sua offensiva diplomatica ha potuto svilupparsi nel vuoto lasciato dall’Amministrazione Trump, che ha ripudiato il progetto parallelo e alternativo lanciato da Barack Obama, la Trans-Pacific Partnership (poi firmata in forma leggera dagli altri Paesi coinvolti). Per molti versi, la Rcep rappresentava proprio la risposta alla Tpp, che escludeva la Cina e puntava a contenerla.

Con la dottrina America FirstTrump ha invece rigettato il multilateralismo e reimpostato su basi mercantilistiche anche le relazioni con i tradizionali alleati, scavando un fossato di irritazione, diffidenza e dazi. Salvo poi dover rincorrere la Cina con forniture di armamenti (per esempio a Taiwan), per dare sostanza alla propria presenza politica e militare nella regione.

Secondo William Reinsch, funzionario commerciale dell’Amministrazione Clinton e consulente del Centro per gli studi strategici e internazionali di Washington, «se gli Stati Uniti continueranno a ignorare o intimidire i Paesi della regione, il pendolo dell’influenza oscillerà verso la Cina. Se invece Biden ha un piano credibile per ripristinare la presenza e l’influenza degli Usa, allora il pendolo potrebbe tornare dalla nostra parte».

L’annuncio della Rcep è arrivato mentre a Washington va in scena la più contestata e rocambolesca transizione della sua storia.

 

 

FONTE: http://www.asiablog.it/2020/11/24/rcep-cina-stati-uniti/#more-47471

Cosa succede a Hong Kong? Intervista Video a Francesco Maringiò

Con l’aiuto di Francesco Maringio’, esperto di Cina, chiariamo quello che sta succedendo a Hong Kong.

Intervista di Pietro Lunetto

 

 

FONTE: https://emigrazione-notizie.org/?p=32006

 

CUBA E CINA: UNA LEZIONE DI UMANITA’.

di Anika Persiani

(21/03/2020) – Domani sbarcheranno a Malpensa 52 medici cubani, accompagnati da coordinatori e traduttori.
Mentre tutti i nostri paesi “amici” ci hanno chiuso la porta in faccia, ci hanno derisi, ci hanno trattati come “sporchi e maledetti”, ci hanno lasciati affogare in questa orribile pandemia che con una presa di coscienza ed un aiuto europeo dal primo giorno si sarebbe potuta fermare, domani arriveranno “i cubani”.
Donne e uomini che, per umanità, stanno lasciando le loro famiglie, i loro cari, i loro amici, nell’incertezza di non rivederli mai più. Continua a leggere

Pandemia: La Casa Bianca e FMI i primi infetti

di Atilio A. Boron

Guerre, crisi economiche, disastri naturali e pandemie sono eventi catastrofici che fanno emergere il peggio e il meglio nelle persone – sia nei leader che nella gente comune – e anche negli attori sociali e nelle istituzioni. È in circostanze così avverse che le belle parole svaniscono nel nulla e danno luogo ad azioni e comportamenti concreti. Giorni fa e trattenendo a malapena le lacrime, il presidente della Serbia, Aleksandar Vucic, ha denunciato davanti alle telecamere il grande inganno della “solidarietà europea”. Non esiste una cosa del genere, ha detto Vucic, è una favola per bambini, carta straccia. Ha poi ringraziato la Repubblica Popolare Cinese per la sua collaborazione. E aveva ragione nella sua denuncia. Dall’America Latina abbiamo a lungo avvertito che l’Unione Europea era un sottile raggiro, pensato per avvantaggiare la Germania più di ogni altra cosa attraverso il controllo della Banca Centrale Europea (BCE) e con l’Euro per assoggettare i paesi dell’Eurozona ai capricci – o agli interessi – di Berlino. L’esitante reazione iniziale della BCE all’eccezionale richiesta di aiuto dell’Italia per affrontare la pandemia che sta devastando la penisola ha mostrato per alcune ore ciò che il leader serbo aveva denunciato. Un scandaloso “ognuno per sé”, che smonta la retorica sdolcinata de “l’Europa dei cittadini” e “Europa una e multipla” e altre simili balle. Una favola per bambini, come diceva Vucic. Continua a leggere

Italia Cina – Collaborazione Scientifica e Tecnologica: Piano d’Azione verso il 2025

Uno studio sulla cooperazione scientifica e tecnologica con la Cina, indirizzato a industrie, università ed enti di ricerca, che presenta le tematiche su cui concentrare gli sforzi del prossimo quinquennio.

ll documento – che rinnova l’impegno del Maeci nell’azione di coordinamento della cooperazione bilaterale con la Cina – è stato realizzato con il contribuito degli Addetti scientifici italiani accreditati nella Repubblica popolare cinese e dei partecipanti al Tavolo tecnico per la cooperazione scientifica e tecnologica con la Cina, coordinato dalla Farnesina.

Si punta a stimolare nuove iniziative di cooperazione bilaterale in un’ottica di collegamento tra ricerca, alta formazione e industria nei seguenti settori: 1) fisica, geofisica e spazio; 2) materiali avanzati; 3) ambiente e energia; 4) urbanizzazione sostenibile; 5) nuove tecnologie per il patrimonio culturale; 6) agricoltura; 7) scienze della vita, salute e benessere; 8) fabbrica intelligente.

 

SCARICA IL DOCUMENTO

 

 

 

Il coronavirus è il disastro perfetto per il capitalismo dei disastri

L’attivista, figura di riferimento del movimento di Seattle, spiega come governi ed elite globali sfrutteranno la pandemia per portare avanti le priorità del libero mercato . Un’intervista tradotta dall’edizione dall’edizione statunitense del magazine Vice

Il coronavirus è ufficialmente una pandemia globale che finora ha infettato un numero di persone dieci volte superiore a quello che venne colpito dalla Sars. Negli Stati Uniti scuole, sistemi universitari, musei e teatri stanno chiudendo e presto potrebbero farlo anche intere città. Gli esperti avvertono che alcune persone che sospettano di aver contratto la malattia, anche nota come Covid-19, stanno proseguendo le loro attività quotidiane o perché sul lavoro non hanno accesso a permessi retribuiti o per via delle falle sistemiche del nostro sistema sanitario privatizzato. Molti di noi non sono sicuri di cosa fare o di chi ascoltare.  Continua a leggere

Algoritmi facebook e libertà di ragionare

Ci segnalano che il rilancio su Facebook della notizia pubblicata anche dal nostro sito che il portavoce del Ministero degli Esteri cinese abbia chiesto trasparenza di informazione agli USA sulla possibile presenza del virus COVID-19 in USA già nel novembre 2019 (VEDI NOTIZIE QUI) e (QUI), abbia prodotto come ammonimento il seguente messaggio.

USA TODAY, partner di Facebook nel Fact checking di notizie sul social network avrebbe verificato che la notizia è falsa: Secondo USA TODAY, “il Coronavirus si è originato in Cina e in nessun altro luogo”.

Seguono indicazioni e link cui attenersi nella pubblicazione di post su Facebook.

Si potrebbe dire che Facebook se la canta e se la suona. Continua a leggere

«Siamo in un’economia di guerra»

di Roberto Ciccarelli (da Il Manifesto)

Coronavirus. Drammatico annuncio del presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno: “Non dobbiamo illuderci: sono i primi passi di una battaglia temporanea e lunga. Il contenimento sta portando l’economia ai tempi di guerra”. Una metafora dilagante a tutti i livelli che serve a rinserrare la popolazione nelle file di un esercito immaginario, ma rischia anche di occultare un cambio di paradigma. Ieri sono di nuovo crollate le borse: l’azione della Fed non è servita, Wall Street ha fatto di nuovo peggio del 1987, Milano a meno 6%. Verso un coordinamento delle politiche fiscali a livello Ue. Gentiloni: «Pronti a qualunque azione» Continua a leggere

L’epidemia travolge tutti, anche il debito globale

di Vincenzo Comito

La diffusione del coronavirus è destinata a stravolgere l’ordine economico, finanziario e geopolitico internazionale. Mentre qualcuno, illusoriamente, invoca la degloblizzazione e il decoupling Usa-Cina, si profila un’esplosione del debito mondiale. E con essa una nuova drammatica crisi finanziaria. Continua a leggere

La Regione Lombardia chiede aiuto ai medici cubani, cinesi e venezuelani per sconfiggere il Coronavirus

Per far fronte all’emergenza Coronavirus e disporre di un numero maggiore di personale sanitario, la Giunta della Regione Lombardia ha aperto agli Stati storicamente di sinistra. L’assessore al Welfare Gallera ha detto di “aver avuto contatti con Cuba, Venezuela e Cina per l’invio di medici e infermieri”.

Nel corso della consueta conferenza stampa della Regione Lombardia tenuta dal presidente Attilio Fontana e gli assessori Giulio Gallera, Davide Caparini e Pietro Foroni, è emerso anche il dato dei medici e degli infermieri che hanno risposto alla chiamata per entrare da subito in servizio e aiutare nella lotta all’emergenza Coronavirus. Continua a leggere

EPIDEMIA CORONAVIRUS: DUE APPROCCI STRATEGICI A CONFRONTO

I due stili strategici di gestione dell’epidemia a confronto

di Roberto Buffagni

Propongo una ipotesi in merito ai diversi stili strategici di gestione dell’epidemia adottati in Europa e altrove. Sottolineo che si tratta di una pura ipotesi, perché per sostanziarla ci vogliono competenze e informazioni statistiche, epidemiologiche, economiche che non possiedo e non si improvvisano. Sono benvenute le critiche e le obiezioni anche radicali.

L’ipotesi è la seguente: lo stile strategico di gestione dell’epidemia rispecchia fedelmente l’etica e il modo di intendere interesse nazionale e priorità politiche degli Stati e, in misura minore, anche  delle nazioni e dei popoli. La scelta dello stile strategico di gestione è squisitamente politica.

Gli stili strategici di gestione sono essenzialmente due: Continua a leggere

Lo tsunami Lagarde

di Alfiero Grandi

Le affermazioni della Presidente della Bce sono state devastanti per l’Italia – sul crollo della borsa e sull’aumento dello spread tra Btp e Bund tedeschi – e per lo scivolone delle borse europee che hanno perso 800 miliardi di euro. Un disastro economico che va sanzionato.

Ha fatto benissimo il Presidente della Repubblica Mattarella a reagire con durezza chiedendo all’Europa di farsi carico del sostegno all’Italia, che subisce in questa fase le conseguenze più pesanti dal corona virus, che in futuro potrebbe mettere in crisi altri paesi, come ha ricordato Angela Merkel che ha paventato un possibile contagio per decine di milioni di tedeschi.

Continua a leggere

Cina-Italia: un destino condiviso

di Fabio Massimo Parenti

da https://www.beppegrillo.it

Pandemia Coronavirus: chi ha nascosto o sta nascondendo i dati negli Usa e in Europa? Quale paese pagherà il prezzo più alto? Questa crisi è un banco di prova per tutte le autorità del mondo, per tutti i popoli. 
La chiamavano la Chernobyl cinese, i commentatori nostrani, anche con un pizzico di cinismo, ma la realtà sta dimostrando che si potrà rivelare la Chernobyl dell’Europa e dell’Occidente. Al contrario, la leadership cinese va rafforzandosi, dato che l’emergenza sta rientrando grazie a misure e politiche che, come vedremo sotto, hanno ricevuto il plauso di molti paesi, organizzazioni e studiosi di tutto il mondo. La risposta cinese all’epidemia è stata una lezione, per rapidità ed efficacia (oggi lo riconoscono anche coloro che ci criticavano, mossi solo da pulsioni ideologiche). I cinesi hanno aggredito il problema ed hanno sin da subito collaborato con la comunità internazionale. Una lezione a lungo a disposizione del mondo intero, due mesi. Una lezione non appresa. Invece di guardare onestamente al dramma del popolo cinese, dapprima lo abbiamo sfruttato per criticarne il sistema politico, dopodiché lo abbiamo sottostimato ed infine lo abbiamo subìto, rischiando di pagare un prezzo molto salato. Un prezzo che ha un’unica origine: arroganza e malcelato senso di superiorità. La nostra globalizzazione neoliberale sarà forse un ricordo, oppure no. Quel che è certo: i modelli politici ed economici verranno ampiamente messi in discussione e quello cinese, sempre laboratorio, diverrà riferimento di un crescente numero di paesi e soggetti politici.
Continua a leggere

DOPO COVID-19

Sostieni CAMBIAILMONDO

Dai un contributo (anche piccolo !) a CAMBIAILMONDO

Per donare vai su www.filef.info e clicca sull'icona "DONATE" nella colonna a destra in alto. La pagina Paypal è: filefit@gmail.com

Inserisci la tua e-mail e clicca sul pulsante Cambiailmondo per ricevere le news

Unisciti a 1.850 altri iscritti

Blog Stats

  • 1.307.892 hits

ARCHIVIO

LINK consigliati

 

cambiailmondo2012@gmail.com