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CUBA E CINA: UNA LEZIONE DI UMANITA’.

di Anika Persiani

(21/03/2020) – Domani sbarcheranno a Malpensa 52 medici cubani, accompagnati da coordinatori e traduttori.
Mentre tutti i nostri paesi “amici” ci hanno chiuso la porta in faccia, ci hanno derisi, ci hanno trattati come “sporchi e maledetti”, ci hanno lasciati affogare in questa orribile pandemia che con una presa di coscienza ed un aiuto europeo dal primo giorno si sarebbe potuta fermare, domani arriveranno “i cubani”.
Donne e uomini che, per umanità, stanno lasciando le loro famiglie, i loro cari, i loro amici, nell’incertezza di non rivederli mai più.
Resteranno in Italia, in Lombardia, con il rischio di ammalarsi a 8 mila chilometri da casa loro, di morire ed anche di non farcela a salvare tutti. Persone che staranno a contatto con i nostri malati, che piangeranno con noi i nostri morti, che daranno un contributo per salvaguardare la nostra comunità, che ci aiuteranno a gestire questa catastrofe; esseri umani che si impegneranno, senza conoscere il nostro paese, la nostra lingua, le nostre abitudini. E non per un lauto stipendio, ma per far fede al loro giuramento di Ippocrate e dare una mano ai nostri medici ed infermieri che hanno in faccia i segni della fatica, della distruzione morale, che hanno la disperazione anche nelle ossa giacché devono pure combattere con la strafottenza dei loro concittadini che stanno cercando di salvare.

I cubani sono abituati a farlo, per poco più di 50 dollari al mese, così come i nostri operatori sanitari, i nostri volontari, lo fanno per altrettante “briciole occidentali”.
Perché i cubani sono stati in prima linea nelle più grandi catastrofi della storia.
Perché i cubani hanno curato i malati di Ebola, evitando che quel virus arrivasse anche qua, in Europa, dove sapevamo solo spaventarci e guardare l’Africa con profondo senso di schifo. E dove loro rischiavano la loro vita, ancora una volta, per tutelare l’umanità intera.

Perché i cubani si portano in casa i malati, i peggiori malati, quelli che per il resto del mondo potrebbero pure morire in mezzo ad una tempesta di sabbia o nei cassonetti della spazzatura.
Perché i cubani aiutano chiunque abbia bisogno di aiuto e se ne strafottono di macchiarsi il camice, di sporcarsi le mani con i lebbrosi o di avere le condizioni adeguate.

I cubani si arrangiano. Da sessant’anni si arrangiano. Con quello che hanno, cercando di accomodare il tutto.
Negli ospedali dell’isola ti devi portare le lenzuola da casa, a volte mancano gli strumenti diagnostici, a volte mancano materiali essenziali. Ma i medici, là, trovano sempre il modo di salvarti la vita, come hanno fatto con me. Come fanno con chiunque. E gratis, senza chiederti neanche il nome, la nazionalità o la residenza.

Quando arrivi in un ospedale cubano, sei cubano. Quando hai bisogno di un medico, c’è: in mezzo di strada, in un ambulatorio, in una clinica, in un ospedale, in un bar, in un ristorante, in una piazza. Quando hai bisogno di assistenza, c’è. Che tu sia un milionario, un clochard, un anticastrista, uno spaccone, un batman o un puffo blu, c’è sempre qualcuno pronto a salvarti la vita, senza lamentarsi, senza spaventarti, senza farti male. Magari pure con quella poca cortesia che non fa distinzioni, ma che ti tira fuori dal problema, perdio.

Io sono viva grazie ad un medico cubano di nome Lazaro. Che, quando mi ha vista arrivare all’ambulatorio della via Monserrate, mi ha guardata negli occhi, mi ha fatto girare il collo e destra e poi a sinistra, mi ha preso le pulsazioni, i parametri vitali, mi ha fatta parlare venti minuti (ed io che lo guardavo perplessa, chiedendomi il perché volesse sapere i dettagli delle mie giornate) e poi mi ha detto: “Oye chama, tu tienes un cancer de tiroides muy peligroso, hay que sacarlo rapido. Manana hacemos la ecografia y te mando al Almejeira y te van a operar” (“Ehi, ragazza, hai un tumore alla tiroide molto pericoloso, va tolto subito. Domani ti faremo l’ecografia e ti mando all’ospedale Almejeira e ti operano”).

Stravolta, gli ho risposto: “E mi devo fidare? E se succede qualcosa? E se non è vero? Come fa a diagnosticarmi una cosa così se non ha in mano niente?”.
E lui: “Fai come vuoi. Se ti operiamo qua, andrà tutto bene e vivrai bene. E quello che hai lo so, perché sono 23 anni che faccio diagnosi con le mie mani”.

Quella sera volevo svenire. E lo volevo insultare, pure. Perché i cubani sono così, sicuri, strasicuri e sono diretti.. I medici, soprattutto. Perché dal secondo anno di università vanno in corsia a curare la gente, perché sanno cosa è la medicina delle catastrofi, perché vivono costantemente in una catastrofe.

I medici cubani e gli infermieri cubani sono speciali. Sono umani, sono persone che stanno fra la gente, che girano con le magliette scolorite dai tanti lavaggi, con le scarpe di quando facevano il liceo, con i sacchetti di plastica bianchi e con il cestino del pranzo che si portano dietro. I medici e gli infermieri cubani restano giorno e notte negli ospedali, nelle sale operatorie. Perché, dicono, sono medici e infermieri.

Ed io, quando posso, mi precipito all’Avana e mi porto tutte le mie cartelle cliniche per capire le mie condizioni e per farmi seguire. GRATIS. Perché ormai sono una di loro.

La mia dentista è cubana, Lucy. Ed io vado all’Avana da Lucy perché, mentre qua mi volevano togliere i denti e fare gli impianti per migliaia di euro, Lucy mi segue da dieci anni e non mi ha fatto perdere neanche un premolare.
Tutto cambierà dopo questa esperienza con loro. Cubani orgogliosi che la maggior parte della gente immagina come ballerini e musicisti che intrattengono le nostre serate latine.

Cubani che seguono gli insegnamenti di un medico argentino che si chiamava Ernesto e che ben presto è diventato semplicemente il Che.
Cubani. Che hanno conosciuto questo virus perché, il 9 marzo, 4 turisti italiani provenienti da quella regione dove andranno a lavorare, la Lombardia, sono sbarcati all’Avana ed hanno portato su quell’isola di palme e spiagge meravigliose, anche il Covid19.

Ho le lacrime agli occhi da giorni, da quando ho visto l’Assessore Gallera e il governatore della Lombardia presentarsi in conferenza stampa con i medici cinesi, arrivati qua con i cargo di materiali sanitari, e che continuano a portare solidarietà e strumenti per gestire l’emergenza. E penso: “Ma io lo farei?”.

Mi rispondo sì, lo farei, anche se mi sento impotente quando leggo le puttanate scritte sui social da complottisti o fanatici delle teorie del cazzo. Affermazioni che, sinceramente, farebbero passare – a chiunque – la voglia di combattere anche per loro.

Non conosco la Cina, ma Cuba la conosco bene. Cuba è parte della mia storia, ed io sono parte di Cuba, come una cubana di adozione. Ho trovato una grande famiglia, a Cuba: due mamme, Marta e Ladys che mi curano come se io fossi veramente la loro figlia. Ho trovato una sorella, Jesahel, ho trovato un’amica del cuore, Dania Tamayo. Ed io sono diventata la mamma italiana di ragazzi che mi hanno dato grandi soddisfazioni e che, neanche un giorno, si sono dimenticati di me.

Ho trovato grandi amici, persone che mi sono quotidianamente accanto, nonostante la distanza, persone che conosco meglio dei miei parenti e che, puntualmente, si preoccupano per me.

Mi sono incazzata tante volte, nella mia vita all’Avana. Sono stata irriverente, insopportabile, irascibile – quando non trovavo quello che cercavo nei negozietti arrangiati della provincia. Ho bestemmiato per parecchi giorni quando mancavano i trasporti, quando mancava l’acqua, quando pretendevo di capire cose inspiegabili, quando mancava la luce o il pane ed io non me ne facevo una ragione, nonostante stessi su un’isola che vive un embargo economico da sessant’anni.
Ma ormai sono cubana. E mi sento orgogliosa, oggi, di esserlo.
Perché i medici cinesi e cubani non sono ONLUS che operano all’estero.
Sono operatori dei loro governi; perché il governo cubano ed il governo cinese – descritti da tanti come dittature – mandano i loro dipendenti a salvare il mondo. A salvare ognuno di noi. A salvare le nostre vite e ad insegnarci che, insieme, tutto è possibile.

E IO SPERO CHE TUTTO SIA POSSIBILE. Spero che i nostri operatori sanitari possano avere almeno la speranza di non essere soli in questa guerra. Perché sono stati lasciati soli. Purtroppo anche da tanti di noi: egoisti ed individualisti.

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