di Enrico Vigna, 12 marzo 2023
I Balcani occidentali sono un insieme di sei paesi, che comprende Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia che i rappresentanti dell’Unione europea hanno ripetutamente affermato devono appartenere alla famiglia europea. La regione dell’Europa meridionale e orientale, abitata da circa 18 milioni di persone, è ormai nota come l’arena della rivalità geostrategica tra, Bruxelles, Washington e Mosca degli ultimi decenni.
La promessa di ammissione di questi paesi nell’Unione europea, oltreché nella NATO, è stato finora lo strumento più sottile dell’Occidente per assoggettare e integrare la regione, usando i leader filoeuropeisti da essi sponsorizzati e sostenuti.
Peter Stano, portavoce del capo della diplomazia europea ha dichiarato alla CNBC: “… Sicuramente, i Balcani occidentali sono il secondo campo di battaglia per la Russia in termini di strategia e… dopo l’Ucraina si sono intensificate le loro attività…”..
Anche la NATO ribadisce l’importanza strategica dei Balcani occidentali per l’Alleanza: “È chiaro che l’invasione russa dell’Ucraina influisce sulla stabilità dei nostri partner vulnerabili e li espone a un rischio maggiore di “influenza maligna”. Continueremo a lavorare insieme per mantenere la stabilità e sostenere le riforme e la resilienza nella regione perché la sicurezza e la stabilità nei Balcani occidentali sono importanti per la NATO e per la pace e la stabilità in Europa…”, ha poi affermato un funzionario della NATO citato dalla CNBC. Sappiamo cosa significano per la NATO le parole stabilità e sicurezza…
In risposta a una richiesta di commento, un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha detto alla CNBC che: “… Washington rimane profondamente coinvolta nella regione, descrivendo il futuro dei Balcani occidentali come “esclusivamente all’interno dell’UE”…Non dobbiamo permettere al governo russo di frenare il progresso dei paesi dei Balcani occidentali“, ha detto il diplomatico americano.
Considerando il fatto che recentemente nei Balcani occidentali tutti gli esempi della cosiddetta “influenza maligna della Russia” si sono rivelati falsi e il livello di conflitto in Bosnia ed Erzegovina (BiH) e nella provincia autonoma serba del Kosovo è rimasto finora un problema locale e interno alle problematiche degli attori regionali, tali dichiarazioni dei media statunitensi suscitano sospetti e insidie. Queste dichiarazioni possono essere interpretate come una copertura per accrescere la campagna occidentale volta a costringere le autorità della Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina e della Serbia, a imporre sanzioni contro la Russia.
Casualmente, subito dopo queste ennesime dichiarazioni, l’11 febbraio il presidente serbo A. Vučić ha affermato che le autorità serbe stavano aspettando “il momento giusto” per imporre sanzioni contro la Russia, e “la questione non riguarda mesi” , e queste affermazioni hanno scatenato nella società serba proteste di piazza, fibrillazioni e accuse di tradimento al presidente serbo, il quale si è giustificato dicendo che ormai le pressioni sul paese sono al punto di insostenibilità.
Nell’ultima votazione di novembre scorso, il Parlamento Europeo, per la seconda volta ha chiesto ufficialmente che l’UE interrompa l’avanzamento dei negoziati con la Serbia fino a quando non soddisferà diversi requisiti di base, il più importante dei quali è il completo allineamento della politica estera e di sicurezza della Serbia con la politica estera e di sicurezza della UE. Il Parlamento europeo sottolinea l’importanza del pieno rispetto, in particolare della politica delle sanzioni contro i paesi terzi. Il PE esprime rammarico per il basso livello di conformità della Serbia alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE, in particolare in relazione all’aggressione militare della Russia contro l’Ucraina. La risoluzione afferma che ulteriori capitoli negoziali dovrebbero essere aperti solo quando la Serbia rafforzerà il suo impegno per le riforme nel campo della democrazia e dello Stato di diritto e dimostrerà di essere pienamente allineata con la politica estera e di sicurezza comune dell’UE. Nel documento, il PE ricorda che la Serbia, in quanto paese che lotta per l’integrazione europea, deve aderire a valori comuni.
Il governo serbo già da alcuni mesi sta dando segnali di cedimento della sua storica politica (dai tempi della Jugoslavia socialista), di Non allineamento. UE, NATO, USA dall’armistizio, dopo l’aggressione del 24 marzo 1999, stanno cercando di piegare la politica serba ai diktat dell’egemonia occidentale, cercando di rompere la millenaria fratellanza del popolo serbo con quello russo e slavo. Ora sembra che siamo vicini a questo passaggio che sarebbe traumatico sia politicamente, che culturalmente e spiritualmente per i serbi, ma che avrebbe anche ripercussioni e destabilizzazioni in tutti i Balcani e i paesi vicini.
Secondo uno studio condotto dall’organizzazione britannica Henry Jackson Society (HJS) presso l’Università di Cambridge, la stragrande maggioranza dei cittadini serbi, il 78,7%, non sostiene l’imposizione di sanzioni anti-russe e l’armonizzazione della politica estera del Paese con l’Unione Europea, si oppone all’adesione alla NATO e non vuole perdere i suoi, storicamente buoni rapporti con la Russia. Mentre solo il 12,1% dei serbi è favorevole.
Secondo gli autori dello studio, nonostante le pressioni e i ricatti dell’UE sulla Serbia, il 53,3% dei suoi cittadini vuole rimanere neutrale rispetto al conflitto in Ucraina. Il 35,8% degli intervistati ritiene che la Serbia dovrebbe sostenere la Russia e solo il 4,4% ha dichiarato di sostenere l’Ucraina. Per i ricercatori inglesi, la reazione dei cittadini serbi al caso dell’uso del sistema “bastone e carota” da parte di Bruxelles e Washington si è rivelata scioccante.
Alla domanda se imporre sanzioni alla Russia per accelerare l’adesione della Serbia all’UE, solo il 6,4% ha risposto “sì”. Se l’UE fornisse un’assistenza finanziaria significativa alla Serbia, solo il 9,5% accetterebbe di imporre sanzioni. E se Bruxelles smetterà di fare pressioni su Belgrado affinché riconosca l’indipendenza dell’autoproclamata “Repubblica del Kosovo“, allora questa quota salirebbe solo al 13,6%.
Quando si tratta di possibili “fruste“, i risultati sono simili. Anche con la minaccia di sanzioni dell’UE contro la stessa Serbia, il 69,9% degli intervistati si è dichiarato contrario alle sanzioni anti-russe. Se l’Ue minaccia di chiudere i suoi fondi, solo il 12,4% è favorevole alle sanzioni. Il ritiro degli investimenti ha spaventato solo il 15,1% dei serbi.
Alla domanda su chi sia la colpa del conflitto in Ucraina, il 66,3% degli intervistati in Serbia ha risposto che è Kiev. Ma su questo argomento i maggiori “successi” sono stati ottenuti dagli Stati Uniti e dalla NATO: l’82,4% e l’84,8% degli intervistati li incolpa per la situazione attuale. Non a caso, in un ipotetico referendum sull’adesione della Serbia alla Nato, il 63,4% degli abitanti del Paese voterebbe “contro“. Solo l’1,2% sostiene fortemente questa idea. E se si tenesse un referendum sull’adesione della Serbia all’Unione europea, il 31,6% voterebbe “decisamente contro”, il 12,7% preferibilmente contro. Mentre il 23% dei serbi è favorevole all’adesione all’UE e solo il 15,1% è “decisamente favorevole”.
Per quanto riguarda una associazione alle potenze mondiali, il 54,1% degli intervistati in Serbia afferma che dovrebbe essere con laRussia, mentre il 22,6% vede un alleato nella UE, il 9,7% nellaCina. Gli Stati Uniti hanno ottenuto solo l’1,2% delle simpatie.
Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che ulteriori misure restrittive contro la Serbia potrebbero portare ad un allontanamento e contrarietà alla UE. Inoltre è stato rilevato che, foss’anche che le autorità serbe imponessero sanzioni anti-russe, i cittadini del Paese si allontanerebbero ancora di più dall’Occidente.
incontrati a Bruxelles per discutere il piano dell’Unione Europea per la normalizzazione tra Kosovo Lunedì 27 febbraio il presidente serbo A. Vucic e il premier kosovaro albanese A. Kurti si sono e Serbia. I due esponenti non hanno poi firmato nulla, l’accettazione del piano è solo verbale e mancano ancora da definire alcune riserve. Su queste nelle prossime settimane si andranno a concentrare nuovi negoziati,
Dopo l’aggressione NATO del 1998-99, il Kosovo ha proclamato nel 2008 la propria indipendenza, mai riconosciuta da Belgrado, che ha sempre goduto del sostegno della Russia per bloccare l’accesso di Pristina alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali. La realizzazione di questo accordo sbloccherebbe questo status quo. Il 18 marzo i leader si incontreranno di nuovo, un incontro che potrebbe segnare l’inizio di nuovi scenari geopolitici e destabilizzazioni non solo in Serbia.
Il piano dell’UE è frutto di una proposta franco-tedesca, preparata mentre a livello locale crescevano le tensioni per via della cosiddetta “battaglia delle targhe” e della richiesta della realizzazione delle Comunità Autonome Serbe nella provincia, come previsto nella risoluzione ONU 1244.
Fino allo scorso 27 febbraio, questa proposta non era mai stata resa pubblica, se non da alcune indiscrezioni a mezzo stampa, il piano non prevede che Kosovo e Serbia si riconoscano ufficialmente, un truffaldino escamotage, che nasconde la resa dello stato serbo su tutti i fronti, mantenuti in questi 24 anni.
Si richiede di conseguenza l’impegno per Belgrado di smettere di ostacolare l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali, promettendo l’avvio di “relazioni di buon vicinato sulla base di uguali diritti”: la Serbia deve riconoscere documenti, emblemi nazionali, passaporti e targhe automobilistiche emessi dal cosiddetto stato indipendente del Kosovo, si scambierebbero “missioni permanenti”; e rifiuterebbero l’uso della forza per la risoluzione delle controversie in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. Disposizioni, quindi, che prevedono un riconoscimento de facto, anche se la terminologia impiegata evita questa espressione. Resta solo un aspetto non risolto in questo piano, ovvero l’istituzione di una Associazione/Comunità dei comuni a maggioranza serba, che nel 2015 fu giudicata incostituzionale dalla UE. Un ultimatum per la capitolazione della Serbia, il cui passo successivo sarebbe l’accettazione delle sanzioni alla Russia, con tutto ciò che comporterà nelle relazioni tra i due paesi.
Intanto nel paese la tensione sale di giorno in giorno, con proteste, arresti, scontri sia in Serba che in Kosovo; nelle manifestazioni il clima è infuocato e lo scontro sale pericolosamente, alcuni leader patriottici di queste proteste, dove ci sono già stati arresti e scontri violenti, hanno addirittura espresso negli slogan il monito/minaccia “chi firmerà questo tradimento sarà ucciso” o dichiarazioni durissime, come quelle dell’accademico serbo Dusan Kovacevic: “Chi firmerà per l’indipendenza del Kosovo morirà prima che l’inchiostro si asciughi“.
Alcuni deputati, anche dello stesso partito del presidente Vucic, il Partito Progressista Serbo al governo, ribadiscono che sarebbe economicamente non conveniente per la Serbia imporre sanzioni, poiché metterebbe a repentaglio la sua sicurezza energetica e le relazioni fraterne secolari. Anche la “…Chiesa Ortodossa serba sembra pronta a scendere in campo contro la resa del governo, molti analisti prevedono la possibilità di manifestazioni di massa nel paese contro l’introduzione di restrizioni alla Russia” ha dichiarato ai media il deputato Kostic; che ha poi aggiunto”…La gente in Serbia è per la Russia e contro la NATO, quindi un tentativo di imporre sanzioni potrebbe essere la fine per Aleksandar Vučić e il suo governo“.
Anche i serbi del Kosovo resistono e rispondono alle quotidiane provocazioni e violenze, con manifestazioni di piazza e resistenza civile
Nella provincia continuano le proteste e le manifestazioni nelle aree abitate dai serbi, nel nord del Kosovo contro le violenze e il terrorismo delle “forze speciali” delle autorità separatiste di Pristina e contro le prospettive di svendita della provincia. Le parole d’ordine con cui i serbi scendono in piazza sono: “Kurti, non ti perdoneremo i nostri figli colpiti”,“Europa, di cosa sono colpevoli i nostri figli?”,“Vučić, prenditi cura dei serbi e della pace!”,“Vogliamo solo pace”, “Kosovo è Serbia”.
Nel contempo USA e NATO soffiano sul fuoco, probabilmente ritenendo che la destabilizzazione della Serbia, potrebbe aprireun secondo fronte di scontro tra occidente e Russia, con l’obiettivo di creare nuove contraddizioni e un indebolimento strategico della stessa.
A cura di Enrico Vigna, presidente di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija e portavoce del Forum Belgrado Italia – 12 marzo 2023
Pubblichiamo il discorso pronunciato da Lula nel Parlamento della capitale Brasília il 1° gennaio 2023, in occasione dell’insediamento del nuovo governo.
Per la terza volta mi presento a questo Parlamento Nazionale per ringraziare il popolo brasiliano per il voto di fiducia ricevuto. Rinnovo il mio giuramento di fedeltà alla Costituzione della Repubblica, insieme al Vice Presidente Geraldo Alckmin e ai ministri che lavoreranno con noi per il Brasile.
Se siamo qui oggi, è grazie alla consapevolezza politica della società brasiliana e al fronte democratico che abbiamo formato durante questa storica campagna elettorale.
La democrazia è stata la grande vincitrice di queste elezioni, riuscendo a prevalere sulla più grande mobilitazione di risorse pubbliche e private mai vista; le più violente minacce alla libertà di voto, la più abietta campagna di bugie e odio tramata per manipolare e mistificare l’elettorato.
Mai prima d’ora risorse pubbliche statali sono state così mal utilizzate a vantaggio di un progetto autoritario di potere. Mai la macchina pubblica è stata così sottratta ai controlli repubblicani. Gli elettori non sono mai stati così vincolati dal potere economico e dalle bugie diffuse su scala industriale.
Nonostante tutto, ha prevalso la decisione delle urne, grazie a un sistema elettorale riconosciuto a livello internazionale per la sua efficacia nel ricevere e contare i voti. L’atteggiamento coraggioso della Magistratura, in particolare del Tribunale Superiore Elettorale, è stato fondamentale per far prevalere la verità delle urne sulla violenza dei suoi detrattori.
Signore e signori parlamentari,
Tornando a questa seduta plenaria della Camera dei Deputati, dove ho partecipato all’Assemblea Costituente del 1988, ricordo con commozione gli scontri che qui abbiamo combattuto, democraticamente, per inscrivere nella Costituzione il più ampio insieme di diritti sociali, individuali e collettivi, a vantaggio della popolazione e della sovranità nazionale.
Vent’anni fa, quando sono stato eletto presidente per la prima volta, insieme al collega vicepresidente José Alencar, ho iniziato il mio discorso inaugurale con la parola “cambiamento”. Il cambiamento che intendevamo era semplicemente quello di attuare i precetti costituzionali. A cominciare dal diritto a una vita dignitosa, senza fame, con accesso al lavoro, alla salute e all’istruzione.
In quell’occasione ho affermato che la missione della mia vita si sarebbe compiuta quando ogni uomo e donna del Paese avesse potuto consumare tre pasti al giorno.
Dover ripetere oggi questo impegno – di fronte all’aumento della povertà e al ritorno della fame, che avevamo superato – è il sintomo più grave della devastazione che si è imposta al Paese in questi anni.
Oggi il nostro messaggio al Brasile è di speranza e di ricostruzione. Il grande edificio di diritti, sovranità e sviluppo che questa Nazione ha costruito dal 1988 è stato sistematicamente demolito negli ultimi anni. È per ricostruire questo edificio di diritti e valori nazionali che dirigeremo tutti i nostri sforzi.
Signore e signori,
Nel 2002 dicevamo che la speranza aveva vinto la paura, nel senso di aver superato i timori di fronte all’inedita elezione di un rappresentante della classe operaia a presiedere ai destini del Paese. In otto anni di governo abbiamo chiarito che tali timori erano infondati. Altrimenti non saremmo qui di nuovo.
È stato dimostrato che un rappresentante della classe operaia può di fatto dialogare con la società per promuovere la crescita economica in modo sostenibile e a beneficio di tutti, specialmente dei più bisognosi. Si è dimostrato che era davvero possibile governare questo Paese con la più ampia partecipazione sociale, includendo i lavoratori e i più poveri nelle decisioni di bilancio e di governo.
Durante questa campagna elettorale ho visto brillare la speranza negli occhi di un popolo sofferente, a causa della distruzione delle politiche pubbliche che promuovevano la cittadinanza, i diritti essenziali, la salute e l’istruzione. Ho visto il sogno di una Patria generosa, che offra opportunità ai suoi figli e figlie, in cui la solidarietà attiva sia più forte del cieco individualismo.
La diagnosi che abbiamo ricevuto dal Gabinetto per la Transizione di Governo è spaventosa. Hanno svuotato le risorse sanitarie. Hanno smantellato Istruzione, Cultura, Scienza e Tecnologia. Hanno distrutto la protezione dell’ambiente. Non hanno lasciato risorse per mense scolastiche, vaccinazioni, sicurezza pubblica, protezione forestale, assistenza sociale. Hanno disorganizzato il governo dell’economia, il finanziamento pubblico, il sostegno alle imprese, agli imprenditori e al commercio estero. Hanno sperperato aziende statali e banche pubbliche; hanno consegnato il patrimonio nazionale. Le risorse del paese sono state saccheggiate per soddisfare l’avidità dei redditieri e degli azionisti privati delle aziende pubbliche.
È su queste terribili rovine che prendo l’impegno, insieme al popolo brasiliano, di ricostruire il Paese e costruire di nuovo un Brasile di tutti e per tutti.
Signore e signori,
Di fronte al disastro di bilancio che abbiamo ricevuto, ho presentato al Congresso nazionale proposte che ci consentono di sostenere l’immenso strato di popolazione che ha bisogno dello Stato semplicemente per sopravvivere.
Ringrazio la Camera e il Senato per la loro sensibilità alle urgenze del popolo brasiliano. Prendo atto dell’atteggiamento estremamente responsabile della Corte Suprema Federale e della Corte Federale dei conti di fronte a situazioni che avrebbero potuto distorcere l’arminia dei tre poteri repubblicani.
L’ho fatto perché non sarebbe giusto né corretto chiedere pazienza a chi ha fame. Nessuna nazione è risorta né può sollevarsi dalla miseria della sua gente.
I diritti e gli interessi della popolazione, il rafforzamento della democrazia e la ripresa della sovranità nazionale saranno i pilastri del nostro governo.
Questo impegno inizia con la garanzia di un Programma Bolsa Família [è un programma di assistenza sociale realizzato dal Governo del Brasile, fornisce aiuti finanziari alle famiglie in stato di povertà. NdT] rinnovato, più forte e più equo, al servizio dei più bisognosi. Le nostre prime azioni mirano a salvare 33 milioni di persone dalla fame e salvare dalla povertà più di 100 milioni di uomini e donne brasiliani, che hanno sopportato il peso più duro del progetto di distruzione nazionale che oggi si conclude.
Signore e signori,
Questo processo elettorale è stato caratterizzato anche dal contrasto tra diverse visioni del mondo. Il nostro, centrato sulla solidarietà e sulla partecipazione politica e sociale per la definizione democratica del destino del Paese. L’altro, nell’individualismo, nella negazione della politica, nella distruzione dello Stato in nome di presunte libertà individuali.
La libertà che abbiamo sempre difeso è quella di vivere con dignità, con pieni diritti di espressione, manifestazione e organizzazione.
La libertà che coloro che abbiamo battuto predicano è quella di opprimere i vulnerabili, massacrare l’avversario e imporre la legge del più forte al di sopra delle leggi della civiltà. Il nome di ciò è barbarie.
Ho capito, fin dall’inizio del percorso della campagna elettorale, che dovevo candidarmi con un fronte più ampio rispetto all’ambito politico in cui mi ero formato, mantenendo fermo il legame con le mie origini. Questo fronte è stato consolidato per impedire il ritorno dell’autoritarismo nel Paese.
Da oggi sarà nuovamente rispettata la Legge sull’accesso all’informazione, il Portale della Trasparenza svolgerà nuovamente il suo ruolo, saranno nuovamente esercitati i controlli repubblicani a difesa dell’interesse pubblico. Non abbiamo alcuno spirito di rivalsa contro chi ha cercato di soggiogare la Nazione ai propri disegni personali e ideologici, ma garantiremo lo stato di diritto. Chi ha sbagliato risponderà dei propri errori, con ampio diritto di difesa, entro le dovute vie legali. Il mandato che abbiamo ricevuto, contro oppositori ispirati dal fascismo, sarà difeso con i poteri che la Costituzione conferisce alla democrazia.
All’odio, risponderemo con amore. Alla menzogna, con la verità. Al terrore e alla violenza, risponderemo con la Legge e le sue più dure conseguenze.
Sotto i venti della ridemocratizzazione dopo il ventennio del golpe dei militari, affermammo: mai più dittatura! Oggi, dopo la terribile sfida vinta, dobbiamo dire: democrazia per sempre!
Per confermare queste parole, dovremo ricostruire la democrazia nel nostro Paese su basi solide. La democrazia sarà difesa dal popolo nella misura in cui garantisce a tutti i diritti sanciti dalla Costituzione.
Signore e signori,
Firmo oggi i provvedimenti per riorganizzare le strutture dell’Esecutivo, affinché consentano nuovamente al governo di funzionare in modo razionale, repubblicano e democratico. Salvare il ruolo delle istituzioni statali, delle banche pubbliche e delle aziende statali nello sviluppo del Paese. Pianificare investimenti pubblici e privati verso una crescita economica sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale.
Dialogando con i governatori dei 27 Stati della Federazione, definiremo le priorità per la ripresa dele opere pubbliche irresponsabilmente paralizzate, che nel Paese sono più di 14mila. Riprenderemo il Programma Minha Casa, Minha Vida [mira ad aiutare gli strati sociali più bassi ad acquisire la casa propria. NdT] e struttureremo un nuovo Programma di Accelerazione della Crescita [PAC, è un importante programma infrastrutturale del governo federale del Brasile. NdT] per generare posti di lavoro alla velocità nesessaria per il Paese. Cercheremo finanziamenti e cooperazione – a livello nazionale e internazionale – per gli investimenti, per potenziare ed espandere il mercato interno dei consumatori, per sviluppare il commercio, le esportazioni, i servizi, l’agricoltura e l’industria.
Le banche pubbliche, in particolare il BNDES [Banca nazionale per lo sviluppo economico e sociale è una banca di sviluppo strutturata come una società pubblica federale associata al Ministero dell’Economia del Brasile. L’obiettivo dichiarato è quello di fornire finanziamenti a lungo termine per gli sforzi che contribuiscono allo sviluppo del paese. NdT], e le aziende che promuovono la crescita e l’innovazione, come la Petrobras [è la compagnia pubblica brasiliana di ricerca, estrazione, raffinazione, trasporto e vendita di petrolio. NdT], giocheranno un ruolo fondamentale in questo nuovo ciclo. Allo stesso tempo, daremo impulso alle piccole e medie imprese, potenzialmente i maggiori generatori di posti di lavoro e reddito, all’imprenditorialità, al cooperativismo ed alla economia creativa.
La ruota dell’economia tornerà a girare e il consumo popolare giocherà un ruolo centrale in questo processo.
Riprenderemo la politica di valorizzazione permanente del salario minimo. E state pur certi che porremo fine, ancora una volta, alla vergognosa coda dell’INSS [Istituto di previdenza sociale brasiliano. NdT], un’altra ingiustizia ristabilita in questi tempi di distruzione. Apriremo un tavolo di dialogo, in modo tripartito – governo, sindacati e centrali d’impresa – su una nuova legislazione sul lavoro. Garantire la libertà di intraprendere, insieme alla protezione sociale, è una sfida importante nei tempi attuali.
Signore e signori,
Il Brasile è troppo grande per rinunciare al suo potenziale produttivo. Non ha senso importare carburanti, fertilizzanti, piattaforme petrolifere, microprocessori, aerei e satelliti. Disponiamo di capacità tecnica, capitale e mercato sufficienti per riprendere l’industrializzazione e offrire servizi a un livello competitivo.
Il Brasile può e deve essere in prima linea nell’economia globale.
Spetterà allo Stato articolare la transizione digitale e portare l’industria brasiliana nel 21° secolo, con una politica industriale che sostenga l’innovazione, stimoli la cooperazione pubblico-privata, rafforzi la scienza e la tecnologia e garantisca l’accesso a finanziamenti a costi adeguati.
Il futuro sarà di chi investe nell’industria della conoscenza, che sarà oggetto di una strategia nazionale, progettata in dialogo con il settore produttivo, i centri di ricerca e le università, insieme al Ministero della Scienza, Tecnologia e Innovazione, le banche pubbliche, le imprese statali e le agenzie di finanziamento della ricerca.
Nessun altro Paese ha le condizioni del Brasile per diventare una grande potenza ambientale, basata sulla creatività della bioeconomia e sulle attività basate sulla socio-biodiversità. Inizieremo la transizione energetica ed ecologica verso un’agricoltura e un’estrazione mineraria sostenibili, un’agricoltura familiare più forte e un’industria più verde.
Il nostro obiettivo è raggiungere deforestazione zero in Amazzonia e zero emissioni di gas che alimentano l’effetto serra nella matrice elettrica, oltre ad incoraggiare il riutilizzo dei pascoli degradati. Il Brasile non ha bisogno di disboscare per mantenere ed espandere la sua frontiera agricola strategica.
Incoraggeremo sicuramente la prosperità nel settore rurale. La libertà e l’opportunità di creare, piantare e raccogliere continueranno ad essere il nostro obiettivo. Quello che non possiamo ammettere è che ci sia un ambiente rurale senza legge. Non tollereremo la violenza contro le piccole proprietà agricole, la deforestazione e il degrado ambientale, che hanno già fatto tanto male al Paese.
Questo è uno dei motivi, non l’unico, per la creazione del Ministero dei Popoli Indigeni. Nessuno conosce meglio le nostre foreste o è più capace di difenderle di chi è qui da tempo immemorabile. Ogni terra indigena delimitata è una nuova area di protezione ambientale. A questi uomini e donne brasiliani dobbiamo rispetto e con loro abbiamo un debito storico.
Aboliremo tutte le ingiustizie commesse contro i popoli nativi. Cari amici e amiche,
Una nazione non si misura solo con le statistiche, per quanto impressionanti possano essere. Proprio come un essere umano, una nazione si esprime veramente attraverso l’anima della sua gente. L’anima del Brasile risiede nella diversità senza pari della nostra gente e delle nostre manifestazioni culturali.
Stiamo rifondando il Ministero della Cultura, con l’ambizione di riprendere più intensamente le politiche di incentivazione e di accesso ai beni culturali, interrotte dall’oscurantismo negli ultimi anni.
Una politica culturale democratica non può temere critiche o eleggere favoriti. Che tutti i fiori sboccino e tutti i frutti della nostra creatività siano raccolti, che tutti ne godano, senza censure o discriminazioni.
È inaccettabile che neri e mulatti continuino ad essere la maggioranza povera e oppressa di un paese costruito con il sudore e il sangue dei loro antenati africani. Abbiamo creato il Ministero per la promozione dell’uguaglianza razziale per ampliare la politica delle quote nelle università e nel servizio pubblico, oltre a riprendere le politiche pubbliche rivolte alle persone di colore nella sanità, nell’istruzione e nella cultura.
È inammissibile che le donne ricevano meno degli uomini, svolgendo la stessa funzione; o che non siano riconosciute in un mondo politico sessista. Che siano molestate impunemente nelle strade e sul lavoro. Che siano vittime di violenze dentro e fuori casa. Stiamo rifondando, quindi, anche il Ministero delle Donne per abbattere questo secolare castello di disuguaglianze e pregiudizi.
Non ci sarà vera giustizia in un paese in cui un solo essere umano subisca un torto. Spetterà al Ministero dei Diritti Umani garantire e agire affinché ogni cittadino abbia i propri diritti rispettati, nell’accesso ai servizi pubblici e privati, nella protezione contro i pregiudizi o davanti all’autorità pubblica. La cittadinanza è l’altro nome della democrazia.
Il Ministero della Giustizia e della Pubblica Sicurezza agirà per armonizzare i poteri e gli organismi federali al fine di promuovere la pace dove è più urgente, nelle comunità povere, tra le famiglie vulnerabili, dove agiscono la criminalità organizzata, le milizie e la violenza, da qualsiasi parte venga.
Stiamo revocando i decreti criminali che ampliavano l’accesso ad armi e munizioni e che hanno causato tanta insicurezza e tanti danni alle famiglie brasiliane. Il Brasile non vuole e non ha bisogno di armi nelle mani del popolo. Il Brasile ha bisogno di sicurezza, il Brasile ha bisogno di libri, istruzione e cultura per poter essere un paese più giusto. Sotto la protezione di Dio, questo mandato riafferma che in Brasile la fede può essere presente in tutte le abitazioni, nei vari templi, chiese e culti. In questo Paese tutti potranno esercitare liberamente la propria religiosità.
Signore e signori,
Il periodo che si chiude è stato segnato da una delle più grandi tragedie della storia. La pandemia di covid-19. In nessun altro paese il numero di vittime è stato così alto in proporzione alla popolazione come in Brasile. Uno dei Paesi meglio preparati ad affrontare le emergenze sanitarie, grazie alla competenza del nostro Sistema Sanitario Unificato [Pubblico. NdT] e alla competenza delle nostre persone nella vaccinazione. Questo paradosso si spiega solo con l’atteggiamento criminale di un governo negazionista, oscurantista, insensibile alla vita.
La responsabilità di questo genocidio va indagata e non deve restare impunita. Sta a noi, in questo momento, essere solidali con i parenti, i genitori, gli orfani, i fratelli e le sorelle di quasi 700mila vittime della pandemia. Il Sistema Sanitario Unificato è probabilmente la più democratica delle istituzioni create dalla Costituzione del 1988. Per questo da allora è sicuramente la più perseguitata ed è stata anche la più danneggiata da una stupidità chiamata “tetto di spesa” [legge inserita nella Costituzione che fissa limiti specifici per le spese pubbliche sociali primarie. NdT] che dovremo revocare.
Ricomporremo il budget sanitario per garantire l’assistenza di base, la farmacia popolare, promuovere l’accesso alla medicina specialistica. Ricomporremo il budget dell’istruzione, investiremo in più università nell’istruzione tecnica, nell’universalizzazione dell’accesso a internet, nell’espansione degli asili nido e nell’insegnamento pubblico a tempo pieno. Questo è l’investimento che porterà veramente allo sviluppo del Paese.
Il modello che proponiamo, approvato nelle urne, richiede un impegno di responsabilità, credibilità e prevedibilità. E non ci arrenderemo. È stato con realismo di bilancio, fiscale e monetario, ricercando la stabilità, controllando l’inflazione e rispettando i contratti che abbiamo governato questo Paese. Non possiamo fare diversamente. Ora abbiamo l’obbligo di fare meglio di quello che abbiamo fatto precedentemente.
Signore e signori,
Gli occhi del mondo erano puntati sul Brasile in queste elezioni. Il mondo si aspetta che il Brasile diventi ancora una volta un leader nell’affrontare la crisi climatica e un esempio di Paese socialmente e ambientalmente responsabile, capace di promuovere la crescita economica con distribuzione del reddito, combattere la fame e la povertà, con un processo democratico.
Il nostro protagonismo si materializzerà attraverso la ripresa dell’integrazione sudamericana, a partire dal Mercosur, dalla rivitalizzazione dell’Unasur e altre istanze di articolazione sovrane nella regione. Su questa base potremo ricostruire il dialogo fiero e attivo con gli Stati Uniti, la Comunità Europea, la Cina, i Paesi dell’Est e gli altri attori mondiali; rafforzando i BRICS, la cooperazione con i Paesi africani e rompendo l’isolamento in cui era relegato il Paese.
Il Brasile deve essere padrone di se stesso, padrone del proprio destino. Deve tornare ad essere un paese sovrano. Siamo responsabili della maggior parte dell’Amazzonia e di vasti biomi, grandi falde acquifere, giacimenti minerari, petrolio e fonti di energia pulita. Con sovranità e responsabilità saremo rispettati per condividere questa grandezza con l’umanità – in solidarietà, mai con subordinazione.
La rilevanza delle elezioni in Brasile si riferisce, infine, alle minacce che il modello democratico ha dovuto affrontare. In tutto il pianeta si sta articolando un’ondata di estremismo autoritario che diffonde odio e bugie attraverso mezzi tecnologici non soggetti a controlli trasparenti.
Difendiamo la piena libertà di espressione, consapevoli che è urgente creare istanze democratiche per l’accesso a informazioni affidabili e la responsabilizzazione dei mezzi con i quali vengono inoculati i veleni dell’odio e della
menzogna. Questa è una sfida di civiltà, allo stesso modo del superamento delle guerre, della crisi climatica, della fame e delle disuguaglianze nel pianeta.
Riaffermo, per il Brasile e per il mondo, la convinzione che la Politica, nella sua accezione più alta – e nonostante tutti i suoi limiti – sia la via migliore per il dialogo tra interessi divergenti, per la costruzione pacifica del consenso. Negare la politica, svalutarla e criminalizzarla è il percorso delle tirannie.
La mia missione più importante, da oggi, sarà quella di onorare la fiducia ricevuta e rispondere alle speranze di un popolo sofferente, che non ha mai perso la fiducia nel futuro e nella capacità di superare le sfide. Con la forza del popolo e la benedizione di Dio, dovremo ricostruire questo paese.
Viva la democrazia!
Lunga vita al popolo brasiliano! Grazie a tutti e tutte.
Traduzione in italiano a cura di Alessandro Vigilante
di Domenico Gallo
L’orribile massacro in corso alle frontiere dell’Europa, sta degenerando verso un’ulteriore escalation. Dopo l’attentato al ponte di Kerch, che unisce la Crimea alla Russia meridionale, si è scatenata una pioggia di bombardamenti con droni suicidi su Kiev e su tutta l’Ucraina, mirata soprattutto a colpire gli impianti civili di produzione di energia elettrica, mentre proseguono violentissimi gli scontri su più fronti fra le truppe ucraine e quelle russe. In questo momento si stanno addestrando 15 mila soldati ucraini sul territorio europeo con i fondi per la pace dell’European Peace Facility. Ad essi si aggiungono 10 mila soldati ucraini addestrati dal Regno Unito per l’uso delle nuove armi più alcune migliaia di contractors finanziati dagli Stati Uniti con elevate competenze militari. Si prepara quindi una potenza di assalto finalizzata a sfondare quest’inverno le difese russe e filorusse, mentre la Russia dal canto suo sta reclutando e addestrando 300 mila soldati per fronteggiare la controffensiva ucraina . Ci sarà quindi sempre più carne da cannone su entrambi i fronti, e più cimiteri da riempire.
Di fronte a questi ulteriori sviluppi – per quanto sia assurdo – le Cancellerie dei principali paesi europei, le istituzioni europee, compreso il Parlamento Europeo, hanno deciso di continuare a puntare sul prolungamento e sull’escalation della guerra, convinti che la pace potrà essere ristabilita soltanto con la vittoria dell’Ucraina e la disfatta della Russia. Non a caso in tutti i documenti ufficiali non compare mai la parola “negoziato”, “cessate il fuoco”, “neutralità”, “status dei territori contesi”, “conferenza internazionale di Pace” “sicurezza collettiva”. Anche il rischio di un inverno nucleare non porta a più miti consigli, anzi viene apertamente sfidato con minacce di reazioni altrettanto distruttive.
Di fronte all’incapacità dei governi e delle istituzioni internazionali di arrestare questa corsa al suicidio si devono muovere i popoli. Con difficoltà l’opinione pubblica sta uscendo dal lungo letargo imposto dalla ninnananna del pensiero unico cantata dai media e dalle principali forze politiche. La mobilitazione è cominciata dal basso e si sta estendendo a macchia d’olio.
Il primo appuntamento è per il weekend dal 21 al 23 ottobre. Sulla base dell’appello lanciato dalla coalizione Europe for peace si stanno organizzando iniziative varie in 100 città italiane con la richiesta di cessate il fuoco immediato affinché si giunga ad una Conferenza internazionale di Pace.
Nel testo sottoscritto dalle aderenti di Europe for Peace si sottolinea come ““Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione. Non c’è nessuna guerra da vincere: noi invece vogliamo vincere la pace”. I promotori sottolineano come invece sia necessario “che il nostro Paese, l’Europa, le Nazioni Unite operino attivamente per favorire il negoziato avviando un percorso per una Conferenza internazionale di pace che, basandosi sul concetto di sicurezza condivisa, metta al sicuro la pace anche per il futuro”.
Tutte queste iniziative locali serviranno ad alimentare una manifestazione nazionale che si svolgerà il 5 novembre a Roma. Le parole d’ordine sono: cessate il fuoco subito – negoziato per la pace, mettiamo al bando tutte le armi nucleari, solidarietà con il popolo ucraino e con le vittime di tutte le guerre.
La buona notizia è che la mobilitazione per la pace sta coinvolgendo tutta la società italiana nella sue più varie articolazioni. Ci sono Arci, Agesci, Anpi, Emergency, Libera, Sant’Egidio, Pax Christi, la FIOM, le tre Confederazioni sindacali e una miriade di associazioni quale non si era mai vista prima.
Questa nascente mobilitazione popolare per la pace è già divenuta oggetto di attacchi rabbiosi da più parti. Quello che è più preoccupante, però, non sono le denigrazioni aperte di coloro che cercano di intimidire il movimento qualificando tutti i pacifisti come putiniani.
L’attacco veramente insidioso è quello di chi cerca di depotenziare la mobilitazione popolare deviandola su un binario morto. Qui non si tratta di agitare una generica aspirazione dei popoli alla pace, su cui a parole tutti concordano. Si tratta di contrastare un indirizzo politico ben preciso che punta alla guerra come unica soluzione della crisi.
Per imbrogliare le acque, anche gli esponenti del partito della guerra sono disponibili a scendere in piazza per invocare la pace. Emblematico è il caso del sit-in all’ambasciata russa, truccato da manifestazione per la pace in cui gli organizzatori hanno discettato di pace “giusta”, chiedendo il ristabilimento della sovranità dell’Ucraina “secondo i confini stabiliti dalla Comunità internazionale prima del 2014”. In altre parole, si pretende di contrabbandare come pace il progetto di alimentare la guerra e portarla sino alle sue estreme conseguenze.
Al contrario se si vuole la pace, non bisogna aizzare il nazionalismo ucraino contro quello russo, ma bisogna mettere mano ai nodi politici reali che hanno determinato lo scoppio del conflitto, dalla questione della neutralità dell’Ucraina a quella dell’autonomia delle regioni russofone del Donbass.
Come sottolinea la Piattaforma per il 5 Novembre: “È urgente lavorare ad una soluzione politica del conflitto, mettendo in campo tutte le risorse e i mezzi della diplomazia al fine di far prevalere il rispetto del diritto internazionale, portando al tavolo del negoziato i rappresentanti dei governi di Kiev e di Mosca, assieme a tutti gli attori necessari per trovare una pace giusta. Insieme con Papa Francesco diciamo: “Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”.
Questo è il momento di alzare la voce per la pace.
FONTE: https://www.domenicogallo.it/2022/10/mobilitarsi-per-la-pace-fermare-i-costruttori-di-cimiteri/
a cura di Enrico Vigna (agosto 2022)
Mentre una grossa parte degli svedesi è favorevole all’adesione alla NATO, ci sono altri settori sociali e politici che sono scesi in piazza per protestare e opporsi. Denunciano che la decisione è affrettata e che la Svezia dovrebbe attenersi più sensatamente alla sua tradizione di neutralità. Prospettano che perdere la neutralità militare non contribuirà alla pace mondiale, ma favorirà ulteriori scenari di guerre.
COMUNICATO STAMPA DELLA SOCIETA’ SVEDESE PER LA PACE E L’ARBITRATO SULLA NATO
L’annuncio del Partito socialdemocratico svedese di richiedere oggi l’adesione della Svezia alla NATO è una decisione triste e affrettata.
Il Partito socialdemocratico svedese ha annunciato la sua decisione di lavorare per una domanda di adesione svedese alla NATO. Questa decisione significa che la Svezia sta per abbandonare oltre 200 anni di non allineamento militare.
– Questa decisione è incredibilmente dolorosa e affrettata e significa che la Svezia contribuirà a rendere il mondo più polarizzato e militarizzato. L’adesione alla NATO non renderà la Svezia, o il resto del mondo, più sicuri o più democratici, ha dichiarato Agnes Hellström, presidente della Società svedese per la pace e l’arbitrato.
Agli occhi di molti, la Svezia è un paese che difende il disarmo, la prevenzione dei conflitti, la mediazione e la diplomazia. Se la domanda di adesione della Svezia alla NATO sarà approvata, la Svezia farà parte di un’alleanza nucleare e dovrà sostenere l’uso di armi nucleari da parte della NATO nel caso in cui tale decisione venga presa.
La NATO è un’alleanza militare che si basa sulla minaccia di omicidi di massa di civili attraverso l’uso di armi nucleari. In quanto membro della NATO, sarà molto più difficile per la Svezia lavorare per il disarmo e saranno necessari ampi sforzi se la Svezia vorrà ancora influenzare il lavoro svolto nel disarmo nucleare, afferma Agnes Hellström.
In un comunicato stampa, il Partito socialdemocratico scrive che “lavorerà per assicurarsi che la Svezia, se la sua domanda di adesione sarà approvata dalla NATO, manifesti obiezioni unilaterali contro il posizionamento di armi nucleari e basi militari permanenti sul territorio svedese“
– La questione della NATO e delle armi nucleari è molto più ampia delle sole basi militari e del posizionamento di armi nucleari. La minaccia delle armi nucleari è un principio centrale della NATO. In qualità di membro, la Svezia, a meno che non ci opponiamo, parteciperà attivamente alla pianificazione e all’esercizio dell’uso delle armi nucleari. La Svezia deve emanare una legge nazionale che vieti le armi nucleari dal territorio svedese e ratificare immediatamente il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, affermato la presidente della Società svedese per la pace e l’arbitrato.
La decisione del Partito socialdemocratico è stata presa in un processo affrettato a pochi mesi dalle elezioni parlamentari. I critici all’interno del partito hanno ritenuto questo processo interno un “dibattito simulato” in cui la leadership del partito aveva già preso una decisione.
– La decisione manca di consenso popolare e quindi di legittimità. Molte domande rimangono ancora senza risposta su quale sarà il ruolo della Svezia nella NATO e cosa significherà esattamente l’adesione, ha affermato Agnes Hellström.
Maja Landin, addetto stampa, Società svedese per la pace e l’arbitrato
“La cosa migliore per la sicurezza della Svezia e del popolo svedese è entrare a far parte della NATO”, ha affermato il primo ministro svedese Magdalena Andersson, confermando l’intenzione di Stoccolma di entrare a far parte della più grande alleanza militare del mondo.
La sua dichiarazione annuncia la fine dei 200 anni di neutralità militare della Svezia, una politica di sicurezza che il paese nordico ha adottato dal 19° secolo.
Mentre una maggioranza di svedesi ha espresso sostegno affinché il proprio paese si unisca alla NATO durante la guerra in Ucraina, ci sono molti giovani che sono più esitanti.
Alcuni sono addirittura scesi nelle strade della capitale svedese in queste settimane, condannando la perdita della neutralità militare come un passo che genererebbe più violenza nel mondo.
“L’adesione alla NATO farà versare più sangue perché la NATO è un’organizzazione bellica e non una che lavora per la pace”, ha detto a DW, Ava Rudberg, 22 anni, presidente del Partito della Giovane sinistra in Svezia che fa parte delle proteste. “È un’alleanza militare che crea più guerre e siamo anelanti di mantenere la pace in Svezia“.
Linda Akerström della Svenska Fredsoch Skiljedomsföreningen, la Società svedese per la pace e l’arbitrato, ha dichiarato che molte persone erano arrabbiate perché la neutralità nei conflitti militari è storicamente legata all’identità svedese.
“Per molte persone, questa decisione è un grande cambiamento perché in tutti questi anni molti svedesi si sono visti come voci che nutrono la pace in tutto il mondo. Ma in questo momento, credo che molti ritengano che la decisione di entrare a far parte della NATO sia stata affrettata e basata sulla paura. Fondamentalmente, prendere una decisione così importante in una situazione molto tesa e in gran parte basata sulla paura è come andare al supermercato quando si ha fame, e sappiamo tutti che non è una situazione in cui si fanno buone scelte. non è stato sufficiente un dibattito con entrambe le parti coinvolte, perché una decisione così grande fosse legittima“, ha aggiunto la Akerstrom.
Lisa Nabo, 27 anni, presidente della Lega giovanile del Partito socialdemocratico al potere in Svezia, ha affermato che, nonostante la precedente cooperazione con la NATO “… la perdita ufficiale della neutralità è un problema contro cui molti giovani svedesi stanno lottando. La mia generazione di ventenni, non ha memoria di una guerra in Europa. Quindi questa situazione in cui ci troviamo ora ci è molto estranea e non abbiamo la stessa storia di guerra di molti dei nostri vicini, paesi che hanno fatto parte della seconda guerra mondiale o della guerra in Jugoslavia. Come giovani socialdemocratici in questo momento stiamo lottando con l’immagine di noi stessi, perché molti di noi hanno iniziato la propria attività politica con l’idea di essere un’organizzazione pacifica che combatte per fermare la militarizzazione. È difficile combinare questo con l’adesione nella NATO “, ha detto a DW.
Nel frattempo, lontano dalle frenetiche città della Svezia, Sara Andersson Ajnnak, una giovane artista che appartiene alla comunità indigena Sami nel nord del Paese , pensa che la decisione della Svezia di aderire alla NATO potrebbe avere un impatto negativo sui loro diritti.
“Sento che è problematico per la Svezia entrare a far parte della NATO, soprattutto per me come indigena del nord. Sento che c’è già una lotta per la terra nel paese e credo che la NATO possa vedere il nord della Svezia, che è Territorio indigeno, come un’enorme regione militare per svolgere le proprie esercitazioni. Quindi vedo questa come un’altra forma di colonizzazione. Già oggi siamo colpiti dalle attività dell’aviazione che ha un impatto negativo sulla popolazione delle renne. Tali attività sono ora destinate ad aumentare e ho paura di come questa decisione influirà sui nostri diritti e sull’ambiente“. ha detto a DW. Da dw
La gente in Svezia è incerta sull’adesione alla NATO di Mike Powers*
In queste settimane dal 21 maggio, in decine di città e paesi in tutta la Svezia, ci sono state manifestazioni e marce di opposizione alla decisione del governo di aderire alla NATO. La decisione formale di abbandonare la politica ufficiale di neutralità svedese, che dura da più di 200 anni, è arrivata nel mezzo di una frenesia di paura alimentata dalla propaganda sul conflitto armato in Ucraina e una presunta minaccia alla sicurezza dell’Europa.
Manifestazione anti-NATO fuori dal palazzo del governo a Stoccolma, Svezia
I partiti conservatori di opposizione sono da tempo favorevoli all’adesione alla NATO. Ma un improvviso cambiamento nella posizione di due dei più grandi partiti, il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori (SAP) e quello di estrema destra il Partito Democratico Svedese (SD) di ispirazione neonazista, ha permesso il cambiamento nella politica del governo.
L’SD è un gruppo razzista populista anti-immigrati che si fa facendo strada negli strati popolari. Hanno sostenuto gli altri sul tema della NATO, nella speranza di essere accettati come elementi rispettabili in una nuova maggioranza di destra. Hanno persino cambiato la loro posizione sul non ammettere più rifugiati, a patto che i rifugiati fossero europei bianchi con lo stesso background culturale cristiano e non provenienti dal Medio Oriente!
I socialdemocratici al potere, di recente al loro ultimo congresso del partito nel 2021, avevano dichiarato che la loro permanenza in carica avrebbe garantito che la Svezia non avrebbe mai abbandonato il non allineamento. Durante la Guerra Fredda, anche se non allineata, la Svezia faceva ufficiosamente parte del fianco settentrionale della NATO con la sua enorme forza aerea che pattugliava gran parte dello spazio aereo sovietico.
Negli ultimi decenni durante l governi SAP, la Svezia si era già avvicinata alla NATO, nel Partenariato per la Pace e nelle coalizioni contro il terrorismo costruite dagli Stati Uniti in Iraq e Siria. La Svezia ha ritirato le sue truppe dall’Afghanistan dopo 20 anni, dopo aver dimostrato la sua fedeltà e sottomissione a Washington. Le strutture spaziali svedesi nel nord sono state determinanti nel guidare i bombardamenti statunitensi contro la Libia nel 2011. Sono state organizzate manovre congiunte con molti paesi della NATO, comprese esercitazioni di bombardamento in Svezia.
Crisi d’identità
Tuttavia, l’abbandono della neutralità sta causando un senso di crisi di identità in Svezia. A volte avere una politica estera indipendente ha consentito di assumere una posizione morale, come quella di opporsi alla guerra degli Stati Uniti in Vietnam, ed essere il primo paese dell’UE a riconoscere lo stato di Palestina e ad operare per promuovere il disarmo nucleare. Eppure l’anno scorso la Svezia ha rifiutato di ratificare l’accordo delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, che essa stessa aveva contribuito a scrivere.
Il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti ha semplicemente avvertito pubblicamente che la firma dell’accordo avrebbe “complicato” la cooperazione militare con la NATO. La Svezia ha fatto marcia indietro. I giorni di una politica estera indipendente, già più difficili con l’adesione all’UE, potrebbero presto finire per sempre.
Oggi non c’è una concreta minaccia russa per la Svezia. Eppure il governo svedese afferma che la piena adesione, fornirebbe garanzie di sicurezza alle forze nucleari della NATO, ma le consentirebbe anche di proibire le armi nucleari e qualsiasi base straniera permanente sul suolo svedese!
È vero esattamente il contrario: renderebbe la Svezia un possibile obiettivo per le armi nucleari russe. Ora ci viene detto che la decisione finlandese di aderire, lascia la Svezia senza alternative. Ma la Svezia è un paese indipendente. L’adesione alla NATO trasformerebbe il Baltico in un lago interno della NATO, con 10 paesi che minacciano la Russia!
Il dibattito sull’adesione è stato per lo più unilaterale. La TV e la radio hanno organizzato programmi in cui i partecipanti pro-NATO, per lo più esperti di ricerca militare, dibattono sui vantaggi dell’adesione tra di loro. I socialdemocratici hanno organizzato dialoghi zoom con migliaia di membri del partito, che hanno dovuto ascoltare i ministri rispondere a domande principali prestabilite da voci anonime, ma non potevano farne loro stesse. Dove si è svolta una votazione, i risultati, spesso negativi, non sono stati resi pubblici.
La dirigenza del partito fa riferimento ai continui e incerti cambiamenti nell’opinione pubblica nei sondaggi settimanali. Ma anche questi indicano che quasi la metà della popolazione, inclusa la maggioranza dei socialdemocratici e dei partiti minori di sinistra e verdi, è ancora contraria o indecisa! I lealisti del partito che seguono sempre il leader possono aver cambiato opinione, ma possono rappresentare solo il 10% degli elettori.
L’intero processo è stato ridicolo e una parodia della democrazia. Tutti i maggiori partiti sono contrari a un referendum popolare, poiché considerano la questione troppo complicata e trattano questioni di sicurezza delicate. Si oppongono anche all’attesa fino a dopo le elezioni programmate di settembre, e al lasciare che siano gli elettori a decidere, al fine di conferire alla decisione una qualche forma di legittimità democratica. Molti si sentono spinti dall’élite del partito. Ma hanno paura della democrazia diretta da parte del popolo. Tra i relatori della protesta di Stoccolma c’erano Thomas Hammarberg, ex parlamentare socialista e Commissario del Consiglio europeo per i diritti umani; Kajsa Ekis Eknman, nota scrittrice e giornalista; così come i rappresentanti del NO NATO, Folket I Bild (Persone in immagini); Donne per la pace e la Gioventù Comunista Rivoluzionaria.
I mercanti della morte festeggiano
Quelli che festeggiano di più sono i produttori di armi svedesi, i mercanti di morte, inclusa SAAB Dynamics. Vedono opportunità di vendere armi anticarro e possibilmente jet da combattimento svedesi ai futuri alleati della NATO. Che i coscritti svedesi debbano essere carne da cannone nelle guerre della NATO non fa parte dei loro calcoli capitalisti. E la Svezia ha già, in ampia unità, accettato di aumentare la spesa militare al 2% del suo budget, la nuova linea guida Trump-Biden per i partner europei.
Potrebbe volerci del tempo prima che venga concessa l’adesione formale. Il regime turco ha lanciato una chiave inglese nel procedimento. Si rifiuta di ammettere nuovi membri a meno che non trattino gli oppositori curdi del regime turco come “terroristi”. Il governo svedese ha stretti legami con l’enclave curda in Siria sostenuta dagli USA e con il Kurdistan iracheno; il regime turco afferma che queste entità curde forniscono rifugio alle forze del PKK, che combatte il dominio turco. La Svezia non consegnerà i rifugiati alla Turchia. La Svezia ha anche imposto un embargo sulle armi alla Turchia nel 2019 e ha contribuito a fermare l’adesione della Turchia all’UE.
C’è grande incertezza su quanto tempo potrebbe richiedere il processo. Ma potrebbe non essere ancora un affare fatto.
(A cura di Enrico Vigna, Iniziativa “Per un Mondo Multipolare”/ CIVG agosto 2022)
A cura di Enrico Vigna (25 agosto 2022)
Le continue e crescenti tensioni minacciano di rigettare il paese in una guerra civile dispiegata e avranno conseguenze per l’Europa, oltre alla comunità internazionale. Ma soprattutto per l’Italia, stante la posizione geografica e la storia che ci ha legato, una storia che rappresenta anche, per l’Italia, un debito storico, visti gli orrori, le atrocità e devastazioni compiute dal colonialismo prima e dal fascismo poi. I problemi della Libia non sono solo locali. L’Italia e l’Europa, con la Libia condividono il Mar Mediterraneo: Alessandro Magno, i Greci, i Romani e anche i Normanni hanno tutti scambiato beni, cultura e archetipi con la Libia. Ma questa prossimità ha anche significato che i problemi lì, si riversano quasi sempre sulle coste europee.
Da febbraio, gli occhi del mondo sono ovviamente rivolti sugli avvenimenti Ucraina. Ma mentre l’attenzione è sul fianco orientale europeo, i problemi che stanno deflagrando su quello meridionale in Libia sono molto trascurati o sottovalutati. Le crescenti tensioni politiche e le quotidiane esplosioni di violenza, stanno riportando il paese verso la guerra civile, con conseguenze a domino che investiranno sia gli equilibri dell’Africa del nord, ma anche avranno un impatto sull’Italia e sull’Europa. E’ decifrabile che la crisi in Libia, si inserisce nel quadro delle crisi mondiali, dove i poteri legati al mantenimento di un mondo multipolare stanno supportando logiche di innescamento e scatenamenti di crisi politiche e militari che possono portare il mondo verso catastrofi devastanti in cui nessuno sarà escluso.
Oggi, quella che, fino al colpo di stato USA/Francia del 2011, con l’assassinio di Muammar Gheddafi e la distruzione della Jamahirija, era la nazione più ricca di petrolio dell’Africa, si trova in uno stato di totale annichilimento sociale e politico, e viene ormai indicato nelle sedi internazionali come uno stato fallito. Una guerra civile che non è mai finita da quel 2011, e che ha composto uno scenario che vede un governo riconosciuto a livello internazionale dai paesi occidentali, con sede a Tripoli e la Cirenaica nell’est del paese con il Governo di Tobruk, guidato dal generale Haftar sostenuto da Russia, Egitto, Algeria e altri paesi come EAU.
Due problemi basilari e strategici dovrebbero far riflettere gli italiani: da un lato il dato di fatto che la costa libica è il cuore del problema, il punto di partenza dei disperati che hanno l’obiettivo di raggiungere l’Europa, ma che hanno la sponda italiana come primo punto d’arrivo con ciò che ne consegue per l’Italia. Il secondo dato su cui riflettere, altrettanto basilare e strategico è quello delle conseguenze delle sanzioni alla Russia della UE e poiché ora i paesi europei hanno necessità di fonti energetiche alternative, mentre cercano di svincolarsi dai combustibili russi, la Libia è la fonte di approvvigionamento alternativo più vicina. L’UE è già logorata al suo interno nel tentativo di tenere ferma la posizione dell’unità sulle sanzioni russe e, di settimana in settimana la ricerca frenetica per trovare nuovi abbondanti rifornimenti di gas, fa emergere le divisioni e la prospettiva di una possibile revoca dell’embargo petrolifero a Mosca. Ma la perdurante instabilità della Libia, dietro cui non è esclusa la mano statunitense, rende le sue forniture in gran parte inaccessibili o non sufficienti, poiché la stragrande maggioranza delle sue riserve è sotto il controllo dell’Esercito Nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar. Questi sono solo due dei tanti motivi per cui la Comunità internazionale e l’Italia in primis, dovrebbero cominciare a preoccuparsi seriamente per il caos in Libia e cominciare politiche indipendenti dagli interessi di Washington, più legate all’interesse nazionale e a letture geopolitiche multipolariste.
Continui scontri armati e violenze tra le bande di miliziani rivali, proteste di strada della popolazione sfinita da violenze, soprusi, vessazioni, continui aumenti del costo della vita, lunghi tagli all’elettricità, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, l’assurdità in un paese che naviga nel petrolio è quella delle carenze e code per il carburante, caos e assenza statale, un paese fratturato in due parti, colloqui politici sistematicamente fallimentari e altro ancora. Nel frattempo in tutti questi anni le varie milizie armate terroriste si sono spartite le città, dove operano come banditi e predoni senza nessun freno di alcuna autorità di Tripoli.
Questa è la realtà della Libia degli ultimi anni.
Dalla designazione di Fathi Bashagha a primo ministro a febbraio dalla Camera dei rappresentanti (HoR) con sede a Tobruk e dal fallimento dei colloqui sia al Cairo che a Ginevra sugli accordi costituzionali per le elezioni, continua un sempre più insostenibile caos politico nel paese.
Nel frattempo c’è stato un costante peggioramento delle condizioni economiche e sociali, anche a causa della chiusura dei terminal petroliferi e delle strade principali e dalla sempre più probabile prospettiva di un nuovo scontro militare. Anche perché a metà luglio Bashagha ha annunciato che a breve entrerà nuovamente a Tripoli, roccaforte del governo riconosciuto dalla comunità internazionale occidentale, per insediarsi nella capitale. Quando era arrivato a Tripoli nel maggio scorso e aveva tentato di assumere il suo incarico, si sono scatenati scontri tra le forze armate che lo sostenevano e le milizie fedeli ad Abdulhamid Dbeibah che era salito al potere nel 2020 a seguito di un cessate il fuoco che aveva posto fine alla battaglia durata un anno per conquistare Tripoli, da parte dell’Esercito Nazionale Libico (LNA).
Secondo l’analista arabo Harchaoui, la maggior parte dei gruppi armati più forti delle tribù di Sabratha, Zawiyah, Ajeelat, Jumail, Warshefana e Zintan sono anti-Dbeibah. Inoltre, anche la Brigata Nawassi all’interno di Tripoli è chiaramente anti-Dbeibah, e questo dà al governo di Tobruk forza per ritenere possibile la presa di Tripoli, ma certamente con pesanti spargimenti di sangue, dando per scontato che la parte di Dbeibah è determinata a reagire a qualsiasi ipotesi di perdere il potere e questo è facilmente immaginabile, provocherà una ennesima violenta collisione.
Bisogna tenere presente che diverse tribù della Libia nord-occidentale sono profondamente filo-Bashagha e anti-Dbeibah, oltrechè “gheddafiane”. Anche altre regioni del paese sono pronte a ridiscendere in campo militarmente come a Sirte, Jufrah, Shwayref e parti del Fezzan, dove la coalizione armata guidata dal governo di Tobruk sta piano piano assumendo un carattere sempre più conflittuale e aggressivo.
Il governo di transizione aveva il mandato di tenere le elezioni lo scorso dicembre sotto l’egida ONU, ma poi non si sono svolte a causa di divisioni interne e sabotaggi esterni. Dbeibah ha dichiarato che cederà il potere solo a un’autorità eletta, mentre Bashagha ribadisce che il suo governo è “illegittimo”.
I libici sono ormai frustrati da questa conflittualità permanente che dura ormai da 11 anni e secondo una stima accreditata da Al Arabiya, una delle più accreditate agenzie mediorientali, i sostenitori nostalgici di Gheddafi e della Jamhirya sarebbero tuttora il 50-70% dei libici.
Dall’altra parte la presenza massiccia della Turchia a Tripoli, ha creato un equilibrio militare che finora ha protetto il governo “tripolino” e impedito alle forze dell’ELN di dispiegare un offensiva finale e la presa di Tripoli, quindi della Libia, e qui decisiva sarà la capacità della diplomazia russa e di Lavrov, nel trovare all’interno dello scacchiere geopolitico e del confronto ormai a tutto campo tra Russia e Turchia, una forma per indurre la Turchia ad abbandonare la difesa di Tripoli e del governo di Dbeibah, evitando una nuova guerra. Ma molti esperti internazionali ritengono che il caos politico e nuove escalation militari siano il futuro del paese.
Saif al Islam Gheddafi nello scenario presente e futuro della Libia
Questa situazione è la dimostrazione materiale che la strategia di riconciliazione nazionale, sotto l’egida internazionale è solo una progettualità virtuale e da uffici delle cancellerie diplomatiche, ma che non ha alcun supporto nella realtà e nelle dinamiche sul campo. E probabilmente non è nei programmi reali di alcuna parte.
In questo scenario Saif al Islam Gheddafi, ormai riconosciuto come uno degli attori politici principali, se non fondamentale per le prospettive del paese, ha rovesciato il dibattito politico interno, proponendoun’iniziativa che può essere paragonata a un scossa scompaginante che, comunque si sviluppi, avrà conseguenze politiche.
La proposta prevede il ritiro di tutte le controverse figure politiche che hanno causato la sospensione delle elezioni parlamentari e presidenziali, e lui sarà il primo a ritirarsi. L’obiettivo sarebbe di aprire la strada alle elezioni legislative, a una nuova Costituzione e a un successivo consenso sulla presidenza.
Con questa mossa Saif Gheddafi ha messo in un angolo tutte le forze politiche che controllano le sorti del Paese e del popolo libico, e soprattutto degli sponsor stranieri, guidate dal principale attore del fascicolo libico, il consigliereOnuStephanie Williams, che ha lavorato per impedire le elezioni generali per un motivo arcinoto e proclamato: quello di impedire la partecipazione proprio diSaif al-Islam alle elezioni presidenziali, dopo che i sondaggi d’opinione gli avevano dato un netto vantaggio sul resto dei candidati e una popolarità nelle più grandi tribù libiche, senza rivali.
Saif al-Islam, nel processo di legittimazione della sua presenza politica nell’ultimo anno, ha ottenuto ciò che voleva e ora può manovrare ampiamente come personalità politica di primo piano in una scena politica che ha raggiunto il punto di decadenza economica e sociale e presa di potere.
Dopo aver attraversato tutti gli stadi legali che gli hanno ridato lo status giuridico di cittadino libico senza precedenti giudiziari e penali a suo carico, si è poi proposto come candidato alla presidenza del paese, nonostante tutti i tentativi fatti dai suoi oppositori, compresi attentati alla sua vita, per impedirgli questa battaglia. Ora il mandato del Tribunale internazionale cade, dopo che il candidato alla presidenza ha attraversato tutte le fasi dei tribunali nazionali libici.
Saifè stato molto abile nel scegliere la tempistica dell’iniziativa, questo è molto importante, in quanto si fonde con le proteste di piazza in tutte le città, che chiedono l’esclusione di ogni ceto politico di questi anni, elezioni libere ed eque e il ritiro di tutte le forze straniere dal Paese. L’iniziativa ha dato anche supporto e slancio, al movimento popolare di difesa degli immiseriti, dei disoccupati ed emarginati. Ora che le loro richieste e la loro rabbia, hanno trovato un esponente politico ufficiale, possono trovare una prospettiva realistica e realizzabile.
A Sebha nel sud della Libia, regione che in questi 11 anni non è mai stata domata dalle milizie terroriste di Tripoli, il 1° agosto la popolazione ha impedito ad una delegazione del governo di Tripoli di sbarcare all’aeroporto locale.
Nella città di Ubari, l’1 agosto, dopo che un camion che trasportava benzina è esploso nel comune di Bint Baya, a sud della Libia, uccidendo otto persone e ferendone altre 70,manifestazioni di massa hanno condannato l’esplosione di Bint Baya.. e scadito slogan che chiedevano a Saif Al-Islam Gheddafi di assumere la guida del Paese.
Ubari, 1 agosto 2022
Già le prime reazioni dopo l’iniziativa, indicano che il movimento intorno a Saif al-Islamè ormai diventato una forza importante che va oltre le variegate contese soggettivistiche o dei signori della guerra fondamentalisti. Oggi, la corrente di Saif Gheddafi è diventata un processo di unificazione del nazionalismo patriottico libico, che trascende la polarizzazione rovinosa che ha distrutto il Paese e la dignità del suo popolo.
Il progetto sta ora procedendo al prossimo passo, costruire un ampio movimento nazionale con uno specifico programma politico, sociale ed economico, e il più ampio dialogo con tutte le componenti giovanili, politiche, civili e tribali che convergono attorno all’idea della salvezza e della dignità nazionali.
Saif al-Islam, con un tale peso politico, sociale e tribale, può oggi proporre un nuovo obiettivo nell’interessi di tutti, avviando un programma di riconciliazioni nazionali interne, su basi solide, sentite e riconosciute dal popolo libico. Unire il popolo libico e sollevarlo a battersi per un nuovo contratto sociale è la più grande protezione per fermare i tentativi di sabotare, procrastinare e interrompere le influenze esterne e i loro conflitti sul suolo libico.
Enrico Vigna, 25 agosto 2022
di Tonino D’Orazio
Non vogliono più lavorare. Nel mondo occidentale, milioni di persone lasciano il lavoro. L’offensiva neoliberista, la caduta di idealità e utilità collettiva, le lotte che non portano a nulla, anzi, lo sfruttamento evidente al limite dello schiavismo, la paura del futuro insicuro, continuamente suggerita e imposta, la guerra, la catastrofe ecologica e la pandemia hanno alimentato questa fuga massiccia. Il neoliberismo ha tirato troppo la corda, l’aver ridotto il lavoro a una anonima merce sfruttabile e tutt’altro che pregiata, aver portato a povertà proprio chi lavora, iniziano a dare risultati sorprendenti sugli individui.
Non è solo in Francia, spesso prototipo di storici capovolgimenti sociali, ma in tutto il mondo occidentale. La chiamata a disertare, lanciata il 10 maggio dagli studenti di AgroParisTech ha agito come un detonatore. Visto più di 12 milioni di volte, il loro video ha liberato la parola e ha rivelato un movimento fondamentale che sfida direttamente i modelli di successo sociale. È una crepa nell’ordine stabilito: la carriera non è più un sogno e nemmeno il “Rolex a cinquant’anni”. Ovunque, giovani e meno giovani mettono in discussione il lavoro, il suo scopo e il suo significato. Alcuni, addirittura, lo rifiutano, per inventare, altrove, una vita che loro considerano, povera ugualmente, ma più ricca e densa. Solo pochi mesi dopo la campana a morto dei confinamenti, che ha congelato interi settori delle attività economiche, produttive e mentali, una parte della popolazione è ancora riluttante a rientrare nei ranghi, a terminare gli studi, o a rientrare nelle fabbriche o nelle attività commerciali diventate così immediatamente obsolete e facilmente ingoianti i sacrifici del lavoro di una vita. Il virus ha ucciso la speranza, la scienza e l’informazione.
Ma, ancor più di questi dati, è la bolla mediatica a esplodere. “L’eco che possono aver avuto gli appelli alla diserzione la dice lunga sulle questioni che agitano la società, Oggi l’abbandono arriva a intaccare le professioni essenziali al funzionamento del modello capitalista. Mette a rischio la sostenibilità del sistema”. Non è una cosa nuova, anche se è il trionfo dell’individualismo? O è vecchia perché non c’è nulla di nuovo all’orizzonte? La riflessione suggerita è essenziale e la diserzione una delle strade da prendere, così come la disobbedienza passiva o anche la resistenza effettiva. La posta in gioco è alta, se non sono i reticenti a cambiare il sistema, è il sistema che ci schiaccerà tutti, sotto un tallone di ferro…
Negli Stati Uniti i sociologi hanno battezzato questo fenomeno “Great Resignation” o “Big Quit”: “the great dimission”. Nel 2021, oltre 38 milioni di americani “hanno lasciato” il lavoro. Il 40% non è ancora tornato al lavoro. Uno tsunami che colpisce tutte le età, tutte le professioni. E che inverte profondamente gli equilibri di potere tra dipendenti e aziende.
“Ci stiamo dimettendo tutti, ci scusiamo per il disagio“, scrivono su un poster i dipendenti di un Burger King in Nebraska. “Per favore, siate pazienti con il personale che ha risposto, nessuno vuole più lavorare“, affermano i dipendenti di un McDonald’s in Texas. “Fanculo i dirigenti, fanculo questa azienda, fanculo questo lavoro… ho smesso, cazzo!” grida nell’altoparlante del suo negozio un impiegato Walmart in Texas.
L’America è in movimento e non è sola. In Inghilterra, gli anziani si stanno dimettendo in massa. 300.000 lavoratori tra i 50 ei 65 anni sono entrati nella categoria degli “inattivi economicamente”. Il loro desiderio principale, secondo il risultato di un ampio studio? Andare in pensione e fuggire definitivamente dal mondo professionale.
In Quebec la tensione è tale che i datori di lavoro non sono più restii ad assumere minori per far fronte alla carenza di lavoratori nei settori della logistica e dei servizi. Rimangono abbandonate 240.000 posizioni. In Spagna immaginano addirittura di portare migliaia di marocchini ed estendere i permessi di soggiorno degli stranieri per sopperire alla mancanza di manodopera nel settore turistico e agricolo.
Che senso ha alzarsi quando tutto va in pezzi? Questa situazione risuona in Francia. Anche qui è iniziato l’esodo. Centinaia di migliaia di posti non vengono occupati, per mancanza di candidati, nel settore alberghiero o della ristorazione, mentre nelle Grandes Ecoles, tra l’alta borghesia, si prepara la secessione generazionale. Al di là dei fragorosi discorsi sulla stampa, (esempio da noi la carenza di camerieri) si sta diffondendo una rivolta più tranquilla. In ogni promozione, e anche dove meno te lo aspetti, nelle aziende di combustibili fossili o nell’alta pubblica amministrazione. Il dubbio si sta diffondendo. La crisi ecologica sta mandando in frantumi i sogni bucolici di una volta. Quanto vale una promozione di fronte al pericolo climatico? All’avvelenamento quotidiano cibo, aria, acqua, terra? Perché lottare per i posti quando l’intero sistema vacilla? Che senso ha alzarsi quando tutto va in pezzi? Capisco che il lavoro è magari il fondamento della nostra Costituzione, ma per qualcuno, così violentata articolo per articolo, esiste ancora?
Secondo un recente sondaggio, pubblicato a maggio, più di un terzo degli intervistati (35%) afferma di non aver mai avuto tanta voglia di smettere come adesso. Una quota che sale al 42% tra gli under 35. Gli osservatori parlano di una “rivoluzione sociale” (magari societale) e di una “minaccia per l’economia francese”. In fondo alla classifica, spinge anche l’offensiva neoliberista. Di fronte al deterioramento delle condizioni di lavoro e ai bassi salari, molti dipendenti, disgustati, si defilano. In ospedale il fenomeno è particolarmente visibile. Le cadenze, le coercizioni e il mancato riconoscimento incoraggiano gli operatori sanitari e gli infermieri ad andarsene. 60.000 posti di lavoro non riescono ancora a trovare acquirenti.
La “pandemia” ha svolto un ruolo catalizzatore. Ha colpito gli spiriti e il capitalismo. Il confinamento ha fermato la macchina, “il cui freno di emergenza non è stato trovato”, (Dalla poesia “Monologo del virus”). Sospendendo, per un certo tempo, il funzionamento di cui eravamo tutti ostaggi, il virus ha rivelato l’aberrazione della “normalità”. Gli autori di un potente testo pubblicato a marzo 2020 ritengono che: “Quello che si apre davanti a te, non è uno spazio delimitato, è un divario immenso. Il virus ti rende pigro. […] Ti pone ai piedi della biforcazione che tacitamente strutturava la tua vita: l’economia o la vita. Tocca a te e la questione è storica”. Cosa ci importa davvero? Mentre il mondo cambia, abbiamo a disposizione scelte decisive. Risuonano come tante piccole voci interiori. È tempo di vivere la tua vita, di smettere di rinnegare te stesso, di uscire dalla dissonanza. “Bisogna trovare la forza per dire di no“, scriveva Albert Camus in L’homme révolté.
“Non tornerò a lavorare per un capo, sessanta ore a settimana per una miseria”. “Non voglio più partecipare a questa mascherata”. “Non voglio più mettere la mia forza lavoro al servizio di lavori distruttivi”. Riecheggiano i motti dei Situazionisti del maggio ’68 francese, come quello storico scritto su tanti muri: ”Non lavorate mai!”. È ancora difficile misurare il prossimo terremoto sociale che si avvicina.(Landini dixit, pensando all’autunno italiano, mentre altri paesi hanno già cominciato). Ma c’è un profumo da Anno Zero nell’aria, emblematico della protesta libertaria degli anni ’70, con lo slogan eloquente: “Fermiamo tutto, pensiamo e non è triste.”
di Geraldina Colotti
Gustavo Petro è il nuovo presidente della Colombia, per il periodo 2022-2026. Il candidato della coalizione Pacto Historico è stato votato da 11.281.013 di persone, totalizzando il 50,44% delle preferenze, contro i 10.580.412 dello sfidante, Rodolfo Hernandez, che ha corso per l’alleanza Liga de Gobernantes Anticorrupción, ottenendo il 47,31%. Entrambi i candidati hanno notevolmente aumentato il numero dei voti, considerando che, al primo turno, Petro aveva vinto con 8.526.352 di voti (più del 40%), mentre per Hernández avevano votato 5.952.748 (poco più del 28%). Molti dei 15 milioni di astenuti, che erano rimasti lontani dalle urne il 29 maggio, sono andati a votare, facendo registrare una partecipazione del 58,09%, l’astensione più bassa da vent’anni a questa parte per le prime elezioni realizzate dopo la pandemia.
Un risultato su cui le destre, al di là delle “congratulazioni” dell’ex presidente Ivan Duque e delle dichiarazioni di Hernández, che ha riconosciuto la sconfitta, si apprestano a speculare. Contano sulla loro capacità di incidere, attraverso i meccanismi giudiziari, sulla realtà politica, infangando, perseguendo e mettendo fuori gioco gli avversari. Un meccanismo smascherato dallo scoppio delle proteste del 2001, precedute da altre minori, nel 2019 e nel 2020. Il governo Duque, che aveva cercato di imporre una riforma fiscale a scapito dei settori popolari già ampiamente colpiti dalla crisi e dalla pandemia, ha dovuto far fronte a mesi di sciopero generale, contro cui ha
ha scatenato una repressione senza precedenti. La polizia ha torturato, violentato e compiuto esecuzioni extragiudiziarie. Almeno 87 persone sono state uccise, vi sono stati centinaia di feriti, molti dei quali con danni permanenti alla vista, come accadde durante la repressione in Cile. Durante il suo primo comizio da presidente, Petro ha chiesto al procuratore generale Francisco Barbosa di liberare i giovani della “prima linea”, arrestati durante le proteste, e che vengano restituiti all’attività pubblica i sindaci destituiti per le proteste.
Barbosa si è subito trincerato dietro la separazione dei poteri e ha replicato che “se il presidente eletto vuole la liberazione di chi ha commesso delitti, deve chiedere il favore al Congresso affinché cambi la legge, non al procuratore generale”. Un riferimento chiaro alla battaglia istituzionale che si annuncia per impedire alcune delle riforme proposte da Petro in campagna elettorale.
Mentre al Senato il Pacto Historico ha ottenuto la maggioranza alle elezioni politiche del 13 marzo, al Congresso è la seconda forza rappresentata, ma non ha i numeri necessari per far passare agevolmente una legge. Dovrà, quindi, cercare alleanze nel campo moderato su temi puntuali, sapendo che l’uribismo, per quanto in crisi, non ha alcuna intenzione di mollare l’osso, e che anzi cercherà di ricompattare i ranghi usando alcune zone geografiche di confine e alcuni suoi bastioni istituzionali, in vista delle elezioni dei sindaci e dei governatori dell’ottobre 2023. Il calcolo definitivo dei parlamentari eletti il 19 si avrà solo a metà luglio.
Nel secondo paese dell’America latina con il maggior indice di disuguaglianza dopo il Brasile, che conta oltre 21 milioni di poveri e 7,4 milioni che vivono in povertà estrema, il piano di governo di Petro implica riforme economiche che riguardano le pensioni e la sanità, dove si prevede di ridurre il margine di manovra delle imprese private incaricate di erogare prestazioni mediche. La figura della vicepresidenta, Francia Marquez, premio Nobel per l’ambiente e femminista afro-colombiana, votata soprattutto dai giovani, dalle donne, da lavoratori poveri e dai senza-diritto, rappresenta le aspettative degli esclusi e delle escluse: lavoratrici domestiche, gli spazzini, i contadini poveri, quelli che non hanno mai avuto incarichi politici, e che hanno dato voce alle proteste popolari denunciando il volto feroce di una società razzista e classista.
Da politico navigato che non si caratterizza per posizioni radicali, Petro ha promesso di impegnarsi per costruire un “miglior capitalismo”, promettendo però di voler passare da un modello estrattivista, ossia dipendente dal petrolio e dell’estrazione mineraria (il settore petrolifero contribuisce al Pil per il 7,1%), a uno produttivo, basato sulla produzione agro-pecuaria. Considerando che la Colombia vanta il triste primato dei conflitti ambientali nel continente, è facile comprendere che per passare dalle parole ai fatti, anche per portare avanti un programma di riforme conseguenti, Petro dovrà scegliere però da che parte stare nello scontro fra le popolazioni, soprattutto indigene, e le grandi multinazionali. Sono già 47 i massacri avvenuti in Colombia dall’inizio dell’anno, durante il quale sono stati uccisi oltre 76 leader sociali e 21 ex-guerriglieri. Molti dei paramilitari, impiegati in precedenza nella guerra sporca contro la guerriglia e contro l’opposizione sociale si sono riconvertiti in esercito privato della sicurezza delle grandi imprese multinazionali.
Francia Marquez ha promesso di dar voce alle zone più povere delle campagne, che scontano l’assenza di una riforma agraria in un paese che, principalmente per questo, ha visto il sorgere di due guerriglie lungo oltre mezzo secolo (le Farc-Ep e l’Eln). Una delle principali rivendicazioni del processo di pace che Duque si è dedicato a demolire, e che Petro ha promesso di portare avanti, contando anche sui seggi degli ex guerriglieri passati alla vita politica.
Un compito non facile, considerando i grandi interessi che intrecciano il potere dell’oligarchia locale con quelli degli Stati Uniti, che perpetuano la logica del Plan Colombia intrecciando l’economia di guerra con quella del controllo del territorio. In Colombia, l’unico socio della Nato in America Latina, risiede il maggior numero di basi militari Usa della regione, supportate da un sistema militare di antico fervore anticomunista, che data almeno della guerra di Corea. Nel 1950, la Colombia fu l’unico paese latinoamericano che mandò le sue truppe agli ordini degli Usa contro i comunisti coreani.
Nel secondo paese del continente per numero di militari dopo il Brasile e il primo in relazione alla quantità di abitanti, non si contano le denunce per le violazioni compiute dai militari, presentate dalle organizzazioni per i diritti umani. Eppure, la fitta rete di propaganda che circonda la “famiglia militare”, che si considera nemica di Petro, indica la pervasività di questa cultura in vari settori della società colombiana. Tanto che, in base a un’inchiesta del 2021, la Forza Armata risultava essere l’istituzione considerata più prestigiosa dal 26,8% della popolazione. All’ultimo posto, figuravano i partiti e i movimenti politici, con solo un 8,5% di gradimento.
Le ripetute aggressioni al Venezuela bolivariano hanno potuto contare sulla posizione strategica delle basi militari, visibili o occulte, fornite di potenti strumenti satellitari e di controllo, i cui terminali agiscono anche dall’ambasciata nordamericana, e che sono stati impiegati in modo massiccio per perseguire le proteste popolari. La space-economy è un settore importante dell’economia di guerra, e la Colombia è anche in questo campo un satellite importante degli Stati Uniti.
Intanto, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Colombia, Juan Carlos Pinzón, ha detto che lascerà il paese il giorno prima dell’assunzione d’incarico di Petro, il 7 agosto. Per quella data, Duque ha organizzato un grande concerto di addio, durante il quale darà libero accesso ai “migranti venezuelani”, per i quali ha ricevuto dai suoi padrini nordamericani e europei finanziamenti miliardari di cui non hanno mai visto un centesimo, dando però in cambio il proprio voto all’uribismo che glielo aveva concesso a tempo di record.
Si spera che, oltre all’ambasciatore Usa facciano fagotto anche i rappresentanti dell’autoproclamato “presidente a interim” del Venezuela, Juan Guaidó, ai quali Duque ha “regalato” l’impresa petrolchimica Monómeros, sottratta al Venezuela per conto degli Usa. Sia il presidente venezuelano Nicolas Maduro che il vicepresidente del Psuv, Diosdado Cabello, hanno felicitato l’arrivo di Petro e Marquez al governo della Colombia, unendo la propria voce a quella degli altri presidenti progressisti dell’America Latina e a quella del presidente dell’Alba, Sacha Llorenti.
Durante la campagna elettorale, per impulso dei settori più radicali che compongono la sua coalizione, Petro, nonostante precedenti dichiarazioni infelici contro il governo Maduro, ha promesso di riallacciare le relazioni con il Venezuela. E nel suo primo comizio ha nuovamente accennato all’integrazione latinoamericana, parlando di “un cambiamento senza odio, né vendetta”, basato sul un “dialogo regionale”. Un altro punto su cui il ricatto dei poteri forti si è già fatto sentire, amplificato dai media internazionali e dalle piattaforme uribiste che intossicano le reti sociali.
FONTE: https://www.bricspsuv.com/2022/06/20/svolta-storica-in-colombia-vince-la-sinistra-di-petro/
77 anni fa, con le presa di Berlino, la vittoria dell’Armata Rossa e la fine della seconda guerra mondiale. Al di là della terribile cronaca della guerra in atto in Ucraina, la storia non si cancella. Il sacrificio di milioni di sodati e di donne e uomini civili delle repubbliche dell’Unione Sovietica (forse 27 milioni di morti nei 4 anni di guerra iniziati con l’aggressione nazista all’URSS) sono da ricordare sempre.
E’ un riconoscimento e un debito che riguarda l’oriente e l’occidente. Ed è incancellabile.
ATTENZIONE: le immagini all’interno dell’articolo protrebbero urtare la vostra sensibilità.
di Enrico Vigna
A otto anni da questo feroce massacro compiuto dai criminali neonazisti oggi assurti a ”Eroi della patria ucraina”, nei media occidentali, nessuno è stato punito per quanto accaduto a Odessa. I principali imputati sono ancora nella lista dei ricercati. In tutto questo tempo l’ONU, l’OSCE, Amnesty, la Russia, così come altre organizzazioni internazionali, hanno ripetutamente criticato la giunta dell’Ucraina per un’indagine superficiale e restia sulla tragedia di Odessa.
Il 21 febbraio scorso il governo russo e la Duma di stato all’unanimità, hanno dichiarato che le identità dei responsabili della tragedia di Odessa sono note, con nomi e identità fotografiche agli organi investigativi della Federazione Russa, e che la Russia adotterà le misure necessarie per trovare gli autori di questo crimine, “assicurarli alla giustizia e punirli».
”… Hanno dato la caccia a chi scappava dal palazzo come i lupi fanno con le prede…così, tanti hanno rinunciato persino a uscire dall’edificio. Una vera e propria lotta tra la paura di morire ustionati o intossicati, con quella di essere uccisi a bastonate…”. Così la BBC inglese ha descritto i fatti di Odessa.
“…È impossibile ricordare senza rabbrividire la terribile tragedia di Odessa, dove i partecipanti a una protesta pacifica sono stati brutalmente uccisi, bruciati vivi nella Casa dei sindacati. I criminali che hanno commesso questa atrocità non sono ancora stati puniti e nessuno li sta cercando. Ma li conosciamo per nome e faremo di tutto per punirli: trovarli, assicurarli alla giustizia e punirli“, è stato dichiarato ufficialmente.
Nella realtà la giunta di Kiev, ha protetto ed è complice degli atti atroci dei neonazisti. Addirittura l’ex primo ministro Tymoshenko e l’ex presidente Yushchenko, i golpisti del dopo Maidan, salutarono come un atto di pulizia il massacro. Yushcenko arrivò ad affermare in piazza, rivolto agli autori delle atrocità di Odessa: “Lo acclamo, ne sono orgoglioso”. L’Occidente ha sempre fatto finta che non fosse successo niente. Non una sola parola di condanna di questo efferato crimine è stata udita uscire dalle labbra ufficiali dei “democratici” leader occidentali, che di solito difendono i diritti umani in ogni angolo del mondo “non sottomesso” ai loro voleri, con la schiuma alla bocca.
Come dichiarato dagli organi investigativi russi, i nomi degli assassini sono noti, sono di pubblico dominio e comunicati. È noto che alla fine del massacro c’erano una dozzina di autobus a Odessa, sui cui parabrezza c’erano indicazioni delle città da cui provenivano i banditi armati per poi ritornare nelle loro sedi. Ora queste persone, o meglio, criminali, hanno paura di essere presi e vivono nascosti ma pur sempre attivi. Alcuni hanno cambiato il cognome, alcuni sono morti nei combattimenti di queste settimane a Mariupol e in altre città, ma occorre sperare che i sopravvissuti ricevano il giusto castigo al più presto.
In questi giorni il presidente del Comitato investigativo russo, Alexander Bastrykin ha incaricato l’ufficio centrale del dipartimento di Intelligence, di avere informazioni che si sta progettando la preparazione di una provocazione contro i civili nella regione di Odessa. Secondo il ministero della Difesa russo, il servizio di sicurezza dell’Ucraina SBU, sta preparando un’altra provocazione nella regione di Odessa con l’obiettivo di accusare successivamente i militari russi di aver commesso queste azioni. “…E’ in preparazione a breve, da parte dei nazionalisti ucraini una provocazione pianificata, con l’uso di uniformi dei militari russi, che compiono esecuzioni sommarie di civili ad Odessa”, hanno informato il CIR e il Ministero della Difesa russo.
Dall’inizio di aprile, un gran numero di militari ucraini, mercenari stranieri e veicoli corazzati delle forze armate ucraine si sono concentrati nella parte posteriore della regione di Odessa. Il gruppo Odessa delle forze armate ucraine ha ricevuto i MANPADS, un sistema missilistico antiaereo a corto raggio trasportabile a spalla, prodotti da Francia e Polonia. È stato notato dai satelliti, che molte forze di sicurezza ucraine indossano l’uniforme dell’esercito russo, e hanno bracciali bianchi sul braccio destro, come le forze russe. La SBU fornisce la copertura informativa per questa provocazione. I subalterni del capo della SBU, Ivan Bakanov, dichiarano quasi ogni giorno che “sabotatori russi” infiltrati tra i pacifici Odessani sarebbero stati catturati nella regione di Odessa.
Secondo l’Intelligence russa questi sono i segnali di essere alla vigilia di una provocazione, proprio in questi giorni, il ramo di Odessa del Corpo Nazionale , dove sono inquadrati i battaglioni neonazisti, ha ricevuto il sostegno morale di Volodymyr Zelensky . L’ordine “Al coraggio” è stato assegnato al militante del “National Corps” di Odessa, Artur Savelyev di 22 anni. Saveliev è stato gratificato postumo. Infatti questo neonazista è stato ucciso il 16 aprile a Mariupol, durante i combattimenti con le forze delle Milizie Popolari del Donbass, Il 2 maggio 2014, Artur Savelyev, allora minorenne, aveva partecipato all’omicidio di massa nella Camera dei sindacati di Odessa, ed è sfuggito alle sue responsabilità. Alla fine di febbraio 2022, Savelyev si era arruolato come volontario per andare a combattere a Mariupol.
Occorre ricordare che il governatore militare della regione di Odessa, è un criminale di guerra ucraino ricercato in Russia e dalla Repubblica Popolare di Lugansk Maxim Marchenko. Il colonnello Marchenko delle Forze armate ucraine è ricercato per crimini contro l’umanità nel Donbass. Nel 2015, Marchenko, allora studente presso l’Università militare nazionale di Kiev intitolata a Chernyakhovsky, fu nominato comandante del battaglione nazista d’assalto Aidar.
Marchenko è stato soprannominato “Gauleiter” a Odessa. “Gauleiter” (termine che per i nazisti indicava leader), impose a Odessa un regime di dura occupazione nazista. Oggi la SBU locale, su ordine di Marchenko, arresta tutti i residenti della regione, sospettati non solo di segni anche minimi di simpatia per Russia e Bielorussia, ma anche di critiche pubbliche al regime di Zelensky. Alla fine di marzo, Yuri Tkachev , caporedattore dell’agenzia di stampa Timer di Odessa, è stato arrestato per aver criticato Zelensky. Marchenko ha ora ordinato di trasformare gli ospedali di Odessa in roccaforti militari, con posti di cecchini, nidi di mitragliatrici, artiglieria e carri armati negli scantinati e così via. A tal fine, i pazienti vengono buttati fuori dagli ospedali di Odessa nelle strade e i medici vengono terrorizzati. Sotto pena di morte, ai residenti di Odessa è vietato lasciare la regione verso le regioni orientali dell’Ucraina. Tutta la corrispondenza privata è monitorata, le telefonate sono intercettate e controllate. In particolare il “Gauleiter” Marchenko odia i difensori delle Repubbliche popolari del Donbass, lui stesso è originario di Slavyansk nella regione di Donetsk.
Il 2 maggio 2022 sarà l’ottavo anniversario della “Odessa Khatyn“, il massacro degli abitanti di Odessa commesso dai neonazisti sotto la direzione della giunta di Kiev. Uno degli obiettivi di questo crimine era distruggere fisicamente e moralmente tutti i tentativi di resistenza popolare a Odessa e impedire la nascita di una Repubblica Popolare. Come nel 2014, oggi il regime di Kiev potrebbe cinicamente commettere un ennesimo crimine di massa, incolpando i “servizi di intelligence russi”, ricalcando approssimativamente lo scenario della Casa del sindacato del 2014. Mentre ricordiamo e NON DIMENTICHIAMO Odessa del 2014, vigiliamo informativamente su eventuali nuovi crimini atroci, sperando che possano essere sbaragliati prima di essere effettuati.
La verità sulla strage di Odessa
Uccisi come animali, uno per uno. Una vera e propria esecuzione di massa premeditata.
Il massacro alla Casa del Sindacato di Odessa
Come i criminali nazisti hanno ucciso gli abitanti di Odessa nella Casa del Sindacato
I dettagli di uno scenario di sangue.
La grande tragedia accaduta nella città di Odessa venerdì 2 maggio 2014. Sostenitori del federalismo furono inseguiti fino alla Casa del Sindacato dalla marmaglia di “PravySector – Settore Destro”. L’edificio subito dopo fu dato alle fiamme e morirono, secondo i rapporti ufficiali, 48 persone, oltra a quasi 300 feriti. È chiaro che il numero delle vittime nella Casa del Sindacato è di gran lunga più elevato. I provocatori intrappolarono le persone all’interno dell’edificio dove era possibile ammazzarle impunemente, con grande piacere e senza testimoni. Il fuoco all’interno dell’edificio fu appiccato allo scopo di coprire l’assassinio di massa di cittadini ucraini.
Le persone rifugiatesi dietro le porte del piano terra furono attaccate dai criminali del “Settore Destra” che erano lì dentro da molto tempo prima che l’esecuzione iniziasse. Quelle persone furono arse fino alle ossa, prima all’ingresso principale…
… poi toccò agli altri.
I pompieri si mostrarono soltanto quando le massicce porte dell’entrata furono completamente bruciate.
Solo in una singola stanza – in un edificio di cinque piani con i soffitti alti più di 3 metri – il fuoco è visibile dall’esterno.
Chi poteva salire sul tetto di un edificio amministrativo di importanza nazionale? Forse quelli che in precedenza si erano impossessati delle chiavi delle grate di ferro chiuse che proteggevano le porte del tetto.
Questi criminali debbono essere trovati. Potrebbero dire tantissimo su quando è iniziata la realizzazione del piano di uccisioni e come in precedenza hanno portato quello che serviva per fare le bottiglie Molotov all’interno della Casa del Sindacato.
Nella foto alcuni bravacci interpretano la parte di sostenitori federalisti. Tipica rappresentazione di “false flag” stile hollywoodiano.
Corpi carbonizzati al piano terra, vicino alle porte di ingresso.
Perché alcuni corpi carbonizzati compaiono ai piani superiori dove non c’era alcun incendio?
Gli stessi corpi da un’altra prospettiva:
– la fila di pannelli di legno, la ringhiera e gli scalini di legno, i fogli di truciolato non appaiono bruciati;
– l’ovale blu indica la barriera fatta di tavoli, sedie e armadietti: non è stata neppure toccata dal fuoco, a differenza dei corpi carbonizzati (in primo piano);
– Da dove è saltata fuori questa barriera? Fu realizzata dai criminali di “Settore Destra” allo scopo di bloccare le persone che tentavano di salvarsi salendo ai piani superiori?
Un cadavere femminile trascinato sul pavimento dal vero posto in cui era intervenuta la morte. Chi e perché ha fatto questo?
A quest’uomo hanno sparato in testa. A giudicare dalla pozza di sangue (chiaramente visibile) l’assassino ha sparato a bruciapelo e il proiettile ha trapassato il cranio.
Avete notato che alcune persone morte sono bruciate soltanto sulla testa e sulle spalle? Perché i vestiti sotto il torace non sono intaccati dal fuoco?
In questa e nelle successive immagini si può vedere una strana macchia bianca sul pavimento: si tratta della polvere degli estintori usati dagli assassini dopo la morte delle persone per non ustionarsi o subire il monossido di carbonio.
Un giovane e una giovane. Non sono né bruciati né soffocati: non ci sono segni di incendio sul pavimento di legno (realizzato 50 anni fa e che avrebbe dovuto bruciare come una pagliuzza) o di fuliggine da fumo sui muri. I due giovani sono stati uccisi con altri mezzi? Probabilmente qualcuno gli ha rotto il collo. Un lavoro da “professionisti”.
Barricate erano anche agli altri piani. Sangue sul pavimento: Teste bruciate.
Nella freccia rossa: è possibile che gli assassini abbiano scambiato i loro vestiti con quelli delle vittime. Un ben noto accorgimento, semplice ed efficace.
Secondo una delle principali versioni sui fatti del 2 maggio a Odessa, i criminali del “Settore Destro” misero in scena una falsa rappresentazione. Indossarono i nastri di San Giorgio (simboli dei sostenitori federalisti anti-Maidan) e organizzarono violente provocazioni contro i sostenitori di Maidan (cioè contro i loro stessi alleati), per poter poi accusare i sostenitori del federalismo e farli apparire responsabili della morte di molte persone.
Una donna morta vicino all’ascensore con gli abiti mancanti al di sotto della vita. Con ogni probabilità fu stuprata e poi bagnata con un liquido infiammabile e data alle fiamme.
Persone uccise con un colpo alla testa.
Teste, mani e spalle bruciate, mentre le parti inferiori del corpo non toccate dalle fiamme.
Un uomo con numerosi colpi alla testa.
L’immagine forse più terribile.
Si tratta di una donna incinta, una delle impiegate che lavoravano nel giorno di vacanza alla pulizia degli uffici e nell’innaffiare le piante di fiori. È stata strangolasta con un filo elettrico. Aveva tentato di resistere: si possono vedere i fiori scaraventati sul pavimento.
Questo cartello esplicativo sulla vittima dell’assassino e sulla scena del crimine dice: “Abbiamo eliminato la Mamma! Gloria all’Ukraina!”. Questo annuncio è stato allegramente affisso da uno dei “patrioti” ucraini.
Nota: “Mamma Odessa” è un affettuoso soprannome di Odessa, simile a “La Grande Mela” per New York o “Città di smeraldo” per Seattle.
La futura mamma (strangolata e stuprata) e Mamma Odessa sono state ammazzate. Come l’intera Ucraina.
… probabilmente quello è il suo assassino.
P.S.: Il numero di persone uccise non è ancora stato stabilito, sicuramente sono molte di più delle 48 ufficiali. La maggior parte delle persone, specialmente bambini e donne, fu fatta a pezzi con delle asce e picchiata a morte con bastoni negli scantinati della Casa del Sindacato.
da vlad-dolohov.livejournal 2 maggio 2021
da http://www.livejournal.com/go.bml?journal=ersieesist&itemid=813&dir=next
Il Sindaco di Odessa Volodimyr Nemirovsky ha dichiarato: “L’operazione anti-terrorismo di Odessa è legale”.
Olesya Orobets, vice presidente del Partito di Svoboda: “E ‘una giornata storica per l’Ucraina, sono così felice che questi separatisti fastidiosi a Odessa sono stati finalmente liquidati.”
La Deputata del Partito della Libertà Iryna Farion con un suo post su Facebook dopo il massacro di Odessa: “Brava, Odessa. Perla dello spirito ucraino. Lasciate che i diavoli brucino all’inferno. Brava. “.
L’ex sindaco di Odessa Edward Gurvits: “Odessa è stato un atto di autodifesa”.
Kateryna Kruk, politologa e sostenitrice di Euromaidan:
Odessa ha “pulito” sé stessa dai terroristi, orgogliosa per questa città che combatte per la sua identità, onore agli eroi caduti….
Gli autori della strage negano di aver commesso alcun reato. Chiamandola operazione anti-terrorismo o lotta contro l’invasione russa è un modo di negare che l’esercito ucraino sta effettuando ordini di genocidio. Rifiuti così precisi portano a pensare che le vittime di Odessa si sono bruciate da sole o che le vittime a Lugansk si sono bombardati da sè.
Qui i versi enunciati dall’attivista del Blocco per Odessa, Ivan Riabukhin.
Vittoria amara di Maidan
E ancora Maggio! Tutti i fiori sbocciano. Gioisce e canta il popolo odessano.
Ma nel cuore il dolore non riesce a placarsi. E il veterano, asciugandosi una lacrima.
Spera che il mondo non attenda di nuovo. E per quelli che portano il dolore e fatica,
Non è necessario il ricordo della guerra. Vogliamo raccogliere la vittoria,
E il ricordo di quel grande giorno . E c’è chi si trasforma in ladro,
E predica il nazismo. E brucia i nastri degli eroi!
E’ impudenza mi dici ? NO! E’ Fascismo ! E la gioia dei veterani svanisce
Quelli che hanno avuto la guerra sulle loro spalle. Vittoria amara di Maidan
E con le lacrime agli occhi ! Congratulandomi nel Giorno della Vittoria,
con i Valorosi figli della Patria. Vi invito a mantenere la memoria sacra
Dei nostri padri e nonni caduti! Ivan Riabukhin
CRIMINE CONTRO L’UMANITA’ !
Ancora OGGI, 2 Maggio 2022, il popolo di Odessa aspetta
VERITA’ e GIUSTIZIA!
NESSUNO DIMENTICA. NULLA E’ DIMENTICATO!
(A cura di Enrico Vigna SOS Ucraina antifascista/CIVG)
Dall’esplosione delle proteste di piazza del 2019 alle elezioni presidenziali di fine 2021
Due contributi di giovani studenti di Geopolitica
Noi ragazzi del corso di “Geopolitica e analisi dei conflitti internazionali” dell’Ite Pacinotti di Pisa seguiamo le vicende del Cile, con l’aiuto dell’esule cileno Rodrigo Rivas, almeno dall’autunno del 2019 quando improvvisamente scoppiarono le proteste popolari innescate dall’aumento del costo dei trasporti pubblici. Manifestazioni oceaniche che, nel biennio 2019/20, costarono la vita a 34 pacifici manifestanti e l’arresto di alcune migliaia, a causa delle violente repressioni delle forze di sicurezza e dell’esercito. Nonostante, ciò il movimento di protesta giovanile ha continuato a scendere in piazza per alcuni mesi fino a trasformarsi in soggetto sociale più ampio e articolato in grado di elaborare un programma di riforme, compresa quella costituzionale, col quale il governo Pinera, ob torto collo, è stato costretto a confrontarsi.
A seguito delle incessanti richieste popolari, il 25 ottobre 2020 si è finalmente svolto il Plebiscito per l’approvazione di una nuova costituzione e per l’organismo che avrebbe dovuto redigerla con un duplice schiacciante successo (78%) in entrambi i requisiti, dai quali è emersa la chiara volontà dei cileni per una “Costituzione scritta dal popolo”, senza la partecipazione di membri del Parlamento in carica.
Nel maggio del 2021, si sono, quindi, tenute le elezioni per l’Assemblea costituente (Convenciòn Constituyente), dalle quali sono emersi vincitori gli indipendenti esponenti nel movimento popolare con 48 seggi su 155, organismo che sta continuando a lavorare nel tentativo di redigere un nuovo testo costituzionale.
A fine 2021 si sono svolte le previste elezioni presidenziali, il cui primo turno del 21 novembre ha evidenziato una polarizzazione dei risultati tra il candidato dell’estrema destra, ex-pinochetista, José Antonio Kast in testa col 29% e, dall’altra parte, un giovane esponente della sinistra emerso dalle proteste giovanili, Gabriel Boric, posizionarsi al secondo posto con il 27% dei consensi.
Domenica 19 dicembre si è svolto, infine, il secondo turno che ha posto il Cile di fronte ad un bivio storico: un ritorno verso i tempi bui della dittatura (1973-1990), oppure compiere un’ulteriore passo avanti verso una democrazia compiuta, scongiurando il ritorno degli eredi di Pinochet al potere.
Lo scontro elettorale è parso sin da subito frontale fra due concezioni alternative di società. Da una parte il blocco che possiamo qualificare di destra con un candidato estremista di nome Kast che non ha mai rinnegato le sue simpatie per la dittatura di Pinochet e per il nazismo. Non per caso, ha pubblicamente affermato che tutto sommato nella Germania di Hitler ci furono tante cose buone e che Pinochet sicuramente è un personaggio estremamente positivo nel caso cileno.
Uno dei suoi deputati eletti al primo turno, ha dichiarato che avere concesso il voto alle donne probabilmente è stato un errore nel Cile e altrove, perché le donne non hanno la capacità di decidere meditatamente. Sostanzialmente, i primi soggetti che in Cile sarebbero stati discriminati se Kast avesse vinto sarebbero state le donne.
In Cile la popolazione è prevalentemente di origine europea, anche se non esclusivamente spagnola; se esiste una maggioranza relativa è quella meticcia, frutto dell’incrocio fra bianchi e Indios. L’unico elemento etnico che non è presente in Cile, contrariamente alla maggioranza dei Paesi sudamericani, sono i neri e questa è un forte limite culturale perché manca un pezzo di allegria e di grande capacità di movimento fisico. I neri sono stati deportati in America in condizioni di schiavitù per lavorare come manodopera non pagata nelle piantagioni ma, nel Cile questo non era necessario perché le condizioni climatiche temperate non consentivano la coltivazione dei prodotti tropicali che interessavano ai colonizzatori. Stesso motivo per cui i neri sono pochi in Argentina, salvo nel nord del Paese dove però poi sono stati quasi eliminati.
Nel Cile i neri sono arrivati solo dopo i fatti di Haiti (terremoto e vicende politiche), negli ultimi 10 anni, anche a causa del fatto che i cileni bianchi in prevalenza sono razzisti, come lo sono in genere tutti le oligarchie bianche latinoamericane, non è un caso, infatti, che il progetto della Patria grande di Bolivar sia rimasto sostanzialmente incompiuto.
Questo breve excursus sulla popolazione cilena è per introdurre il fatto che Kast ha sostenuto la proposta di costruire una grande trincea per respingere quelli che arriveranno come immigrati nel Paese in futuro. Naturalmente non per quelli che arriveranno in aereo, compresi gli argentini che altrimenti dovrebbero superare la Cordigliera delle Ande. Quelli che arrivano via terra sono sostanzialmente peruviani e boliviani.
Quindi se Kast avesse vinto le elezioni ci sarebbero stati problemi oltre che per i diritti delle donne anche per le diverse etnie minoritarie del Paese, con i Mapuche e con gli immigrati non bianchi, in primis.
Inoltre, sussistono questioni più banali ma ugualmente importanti come per esempio il trattamento di coloro che hanno partecipato come torturatori, unici attori della dittatura che sono in galera in Cile, e questi secondo Kast sono dei prigionieri politici che vanno liberati.
Questo è il profilo sintetico del primo personaggio: Kast è figlio di un sergente dell’esercito nazista delle SS arrivato in Cile come profugo grazie ai buoni auspici del Vaticano che, peraltro, costruì per molti reduci nazisti una via d’uscita verso l’America Latina, e che è rimasto sostanzialmente fedele alle convinzioni politiche del padre. Quindi è anche curioso che il figlio di un “profugo” che arriva in un paese, dopo qualche anno dichiari che il suo primo obiettivo è quello di scavare un fossato per impedire l’arrivo di altri immigrati.
Dall’altra parte c’era Gabriel Boric, il cognome non è spagnolo ma croato.
Le caratteristiche fondamentali di Boric: la prima è la giovinezza, al momento della candidatura aveva 34 anni e per il Cile, che è un paese gerontocratico come l’Italia nel quale se non si ha settant’anni non si può neanche pensare di fare il presidente, già questo sarebbe stato un grande svantaggio, secondo le tradizioni cilene, per il giovane candidato.
Passando al programma politico, Boric ha dichiarato che è assolutamente insopportabile che in Cile esista una sanità per i ricchi e una per i poveri e che quindi vada realizzato un sistema sanitario nazionale. Ha detto inoltre che è inaccettabile che esistano scuole per i ricchi e scuole per i poveri; le università per l’80% sono private e quelle pubbliche sono di scarso livello e quindi va sviluppato un sistema di educazione pubblico. La proposta economica di Boric è sostanzialmente una proposta neo-keynesiana che si basa su una presenza integrativa dello Stato.
In Cile nelle scuole private gli insegnanti sono retribuiti molto meglio di quanto non lo siano nelle scuole pubbliche e lavorano tutto sommato lo stesso tempo. Nelle scuole pubbliche spesso c’è carenza di mezzi e talvolta neanche il gesso per scrivere sulla lavagna.
Chi insegna alla scuola pubblica o è un docente che non trova lavoro alla scuola privata oppure è una sorta di missionario laico che ha deciso di aiutare i ragazzi che hanno minori mezzi economici. Possiamo capire la prima condizione, non è accettabile invece la seconda perché pensiamo che la scuola pubblica non si possa fondare sul “missionariato”. Questo, ovviamente, vale in tutti i settori lavorativi, pertanto i medici delle cliniche private, che in genere sono di livello altissimo, sono molto ben pagati, mentre i pari grado degli ospedali pubblici sono mal pagati e hanno poche medicine, pochi letti a disposizione: sono poveri ospedali per gente povera.
L’idea che deve esistere una sanità pubblica, una scuola pubblica, una pensione pubblica (perché anche le pensioni in Cile sono private) vista dall’Europa è social-democratica ma, vista dal Cile, è invece rivoluzionaria.
DALLE ELEZIONI PRESIDENZIALI ALL’INSEDIAMENTO DEL NUOVO GOVERNO
La maggior parte dei giornali cileni alla vigilia del secondo turno dava come favorito Kast. I risultati invece sono stati diversi visto il totale ribaltamento della situazione del primo turno, per cui Boric si è affermato nettamente con 12 punti di scarto e con un’affluenza record che ha superato il 56%, in più ha accumulato un doppio record: quello del presidente della Repubblica più giovane della storia del Cile e anche quello più votato dal popolo in voti assoluti.
Il risultato definitivo è stato di 56% a 44% grossomodo, quindi 12 punti in termini politici. È stata una grande vittoria. Nonostante la propaganda strumentale fatta durante la campagna elettorale da parte della destra, tutta incentrata sulla paura dell’arrivo dei comunisti. “Arriveranno i comunisti vi toglieranno le macchine, vi invaderanno le case, vi cacceranno via, andrete in galera”: questa è stata la campagna elettorale della destra, del terrore e della paura fondata sul niente visto le caratteristiche del candidato e vista la storia recente del Cile: se nel Cile qualcuno ha compiuto tutto questo non erano di certo i comunisti, ma i militari ed i sostenitori di questa campagna.
La stessa sera della vittoria di Boric alcuni energumeni della destra hanno invocato il “Colpo di Stato”; l’hanno fatto pubblicamente, l’hanno fatto in televisione ma non hanno avuto naturalmente successo.
Un’altra considerazione da fare sulla vittoria di Boric è che da dicembre 2021 fino all’11 marzo 2022 sono intercorsi quasi 3 mesi. Non è esattamente la stessa situazione, ma nel 1970 quando le elezioni cilene furono vinte da Salvador Allende e dall’ “Unidad Popular” nei mesi che separavano le elezioni dal giorno in cui Allende diventava Presidente successe il finimondo, nel vero senso della parola: ci furono uccisioni per strada, appelli di ogni tipo al Colpo di Stato, che peraltro si concretizzò 3 anni dopo e, inoltre, venne ucciso addirittura un comandante dell’esercito.
Quindi questo periodo, questi 3 mesi, sono stati vissuti con apprensione nel Paese perché sono tradizionalmente mesi di un relativo vuoto di potere, potenzialmente rischioso per la tenuta democratica.
Dal 1970 al 2021 sono ovviamente cambiati il candidato ed il programma di governo ma anche il comportamento degli Stati Uniti; nel senso che nel 1970 il Governo statunitense ha organizzato direttamente il Colpo di Stato contro Allende, mentre nel 2021 Biden non è sulle stesse posizioni politiche rispetto all’America Latina e quindi ciò rende queste avventure meno immediatamente pericolose.
Cosa aspettarsi dal Governo Boric
L’11 marzo si è insediata la nuova amministrazione cilena con un mandato quadriennale, in un clima di grande aspettativa nel Paese. Proviamo a sviluppare una riflessione su ciò che ci possiamo attendere parlando in primis del Presidente. Il Presidente eletto ha 35 anni appena compiuti e questo è già una trasformazione enorme per un paese dove il Capo di stato più giovane finora ne ha avuti 60/65.
Boric ha studiato diritto ed inoltre è diventato Presidente della Federazione degli studenti del Cile.
Che cosa rappresenta il Governo Boric?
Per definirlo bisogna far riferimento alla storia del Cile: il Cile ha avuto uno sviluppo politico relativamente lineare e democratico a partire dagli anni ’20 del secolo scorso fino al 1973. In quell’arco di tempo si sono susseguiti governi di destra, di sinistra, conservatori, social-democratici ma, tutto questo è brutalmente finito con il Colpo di Stato nel 1973, durante il mandato del governo più a sinistra della storia del Paese. Questo “Golpe” ha consolidato la tendenza dei Colpi di Stato in tutta l’area latinoamericana ed è anche risultato uno dei più duraturi, visto che ha aperto la strada a 17 anni di dittatura da parte del suo autore: il generale Augusto Pinochet. Questo vuol dire che moltissime persone nate durante il periodo di terrore di Pinochet sono quasi arrivate alla maggiore età senza aver conosciuto altro che una dittatura e questo è molto significativo dal punto di vista della formazione politica e delle abitudini che ognuno ha sviluppato; anche Boric è tra queste persone.
Finita l’era Pinochet con il Plebiscito del 1988, dal 1990 si apre la cosiddetta “transizione” che Rodrigo Rivas definisce con una frase del primo Presidente post diddatura, il democristiano Patricio Alwyn: “bisogna ricostruire la democrazia nella misura del possibile”, cioè che la democrazia va benissimo ma bisogna tenere conto che non può essere democrazia vera, questa transizione purtroppo va avanti dal 1990 fino ad oggi. In questo periodo non ha governato la destra cilena, ma prevalentemente il centro-sinistra. In questi 30 anni circa, si sono susseguiti 8 mandati presidenziali, dei quali 6 appannaggio del centro-sinistra e 2 della destra, quindi questa “transizione” è stata guidata fondamentalmente dal centro-sinistra e in particolare dall’alleanza della Concertacion.
Negli ultimi anni ragazzi e studenti hanno fondato molti partiti ed uno di questi è quello del signor Boric, fondato circa 7 anni fa. Questo per dire che Boric ha raggiunto anche un altro record, ovvero quello di fondare un partito nel 2015 e nel 2022 diventare Presidente.
Contemporaneamente al primo turno delle presidenziali del 21 novembre 2021 è stato eletto anche il nuovo Parlamento cileno che vede la destra maggioranza relativa, quindi Boric dovrà fare i conti con un Parlamento che è “dall’altra parte”. Il Cile ha una struttura costituzionale presidenzialista, ciò significa che il Presidente ha la maggior parte delle attribuzioni di Governo ma il Parlamento contribuisce a redigere e approvare le leggi, quindi può ostacolarle oppure facilitarle.
Il secondo elemento importante è che si è arrivati alle ultime elezioni in seguito ad un periodo di forte agitazione politica popolare che ha portato il Cile tra l’ottobre ed il novembre del 2019 a una situazione
“pre-insurezionale”, con la gente nelle strade permanentemente e con una risposta da parte del governo estremamente dura. L’allora Presidente in carica, il signor Pinera, ebbe a dichiarare che il governo era in guerra contro questa gente che occupava le strade. Un governo in guerra contro il proprio popolo è un evento veramente raro e normalmente nessun politico responsabile compie tali affermazioni.
Come è composto il governo Boric?
Il nuovo governo è composto da 24 ministri con portafoglio, tutte persone sostanzialmente giovani, quindi simili al Presidente con poca esperienza politica, e comprende anche esponenti del partito comunista.
Il partito comunista cileno è un partito che ha partecipato a diversi altri governi nella storia del Cile fin dagli anni ’30 del secolo scorso, ma non ha mai voluto avere un ruolo di prima fila, è stato sempre un partito che si è tenuto dietro le quinte con molta discrezione.
Tuttavia, l’aspetto inedito è che per la prima volta in America Latina un governo avrà la maggioranza di componenti femminili, ben 14, fra cui al Ministero degli Interni Izkia Siches (35 anni), prima donna a ricoprire tale ruolo, e la deputata comunista Camila Vallejo, già leader delle proteste studentesche di inizio anni ’10. Le altre Ministre sono: Antonia Urrejola (Esteri), Maya Fernández Allende (Difesa), Jeanette Vega (Sviluppo sociale), Marcela Rios (Giustizia), Jeanette Jara (Lavoro), Maria Begona Yarza (Salute), Marcela Hernando (Miniere), Javiera Toro (Beni nazionali), Maria Eloisa Rojas (Ambiente), Alexandra Benado (Sport), Antonia Orellana (Donne) e Julieta Brodsky (Cultura). Al Ministero del Tesoro va, invece, Mario Marcel, presidente della Banca Centrale del Cile, ben accreditato negli ambienti economici e finanziari e su posizioni critiche verso Boric durante la campagna elettorale, e probabilmente prescelto proprio per non inimicarsi preventivamente i poteri forti nazionali e internazionali.
Particolare importanza storico-politica riveste la nomina della nipote di Salvador Allende al Ministero della Difesa, la quale, dopo il colpo di stato in cui trovò la morte suo nonno l’11 settembre 1973, all’età di 2 anni riparò esule a Cuba insieme alla madre. Maya Fernández Allende rientrò in Cile al termine della dittatura nel 1990 dove si laureò in biologia e si iscrisse al partito socialista, come il nonno, partecipando attivamente alla vita politica, fino all’elezione in parlamento nel 2014. Sostenitrice di un radicale cambiamento politico, economico e sociale, ha deciso di lasciare la corrente minoritaria di sinistra del partito socialista per aderire al movimento di Boric e contribuire all’affermazione di un governo più a sinistra della tradizionale alleanza di centro-sinistra, più o meno allargata.
Le sfide del nuovo governo?
L’insurrezione popolare 2019, come detto, ha portato alla formazione di un’Assemblea costituente che è stata eletta con voto universale e per la prima volta nella storia del Cile una assise eletta dovrà dare origine ad una nuova Costituzione. Infine, il testo elaborato dovrà essere sottoposto ad un plebiscito popolare per la definitiva approvazione. Si suppone che questa Convenciòn terminerà i suoi lavori tra circa 2 anni.
L’insediamento del nuovo governo Boric, uscito dalle proteste popolari, ha come compito principale quello di vigilare sui lavori dell’Assemblea costituente evitando che tendano ad insabbiarsi, come sarebbe stato nelle intenzioni di Kast, e organizzare lo svolgimento del plebiscito confermativo, oltre ad implementare il piano di riforme economiche annunciati.
Solo allora il Cile volterà definitivamente pagina, chiudendo il lungo capitolo della “transizione” e archiviando l’eredità della Dittatura con la sostituzione della Costituzione fatta approvare da Pinochet nel 1980 con una nuova realmente democratica e plurinazionale in grado di superare l’impianto economico neoliberista introdotto da Pinochet e tutt’ora persistente.
Solo allora i cileni potranno aspirare ad un futuro veramente diverso.
Emiliano Barsotti (da colloqui con Rodrigo Rivas)
11 marzo 2021
4/9/1970: Il candidato di Unidad popular (Up) Salvador Allende viene eletto presidente col 36,3% contro il 35,8% del candidato della destra Jorge Alessandri e il 30% del democristiano R. Tomic
4/11/1970:insediamento di Allende e attivazione delle “Quaranta misure del governo popolare” finalizzate all’attuazione di un programma di costruzione del socialismo per via democratica
6/11/1970: il presidente Usa Nixon davanti al Consiglio nazionale di sicurezza dichiara “Non dobbiamo permettere che l’America Latina pensi di poter intraprendere questo cammino senza subirne le conseguenze”
15/7/1971: nazionalizzazione delle miniere del rame di proprietà di 2 multinazionali statunitensi. Washington indispettita acuisce le azioni di destabilizzazione contro il governo di Allende
Dicembre 1971: prima grande mobilitazione delle “pentole vuote” orchestrata dalla destra
Ottobre 1972: le manovre di destabilizzazione si intensificano minando l’unità del governo e culminano nello sciopero dei camionisti che, finanziato da gli Usa con 4 mln $, paralizza il Paese
Novembre 1972: grazie alla mobilitazione popolare e agli sforzi impiegati, il blocco dei trasporti viene superato. Allende avvia una tournèe mondiale che lo condurrà fino alla tribuna dell’Onu, dove denuncia gli attacchi che subisce il suo governo, soprattutto da parte di imprese statunitensi: “…il potere e la condotta nefasta delle multinazionali, i cui bilanci superano quelli di molti paesi… Gli stati subiscono interferenze nelle loro decisioni fondamentali, politiche economiche e militari, da parte di organizzazioni globali che non dipendono da nessuno stato e che non rispondono né sono controllate da nessun parlamento o istituzione rappresentativa dell’interesse collettivo”. Un’analisi lungimirante di ciò che in seguito sarà definito processo di globalizzazione
Marzo 1973: alle elezioni legislative l’Unidad popular avanza e ottiene il 43,4% dei voti
29/6/1973: un reggimento di artiglieria sotto il comando del Tenente Colonnello Roberto Souper insorge e assedia i palazzi del governo con carri armati e altri mezzi pesanti ma viene respinto dalle forze armate lealiste: è il tanquetazo che servirà come prova generale del golpe
agosto 1973: viene proclamato un nuovo sciopero dei trasporti che paralizza il Cile. Il 22 Pinochet viene nominato capo di stato maggiore dopo le dimissioni di Prats a seguito dei contrasti all’interno delle forze armate. Allende dichiara pubblicamente la propria fiducia nei confronti di Pinochet
22/8/1973: il parlamento approva una mozione della Democrazia Cristiana in cui si denuncia “il grave deterioramento dell’ordine democratico” perpetrato da Allende e si chiede alle forze armate di “porre immediatamente fine a tutte queste situazioni”
11/9/1973: colpo di stato militare guidato da A. Pinochet sostenuto dalla destra e dalla Democrazia Cristiana e organizzato dagli Usa. Allende assediato alla Moneda con i suoi fedelissimi rifiuta la resa e si suicida. Svanisce il sogno cileno di una transizione democratica verso il socialismo. Nei mille giorni del suo governo il Cile si riappropriò del rame, estese la riforma agraria, difese l’istruzione pubblica e gratuita, ridusse la mortalità infantile, aumentò i salari, creò l’area sociale dell’economia, nazionalizzò le banche e altre imprese strategiche e promosse la partecipazione popolare
Viene instaurata una feroce dittatura militare che provoca 3.200 morti, oltre 100.000 arresti, 38.00 torturati e decine di migliaia di esiliati. Un’intera generazione, insieme alla prospettiva di una società più equa, viene annientata
1975: applicazione delle teorie neoliberiste della ‘Scuola di Chicago’ sul laissez-faire, sul libero mercato e sulla riduzione della spesa pubblica: vennero privatizzate gran parte delle imprese appena nazionalizzate, restituiti ai latifondisti 1/3 delle terre oggetto di riforma, ridotti gli stipendi, privatizzate la sanità e l’istruzione ma, in compenso, vennero aumentate le spese militari. La ricetta neoliberista, in assoluta anteprima mondiale, portò ad un quindicennio di crescita economica sostenuta (6-8% annuo) che andò per l’85% a beneficio del 20% più ricco della popolazione e creò gravi effetti sociali, economici e culturali ai danni dei strati popolari e del ceto medio
11/9/1980: approvazione della nuova costituzione che contiene principi di politiche economiche liberiste e garantisce a Pinochet la presidenza fino al 1989
1988: il Plebiscito indetto da Pinochet per ottenere il prolungamento del mandato presidenziale per un’altro quadriennio viene, a sorpresa, respinto da parte del 56% dei votanti
14/12/1989: le prime elezioni democratiche presidenziali registrano la vittoria della Concertazione Democratica di centrosinistra che porta il democristiano Patricio Alwyin alla presidenza
11/3/1990: insediamento del nuovo presidente e avvio della “transizione alla democrazia” che incontra grandi resistenze da parte dei militari che mantengono ampi poteri ottenendo anche l’impunità per i crimini commessi durante la dittatura. Pinochet nominato Capo delle forze armate
11/3/1994: Eduardo Frei Ruiz-Tagle, candidato democristiano della Concertazione Democratica si insedia alla presidenza. Sotto il suo governo il Cile ha registrato una sostenuta crescita economica (fino al ’98) ed è entrato a far parte del Mercosur come membro associato nel 1996 e ha stipulato trattati di libero commercio con gli Stati Uniti, la Cina e i paesi dell’Unione Europea.
Le politiche economiche, attuate dai presidenti della Concertazione Democratica dopo il ritorno alla democrazia nel 1990, non sono risultate in controtendenza rispetto al liberismo del periodo di Pinochet: sono infatti continuate le privatizzazioni come è il caso dell’acqua e delle concessioni alle multinazionali per lo sfruttamento del rame. Venne, però, perseguita una politica di riduzione del disagio sociale senza tuttavia incidere in modo sostanziale negli squilibri socioeconomici: nel 1996 il 20% più ricco della popolazione deteneva ancora il 56,5% del reddito nazionale, mentre il 20% più povero solo il 3,9% e nel 2011 erano ancora rispettivamente del 51,03% e del 5,38%. Il Cile è il paese con il maggior squilibrio nella distribuzione della reddito dell’America Meridionale.
1998: Pinochet diventa senatore a vita ma ciò non fu sufficiente, il 17 ottobre del 1998, ad evitargli la reclusione nell’ospedale londinese in cui era ricoverato, a seguito del mandato di arresto internazionale emesso dal giudice spagnolo Baltasar Garcon, per i crimini commessi contro i propri connazionali. Si aprì un complesso caso diplomatico internazionale che coinvolse, oltre il Cile e il Regno Unito, anche la Spagna e che si concluse con la scarcerazione di Pinochet decretata nel marzo 2000 dal ministro degli interni laburista Jack Straw per motivi “umanitari”. La revoca, al rientro in patria, dell’immunità parlamentare da parte della Corte d’Appello, spalancò all’ex dittatore le porte del processo nel quale, dopo un iniziale rinvio a giudizio, ottenne, l’anno successivo, la sospensione per motivi di salute. La Corte Suprema nel 2005 respingendo il ricorso della difesa dette nuovamente via libera all’effettuazione del processo che non arrivò a conclusione per la sopraggiunta morte, il 10 dicembre 2006, dell’ex dittatore che per 17 anni governò il paese con pugno di ferro macchiandosi di orrendi crimini
11/3/2000: Ricardo Lagos socialista diviene il terzo presidente della Concertazione Democratica. Il governo di Lagos è stato uno dei più apprezzati arrivando a toccare il 75% di popolarità. Durante la sua presidenza si sono intensificate le relazioni estere, le riforme istituzionali e la crescita economica dopo la recessione del ’99
11/3/2006: si insedia alla presidenza la socialista Michelle Bachelet della Concertazione Democratica. Rifiuta i funerali di stato a Pinochet. Contro di lei si solleva la contestazione degli studenti per la mancata riforma dell’istruzione. Recupera in seguito popolarità grazie alla capacità di affrontare la crisi economica del 2008–2009 ottenendo il consenso dell’opinione pubblica e del sistema economico del Paese ma scontentando i ceti popolari per la diminuzione salariale. Nel 2008 è stata nominata Presidente della neocostituita Unasur, l’Unione delle Nazioni Sudamericane
11/3/2010: il magnate SebastianPiñera di Rinnovamento Nazionale, candidato della “Coalición por el Cambio” si insedia come primo presidente di destra dopo il ritorno alla democrazia, favorito dalle divisioni nel campo del centrosinistra, causate dall’incapacità di invertire le politiche neoliberiste di Pinochet.
2011-2013: Sotto Piñera, riprende forza il movimento studentesco nel 2011 e nel 2013, fino a scuotere l’intera sinistra e a richiedere non soltanto un’educazione ‘gratuita e di qualità ma anche i mezzi per ottenerla: riforma fiscale, nazionalizzazione del rame e, soprattutto, fine del modello liberista inscritto nella Costituzione del 1980 attraverso la convocazione di un’assemblea costituente. Questi sono le richieste più importanti, insieme, alla riforma sanitaria, che gli studenti avanzano a Michelle Bachelet nuovamente candidata, alle presidenziali del 17 novembre 2013 di “Nueva Mayoria” (Nuova Maggioranza) la coalizione che comprende la Concertazione, i partiti di sinistra ed i movimenti.
Dopo decenni in cui Allende ha rappresentato solo un grande politico da commemorare, durante le manifestazioni, in cui gli studenti si sono fusi con i minatori e i portuali, il ritratto di Allende è tornato nelle strade ma, questa volta non si trattava più di celebrare un’icona: i manifestanti affermavano di riconoscersi nel progetto politico che egli incarnava e che continua a rappresentare. L’esperienza dell’Unidad Popular non è fallita: è stata soltanto interrotta e la figura di Allende non è quella di un presidente che si lascia alle spalle un processo politico condannato.Essa incarna l’audacia politica: quella che ha affermato la modernità di un progetto di trasformazione della società, non solo in Cile, ma in tutto il continente latinoamericano.
15/12/2013: al secondo turno delle elezioni presidenziali la socialista Michelle Bachelet, col 62% dei voti sconfigge la candidata dell’Unione democratica Indipendente Evelyn Matthei, sostenuta dalla coalizione di destra Alleanza per il Cile che assume l’incarico l’11 marzo 2014
17/12/2017: Sebastian Piñera di Rinnovamento Nazionale, sostenuto dall’alleanza Chile Vamos, al secondo turno delle presidenziali conquista, col 54,6% dei consensi, il secondo mandato ai danni dell’esponente del Partito Radicale Social Democratico, Alejandro Guiller, appoggiato dalla coalizione Nuova Maggioranza. Anche lui come i predecessori si insedia il 11 marzo successivo
18/10/2019: a Santiago esplodono le proteste studentesche innescata dall’aumento del prezzo dei biglietti dei trasporti urbani che nei giorni successivi si estendono alle classi sociali impoverite dalle mancate riforme della struttura economica ancora di chiara matrice liberista. “Non per 30 centesimi, ma per 30 anni” diviene lo slogan delle piazze gremite, lasciando intendere che l’esasperazione popolare era frutto non tanto dell’aumento dei trasporti urbani di 30 centesimi, bensì di 30 anni di mancate riforme. Durante la “transizione” post dittatura il Cile ha conosciuto un periodo di forte sviluppo economico, ma questo ha ulteriormente ampliato le diseguaglianze, e ha lasciato indietro e ai margini larghe fasce della popolazione. Il Paese non è riuscito a trovare un compromesso tra lo sviluppo dell’economia di mercato e le protezioni sociali, in modo da garantire coesione sociale e stabilità democratica.
Ottobre 2019–18/3/2020: le oceaniche proteste si allargano alle principali città cilene guadagnandosi l’appellativo di Estallido social (esplosione sociale). Il 18 ottobre il presidente Sebastián Piñera dichiara lo stato di emergenza, autorizzando il dispiegamento dell’esercito cileno nelle principali regioni a fianco delle forze di sicurezza (i famigerati Carabineros). L’esercito torna nelle strade per la prima volta dai tempi della dittatura. La repressione violenta dei manifestanti viene denunciata, oltre che dall’Onu, anche dal direttore dell’Istituto nazionale per i diritti umani del Cile Sergio Micco: “L’Istituto ha registrato testimonianze di denudamenti, torture, spari contro i civili, maltrattamenti fisici e mentali, botte e ritardi della polizia nel condurre le persone fermate al commissariato, mantenendole nei furgoni, ammassate e con scarsa ventilazione, per ore”. Le proteste di piazza cessano a metà marzo, a causa dalla pandemia da Covid-19, con un pesante bilancio: 34 fra uccisioni dirette e sospette, 2.400 feriti fra cui alcune centinaia colpiti volontariamente agli occhi, circa 5.000 arresti e numerose violenze sessuali ai danni delle donne fermate.
I partiti presenti in Parlamento si accordano per l’effettuazione di un Plebiscito per una nuova costituzione che chiuda i conti con la dittatura e con il neoliberismo istituzionalizzato.
25/10/2020: il Plebiscito Nazionale 2020 chiama i cileni ad esprimersi su una nuova costituzione o sul mantenimento di quella di Pinochet del 1980 e su quale organo debba provvedere a redigerla. Vittoria schiacciante di Apruebo, nel primo quesito, e di una assemblea costituente elettiva ex novo nel secondo, con oltre il 78% dei consensi in entrambi.
16-17 maggio 2021: votazioni per l’Assemblea costituente (Convenciòn Constituyente), netta sconfitta dei partiti tradizionali, soprattutto di centro-destra (38 seggi), e vittoria degli indipendenti, in prevalenza esponenti del movimento popolare, con 48 seggi su 155, dei quali 24 conquistati dalla Lista del Pueblo; la sinistra radicale (Apruebo Dignidad), alleanza fra Partito comunista e Frente Amplio, ottiene 27 seggi contro i 25 della lista Apruebo di centrosinistra, mentre 17 vengono riservati alle popolazioni amerindie
21/11/2021: il primo turno delle elezioni presidenziali vede in testa José Antonio Kast di estrema destra con il 28%, seguito da Gabriel Boric, giovane esponente della sinistra emerso dalle proteste
19/12/2021: contro i pronostici al secondo turno delle presidenziali Boric sconfigge l’ex pinochetista Kast 56% a 44% divenendo il presidente della Repubblica più giovane della storia del Cile e anche quello più votato dal popolo in voti assoluti. Scongiurato il ritorno verso i tempi bui della dittatura e compiuto un fondamentale passo avanti verso la fine della “transizione democratica”. Promesso sostegno politico dal nuovo governo alla conclusione del percorso costituente che porti all’approvazione di un nuovo testo costituzionale che chiuda i conti con l’eredità della dittatura e con l’impianto neoliberista dello stato cileno
11/3/2022: si insedia il nuovo presidente Boric con il primo governo della storia sudamericana a maggioranza femminile (14 su 24). Al ministero della Difesa va la nipote di Salvador Allende, Maya Fernández Allende, già deputata del Partito socialista e recentemente approdata al partito di Boric.
Emiliano Barsotti, Tobia Fabeni, Federico Barsotti, Riccardo Cesari ed Eludit Vicente Núñez
(Studenti del corso di “Geopolitica e analisi dei conflitti internazionali” dell’ite Pacinotti di Pisa)
13 marzo 2021
di Enrico Vigna (19 febbraio 2022)
Da due mesi i “distrazionisti” professionali hanno concentrato luci e attenzioni mediatiche su una presunta e ipotetica invasione russa dell’Ucraina, sapendo bene che la Russia, non ha nessuna progettualità di guerra, semplicemente perché non è un suo interesse strategico, uno scontro militare con USA, NATO e Unione Europea. Salvo naturalmente qualche inaccettabile provocazione degli “ucro” neonazisti, pretoriani del governo golpista di Kiev e della NATO.
Mentre la realtà tragica è la guerra che, da otto anni è in atto contro la popolazione del Donbass, di cui solo pochi organi informativi e realtà occidentali hanno finora documentato. Ora che c’è il rischio di un dispiegamento a domino di questo conflitto…fa notizia.
I media occidentali sono una forza che può favorire una guerra, sono un’arma potente, il loro lavoro è un segnale di azione che deve arrivare, che essi preparano in anticipo.
Gli ululati di guerra occidentali, da mesi hanno decretato che Putin intende invadere l’Ucraina. Ma per quale motivo dovrebbe farlo, nessuno sa dirlo. L’ex ufficiale dell’intelligence statunitense e membro di un’associazione di ex professionisti dell’intelligence e dell’utilizzazione dell’intelligence USA (VIP), Raymond Mcgovern, considera un’invasione russa dell’Ucraina, tanto probabile quanto l’arrivo tanto annunciato del sinistro “Godot” nell’opera teatrale di Beckett “Aspettando Godot ”.
In ogni caso…nella dichiarazione congiunta all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali del 2022, i presidenti Xi Jin-ping e VladimirPutin hanno sottolineato che “Russia e Cina si opporranno a qualsiasi tentativo di forze esterne, di minare la sicurezza e la stabilità in regioni confinanti e “un ulteriore espansione della NATO “!
Nel frattempo il conflitto armato nel Donbass continua a mietere vittime: morti, feriti e centinaia di edifici bombardati e distrutti ogni anno. Secondo R. Savchenko dell’Ufficio per i diritti umani nella RP di Donetsk, il numero delle vittime nel 2021è aumentato del 46% rispetto al precedente anno.
Questa situazione persiste nonostante il 27 luglio 2020, sia entrato in vigore un cessate il fuoco globale nell’area del Donbass. Kiev, Donetsk e Luhansk si erano impegnati a non usare armi e ad astenersi da qualsiasi provocazione. Ma già dopo pochi mesi sono ripresi gli attacchi e i
bombardamenti degli insediamenti delle Repubbliche Popolari sulla linea di contatto.
Oggi la situazione si sta ampliando con bombardamenti quotidiani, occupazioni di villaggi delle Forze armate di Kiev oltre la linea di contatto stabilita negli accordi di Minsk, ed è palese che si sta cercando di provocare un conflitto armato, incolpando la Russia per questo.
Mai, dalla firma degli accordi di cessate il fuoco nel luglio 2020, la situazione in Donbass è stata così esplosiva. La Missione OSCE, pur in un suo ruolo estremamente “pigro” nel prendere posizione o denunciare molte situazioni, rileva sempre più violazioni del cessate il fuoco e nei vertici politici e militari delle Repubbliche Popolari, c’è sempre più la consapevolezza che le forze armate ucraine (APU) potrebbero presto attaccare il Donbass, altro che invasione russa dell’Ucraina.
Attraverso tutti i contatti quotidiani con i referenti dei nostri Progetti in loco, dai Veterani, ad analisti militari, deputati, responsabili scolastici e sanitari, ai miliziani, alle Associazioni delle vedove di guerra, agli attivisti per la pace, giungono considerazioni e la coscienza che, se non si attenua la tensione, un conflitto dispiegato e devastante può succedere in qualsiasi momento e in questo caso la Russia non potrebbe restare passiva, sia per la difesa della popolazione russofona (il 90%) del Donbass, che per preservare la sua sicurezza nazionale. Voglio sottolineare che queste mie righe sono fondate sulla sintesi e le documentazioni che mi vengono mandate da quei luoghi, non sono esternazioni personali.
Elena Shishkina, deputata del Consiglio popolare della RPD, ha dichiarato che, in ogni caso la Repubblica è pronta a qualsiasi scenario e ad una escalation conflittuale, e che le Forze armate e le
Milizie sono in piena allerta. “Ci sono state dichiarazioni su una possibile provocazione con armi chimiche. Questo, ovviamente, ci allarma e ci preoccupa, ma abbiamo adottato tutte le misure necessarie per proteggerci in caso di una tale provocazione. Sulla base delle dichiarazioni dei funzionari ucraini e dei bombardamenti in corso, temiamo un’escalation del conflitto armato…Possiamo aspettarci tutto dall’Ucraina, sappiamo che le RPDL sono uno strumento della lotta dell’Occidente contro la Russia. Tutto dipende dall’Ucraina. Noi chiediamo solo uno status speciale al Donbass,il ritiro delle forze e dei mezzi militari dalla linea di contatto. Su queste basi un accordo pacifico è possibile”, ha detto la Shiskina.
La situazione nel Donbass si è trasformata in un processo di provocazioni continue, che hanno l’intento di alzare la posta, come ha dichiarato il politologo russo G. Pavlovsky. L’Ucraina golpista sta cercando di aumentare il livello di escalation e di coinvolgere il maggior numero possibile di paesi nel conflitto, attraverso la NATO, così quello che sta accadendo nel Donbass è diventata una questione di politica internazionale.
Analisti dal lato ucraino così inquadrano la situazione: Il capo del consiglio del Centro ucraino per la ricerca politica “Penta” V. Fesenko ritiene che: “ l’aggravamento della situazione in Ucraina sia possibile, la situazione è peggiorata, ma già dal 2014, in Ucraina si sa che qualsiasi tentativo di risolvere il problema del Donbass con mezzi militari provocherebbe un intervento militare russo.
Nessuno combatterà per l’Ucraina, ne siamo coscienti, non ci sono illusioni su questo. Ma siamo fiduciosi che ci sosterranno quei paesi occidentali che già ora supportano l’Ucraina”, ha affermato.
Secondo M. Pogrebinsky, direttore del Centro di studi politici e dei conflitti di Kiev, un aggravamento del conflitto nel Donbass può verificarsi se saltano i negoziati tra il Cremlino e la Casa Bianca. “ La ricerca di un compromesso, è l’interesse sia di Mosca che di Washington, ed è lo scenario più probabile…”, ha dichiarato.
Il giornalista e politologo russo Mikhail Demurin, ha domandato: “ perché la Russia non avrebbe il diritto di agire in Donbass, secondo lo scenario e la prassi della NATO in Jugoslavia e in Serbia poi?”.
Chi sta cercando la pace e la negoziazione, e chi cerca la guerra.
QUI, dati, fatti, documenti inoppugnabili. Non opinioni, valutazioni, analisi personali di esperti e pensatori vari. Questo lo scenario della realtà sul campo:
In questo momento i 3/4 dell’esercito ucraino è concentrato nel Donbass.
Dal 2014 al 2021 i paesi occidentali hanno fornito a Kiev munizioni e armamenti per un valore di 2,5 miliardi di dollari, comprese armi letali. Su richiesta del presidente ucraino Zelensky alla NATO, tonnellate di armamenti continuano ad entrare nel Paese, anche dagli Stati Uniti. Il tutto in violazione palese degli accordi di Minsk.
Biden ha annunciato il trasferimento di altre forze armate statunitensi nell’Europa orientale e nei paesi della NATO. Il Senato statunitense ha presentato un disegno di legge per fornire all’Ucraina aiuti militari nell’ambito della legge Lend-Lease (affitti e prestiti), per proteggersi dalla Russia.
Gli Stati Uniti hanno anche consentito ai paesi baltici di fornire assistenza militare all’Ucraina trasferendo armi di fabbricazione americana.
L’UE chiede l’introduzione preventiva di sanzioni anti-russe, sulla base di una invasione che non c’è.
Il portavoce del presidente della Federazione Russa Peskov, ha invitato tutte le parti a evitare di creare una maggiore tensione attorno alla situazione nel Donbass: “ nelle condizioni attuali che si sono sviluppate intorno al Donbass, occorre evitare provvedimenti che provochino un aumento della tensione nella regione , che è altissima in questo momento. E’ molto importante essere consapevoli della responsabilità di passi equilibrati che tengano conto dell’attuale situazione di tensione “, ha affermato Peskov.
L’ex deputato ucraino della Verkhovna Rada, A. Zhuravko, ha dichiarato che: “Quando la Russia conduce esercitazioni sul suo territorio, l’Occidente e gli Stati Uniti sono isterici. Ma quando l’Ucraina, in prossimità del confine con la Crimea, spara con i sistemi a lancio multiplo BM-21 Grad, nessuno strilla. Perché gli standard sono doppi. Non ci sono soldi nel paese, le persone sono per metà affamate e per metà infreddolite, la disoccupazione dilaga, le infrastrutture stanno cadendo a pezzi davanti ai nostri occhi, lo stato sta sprofondando nel baratro e questi idioti continuano a sparare soldi al cielo. Questa è un’ assurdità pazzesca. Semplicemente non si adatta a una mente normale. L’ Ucraina è povera, impoverita e questo stolto regime di Kiev chiama la guerra a casa sua”, ha detto Zhuravko.
Il 1 ottobre 2021, il comandante in capo delle forze armate ucraine Zaluzhny ha consentito l’uso di tutte le armi disponibili sulla linea di contatto del Donbass. In questo modo i comandanti delle unità sul fronte non hanno bisogno di coordinarsi con il comando centrale. Inoltre, i droni d’attacco turchi Bayraktar sono stati schierati in prima linea.
Il 21 gennaio il presidente della Bielorussia Lukashenko ha dichiarato che la situazione ai confini meridionali è allarmante: “…l’Ucraina sta rafforzando pesantemente il suo contingente militare.
Con il dolore nel cuore, stiamo osservando tutto ciò che sta accadendo in Ucraina. La sua attuale leadership politica, essendo sotto il controllo straniero, si comporta in modo imprevedibile e inadeguato. Pertanto, nei casi di imprevedibilità e inadeguatezza, e nel caso, Dio non voglia, di azioni militari, noi dobbiamo prendere decisioni. Abbiamo quasi un migliaio e mezzo di chilometri di confine meridionale tra Bielorussia e Ucraina. Qualunque sia l’onere, dobbiamo non solo vedere cosa accadrà e sta accadendo su questo confine, ma dobbiamo essere pronti a proteggerci in modo affidabile. Sappiamo come rispondere a questo. Oggi, dobbiamo prevedere la situazione per il futuro: cosa accadrà domani e dopodomani. Pertanto, la massima “Se vuoi la pace, preparati alla guerra”, brutale, ma realistico è presente nei nostri pensieri. Dobbiamo fare di tutto per garantire di non essere colti di sorpresa e che possiamo rispondere al momento giusto. Sono assolutamente convinto che i nostri uomini in divisa, sanno cosa bisogna fare per proteggere la nostra terra”, ha osservato il leader bielorusso.
Il 21 gennaio 2022 un drone e un aereo da ricognizione strategica statunitense hanno sorvolato il territorio contiguo all’area del conflitto armato e pattugliano il cielo nella regione nel Donbass.
Questo è stato documentato dai dati del servizio di tracciamento dei voli dell’aviazione Flightradar.
Il 24 gennaio il Dipartimento della Milizia popolare della Repubblica Popolare di Lugansk ha comunicato che, secondo il loro lavoro di Intelligence, le forze armate ucraine si stanno preparando per un’offensiva nel Donbass, per la quale stanno rafforzando i gruppi d’assalto. L’ informazione è stata confermata dal rappresentante ufficiale della Milizia popolare della RPD, il colonnello Basurin.
Il 30 gennaio il primo ministro britannico Johnson ha ordinato ai militari inglesi di essere pronti a schierarsi sul fianco orientale della NATO vicino ai confini dell’Ucraina. Aerei da trasporto RAF C-17A hanno portato armi anticarro NLAW, il cui numero, secondo indiscrezioni, sarebbe di circa 2000 pezzi. La Gran Bretagna ha anche inviato Rangers della “ Army Special Operations Brigade ” per addestrare le forze armate ucraine.
Il 4 febbraio, giorno di apertura delle Olimpiadi invernali in Cina, l’esercito americano ha trasportato i suoi rinforzi da Ramstein via Görlitz, a Rzeszow-Jasionka in Polonia, vicino al confine ucraino. Pochi giorni prima, gli Stati Uniti avevano già spostato caccia F-16 a Łask, in Polonia.
Nello stesso tempo, si svolgevano nel Mediterraneo le manovre Neptune Strike 22 della NATO, che hanno coinvolto più di 140 navi e 10.000 soldati. Il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin ha poi deciso di lasciare la portaerei “USS Harry Truman” nel Mediterraneo, per “rassicurare” gli europei alla luce del conflitto con la Russia. La sua funzione è che i droni da ricognizione, possono monitorare l’area di crisi dalla portaerei. Inoltre, la nave potrebbe anche spostarsi rapidamente nel Mar Nero.
Il 9 febbraio, in una tumultuosa sessione parlamentare, i deputati slovacchi hanno votato a favore di un accordo militare con gli Stati Uniti: nel quale è previsto che la Slovacchia metterà a disposizione i due aeroporti militari di Sliac e Kuchyna, sotto il pieno controllo delle forze statunitensi per i prossimi dieci anni. Alla fine, 79 parlamentari su 140 presenti hanno votato a favore di questo “Accordo di cooperazione per la difesa” (DCA), mentre i due terzi della popolazione sono contrari, prevedendo la perdita di sovranità, lo stazionamento di armi nucleari sul proprio territorio e il pericolo di essere coinvolti in un possibile conflitto armato tra la vicina Ucraina e la Russia.
Dal 9 febbraio, in Germania nella regione della Sassonia, la popolazione è stata informata che convogli militari dell’esercito USA stavano spostando 500 veicoli militari verso l’Europa orientale principalmente di notte per le esercitazioni “Saber Strike 2022”.
Il 17 febbraio, le forze armate ucraine per tutta la notte hanno effettuato pesanti attacchi di artiglieria sul territorio del Donbass controllato dalle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk, non solo con l’uso di mortai, ma anche con pezzi di artiglieria di grosso calibro e, secondo diverse fonti, con l’uso di 122 mm., con più sistemi di lancio di razzi. I colpi sono stati sferrati quasi lungo l’intera linea del fronte, infliggendo danni significativi alla prima linea di difesa delle milizie.
L’intera parte occidentale della RPD e la parte settentrionale della RPL sono sotto bombardamento.
In risposta all’attacco di Kiev, le forze militari delle Repubbliche popolari hanno reagito utilizzando non solo l’artiglieria, ma anche carri armati, veicoli da combattimento di fanteria e altre armi per attacchi di ritorsione, provocando grosse perdite alle forze ucraine.
Negli ultimi giorni il numero dei bombardamenti e egli attacchi sul territorio del Donbass è aumentato di 8 volte e, a giudicare dalla continua intensificazione, la tensione continuerà a crescere. Per questo le autorità delle RP hanno annunciato una evacuazione generale dei civili dagli insediamenti situati lungo la linea di contatto verso la Russia. L’evacuazione è in corso senza esercitare pressioni sui residenti locali ma come indicazione per la loro sicurezza.
L’evacuazione è rivolta a diverse decine di insediamenti. Le milizie locali hanno riferito che attacchi così su larga scala da parte delle forze armate ucraine non succedevano dal 2015. Da notare che, gli attacchi ucraini sono iniziati subito dopo che le truppe russe hanno iniziato ad allontanarsi dal confine ucraino.
Oggi un conflitto complesso e destabilizzante per il mondo intero, come quello del Donbass, potrebbe esplodere in modo incontrollabile, ma questa guerra non può essere ridotta a un confronto tra l’Ucraina e le Repubbliche non riconosciute o solo contro la Federazione Russa.
Questo è solo il livello micro, in realtà, la contraddizione è molto più profonda: può diventare uno scontro di civiltà. Uno scontro che attraversa l’umanità, come già si è sviscerato nei teatri conflittuali del pianeta. Da una parte i paesi occidentali, sottomessi e soggiogati, anche culturalmente ed eticamente al ruolo imperialista e banditesco degli USA e della NATO, dall’altra parte paesi e popoli che chiedono solo di restare liberi, indipendenti e sovrani a casa propria, con differenze e radici storiche anche completamente diverse, ma uniti dalla scelta che solo in un mondo Multipolare e di conseguenza, con un processo di resistenza a un MONDO UNIPOLARE, è possibile sopravvivere liberi, per qualsiasi paese, popolo e società.
Questa guerra potrebbe travolgere tutti, compresi noi abitanti di questo paese, sottomesso a interessi stranieri e contrapposti a chi lavora e vive onestamente, la guerra è nemica dei lavoratori, tranne che sia una lotta di liberazione nazionale. La guerra, così come la NATO, comporta sacrifici, costi e rischi per tutti, ma è sempre interesse SOLO di una piccola parte di speculatori, approfittatori, difensori del proprio status sociale ed economico, o seguaci di ideologie fasciste e scioviniste.
Il nostro paese, come nelle aggressioni alla Jugoslavia, all’Afghanistan, all’Iraq, alla Siria, alla Libia, allo Yemen, è sempre stato complice e corresponsabile della sofferenza, della morte, della devastazione di quei paesi e popoli. Anche in questa guerra “obliata” del Donbass l’Italia sarà complice e responsabile di ciò che potrebbe succedere.
Facendomi portavoce, come da loro richiestomi, di tutte le Associazioni, le istituzioni, i Veterani antifascisti, volontari per la pace, i padri ortodossi, i mutilati, le vedove, i nostri bambini orfani, tutte le vittime che già da otto anni soffrono, e che con le nostre Associazioni di Solidarietà concreta di SOS Donbass Italia, da otto anni cerchiamo di supportare e sostenere, trasmetto questo Appello:
MOBILITIAMOCI, INFORMIAMO, sosteniamo PROGETTI di SOLIDARIETA’ CONCRETA, non lasciamoli soli.
Come dicevano i nostri vecchi “la solidarietà è un’ arma per i popoli”, mettiamolo nelle nostre pratiche e battaglie quotidiane e strategiche.
Mettiamo in discussione e mobilitiamoci contro alleanze militari aggressive e oppressive come la NATO, che non hanno alcuna motivazione legittima di esistere, e sono un fattore di divisione e aggressione ai popoli e stati indipendenti e sovrani, e sono contro gli interessi dei lavoratori e della gente onesta. Tutto questo deve essere un compito e un impegno etico, sociale e politico.
Come ci hanno scritto i Veterani antifascisti: “NON PASSERANNO!”.
Enrico Vigna SOS Donbass/CIVG Italia – 19 febbraio 2022
di Marco Consolo
Schiacciante vittoria del candidato delle sinistre, Gabriel Boric, nel ballottaggio delle elezioni presidenziali cilene, con quasi 12 punti di differenza da Josè Antonio Kast, nostalgico della dittatura di Pinochet. Domenica scorsa, hanno votato 8.270.318 persone, una cifra che nessuno si aspettava e che rompe la soglia degli 8 milioni di voti, considerata il “Santo Gral” della politica cilena.
Boric è il Presidente più giovane del Cile (36 anni quando assumerà il prossimo 11 marzo) e quello che ha ricevuto più voti in assoluto (4.619.222) nella storia del Paese, con una spettacolare rimonta dal primo turno (dal 26% al 56%). Dapprima dirigente del movimento degli studenti, poi deputato per due legislature del Frente Amplio, ecologista, il giovane Boric viene dal sud del Paese, rompendo anche simbolicamente il centralismo della politica cilena. Viene eletto, con la promessa di costruire un Cile pluri-nazionale nel rispetto delle popolazioni originarie, più giusto ed uguale, con un sistema sanitario e pensionistico pubblico, che decentralizzi lo Stato, devolvendo potere alle regioni e alle comunità locali, senza più impunità per le violazioni dei diritti umani.
Da parte sua, il pinochetista Josè Antonio Kast, ultra-liberista, misogino e xenofobo, ha ricevuto 3.648.987 voti (44,13%), trasformandosi nel perdente con la più alta votazione della storia cilena, a soli 150.000 suffragi da quelli ricevuti da Piñera per la sua vittoria del 2017. Al primo turno Kast era arrivato primo, con il 28% dei voti, e per il ballottaggio era riuscito ad ottenere l’appoggio di tutta la destra (compresa una parte della DC). Il pedigree di Kast è di tutto rispetto. Suo padre, scappato dalla Germania in Cile alla fine della guerra, nel 1942 si iscrisse al partito nazista, mentre combatteva con le forze occupanti naziste anche in Italia. Suo fratello, Miguel Kast è stato più volte Ministro della dittatura civico-militare di Pinochet, nonché presidente della Banca centrale. E si parla diffusamente dell’appoggio della famiglia Kast alla repressione pinochetista nella zona in cui viveva.
Nel Cile di oggi Kast incarna il bisogno di “legge e ordine”, gode di una base elettorale importante e dell’appoggio della maggioranza della “famiglia militare”, di cui il governo dovrà tenere conto.
Nel ballottaggio, Boric ha saputo motivare la partecipazione elettorale, aumentata significativamente tra primo e secondo turno (l’8% in più, con 1.200.000 di persone). Lo ha fatto grazie a una campagna porta a porta, che ha mobilitato tutti i settori sociali e culturali, in tutto il territorio nazionale, ed in cui le donne ed i giovani hanno avuto un ruolo preponderante. Parallelamente, è stato capace di mobilitare i settori moderati del centrosinistra che, dopo la sconfitta al primo turno, provano a scommettere sulla pace sociale e si sono smarcati dal pericolo fascista.
Decisivo il voto nelle province più popolate (Santiago e Valparaiso) con un distacco di quasi 20 punti. Ma anche il recupero nelle regioni del nord minerario, dove al primo turno, una gran parte dei voti era andato a un candidato di centro destra, Franco Parisi, che aveva fatto campagna elettorale dagli Stati Uniti e dichiarato l’appoggio a Kast nel ballottaggio.
Non sono servite le manovre del governo di Piñera e delle destre per boicottare il voto popolare e favorire il candidato pinochetista Kast. Non è servita la martellante campagna di odio anticomunista, di estrema polarizzazione, di “fake news”, di uso a profusione delle reti sociali e degli algoritmi dei “Big data”. Non è servito l’appoggio della destra mondiale, compresi Salvini e l’opposizione anti-chavista venezuelana tanto cara a Renzi ed a settori del PD. Non è servita neanche la serrata parziale dei padroni dei trasporti privati nel giorno del ballottaggio, per non fare andare a votare la gente dei quartieri popolari, sulla falsa riga del 1973, quando i camionisti furono determinanti per il golpe di Pinochet contro Salvador Allende.
E a proposito di simboli, solo tre giorni fa c’era stato un fatto di enorme valenza simbolica nel Paese. Era morta Lucia Hiriart, oscuro e tetro personaggio, moglie di Pinochet e sua ispiratrice nelle trame golpiste, nella sanguinosa repressione della dittatura e nei magheggi finanziari che hanno garantito numerosi conti clandestini all’estero. Come suo marito, anche lei è rimasta impune, riuscendo ad evitare la giustizia senza scontare il carcere.
Con la vittoria di Boric, si chiude la “transizione” post dittatura, durata oltre 30 anni, con un’alternanza al governo di centrosinistra e destra. Non c’è dubbio che la sua vittoria rappresenta anche la sconfitta del centro-sinistra della “Concertaciòn” (Democrazia Cristiana, Partito socialista e Partito por la Democrazia-PPD), che non ha mai messo in discussione il modello sociale ed economico uscito dalla dittatura e da questa applicato sotto dettatura dei “Chicago boys” di Milton Friedman. E’ quindi la sconfitta di un consociativismo di potere che ha accettato, interiorizzato e praticato uno dei sistemi neoliberisti più feroci e diseguali del continente. Un laboratorio mondiale sin dal golpe del 1973, dove tutto è stato privatizzato (scuola, sanità, pensioni, trasporti, acqua…), dove poche famiglie controllano le leve economiche del Paese e dove il ruolo dello Stato è sussidiario rispetto al mercato.
Il Cile parla a noi
Le elezioni non le ha vinte il centrosinistra, alternatosi al governo con la destra nei tre decenni post-dittatura. Le ha vinte un candidato che viene dalla sinistra e dalle lotte studentesche, con l’ appoggio dei movimenti e del Partito Comunista che ha avuto un ruolo decisivo. I candidati (e i partiti) del centro-sinistra hanno perso al primo turno ed al ballottaggio obtorto collo hanno dovuto appoggiare il candidato Boric per allontanare il pericolo fascista.
Come è stato possibile questo ribaltamento dei rapporti di forza?
Il neoliberista Piñera aveva vinto nel 2017, grazie alla delusione ed al disincanto popolare nei confronti del governo di centrosinistra, che non ha mai messo in discussione il modello neoliberista ereditato da Pinochet, ma che al contrario lo ha perfezionato in molti aspetti.
È stata la rivolta sociale del 2019 contro il governo Piñera, sorprendente e di massa, a cambiare i rapporti di forza. Il Cile si è svegliato. I movimenti sociali, pagando un alto prezzo di sangue con decine di morti e migliaia di feriti tra i manifestanti, sono riusciti a imporre il referendum sulla Costituzione per cancellare quella pinochetista. Questa spinta dal basso ha permesso l’istallazione dell’Assemblea Costituente (che avanza nella definizione della nuova Carta Magna), con una presidente, Elisa Loncón, rappresentante del popolo mapuche, un fatto di enorme valenza simbolica. La mobilitazione ha permesso inoltre la stessa vittoria elettorale alle amministrative.
Quella rivolta ha costruito nel conflitto una coalizione politico-sociale, tra il variegato mondo dei movimenti sociali ed i partiti della sinistra coerenti che, nonostante i rapporti non certo idilliaci, ha cercato di lavorare insieme e costruire un’alternativa che si è riflessa anche sul piano elettorale.
Dopo mesi di rivolta sociale e mobilitazione spesso unitaria, al primo turno delle elezioni presidenziali, la coalizione tra Frente Amplio, Partito Comunista ed altre forze minori ha superato il centrosinistra con un candidato espressione dei movimenti, che domenica scorsa ha sbaragliato le destre.
Dal prossimo 11 marzo si apre un nuovo scenario, i cui sviluppi sono ancora imprevedibili. Sebbene quello cileno sia un regime presidenzialista, in Parlamento la coalizione che ha sostenuto Boric al primo turno ha solo un quarto dei seggi, mentre Kast conta con quasi un terzo dei voti. L’appello al dialogo, più volte ripetuto da Boric, tiene conto anche di questa realtà dei rapporti di forza parlamentari. Il nuovo governo dovrà affrontare una situazione sociale ed economica non certo rosea, dopo i mesi della rivolta sociale e soprattutto dopo quasi 2 anni di pandemia (lungi dal terminare).
Anche il quadro internazionale, in particolare quello di un continente il cui ciclo politico sta cambiando profondamente, nel bene o nel male peserà sul futuro del nuovo Cile. Non c’è dubbio che questa vittoria progressista rafforza le speranze di cambiamento anche in Colombia ed in Brasile che andranno a elezioni nel 2022.
Anche in Cile si riaprono “las grandes alamedas” della speranza di cui parlava il Presidente martire, Salvador Allende.
di Marinella Correggia
Prima, storica vittoria di un grande movimento, quello degli agricoltori indiani, che andrà studiato per le sue modalità (pacifiche), le sue dimensioni (oceaniche), la sua costanza (quotidiana), e un contesto interamente sfavorevole (la crisi sanitaria).
Una svolta epocale in India. Forse.
Il Samyukt Kisan Morcha (Skm, Fronte unitario contadino), coordinamento di quaranta organizzazioni contadine, ha potuto annunciare che il 19 novembre 2021, «nel 358esimo giorno di una lotta che ha visto gli agricoltori uniti, perseveranti e pacifici per il ripristino della democrazia nel paese», si è verificata una «storica prima vittoria» per l’abrogazione di tre leggi – approvate in fretta nel 2020 –, che liberalizzavano il mercato agricolo a favore delle grandi imprese e a tutto scapito del mondo rurale. Infatti, a sorpresa, il primo ministro ha annunciato che le leggi in questione saranno cancellate.
All’annuncio ha fatto seguito l’esultanza composta dei contadini mobilitati da novembre 2020alle porte di New Delhi (Singhu border). Una presenza di piazza oceanica e andata avanti senza sosta, con decine di migliaia di persone. In allegato alcune foto, ma è utile seguire su Twitter e YouTube il costante lavoro di documentazione svolto da Kisan Ekta Morcha, il gruppo comunicazione del movimento.
Nel silenzio del resto del mondo – in altre faccende affaccendato -, i contadini attivisti hanno sopportato il freddo, poi il caldo, gli assalti della polizia, in modo pacifico e organizzato, con le loro tende, le cucine da campo solidali, il presidio medico. Nel mese di gennaio 2021, decine di milioni di contadini sono scesi nelle strade indiane per lo sciopero nazionale di protesta (Bharat Bandh), riconvocato a settembre. Movimenti di donne, tribali, lavoratori e partiti di opposizione hanno offerto il loro appoggio. Centinaia di contadini hanno perso la vita in quest’anno, chi stremato dagli sforzi, chi ucciso. Ma nessuno è riuscito a fermare il movimento; nemmeno il tentativo da parte del governo di criminalizzare i partecipanti. Non sono riusciti nemmeno ad accusarli di diffondere
Giorni fa, il movimento agricolo internazionale La Via Campesina presente in oltre 80 paesi, aveva lanciato l’idea di celebrare l’anno di lotta, il 26 novembre, con eventi e prese di posizione: «E’ una mobilitazione storica, la più grande dei tempi recenti». «La lotta paga», sintetizza l’Associazione rurale italiana (Ari), che di Via Campesina è membro: «Dopo un anno di mobilitazione ininterrotta, il governo nazionalista e neoliberista ha ritirato le tre controverse leggi che colpivano il mondo contadino. Complimenti ai contadini e alle contadine indiani».
Ma che questo movimento «storico e nonviolento» (così l’ha definito Ashish Mittal, uno dei principali promotori del gruppo All India Kisan Mazdoor Sabha), pacifico e di massa non possa ancora interrompersi appare chiaro nel comunicato del coordinamento Samuykt Kisan Morcha: «Aspettiamo che l’annuncio del primo ministro abbia seguito in Parlamento. Ricordiamo che l’agitazione degli agricoltori non riguarda solo l’abrogazione delle tre leggi, ma anche per una garanzia legale di prezzi remunerativi per tutti i prodotti agricoli e per tutti gli agricoltori. Questa importante richiesta degli agricoltori è ancora in sospeso». Skm «valuterà tutti gli sviluppi, e nella sua prossima riunione prenderà le ulteriori decisioni necessarie. Skm rende il suo umile omaggio a circa 675 agricoltori che hanno perso la vita in questa agitazione finora, e afferma che il loro sacrificio non sarà vano. Il governo del Punjab ha annunciato che dedicherà loro un memoriale. La vittoria è dedicata anche ai lavoratori, alle donne e ai tribali diventati parte del movimento». Gli agricoltori chiedono anche che vadano avanti celermente i procedimenti giudiziari contro i colpevoli di omicidio contro diversi agricoltori e anche azioni contro un leader del partito al governo (Bjp) che aveva insultato pesantemente i membri del movimento.
E Rakesh Tikait, leader del sindacato Bhartiya Kisan Union (Bku) ha avvertito che l’annuncio di Modi potrebbe essere una manovra elettorale, visti i timori del suo partito per le prossime elezioni in vari Stati.
La situazione del mondo rurale nel subcontinente indiano, peggiorata negli ultimi tempi a causa di misure scriteriate come un lockdown totale imposto nel marzo 2020 (con il risultato dell’espulsione dalle città di milioni di lavoratori informali inurbati), risulta chiara dai dati sui suicidi. Perfin quelli ufficiali, sottostimati. Il National Crime Records Bureau (Ncrb) on Accidental Deaths and Suicides in India ha registrato per il solo anno 2019 ben 10281 suicidi fra agricoltori (proprietari della terra che coltivano) e 32559 fra i braccianti agricoli…
di Sergio Bellucci (Relazione introduttiva al seminario di Frattocchie dell’Associazione Transizione)
Ci sono momenti della Storia che sembrano squassare i tempi.
Se agli accadimenti umani, pensiamo alle decisioni e agli scontri su come affrontare la prima Pandemia dell’era globale o le vicende geopolitiche e umane legate al dramma odierno dell’Afghanistan, delle sue bombe e dei suoi morti o a quello della Palestina, della Siria, della Libia, delle decine di teatri di guerra in Africa e nel resto del mondo, di cui poco si sa e meno si vuole sapere; oppure se pensiamo alla fine di un modello economico, troppo forte per collassare in un sol colpo e troppo debole per continuare ad illudere l’umanità che sia capace di regalare l’autorealizzazione umana; oppure agli impatti della tecnoscienza sulle società in termini di stravolgimento della produzione, delle forme del lavoro, di quelle delle relazioni individuali e sociali fina alla possibilità di intervento sulla stessa forma di vita e la modifica del DNA umano.
Se a questi accadimenti umani sommiamo le notizie del superamento della soglia di non ritorno del disastro climatico e ambientale, il senso di impotenza e di collasso può prendere corpo e, nel nostro Occidente benestante, svilupparsi una richiesta di massa del “ripristino” di ciò che c’era e che non ci sarà più.
L’impressione che si ricava da questo intreccio è quella di una crisi concentrica in cui i problemi “gestionali” dei singoli paesi (quelli della cosiddetta “politica” che, in realtà, è la mera gestione amministrativistica del presente e dello status quo) si sommano a quelli della crisi della vecchia forma e logica economica e l’esplosione di quella geopolitica.
Le eventuali soluzioni a questi fronti, inoltre, sono ormai vincolate al limite di questo modello di sviluppo, delle sue forme di produzione, delle sue merci, sia sotto i meccanismi distributivi e ridistributivi ma soprattutto dell’impatto che essi hanno sul pianeta, sulle sue risorse, sui cicli vitali e su quelli ambientali.
Questi fenomeni, ormai, sono intrecciati e formano una struttura “complessa” e piena di collegamenti connessi e interagenti. La politica di questo secolo, la politica di nuova generazione in grado di indirizzare l’umanità verso un nuovo approdo, non può più non tenere conto di questo quadro complesso.
Non c’è più un prima e un dopo, non solo sul piano sociale – come abbiamo sostenuto per anni – e non solo sul piano quantitativo e redistributivo. Abbiamo bisogno di una bussola che ci accompagni in ogni tipo di scelta e di comprendere, al meglio, non solo le sue implicazioni quantitative (sul piano della produttività e del livello occupazionale) ma il suo impatto “complesso” sulla realtà.
Ed è di questa bussola che dobbiamo parlare.
Non possiamo dividerci tra chi ipotizza un ripristino di una fase “industriale” classica (con la redistribuzione salariata della ricchezza prodotta) e chi, prendendo atto delle trasformazioni profonde e irreversibili del quadro, si rintana nella mera ricerca della “sopravvivenza”, rivendicando un reddito checchessia.
Ad una “crisi sistemica” e che noi definiamo come una Transizione, infatti, si risponde con una politica sistemica di qualità “altra” e con logiche di intervento di nuova generazione che, viste dalla tradizione, possono sembrare “aliene”. Una politica che deve riscoprire la radice del suo fare “di parte” ricercando le forme per il superamento della suddivisione del lavoro e quella tra i generi e, con essa, il costituirsi di una “comunità reale” – volontaria e consapevolmente umana – capace di superare i limiti delle attuali forme di comunità, più apparenti e illusorie che materialmente tali, una società di individui “veramente umani” in quanto “onnilaterali” e, quindi, di individui la cui libertà personale è reale, se libertà è sinonimo di razionalità, universalità, condivisione, cooperazione, equità. Una comunità dell’umano che sappia ri-costruire il rapporto con la sfera della vita sul pianeta e con gli equilibri ambientali, diventando conscio del proprio fare.
A questa rottura “sistemica”, inoltre, si sommano accadimenti individuali che ci fanno sentire più soli, più incapaci, più muti.
Penso alla morte di Gino Strada.
Al dolore della perdita di una persona che era diventato un simbolo proprio perché “alieno” per il suo fare concreto, per l’aiuto umano profuso e anche per la sua intransigenza morale e politica. La sua vita è stata la concreta e materiale conferma che la guerra è non solo una scelta sbagliata e inutile – una scelta eredità di quella preistoria umana da cui abbiamo ancora difficoltà ad affrancarci – ma che dimostra sempre più la sua incapacità a produrre gli esiti che a parole vorrebbe generare. Una guerra ancor più disumana con i suoi nuovi terreni di battaglia digitale che impongono nuove forme di conflitto e nuove armi. Penso alla potenza dei cyberattacchi come alla robotizzazione delle armi che divengono sempre più autonome e indipendenti e affidate all’Intelligenza artificiale.
Oggi l’Occidente deve chiedersi: è ancora possibile imporre con le armi forme di governi e regimi al solo scopo di produrre una concentrazione di ricchezza che non si era mai prodotta nella Storia umana che, solo come sottoprodotto, ha la possibilità di garantire ai propri cittadini un livello di consumi che divide l’umanità verticalmente in due parti e non è sostenibile ambientalmente?
Abbiamo bisogno di molto coraggio per affrontare alla radice vecchie questioni in un quadro quasi del tutto nuovo e in veloce trasformazione.
Ognuno di noi viene da percorsi di vita, politici e culturali, diversi e, talvolta, anche contrastanti. Spesso abbiamo pensato che le posizioni altrui erano errate, controproducenti, dannose, portatrici di idee di mondo e di speranze “non condivisibili”. Ci siamo scontrati politicamente e ci siamo anche combattuti.
Perché allora oggi siamo qui?
Non certo per misurarci a vicenda una “purezza” ideologica o, molto più semplicemente, una coerenza soggettiva o collettiva dei nostri percorsi. Credo che noi siamo qui perché percepiamo due cose: l’incapacità delle vecchie strade di farci avanzare verso un orizzonte di liberazione e l’urgenza dei tempi.
Per questo, in questo incontro, abbiamo bisogno di mettere un avverbio al centro delle nostre riflessioni: Oltre.
Ne abbiamo bisogno per molte ragioni.
Sul piano politico, infatti, una Transizione pone sempre questioni che hanno lo spessore della Storia.
Per la lettura che abbiamo portato avanti in questi anni dentro Net Left, il momento che viviamo va oltre la categoria della “crisi” ma è quello del passaggio da una formazione economica ad un’altra.
La Storia ha già vissuto epoche analoghe e sono le fasi che riempiono i libri di avvenimenti e fatti che, visti con il senno del poi, assumono una certa “linearità”. Così non è per chi li vive.
Gli anni delle transizioni sono anni aperti a molti esiti contrastanti, pieni di slanci di liberazione e di restaurazioni tremende di ordini sociali ed economici non disposti a lasciare il posto al nuovo che avanzava. E il nuovo che avanza non contiene solo nuovi e diversi “gradi di libertà” – incarnate dalle nuove classi che rivendicano il loro potere – ma anche nuove e, spesso, più efficaci forme di sfruttamento, di asservimento.
Gli anni di Transizione sono anni di interrogativi, di orizzonti che si dischiudono e di strade che si interrompono. Sono gli anni in cui i processi economici divengono “ibridi”. Le nuove forme di produzione del valore, dei beni – materiali o immateriali che siano -, si stratificano su quelle consolidate, quelle che la vecchia società percepiva come “eterne” e, a poco a poco, divengono egemoni sulle vecchie forme.
Spesso, sono processi quasi intellegibili per chi li vive. Il Marx della prefazione del ’59, ammoniva: “Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa”.
Collettivamente, oggi, dobbiamo essere all’altezza di questa consapevolezza.
Le culture entrano nel frullatore. Le connessioni tra gli umani si moltiplicano, gli scambi e le relazioni divengono di un ordine di grandezza più alto. Nuove consapevolezze, sociali e individuali, si affacciano. Emergono percezioni del se e immagini della forma sociale completamente nuove, inaspettate. I linguaggi si contaminano e le parole cambiano il loro senso; le tecnologie per la loro produzione e il loro scambio si moltiplicano e si trasformano, inondando i corpi sociali di nuove forme di relazione e di conoscenza del mondo.
Abbiamo bisogno, oggi, di quell’avverbio, Oltre, per discutere tra noi, per parlare con quelli che ci stanno ascoltando e per quelli con cui parleremo d’ora in avanti.
È quasi un problema di ecologia della mente e dei pensieri e, quindi, della relazione tra noi.
Ogni persona viene da un percorso individuale, da una esperienza con la quale ha attraversato, conosciuto e indagato il mondo. Molti di noi lo hanno fatto a partire dal punto più alto della storia umana della fase storica precedente. Sono stati anni meravigliosi di conquiste e possibilità. Anni di lotte e di vittorie, di aspirazioni di un mondo nuovo che, in realtà, ognuno di noi pensava, in cuor suo, in un modo ma sentiva di condividere quella esperienza con vere e proprie “moltitudini” di donne e uomini che erano in marcia per la loro emancipazione. In quel percorso abbiamo condiviso linguaggi e parole, ci siamo dati priorità ed obiettivi. Era, o sembrava, facile “parlarsi”.
Avevamo un linguaggio condiviso e partivamo da una condivisione, almeno teorica, dell’orizzonte verso cui muoverci.
Tutto questo è finito e non basta rievocarlo per renderlo nuovamente concreto.
È finito anche per errori e nostre incapacità (teoriche, politiche, sociali, comunicative, relazionali). Abbiamo disperso il senso di una comunità in marcia. Ma non è tutta colpa nostra e non è solo un tema legato al “revanscismo” soggettivo delle classi dominanti per le nostre conquiste degli anni ’60 (qui in Occidente e, in particolare, nel nostro paese).
Ne parleremo oggi e in futuro e, credo, troveremo molte “lontananze” nelle nostre letture. Ma, per noi, non è questo il punto.
Vorrei chiedere di andare “oltre” nella nostra capacità di dialogo, di comprensione delle nostre parole (sempre meno condivise nei significati che ognuno gli attribuisce). Di andare “oltre” le nostre “Storie” personali e collettive senza dover recidere le radici ma chiedendo a noi stessi e a tutti noi collettivamente, lo sforzo di comprensione delle ragioni che spesso sono “velate” dalle nostre parole.
Andare “Oltre” in termini di lettura della fase, con curiosità e la capacità di comprendere il nuovo e non per rinfilarlo a fatica nelle vecchie scaffalature delle nostre case ormai diroccate ma mettendo le nostre radici e tutta la nostra intelligenza per comprendere come il nuovo, che è in divenire, possa e debba diventare una opportunità per dare un senso nuovo alle nostre stesse radici.
Se siamo qui è perché ci stiamo interrogando, alcuni collettivamente altri individualmente, su ciò che sta investendo la storia umana. Una Transizione che arriva nelle profondità estreme del fare che solo pochi decenni or sono neanche immaginavamo. Una Transizione che richiede grandi capacità di comprensione per l’agire politico, che ci consegna un territorio complesso su cui va dispiegata una strategia politica complessa.
Per questo chiedo a me stesso, chiedo a tutti voi, a tutti noi, di “ascoltarci”, di domandarci il senso profondo delle parole che ascolteremo e ci diremo, di fare uno sforzo “oltre” le etichette e “oltre” le vecchie appartenenze. “Oltre” le nostre personali storie. Credo che sia possibile farlo mantenendo solo una motivazione politica originaria, quella che ha generato le radici di noi tutti: non solo difendere gli interessi “immediati” del “campo sociale dei subalterni” ma aprire il campo di lotta per candidarli alla costruzione di un modello sociale, economico e politico che sia la loro diretta espressione.
Non c’è momento migliore che una Transizione per mettere in campo tale forza, tale intelligenza politica.
Credo che siano queste le motivazioni di fondo per le quali ci ritroviamo in una unica sala. Veniamo da letture e pratiche diverse ma oggi sentiamo che l’urgenza della fase non può farci rintanare nelle vecchie stanze ove abbiamo attraversato questi decenni.
Molti di noi hanno dato per scontato che la parola Transizione avrebbe indicato il passaggio dalla società capitalistica alla società socialista. La storia, in realtà, si sta prendendo la briga di mostrarci la possibilità di una Transizione che produca una società oltre-capitalistica basata su processi di controllo e assoggettamento individuale e collettivo ancora più profondi della precedente.
La Transizione, però, apre uno spazio per la rivendicazione del punto più alto del confronto politico: quello del potere.
Ed è questo lo spazio di nuova teoria politica e di nuova prassi che dobbiamo poter osare.
Come in ogni fase di Transizione esistono fattori di crisi e fattori di sviluppo.
Da un lato, infatti, le vecchie forme di produzione (e le loro istituzioni) arrancano di fronte ai loro limiti e al nuovo che avanza. Le nuove forze produttive, invece, sono sempre più strette all’interno dei vecchi limiti imposti dal modo di produzione precedente. La rivoluzione delle tecnologie digitali, la loro ubiquità, la loro qualità, non solo pervasiva ma nuova nella sua essenza tecnica, ha ormai superato la fase adolescenziale e sta entrando nella sua fase adulta. Per decenni non abbiamo voluto affrontare il punto di rottura che rappresentava una tecnologia che non si limitava – come fecero quelle meccaniche – a moltiplicare il poter fare della mano umana ma si applicava direttamente alla possibilità di amplificare il saper fare del cervello, delle attività legate alla gestione delle informazioni.
Paul Romer, premio Nobel del 2018, indicò già sul finire degli anni ’80 ciò che si stava determinando nei processi produttivi. La gestione delle informazioni come “il miglioramento delle istruzioni per mescolare le materie prime “, ammoniva Romer, non può più essere ignorato nelle equazioni economiche. Romer affermò per primo che “le istruzioni per lavorare con le materie prime sono intrinsecamente diverse dagli altri beni economici”.
L’informazione, infatti, è un bene diverso da qualunque altro bene economico. Sulla sua natura, però, la ricerca economica e politica segnano il passo. La sua gestione digitale, il suo accumulo, la sua ibridazione e distribuzione, fino alla esplosione dei Big Data, dell’industria 4.0, – con i suoi “gemelli digitali” che vanno dalla singola macchina produttiva all’intera fabbrica, dai singoli prodotti ai modelli di vendita e di acquisto, dal consumo allo scarto del prodotto – ne hanno esponenzialmente rafforzato la potenza.
Oggi, la gestione dei comportamenti individuali nella vita e nel consumo, la risposta sociale alle singole scelte individuali fino alla sfera della politica, per arrivare ad ambiti impensabili fino a ieri come la riproduzione di un singolo organo umano prima di un intervento chirurgico in sala operatoria o alla riproduzione digitale del funzionamento di un DNA o all’interazione di una proteina con il suo ambiente, si sommano alla potenza dell’Intelligenza Artificiale distribuita a sciami che incrementa parallelamente le proprie acquisizioni, alla Robotica militare o a quella di compagnia, comporta una modifica “strutturale” del processi produttivi, non solo in termini di modifica dei profili professionali e degli aspetti “quantitativi” sull’occupazione. Parliamo, infatti, della rottura del sistema con conseguenze dirette non solo sul lavoro e la produzione ma direttamente sulla struttura delle forme del welfare.
Il cambiamento comporta una progressiva messa in crisi dell’aspetto centrale del capitalismo industriale e della sua forma manifatturiera. Le tecnologie digitali, infatti, basano il loro sviluppo e la loro produzione sulla logica del copia-incolla. Queste apparentemente frivole procedure rappresentano l’essenza di una forma in divenire che dispiega la sua capacità egemonica in grado di mettere in discussione assiomi millenari come il concetto di proprietà la cui difesa avviene sempre più in termini di definizione legale e sempre meno in termini di uso sociale.
Nel suo libro Post-capitalismo Paul Mason scrive: <<se puoi copia-incollare un blocco di testo, puoi farlo con una traccia musicale, un film, il progetto di un motore a reazione e il modellino digitale della fabbrica che lo costruirà. Quando puoi copia-incollare qualcosa puoi riprodurlo gratis. In gergo economico ha un costo marginale zero”. Il risvolto è che se la produzione ha un costo marginale vicino allo zero, anche il valore del lavoro sarà marginalmente zero. E l’intero meccanismo della definizione dei prezzi sta subendo contraccolpi giganteschi>>.
In termini sintetici potremmo dire che l’avvento delle tecnologie digitali ha aperto ad una stagione completamente nuova del processo di produzione del valore che sta imponendo la propria centralità, facendo declinare le vecchie forme. Ai classici schemi di produzione, quelli legati alla produzione di denaro per mezzo di merci (D-M-D) sostenuta in maniera fortissima dallo schema finanziario del denaro che produce denaro per mezzo di denaro (D-D-D), si è affacciata sulla scena della Storia la produzione di denaro per mezzo dell’informazione (D-I-D) alludendo anche a nuove forme che, implicitamente, vengono abilitate da questa novità. L’accumulo di informazione, infatti, non gioca il ruolo sul solo piano economico e, in seconda battuta, sul piano del potere (politico e sociale) ma interviene direttamente sulla sfera del controllo e sulla conoscenza dei singoli e della società che apre a forme di gestione non solo commerciale delle informazioni. È un ibrido che estende la sua capacità egemonica direttamente ai meccanismi di scambio che, fino ad oggi, erano regolamentati dalle monete emesse da un potere centrale.
Ci sono diverse faglie che stanno aprendo squarci sul Titanic delle società capitalistiche (sia quelle di “mercato” sia quelle “di stato”).
Proviamo ad elencarne solo alcune per sommi capi.
A livello economico potremmo elencarne molte. Il superamento di una soglia critica di sostenibilità finanziaria del sistema esplicita, ormai, dalla crisi del 2008. L’avvento dei cicli immateriali che vedono al centro le varie forme della merce informazione e la produzione di nuova merce nel momento del suo consumo. Quello che nei cicli immateriali prendeva la forma del rifiuto, qui, diviene nuova materia prima. L’aumento esponenziale, quindi, della merce informazione. In pochi giorni, oggi, si produce l’intera somma delle informazioni prodotte dall’inizio della Storia ad oggi. L’avvento del taylorismo digitale per i nuovi processi di produttivi, la nascita del lavoro implicito , quello svolto in maniera obbligata da tutte le persone che ormai vivono nei paesi raggiunti dalle strutture digitali (cellulari, pc, telecamere di sicurezza, ecc..) e l’emersione delle prime forme di lavoro operoso. L’impatto della robotica autonoma (di derivazione militare ma prestissimo nelle nostre città) e l’ubiquità dell’Intelligenza Artificiale negli apparati e presto negli oggetti e in grado di modificare la geografia delle professioni e il numero dei salariati in maniera determinante e in un tempo storicamente nullo. Il salto verso le tecnologie quantistiche (calcolo e trasmissione) che rappresentano un salto di diversi ordini di grandezza nella capacità di simulazione dei sistemi complessi. L’ormai consolidata estrazione di valore dalle forme relazionali delle principali aziende capitalizzate nel mondo e che estraggono valore dal lavoro implicito. Consideriamo che il PIL italiano vale il 23% di quello di Facebook, Alphabet e Amazon messi insieme. L’avvento della produzione di denaro per mezzo dell’informazione (D-I-D) e la sua smaterializzazione del processo tramite la Blockchain che abilitano, al limite, processi di “baratto digitale”. Lo sviluppo social della vecchia forma dell’“Industria di Senso”, l’industria che lavora (e fa profitti) nella costruzione del senso della vita quotidiana che costruisce il consenso politico come substrato del suo sviluppo sistemico. Un’industria che compete direttamente con religioni e ideologie generandone una di fondo sul quale vive il nostro sistema. La forma stessa della democrazia si infrange sulla potenza della creazione di consenso di questa industria del consumo e mette in crisi i suoi stessi principi e presupposti. La stessa forma settecentesca della democrazia liberale, basata su una divisione e una autonomia, mai completamente realizzata in nessuna parte, di tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) mostra la corda sotto le dinamiche delle nuove forze produttive, delle loro esigenze di modelli e schemi decisionali e dei loro interessi. D’altronde, la crisi della democrazia liberale poggia su un vulnus centrale: la rinuncia della costituzionalizzazione del vero potere economico del capitalismo: la generazione della moneta. Inoltre, la trasformazione della percezione del se e delle forme relazionali abilitate dalla rivoluzione digitale spingono alla realizzazione concreta di nuove forme di partecipazione e di decisione collettiva. Forme che fanno emergere, insieme alle necessità giuridiche istituzionali delle nuove forze produttive del digitale, i limiti delle strutture istituzionali nazionali figlie della rivoluzione borghese ottocentesca. La stessa forma del politico è investita da questa potenza ristrutturatrice. Stiamo sperimentando il fatto che gli eventi e flusso comunicativo marciano in sincrono. “Quando la velocità degli eventi raggiunge quella del flusso comunicativo, le forme della politica tendono a coincidere con quella della struttura di comunicazione”. Le assemblee elettive si svuotano di capacità decisionale verso l’alto e strutture a-democratiche e i leader a cortocircuitare le forme organizzate delle loro strutture e gli elettori a chiedere al leader la soluzione al loro problema di diritto al consumo. E tutto questo, in un ambiente sempre più affidato alla potenza dell’Intelligenza Artificiale, e Big Data, come da Cambridge Analytica abbiamo scoperto. In quei giorni, inoltre, avemmo conferma che lo stesso impianto della scienza galileiana era passato, da qualche decennio, alla forma della tecnoscienza basata sulla simulazione e, oggi, ai nuovi paradigmi conoscitivi basati sui Big Data. Una potenza del conoscere e fare legato, che ci ha portato all’intervento sui codici della vita e a intervenire sulle linee di sviluppo dell’evoluzione che non ha precedenti per quantità e qualità.
Questi cambiamenti rafforzano le conseguenze del passaggio, in ambito comunicativo, dal testo all’ipertesto. Una rottura, questa, della consequenzialità su cui si basa lo scambio umano dai primordi e che apre all’avvento di struttura cognitiva umana di nuovo tipo. Stephen Hawking ci ammoniva che questo sarebbe stato il secolo in cui l’umano avrebbe determinato le condizioni del suo stesso superamento nella linea evolutiva.
A questo parziale e limitatissimo, soprattutto nelle spiegazioni e nelle conseguenze dobbiamo sommare la qualità nuova dei processi di innovazione che sono ibridi ed esponenziali. Le forme si contagiano e si moltiplicano aprendo ad accelerazioni inattese e, come dicono in America, “disruptive”.
Pensiamo che questo Titanic dell’umanità, inoltre, si sta indirizzando velocemente contro l’iceberg della sostenibilità del proprio fare su questo pianeta.
Pensiamo che la zattera della Rivoluzione Industriale poggiò le sue rotte e determinò quei cambiamenti che conosciamo, contando su poche copie dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, il Vapore e un mondo completamente analfabeta e contadino.
Questi sono i sommovimenti, tellurici che spingono alla crisi le forme delle istituzioni politiche, monetarie ed economiche che la storia ci aveva consegnato. Ignorarli o derubricarli sarebbe inutile e dannoso. Di fronte a questo quadro, le forme della vecchia rappresentanza politica e sociale si sgretolano e le nuove stentano ad affermarsi. L’inerzia di analisi e pratiche capaci di dare dimensione politica al tanto che si genera, autonomamente, nei corpi sociali impedisce la costruzione di rappresentanze nuove. Genetica, Robotica, Intelligenza Artificiale, Nanotecnologie, infatti, si offrono o come nuove forme del dominio totale o come modalità di riorganizzazione del fare umano e della sua sostenibilità. Dipende dalla qualità del nostro fare e questo dipende dalle nostre analisi che dipendono dal contributo di conoscenze che utilizziamo per fare politica.
Siamo in presenza di novità che necessitano, perciò, di forme istituzionali e politiche che devono andare necessariamente oltre i confini del dibattito e delle soluzioni settecentesche della divisione dei poteri così come le abbiamo conosciute e determinate tra l’Ottocento e il Novecento. Oltre le vecchie divisioni delle sinistre. Forse per generarne delle nuove, ma di altra qualità e complessità.
Diritti e gradi di libertà, nell’era digitale, vanno ridefiniti ma necessariamente in avanti. Le forme dei poteri ridefinite verso il basso, interrompendo i processi di concentrazione di ricchezza e di potere.
Le vecchie forme di libertà, tutelate con nuovi strumenti; i gradi di libertà, potenzialmente aperti dalla rivoluzione digitale, definiti con strumenti, logiche e confini all’altezza delle potenze in atto.
La Transizione, infatti, è un processo ambiguo, aperto a una molteplicità di esiti. Nessun percorso è scontato, anche se ne esistono di privilegiati. Un processo caotico nel quale emergono alcune regole e prassi, assetti e modelli di organizzazione, grumi di interessi e gruppi sociali che tendono a trasformarsi in nuove classi sociali, in nuove forme del politico.
Se non si comprende questo “senso” dei processi in atto, nessun intervento, anche quelli “difensivi” – in continuità con il nostro passato, in totale buonafede e con prassi routinarie – può essere considerato utile. Velocità, profondità e qualità dei cambiamenti stanno introducendo dinamiche (negative e positive) che aprono nuove faglie nelle strutture sociali, economiche, istituzionali e, al contempo, ri-descrivono forme e qualità di quelle vecchie.
Molti, non solo da noi ma nell’establishment mondiale, si illudono di poter “stabilizzare” questi movimenti tellurici che scuotono dalle fondamenta lo stesso pianeta, riproducendo “equilibri” (che equilibri poi non erano) e illudendosi di poter riportare la situazione al quadro ex-ante.
La scelta di usare (potenza del marketing) la parola “magica” resilienza la dice lunga sull’ideologia sottostante.
Molte delle proposte politiche che vanno in questo senso, inoltre, incontrano il largo consenso delle masse popolari sempre più disorientate, sradicate e impaurite da cambiamenti – che subiscono e la paura di quelli che potrebbero subire -. Pochi hanno il coraggio di raccontare il salto quantitativo e qualitativo delle trasformazioni in atto. Spesso per vera e propria non conoscenza di un quadro dei cambiamenti in divenire velocissimo e profondissimo. Una divergenza crescente tra quello che la tecnologia e la scienza rendono possibile all’agire umano e praticano nel loro divenire, e quello che la mente umana e la società umana è in grado di immaginare, una divergenza che richiama la Filosofia della Discrepanza di Gunter Anders.
Dobbiamo saper dire la verità senza trasmettere la paura, perché portatori di un esito diverso da quello intravedibile dalla propria condizione.
È sulla “Paura del possibile”, infatti, che le vecchie classi dirigenti stanno indirizzando lo scontro nel grande agone della Transizione.
Ed è sulla scommessa di arginare e indirizzare il “Probabile” che dobbiamo agire noi.
Oggi le persone sono spaventate dal futuro e noi dobbiamo saper indicare un nuovo sentiero.
Come si configura, allora, Il compito della politica di sinistra nella Transizione?
Definisco politica di sinistra in termini chiari. Nella Storia la sinistra ha rappresentato lo schieramento che rivendicava il potere per le classi subalterne. La Destra difendeva o produceva il potere per le classi dominanti. Poi sono esistite vari sfumature (forse più delle famose 50…), ma tutte interne ai periodi di gestione di una formazione economico-sociale stabile. Nelle Transizioni la politica torna a declinarsi sul terreno della lotta per la forma del potere. Questo è il livello di oggi.
Non abbiamo bisogno di pure forme di ribellismo che lasciano intatto il territorio del conflitto per il potere. Dobbiamo passare dalla mera critica e rivendicazione di spazi e condizioni (sia nelle prassi sociali sia nella sfera politica istituzionali) alla capacità diretta di autorganizzazione di processi che contengano una “alterità di logica”.
In altre parole, traslare e portare alle estreme conseguenze – proprio perché la merce e la produzione di informazione divengono sempre più centrali e generativi di assetti di nuovo tipo – le intuizioni e le pratiche che portarono, alla fine dell’Ottocento, il movimento operaio a ipotizzare la produzione cooperativa.
La sinistra di questa fase, infatti, non può che essere sempre più direttamente “generativa”, costruendo la coscienza di se attraverso pratiche e forme di conflitto “ibride”, “complesse” e che superino la fase meramente “contrappositiva e rivendicativa”.
Dobbiamo e possiamo farci società oltre il modo di produzione del valore imperante. Le tecnologie aprono questa possibilità diretta.
Il passaggio attuale, quindi, è legato alla “crescita esponenziale” del “‘saper fare” inglobato nel sistema macchinico e noi dobbiamo portarlo sul terreno della potenza riorganizzatrice sociale orientando in maniera diversa produzione e consumi.
Il punto di rottura, infatti, non è rintracciabile all’interno dello schema redistributivo legato o alla salariabilità del lavoro vivo – in grado di sostenere la domanda necessaria al ciclo – né con politiche di redditualità sostitutive. Certo bisogna agire anche su questi punti nell’immediato, ma non è lì la soluzione strategica per questo secolo.
Questo collasso non è affrontabile con “immissioni di liquidità” sempre più gigantesche per agevolare talvolta la produttività, talvolta il reddito, talvolta gli interventi pubblici o del welfare.
Le nostre società sono diventate dei veri e propri “Sistema Ponzi” con il potere sempre più concentrato sulla a-democratica decisione di emissione di denaro.
I territori si trasformano, progressivamente e velocemente, in luoghi di estrazione di informazioni, di dati, da parte di grandi multinazionali che riorganizzano la vita delle città e delle relazioni senza alcuna volontà di “contrattazione” e senza la discussione democratica sul nuovo modello.
I processi aperti dalla pandemia, inoltre e forse non casualmente, stanno premendo sull’acceleratore dei cambiamenti delle forme di produzione industriali, sul lavoro per come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi, spingono verso la modifica della forma delle merci e accelerano verso la centralità di un nuovo schema di valorizzazione del capitale con il passaggio ad una nuova fase della storia della accumulazione e della forma del potere. Inoltre, le forme innovative nelle catene di comando delle decisioni sanitarie trovano non solo contrasti sociali ma, spesso, anche dubbi e limiti costituzionali, ponendo questioni relative alla stessa natura e legittimità delle forme sociali.
Certo, questo passaggio non sarà né istantaneo, né cancellerà totalmente le forme precedenti. La storia non funziona come gli interruttori della luce on/off. Ma quando è in campo un processo egemonico esso si rafforzano e si estende progressivamente e tutti gli elementi che ci fanno comprendere che una rottura si è generata sono sotto gli occhi di tutti.
Occorre aprire una nuova fase, a partire dalle possibilità aperte nelle strutture di democrazia locale per incidere sulle forme di estrazione digitale delle informazioni da parte delle multinazionali e per dotare i territori e i cittadini di strumentazioni, piattaforme pubbliche condivise che svolgano funzioni di servizio e di scambio del valore d’uso producibile sul territorio in forma autogestita. Che sappiano valorizzare le forme di economie capaci di convertire il vecchio modello produttivo, salvaguardare la bio-diversità e le risorse come un bene comune.
Per questo risulta allarmante la crisi delle forme tradizionali della politica in Occidente e, in particolare, nel nostro paese. I partiti rappresentano, ormai, delle strutture comunicative in “franchising del leader” di turno. Si parla solo per delega ricevuta.
Il dibattito interno si accende ed è caratterizzato, quasi esclusivamente, dalle lotte per la rappresentanza istituzionale e poco si comprende dalle finalità reali se non la capacità di cavalcare le pance dei rispettivi target sociali o, nel caso in particolare del PD, di offrire una immagine interclassista come se l’intero paese condividesse condizioni sociali, ambientali e culturali. Una eredità neo-democristiana a cui l’ex-gruppo dirigente di matrice comunista pare si sia rapidamente adeguato assorbendo la logica veltroniana del “ma anche”.
La crisi verticale di questi partiti e in particolare di quelli del centro orientato a sinistra, ricercano alterità, ormai, sempre più spesso solo sul terreno dei diritti civili, abbandonando quello dei diritti sociali se non attraverso rivendicazioni generiche e asfittiche.
Nulla, mai nulla, sui grandi processi di accumulazione e di cambiamento delle forme di produzione.
La perdita di contatto con il reale non solo non riesce a produrre forme di conflitto nei nuovi territori ma rende sterili e inconcludenti le forme di difesa delle vecchie forme di sfruttamento salariato.
Per questo, di fronte a questo quadro appena accennato, non serve e non basta una nuova etichetta fatta con la sommatoria di pezzetti e pezzettini di rappresentanza politica o sociale, utile per essere spesa nel grande calderone della politica politicante per coprire la rappresentanza di un dissenso e reinserirlo nel gioco delle alleanze istituzionali.
Per questo siamo qui a costruire un terreno di ricerca e pratica politica di nuova generazione.
Le tecnologie digitali, oggi, ci forniscono l’opportunità e la possibilità di realizzare forme di produzione, di consumo, di merci, servizi e relazioni, al di fuori degli schemi mercantili sperimentati fino ad ora. Tale prospettiva offre la possibilità di ridurre, progressivamente, la necessità di poter soddisfare e selezionare nuove qualità di bisogni, restando dentro lo schema di valorizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi secoli.
Si apre per l’umanità la chance di una nuova economia basata più sulle relazioni che sulla ‘fisicità e proprietà individuale’ di una merce.
Questo schema può basarsi su tre grandi gambe:
Soluzioni “aliene”? certo. Rispetto al fare consolidato, sì. Ma tutte concretamente già presenti nel corpo vivo della società.
Queste scelte, inoltre, non solo ridurrebbero progressivamente le risorse finanziarie necessarie per il sostegno del ciclo, ma diventeranno fondamentali nella riprogettazione sia degli apparati di produzione e del consumo, sia della stessa forma sociale della vita.
Questi interventi di natura ‘settoriale’ dovranno essere sorretti dall’applicazione di una griglia di ‘valori ispiratori’, basata sui principi di Consapevolezza, Condivisione e Equità, una sorta di ‘linee guida’ che dovranno aiutare a valutare e indirizzare le singole scelte, il giorno per giorno, in maniera trasparente e verificabile. La griglia che noi chiamiamo Welfare delle Relazioni.
Per far cambiare passo alla politica, serve avere il coraggio di proporre di passare dal ‘sapere come’ al ‘sapere perché’ si fa e si sostiene una scelta e indirizzare le risorse non solo nella semplice riduzione dell’impatto ambientale e sociale, ma nella riprogettazione delle relazioni sociali connesse.
Nel secondo ‘900 ci siamo concentrati sui meccanismi che consentivano di poter ‘far funzionare la macchina’ a prescindere da ciò che avrebbe prodotto e come lo avrebbe fatto.
Oggi, non è più compatibile pensare di ‘fare delle buche e poi riempirle’ in cambio di un salario utile più al ciclo economico che alla propria autorealizzazione.
La nuova economia relazionale deve marciare in sintonia con le esigenze di una nuova forma sociale e con le compatibilità dei cicli di vita della terra.
Se una attività non è in sintonia con un assetto sostenibile della vita va cancellata e sostituita. Abbiamo tanto bisogno di lavori di cura, di attenzione, di ‘produzione di senso’ che ci rimane solo l’imbarazzo della scelta.
La scelta dei criteri sui quali basare lo schema del Welfare delle Relazioni sarà la dimensione politica del nostro secolo.
Forse, all’inizio, ognuno di noi arriverà con diverse modalità di approccio e priorità, ma il passaggio al nuovo schema risulta obbligato.
Per questo serve uno scarto, serve andare “Oltre”. E Frattocchie vuole essere solo l’inizio di questa ricerca.
La “crisi” non è nel sistema ma è del sistema. Siamo in una Transizione.
Se questo assunto viene condiviso, la successiva affermazione coerente è che non esista una ‘soluzione interna’. Questo, a prescindere dalle volontà soggettive e dagli sforzi che vengono profusi. È il ‘motore’ interno che è rotto e il suo blocco rischia di portare con se tutto l’impianto delle società del welfare che, faticosamente, si erano conquistate nel ‘900. E la fase che stiamo vivendo rappresenta l’ultimo tentativo di costruire un passaggio, una Transizione governata, prima di una vera e propria implosione sistemica o, peggio ancora (se un peggio può esistere…), lo scoppio di una guerra guerreggiata.
Di fronte a tali scenari appare chiaro che la soluzione possibile non è ricercabile né in nuovi meccanismi di immissione di liquidità nel sistema a favore del “capitale”, né in una mera distribuzione “più equa” delle risorse in grado di “far aumentare i consumi per far riprendere il ciclo”.
Queste due opzioni possono essere utili se e solo se sono utilizzate per spingere verso una organizzazione diversa’ del fare umano, della sua produzione, della sua logica di funzionamento. Per questo la fase che stiamo vivendo è fondamentale: dobbiamo utilizzare questa immensa leva finanziaria, generata dalla rottura delle politiche monetariste fin qui seguite, per cambiare il motore, non per mettere inutile benzina a quello che si è inceppato.
Un esempio si è palesato, in maniera plastica durante i giorni dell’emergenza dei centri di rianimazione. La necessità di respiratori non avrebbe potuto essere soddisfatta dai meccanismi produttivi industriali classici. Troppo tempo per innescare il meccanismo di domanda/offerta, anche in presenza di un sostegno pubblico. Produrre quelle valvole serviva a salvare delle vite, ma il sistema, dentro il suo quadro di funzionamento, non avrebbe assolto a questa necessità. Le persone sarebbero morte.
E qui, la logica nuova di produzione diretta di valore d’uso della nuova ‘economia’ – che potenzialmente è già presente dentro la società umana – è emersa in tutta la sua dirompente ‘potenza’ logico-produttiva. È stato sufficiente che un ingegnere rendesse disponibili i ‘suoi’ disegni tecnici e quella ‘conoscenza’ umana, fruibile con la rete, consentì di produrre, in ogni angolo del mondo, i respiratori necessari.
Il famoso copia-incolla.
Le stampanti 3D iniziarono a sfornare, ove ce n’era bisogno e in tutto il mondo, le valvole necessarie a salvare le vite e a farlo in maniera sostanzialmente gratuita. Ecco, qui c’è la forma nuova del soddisfacimento dei bisogni, anche quelli vitali, soddisfatti non attraverso la logica capitalistica della produzione di merci e con lo sfruttamento alienato della capacità umana, trasformata in merce-lavoro da retribuire attraverso un salario.
È sotto i nostri occhi il possibile inizio della fase storica dell’umanità in cui la conoscenza accumulata diventa direttamente produttrice. Serve, però, una politica che sappia indirizzare le risorse pubbliche verso tale nuovo esito sociale e non per il sostegno del vecchio modo di produzione e di alienazione umana.
La stessa proposta/provocazione di Biden sulla “sospensione” dei brevetti sui vaccini, indica che i vecchi schemi di fronte alle accelerazioni della fase, sono incapaci di dare soluzioni.
La Transizione rappresenta la più grande rottura di processi sociali, relazionali, economici, lavorativi, produttivi che l’umanità abbia mai sperimentato.
E’ necessario migrare dal “valore di scambio” al “valore d’uso” inteso sia come fuoriuscita dal modello capitalistico mercantile, sia come possibilità di ripensare la produzione finalizzandola al consumo gestendo in autonomia la distribuzione.
Serve una conversione nella forma della vita umana.
Per queste ragioni abbiamo voluto Frattocchie.
Abbiamo bisogno di una operazione che non sarà certo semplice e che non potremo fare da soli ma a cui, partendo da oggi, vogliamo dare sia una cornice del “senso di marcia” che vogliamo intraprendere, sia una chiara indicazione che oggi sia il primo passo in questa nuova direzione.
Abbiamo bisogno di una “estrazione di intelligenza organizzativa” che parta dalle nuove forme dischiuse dalla potenza tecnologica e che sappia costruire connessioni politiche ai molti “fare” già presenti nei corpi sociali, nelle esperienze concrete dei territori. Non possiamo costruzione solo una semplice trincea di mere pratiche di conflitto contro le scelte operate dai processi di ristrutturazione ma serve la messa in campo di una generazione di pratiche e di conflitti “generativi” di un nuovo fare, di un nuovo essere, pratiche che poggiano sulla capacità di autorganizzazione che la potenza delle tecnologie consente oggi abilita.
È il dispiegamento, per me, di quello che il Marx dei Grundisse chiamava il General Intellect.
Produzione diretta di valore d’uso che va oltre la forma del lavoro salariato, non per negare o derubricare la dimensione quantitativa e qualitativa di quella forma e dei conflitti tra capitale e lavoro che essa genera, ma per organizzare, progressivamente, la sua marginalizzazione nella storia, attraverso processi di autogestione produttiva basati sulla potenza sociale e tecnologica già ampiamente sviluppata dal modello della produzione open source.
Molto del futuro è già qui solo che non lo abbiamo compreso.
Per far questo vi proponiamo la costruzione di una forma organizzativa a rete delle organizzazioni e delle persone che si predispongono a questo lavoro politico di nuova qualità. Una forma ibrida, basata su la cooperazione che le tecnologie digitali consentono, anche in forma deliberativa, ma anche la nascita di strutture “umane” che coordinino il lavoro. Una forma che consenta di essere inclusivi perché basata non sulla misurazione del tasso di fedeltà ad un leader o ad un impianto “ideologico” puro e duro, ma che abilità la ricerca sul terreno della Transizione degli elementi di battaglia politica che siano coerenti con la scelta di poter indicare, nello scontro sull’egemonia del processo, l’orizzonte di marcia delle nostre scelte.
La politica, quindi, che torna ad essere uno “stare da una parte” dei processi e, quindi, un “partito”. Non con la “p” maiuscola come l’abbiamo vissuto nel ‘900 ma con l’ambizione di porre la questione del potere e non della semplice amministrazione del presente. Nei nostri incontri di questo periodo lo abbiamo anche definito in modo curioso: Un “partito momentaneo”, che riconnette e ricontratta costantemente lo stare insieme.
Nessuno dovrà “perdere” la propria autonomia, la propria immagine ma mettere a disposizione, di una “comunità di scopo” politica, una parte del suo poter fare, per costruire un luogo comune di sperimentazione di un nuovo essere e fare collettivo.
E vi propongo il nome di Transizione proprio per introdurre una “variante” all’interno del dialogo politico.
Le forme le decideremo insieme a partire da domani.
I limiti che ci daremo rispetteranno le coscienze e la voglia di fare di ognuno.
di Marco Consolo
Sono ore di alta tensione in Perù. Dal 6 giugno, data del secondo turno delle elezioni presidenziali sono passate più di 2 settimane e l’autorità elettorale peruviana non ha ancora dichiarato ufficialmente vincitore il maestro Pedro Castillo, candidato della formazione di sinistra “Perù libre”. In base al totale dei voti scrutinati, Castillo è in testa per circa 44.000 voti (50,12%), contro Keiko Fujimori, la “candidata della vergogna” e della mafia che si è fermata al 49,88 %. Il risultato consegna un Paese diviso in due come una mela, con una profonda crisi istituzionale, più di 190.000 decessi a causa della pandemia, una corruzione dilagante, un profondo classismo (in particolare conro i popoli originari) e le sequele di un estrattivismo selvaggio con morti, feriti e detenuti.
Ma non c’è 2 senza 3, ed è la terza volta consecutiva che Fujimori viene sconfitta, dopo il 2011 ed il 2016.
Come da copione latino americano (e di Trump), va in scena il sovversivismo delle classi dirigenti: l’oligarchia bianca, il fascismo peruviano e la destra internazionale non si rassegnano alla sconfitta, gridano ai brogli e da tempo hanno attivato un piano per non riconoscere la volontà popolare. Già prima del ballottaggio, il blocco sociale composto da oligarchia, latifondi mediatici, settori delle FF.AA. e della magistratura, insieme alla Confindustria locale, ha lanciato una campagna di odio anti-comunista e di false accuse di fiancheggiamento al terrorismo contro Castillo ed il resto della sinistra.
La strategia golpista
Nelle settimane scorse, a Washington è cresciuto il nervosismo e, sotto suggerimento a stelle e a strisce, la “signora K” aveva invitato inutilmente il terrorista venezuelano Leopoldo Lopez a dar manforte nella campagna elettorale contro il “castro-chavismo”. Non sono serviti gli appelli anti-comunisti di Vargas Llosa a favore della signora K, con una giravolta rispetto al passato degna di miglior causa. Nè era stato utile l’appello di 23 ex-presidenti di destra ad ammettere le “denunce” (fuori tempo massimo) di K per “brogli” e non riconoscere la vittoria di Castillo. Sforzi che non sono serviti ad evitare la sconfitta nel “cortile di casa” statunitense, nell’ennesimo Paese latinoamericano che cerca di sfuggire al controllo imperiale.
Oggi la signora K, la “mafia fujimorista” (e Vargas Llosa), cercano di evitare che Castillo sia proclamato presidente il prossimo 28 luglio, con sfacciate manovre golpiste. Ed altresì, risparmiare 30 anni di galera per corruzione a Keiko Fujimori, accusata in vari processi a suo carico.
Per far ciò, utilizzano una strategia di “guerra asimmetrica” diretta dal famigerato Vladimiro Montesinos (ex capo dei servizi segreti, oggi nel carcere dorato della base navale del Callo) e dalla CIA.
E’ una strategia che conta su diverse mosse, comprese quelle del puntuale e sanguinoso attacco contro la popolazione attribuito immediatamente a Sendero Luminoso (formazione praticamente scomparsa da anni) a pochi giorni dalle elezioni.
In un elenco non esaustivo, all’inizio hanno provato a ritardare il più possibile, e con qualsiasi mezzo, il conteggio dei voti per evitare la proclamazione di Castillo, cosa che non ha portato a nulla a causa della differenza dei suffragi, ammessa dalle stesse autorità elettorali.
Vista la mala parata, hanno iniziato a chiedere nuove elezioni “per brogli”, senza uno straccio di prova ed in totale disprezzo delle leggi e della Costituzione peruviana (promulgata dal padre di Keiko, Alberto Fujimori, golpista, corrotto e genocida attualmente in galera), cercando di fare pressioni di ogni genere sull’autorità elettorale. Per fare ciò, la signora K ha arruolato i più famosi avvocati, con compensi milionari.
In queste settimane, si è intensificata la campagna di odio, paura e false accuse di “terrorista” contro Castillo, con l’appoggio dei mezzi di disinformazione di massa, innaffiati da abbondanti flussi di denaro. Una campagna rivelatasi contro-producente visto che, viceversa, ha provocato il rifiuto di metà della popolazione, della poca stampa indipendente e non corrotta, degli osservatori internazionali (tra cui la stessa progolpista OEA, diretta da Almagro).
Parallelamente, si agita la piazza con i suoi sostenitori, i poveri ingannati e i ricchi convinti (che obbligano le loro lavoratrici domestiche a portarne i cartelli di protesta contro Castillo e il comunismo, con la minaccia di licenziamento): cercano lo scontro fisico con i “ronderos” contadini, e quanti si sono mobilitati a Lima da tutto il Paese, con l’obiettivo di provocare scontri, caos, morti e feriti, e fare intervenire le forze dell’ordine. Ma nonostante le provocazioni, neanche questo ha finora prodotto risultati.
Per non farsi mancare nulla, cercano anche di dare un golpe istituzionale per poter annullare le elezioni, attraverso manovre parlamentari e la nomina di un nuovo Tribunale Costituzionale, in mano a un parlamento il cui mandato scade fra un mese.
Tintinnio di sciabole
Dulcis in fundo, si agita il sovversivismo nelle FF.AA., spingendo militari in pensione (di cui molti avevano appoggiato Montesinos nel marzo del 1999, come l’Almirante Jorge Montoya) a pronunciarsi contro il “caos político”. Puntuale come un buon orologio, lo scorso 15 giugno, un comunicato di ex–militari di destra delle tre armi, faceva appello alla sollevazione militare contro Castillo. Dietro le quinte, la regia del generale in pensione Otto Guibovich, oggi deputato di Acción Popular, partito dell’altro golpista Manuel Merino, cacciato dalle mobilitazioni studentesche nel novembre 2020. Il comunicato ha provocato la dura reazione dell’attuale presidente Francisco Sagasti, che ha chiesto alla magistratura di procedere contro i firmatari.
Non è da sottovalutare questo tintinnio di sciabole, possibile anticamera di un golpe del XXI° secolo, con l’avallo del Pentagono e della CIA, per rendere impossibile il governo del maestro Castillo, “comunista, terrorista, incapace e confiscatore della proprietà privata”. Una modalità da non scartare, nonostante le difficoltà interne ed internazionali.
Ma piaccia o no alle classi dominanti, Castillo dovrebbe essere proclamato presidente il prossimo 28 luglio. A differenza di Garabombo, personaggio del bellissimo romanzo dello scomparso Manuel Scorza, che diventava invisibile agli occhi dei potenti per meglio difendere i diritti della povera gente, oggi gli invisibili, si sono palesati nella candidatura di un maestro elementare delle Ande peruviane. Sono gli esclusi di sempre, delle campagne e delle periferie urbane, impoveriti dal modello capitalista, neo-liberale ed estrattivista, che hanno poco da perdere, perchè possiedono poco o nulla. Sono tra i principali protagonisti della rivolta contro i poteri forti, contro i mafiosi che hanno governato il Paese negli ultimi decenni con il “pilota automatico” della Costituzione varata nel 1993 dal golpista Fujimori.
Dietro le quinte, la Casabianca corteggia i falchi golpisti e cerca affannosamente nuove e più efficaci strategie. Lo fa oggi con il “volto nuovo” di Biden, lo strascico “politico-letterario” del pennivendolo Vargas Llosa, la mafia di Miami e i congressisti come Marco Rubio, da sempre in prima fila nell’attacco ai processi di trasformazione del continente, con la trita propaganda di “libertà vs comunismo”.
Le priorità del maestro Pedro Castillo
Se sarà finalmente proclamato presidente, Castillo propone di arrivare ad una nuova Costituzione, che restituisca protagonismo allo Stato, sia in quanto a politiche pubbliche incisive, che come regolatore del mercato, per passare da una “Economia Sociale di Mercato” (secondo la costituzione golpista) a quello che il suo programma definisce “Economia popolare con mercati”. Si tratta di un cambio di modello che propone misure urgenti per i primi 100 giorni. Tra le priorità, combattere a fondo la pandemia; rilanciare l’occupazione e l’economia popolare; un processo progressivo verso la seconda riforma agraria; una giusta fiscalità verso le grandi imprese (che oggi evadono sfacciatamente); la convocazione di un referendum costituente con un grande dialogo nazionale e popolare. Detto in altri termini, le priorità immediate del futuro governo di Pedro Castillo saranno la campagna di vaccinazioni, e la riattivazione económica, con l’obiettivo di creare occupazione, soprattutto nelle campagne e per le piccole e medie imprese.
Lungi dall’essere un “libro dei sogni”, sono misure urgenti e necessarie per cambiare il destino del popolo peruviano.
Ma sono misure che dovranno essere approvate dal nuovo Parlamento (eletto al primo turno), nel quale le sinistre di Perù Libre e della coalizione Juntos por el Perù non hanno la maggioranza. Su 130 deputati, possono solo contare con i 37 del primo e i 5 della seconda, più pochi altri che potrebbero allearsi, per arrivare forse a 50. Sarà quindi una battaglia durissima, soprattutto rispetto alla possibilità di redigere una nuova Costituzione, che si può solo vincere con una forte mobilitazione sociale, come quella del novembre 2020 e di questi ultimi giorni.
Nel frattempo, l’accompagnamento internazionale contro le manovre golpiste in atto può aiutare a fare la differenza.
FONTE: http://marcoconsolo.altervista.org/in-peru-garabombo-non-e-piu-invisibile/
di Rodrigo Rivas
Mercoledì 29 aprile 2021 la popolazione è scesa per strada per protestare contro una riforma tributaria che aumentava l’IVA per tutti i beni di largo consumo. Il governo ha risposto con i militari. La polizia ha sparato contro i manifestanti. Fino a martedì 3 maggio, sono stati documentati 940 casi di abusi della polizia, c’erano almeno 24 morti, 87 scomparsi e 846 feriti.
1.- “La versione ufficiale, mille volte ripetuta dal governo in forma martellante a tutto il Paese con ogni mezzo di comunicazione alla sua portata, finì per imporsi: non ci furono morti, i lavoratori soddisfatti erano tornati a casa dalle loro famiglie e la compagnia bananiera sospendeva le attività in attesa che la pioggia finisse.
La legge marziale restava in vigore, prevedendo la necessità di mettere in atto misure di emergenza per far fronte alla calamità pubblica rappresentata dall’interminabile acquazzone. La truppa restava in caserma. Durante il giorno, i militari giravano per le strade trasformate in torrenti, con i pantaloni arrotolati a mezza gamba, giocando ai naufragi con i bambini.
Di notte, dopo l’entrata in vigore del coprifuoco, abbattevano le porte coi calci dei fucili, buttavano giù i sospettati dai loro letti e gli portavano via a un viaggio senza ritorno.
Continuava la ricerca e lo sterminio dei malfattori, assassini, incendiari e rivoltosi così come descritti dal Decreto Numero Quattro, ma i militari lo negavano anche ai parenti delle loro vittime che affollavano l’ufficio dei comandanti alla ricerca di notizie.
«Sicuramente l’avete sognato», insistevano gli ufficiali. «A Macondo non è successo nulla, nulla succede e mai succederà nulla. Questo è un paese felice».
Così portarono a compimento lo sterminio dei capi del sindacato” (Gabriel García Márquez, “Cent’anni di solitudine”, 1968).
Gabo si riferisce ai fatti del 1928, quando il già allora corrotto governo oligarchico del conservatore Abadía Méndez ordinò all’esercito colombiano di fucilare diverse migliaia di operai e di lavoratori, incluse le loro famiglie per evitare che cadessero in povertà, nella enclave bananiera della United Fruit a Santa Marta.
I “falsi positivi” sono un’invenzione più recente. Videro la luce durante il governo di Alvaro Uribe Vélez, il “Matarife, genocida innominabile” che si trova all’origine del narco-paramilitarismo, che ha perfezionato il sistema di corruzione e architettato l’odierno legame tra i potentati economici e la sua cerchia politica, che governa la Colombia da oltre 30 anni.
In italiano, il termine “Matarife” significa macellaio. Ma la traduzione non rende l’idea. Significa invece “taglia gola”, “squartatore” o “boia”. Ma ho un dubbio su quest’ultima traduzione, poiché quella del boia è stata una funzione pubblica, rispettata e rispettabile. “Mastro Titta”, “er boja de Roma” fino al 1864, era anche molto popolare e quando fu sostituito da Vincenzo Balducci, papa Pio IX gli concesse un ottimo vitalizio mensile (vedere la falsa autobiografia scritta nel Novecento da un autore rimasto anonimo, ”Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso”).
Uribe Vélez è un delinquente noto internazionalmente almeno dai primi anni ‘90, ben prima di diventare presidente (2002-2010), ossia da quando l’agenzia militare d’intelligence degli Stati Uniti (DIA) lo mise ufficialmente nella lista di persone legate al “Cartello di Medellin”.
2.- “Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra nera scende, un Anello per domarli, un Anello per trovarli, Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli” recita Sauron, “l’Aborrito” in lingua quenya, l’Oscuro Signore di Mordor, uno spirito malvagio e potentissimo (J. R. R Tolkien, “Il Signore degli Anelli”).
Verso la fine del 2008 diventava di dominio pubblico in Colombia una storia di premi e punizioni basata sull’efficienza.
Il percorso era semplice: l’Esercito nazionale colombiano assassinava civili innocenti facendoli passare per guerriglieri uccisi in combattimento nella guerra civile che, con diversi nomi e attori, è in atto in Colombia dal 1948.
Gli assassinati erano migliaia. Attraverso il sistema di premi e punizioni, esaltando i risultati repressivi ottenuti da ogni sergente, pattuglia e dall’intero esercito, portavano promozioni, riconoscimenti, benefici e gratifiche.
Il caso fu scoperto per l’ingordigia dei candidati ai premi, non per la semplice moltiplicazione dei morti considerata un fatto pressoché normale: ad un certo punto i conti non quadravano. La colonna dell’Avere, “guerriglieri uccisi in combattimento” continuava a crescere ma cresceva pure la colonna del Dare, “numero di guerriglieri attivi”.
Questo serial killer di massa ben rappresenta la classe dirigente colombiana, anche quella recentemente premiata con il Nobel per la pace in seguito all’accordo con le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (FARC, 2016) per mettere fine alla più lunga guerra civile della storia.
Non essendo il tema, faccio solo un cenno ad una conseguenza strutturale di questa guerra:
“Nel 2015, le terre non controllate dal latifondo e dalle corporazioni multinazionali superavano il 40% del territorio colombiano totale. Basta controllare l’elenco di questi territori con le cronache odierne per verificare che sono proprio questi i territori attualmente invasi e ferocemente attaccati da gruppi armati illegali con l’aperta complicità del governo.
Negli ultimi 20 anni, circa 6,6 milioni de ettari, oltre il 15% della superficie agricola della Colombia, sono stati occupati con violenza da paramilitari, narcotrafficanti e militari. Molti fanno finta di essere sorpresi “di cotanta ferocia”, ma non c’è alcun motivo per essere sorpresi. Le caratteristiche e conseguenze di questo processo erano talmente evidenti fin da mo’, che l’agronomo ed ecologista francese René Dumont le ha previste in ogni sua fase (“Le mal-développement en Amérique latine. Mexique, Colombie, Brésil”, 1981)… Come avviene in tutte le materie incluse nel processo di pacificazione teoricamente in corso, la restituzione concordata delle terre è stata un sonoro insuccesso: ai contadini sono stati restituiti 15.000 ettari, lo 0,023% di quanto era stato loro rubato soltanto nei 20 anni precedenti… La voracità del capitale colombiano sta facendo tabula rasa persino delle zone che lo Stato ha dichiarato protette. Ad esempio, in almeno 31 dei 59 parchi naturali nazionali ci sono attualmente conflitti per l’uso, l’occupazione e l’usufrutto della terra…
Alla guerra per la terra si aggiunge la guerra per l’acqua, oggi in procinto di passare nelle mani delle grandi aziende transnazionali… Ad esempio, sono in processo di privatizzazione i 12.000 acquedotti comunitari esistenti, che riforniscono il 40% dell’acqua utilizzata nelle zone rurali e il 20% di quella usata nelle zone urbane” (Terra, acqua, aria: fuoco – terza parte e conclusione, 9 luglio 2020).
3.- “Gli elenchi di gente ricca sono stracolmi di persone che hanno ereditato la loro fortuna o l’hanno fatto speculando, non di certo grazie alla loro capacità innovativa e al loro sforzo produttivo. Sono un catalogo di speculatori, di baroni immobiliari, di reali e nobili formalmente decaduti o in carica, di monopolizzatori delle tecnologie dell’informazione, di usurai, di banchieri, di sceicchi del petrolio, di magnati del settore minerario, di oligarchi e amministratori delegati pagati in modo assolutamente spropositato riguardo a qualsiasi valore possano generare…
Un secolo fa, gli imprenditori cercavano di farsi passare per parassiti adottando lo stile e le forme delle classi parassitarie proprietarie di un titolo nobiliare. Oggi i parassiti pretendono di essere imprenditori” (Geoge Monbiot, Invisible Hands 21 luglio 1018).
Dalle statistiche ufficiali risulta che la metà dei 50 milioni di colombiani vive nell’informalità, che il 42,5% sono poveri e che la disoccupazione è aumentata del 16,8% soltanto nel marzo 2021.
Dalle statistiche delle organizzazioni che si occupano dei diritti civili risulta che tra gennaio e marzo 2021 sono stati assassinati 79 leader sociali.
Mercoledì 29 aprile 2021 la popolazione è scesa per strada per protestare contro una riforma tributaria che aumentava l’IVA per tutti i beni di largo consumo.
Il governo ha risposto con i militari. La polizia ha sparato contro i manifestanti
Fino a martedì 3 maggio, sono stati documentati 940 casi di abusi della polizia, c’erano almeno 24 morti, 87 scomparsi e 846 feriti.
Secondo Diego Molano, ministro della Difesa, i cortei sono stati infiltrati da gruppi armati illegali che si sono dedicati al saccheggio e al vandalismo. I fatti di violenza sono premeditati, organizzati e finanziati da gruppi di guerriglieri dissidenti. Curiosamente, tutte le vittime sono civili disarmati.
Domenica 2 maggio il presidente Duque ha ritirato l’iniziativa avvertendo che non ci sarà alcuna tolleranza sul terrorismo urbano.
È difficile fare un’analisi della situazione concreta e forse non è nemmeno il momento adeguato per provarci.
Malgrado l’eterogeneità del movimento, si possono comunque osservare tre linee generali.
La prima era la rinuncia del capo economista dei neoliberisti, il ministro Alberto Carrasquilla, costretto a dimettersi lunedì 3 maggio in seguito al ritiro del suo progetto “riformatore” teso a trasferire ai ceti medi e bassi l’intero costo della pandemia da Covid-19, lasciando in piedi il sistema fiscale che esonera dalle imposte gli oligopoli legati alle attività minerarie e all’esportazione di zucchero e banane.
La seconda è la richiesta di un’economia un po’ meno disuguale.
La terza consiste in una serie di riforme: democratizzazione dell’educazione e della sanità, amministrazione meno soggetta al clientelismo politico, riforma della polizia e smantellamento della Squadra Mobile Antidisturbi (Escuadrón Móvil Antidisturbios”), incaricata di reprimere le proteste e una migliore implementazione del processo di pace firmato nel 2016 dall’allora presidente Juan Manuel Santos e dalle FARC.
4.- Analizzando le condizioni in cui si fa la storia, Karl Marx scrisse nel 1852: “Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalle tradizioni. La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch’essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d’ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento e con queste frasi prese a prestito la nuova scena della storia” (“Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, Incipit).
In questo maggio 2021 non è in questione la “narrazione” sui fatti poiché quanto avviene è evidente persino alla UE che, infatti, ha stilato una nota di protesta contro gli eccessi della polizia.
In questa fase, il governo copia la manovra ingannevole e dilatoria del “virus Piñera”, chiamando “le organizzazioni politiche ad un dialogo nazionale” che esclude i protagonisti (organizzazioni sociali, popolari, civiche, etniche, studentesche, operaie, contadine, docenti, associazioni di vittime, difensori dei diritti umani, ecc) “perché abbiamo ascoltato il popolo colombiano e la sua protesta pacifica”.
I rumori disarmonici della popolazione non sono stati ascoltati. Perché sono puro e semplice vandalismo sul quale cadrà il peso della legge che, in questo caso, significa anche fucilazioni in situ da parte delle squadre anti-disturbi.
Osservando le foto ufficiali che immortalano l’inizio delle conversazioni tra il governo ed alcuni “leader dell’opposizione democratica”, mi vengono in mente scene viste in un vecchio museo di Bogotá sui momenti successivi all’assassinato del leader liberale Jorge Eliécer Gaitán il 9 aprile 1948.
Anche l’allora presidente, il conservatore Ospina Pérez, avendo ascoltato la rabbia della popolazione, richiamò a palazzo i capetti del Partito Liberale, buona parte dei quali erano su posizioni del tutto diverse a quelle di Gaitán, sospettati di tradimento o conciliatori per professione e dottrina, per formare a nome e rappresentanza del gaitanismo, un effimero governo di conciliazione nazionale. Nessuno dei problemi strutturali venne risolto e contro i gaitanisti veri, previamente satanizzati come “populisti”, si scatenò una politica di sterminio.
Così nacque il conflitto sociale armato colombiano, riciclato ma ancora vivo. Era, ribadisco, il 1948.
“Los hambrientos piden pan, plomo les dá la milicia” (gli affamati chiedono pane, piombo dà loro la milizia), cantava Violeta Parra (“La carta”, 1962).
I colombiani chiedono una “Assemblea Costituente Ampia e Democratica” che convochi i veri rappresentanti della mobilitazione sociale, non i politicanti, per discutere sui motivi che hanno portato alla mobilitazione e per trovare una vera “Soluzione Politica” al conflitto sociale.
Su questo magnifico Paese si agita nuovamente lo spettro del “Bogotazo” che inaugurò la “violenza” dopo l’assassinio di Gaitán.
La Colombia continua a dimostrare che Dio è giusto: “Viviamo in un Paese talmente bello che, per ricompensare gli altri, il Padre eterno ci ha dato questi governi terribili”.
E continua a mettere in mostra la vivacità della sua vita politica: “In Colombia esiste una differenza notevole tra conservatori e liberali. I conservatori vanno a messa alle otto, i liberali a mezzogiorno”.
La chiusa a Gabo: “Erano tre reggimenti la cui marcia ritmata dai tamburi dagli schiavi della galera faceva tremare la terra. Il suo respiro da drago multicefalo aveva impregnato di vapore pestilente la luminosità di mezzogiorno. Erano piccoli, massicci, bruti. Sudavano con sudore di cavallo, avevano un odore di carnaccia macerata dal sole e l’impavidità taciturna e impenetrabile degli uomini dell’altipiano. Benché ci mettessero più di un’ora a passare, si sarebbe potuto pensare che fossero solo poche squadre che facevano il girotondo, perché tutti erano identici, figli della stessa madre, e tutti sopportavano con uguale stolidità il peso dei tascapane e delle borracce, la vergogna dei fucili con le baionette innestate e la scoglionatura dell’obbedienza cieca e del senso dell’onore” (op. cit.).
R.A. Rivas 5 maggio 2021
di Rodrigo Rivas
Giai Phong! 30 aprile 1975.
Ultimo atto della guerra di Vietnam
Saigon è in mano ai vietcong mentre l’ambasciatore statunitense fugge precipitosamente in elicottero.
Il 2 luglio del 1976 nascerà la Repubblica Socialista del Vietnam.
Si concludeva uno dei conflitti più feroci del XX secolo, durante il quale vennero lanciati esplosivi in un numero superiore a quelli utilizzati su tutti i fronti della Seconda guerra mondiale.
4 milioni di civili e un milione di soldati erano morti tra i vietnamiti.
58.226 erano i morti tra i soldati USA
Il numero di feriti, di mutilati e di invalidi resta imprecisato.
La guerra ebbe ripercussioni enormi nella metropoli. I racconti dal fronte dei soldati statunitensi sui massacri di civili e sulla violenza dei combattimenti colpirono profondamente l’opinione pubblica statunitense (e non solo).
Nacque un rilevante movimento pacifista e di contestazione alla politica estera aggressiva degli Stati Uniti, che e portò a cambiamenti epocali nella società, tra cui l’abolizione della leva obbligatoria nel 1973.
L’esito del conflitto sancì la sconfitta della superpotenza USA e segnò la politica estera successiva.
L’opposizione alla guerra era iniziata nei campus delle università dove l’attivismo politico studentesco di sinistra raggiunse limiti fino allora impensabili.
Migliaia di giovani statunitensi scelsero la fuga in Canada o in Europa occidentale per evitare la coscrizione.
La si poteva evitare anche per riconosciuta pazzia ma, come ci insegnò il film “Comma 22”, chi si dichiarava pazzo per non andare in guerra era, ovviamente, sano.
A Cassius Clay, in seguito Muhammad Ali, verrà tolto il titolo mondiale dei pesi massimi per rifiutarsi a prendere parte al conflitto poiché “nessun vietacong mi hai mai chiamato negro”.
Lo stesso giorno dovranno dimettersi “quasi tutti gli uomini del presidente Nixon”, il criminale che aveva ordinato i bombardamenti al napalm in tutta l’Indocina, organizzato tramite il suo sicario principale, Henry Kissinger, colpi di Stato e omicidi in tutta l’America Latina, truffato il mondo intero con l’annullamento deciso unilateralmente della convertibilità del dollaro.
I suoi non si dimettevano per questi motivi, ma perché, sempre truffatore, Nixon era stato scoperto con le mani nella marmellata.
La tentata truffa elettorale denominata “Scandalo Watergat” lo costringerà poco dopo alle dimissioni.
Ma, credo, senza la sconfitta vietnamita avrebbe dominato ancora a lungo la politica del suo paese.
Ricordo nitidamente quel 30 aprile.
Dagli elicotteri statunitensi ripresi dalla TV non si ascoltava la cavalcata dalle walkirie come in “Apocalypse Now”
Robin Williams non era alla console per decretare “Good bye Vietnam”. Sul tetto dell’ambasciata statunitense veniva issata una bandiera rossa.
È stato uno dei momenti indimenticabili della storia recente.
L’ho celebrato, anche, riascoltando Victor Jara, massacrato dagli amiconi di Nixon quasi due anni prima nello Stadio Cile a Santiago:
“Il diritto di vivere, poeta Ho chi Minh
Che convochi dal Vietnam, tutta l’umanità
Nessun canone cancellerà, dal solco della tua risaia, il diritto di vivere in pace”:
Giai Phong!, Liberazione!
Lasciamo parlare le antiche parole, scorrere le immagini…
“il film è un adattamento moderno della Passione di Cristo. Una visione laica di uno dei temi più caratterizzanti della nostra cultura occidentale, da Caravaggio a Pasolini, da Bach a Mozart tutti si sono cimentati col tema della passione di Cristo. Nel nostro limite abbiamo provato a confrontarci con questo tema.” La regia è di MARCO PERRI che ha lavorato con Noemi Serrao, Simone Petracca, Francesco Rizzo e Cristian Morello e altri attori reclutati, on the road, da Neptune Spears (https://www.neptunespears.net/).
Girato sulle sabbie bianche nell’orizzonte di Stromboli e delle Eolie, dentro la Pandemia.
Marco Perri, cineasta calabrese di stanza a Bruxelles (come tanti altri normali talenti della nuova emigrazione), si è cimentato con le allucinazioni pandemiche fin dall’inizio degli eventi, tra lock down a ripetizione e rientri obbligati o forse anelati, nella sua Calabria, dalle parti Capo Vaticano. I suoi ultimi lavori dedicati all’umano (dentro la virulenza) e girati nelle piazze e nelle strade del Belgio, possono essere visti su: https://vimeo.com/neptunespears
Vale la pena chiedersi, dentro lo schiamazzo generale intorno alla Next Generation EU, se l’immaginario e le capacità di giovani artisti come Marco Perri meriteranno di trovare uno spazio: non solo per loro, ma per ciò che rappresentano, in questo caso per la Calabria e il Meridione in generale. Le immagini che vedrete possono essere girate solo lì, e solo con gli occhi dei figli di queste terre.
Buona visione!
(Rodolfo Ricci)
di Aldo Piroso
Un progetto collettivo, a più voci, per sintonizzarsi con il sentire profondo di una molteplicità numerosa di soggetti, accomunati dalla critica ferma e ragionata a un sistema economico e sociale fallimentare, obsoleto, che antepone il profitto a tutto ciò che può rendere migliore la nostra vita: la salvaguardia dell’ambiente, la salute delle persone, i loro diritti, la loro piena realizzazione.
Questo coro polifonico di voci è lungimirante, attento a cogliere ogni possibile segno di cambiamento, ogni mutazione del “virus della trasformazione”.
La novità è che nessuno degli intervenuti conosce gli altri, tranne in un caso. Nessuna riunione di redazione è stata mai effettuata. Le risposte a un input iniziale sono state libere, diversificate, autonome. La sintonia tra le voci è tuttavia elevata.
Lo scenario è la pandemia. L’occasione è da non perdere. Il “dopo” potrebbe non esistere.
Alle presidenziali si profila un ballottaggio fra il candidato correista Arauz e l’indigeno Yaku Perez. Alle legislative avanza Pachakutik espressione della Conaie
Domenica 7 febbraio in Ecuador si sono svolte sia le elezioni Presidenziali sia le parlamentari per il rinnovo dell’Assemblea Nazionale, oltre a quelle per l’elezione dei 5 membri del parlamento indigeno, in un clima di grande attesa e partecipazione. In base ai dati ufficiali trasmessi dal Cne (Consiglio Nazionale Elettorale) dell’Ecuador, come previsto l’affluenza è risultata molto elevata, ben 81,24%, a testimonianza della percezione dell’importanza di questa doppia tornata elettorale, soprattutto per le presidenziali. Continua a leggere
di Marco Consolo
A differenza delle elezioni negli Sati Uniti, in Venezuela a poche ore della chiusura dei seggi, si conoscevano i risultati. Il bollettino del CNE indicava che dei più di 20 milioni di elettori abilitati, avevano votato 6.251.080 persone, con una partecipazione del 31% degli elettori iscritti. Una lezione di modernità ed efficienza al mondo intero.
Nell’opposizione di destra è emerso un nuovo referente politico-elettorale. L‘Alleanza Democratica, composta dai partiti di opposizione Acción Democrática (AD), Copei, Cambiemos Movimiento Ciudadano (CMC), Avanzada Progresista (AP) ed El Cambio (partito di Javier Bertucci), ha ottenuto 1.095170 voti (17 72%). Il processo elettorale segna così il ritorno di due partiti tradizionali della quarta repubblica, AD e Copei, sulla scena politico-elettorale: AD con 419.088 voti (7,08%) si posiziona come il partito del cosiddetto G4 che ha mantenuto un suo capitale politico. Da parte sua, Copei ha ottenuto 170.589 voti (2,88%).
Sempre a destra, la coalizione Venezuela Unida, un’alleanza composta dal partito Primero Venezuela (scissione di Primero Justicia), Voluntad Popular (VP) e Venezuela Unida, ha ottenuto 259.450 voti (4,15%).
Da sinistra, il Partito Comunista del Venezuela (PCV) per la prima volta ha presentato una lista autonoma dal GPP: Alternativa Popolare Rivoluzionaria – APR, (divisione di una piccola parte del GPP), ha ricevuto 168.493 voti (2,73%). Non c’è stata quindi la sorpresa che si aspettava da questa nuova opzione politico-elettorale. Il PCV avrebbe potuto ottenere più seggi in alleanza con il GPP, confermando che le scissioni elettorali del chavismo hanno uno spazio minimo.
Il 9 dicembre si sono svolte le elezioni dei 3 deputati rappresentanti dei popoli originari, con lo sviluppo di un organo normativo e un programma speciale nel rispetto delle loro tradizioni e costumi.Il resto dei voti (405.017) è andato ad altre liste minori.
I risultati consegnano al GPP una maggioranza schiacciante dei seggi parlamentari, e chiudono così il ciclo politico dell’uscente Assemblea Nazionale a maggioranza dell’opposizione.
Escono sconfitti anche i settori dell’opposizione golpista: non ha pagato la loro strategia astensionista per delegittimare il processo elettorale (l’ennesimo errore evidente). Risibili le loro denunce di brogli ancor prima della chiusura delle urne, visto che il sistema elettorale è stato identico a quello delle elezioni dell’Assemblea Nazionale nel 2015, che l’opposizione ha vinto.
In un sistema presidenzialista, l‘astensione alle elezioni parlamentari è stata storicamente significativa. Nel 2005, nel miglior scenario della Rivoluzione Bolivariana (con Chávez Presidente, con un prezzo del barile di greggio che superava i 100 dollari, senza problemi di benzina, senza pandemia, con una serie di misure a favore della popolazione, etc), la partecipazione è stata del 25%. Le due elezioni con più voti sono state quelle del 2010 quando ha votato il 66,45% della popolazione e quelle del 2015 (74%), che hanno dato la maggioranza all’opposizione. Oggi sono molteplici i fattori che hanno influenzato la partecipazione, e bisogna leggere il dato tenendo conto di condizioni molto più avverse: il pesante impatto del bloqueo economico; una situazione di crisi sociale ed economica che provoca malcontento diffuso; il grave danno ai servizi pubblici del Paese; la caduta della produzione nazionale di combustibili, che incide gravemente sulla mobilità; il contesto della pandemia; la migrazione in uscita di elettori registrati; l’appello all’astensione da parte del settore di opposizione al servizio degli Stati Uniti, che ha convinto una parte dell’elettorato.
Nella UE, ben 9 paesi hanno fatto registrare una partecipazione inferiore al 40% nelle elezioni al Parlamento europeo del 2019 e 4 di loro una partecipazione minore di quella venezuelana: Repubblica Ceca (28,72%), Slovenia (28,89%), Slovacchia (22,74%) e Croazia (22,85%).
Certo il Venezuela bolivariano non è la Slovacchia, nè la Romania, e la partecipazione popolare non si riduce alle elezioni ogni 5 anni. Ma sono dati che devono fare riflettere e riguardano la disaffezione in crescita della popolazione verso la “politica”. Un problema che riguarda molti Paesi e non uno in particolare.
A mo’ di conclusioni
Dopo queste elezioni, nuove sfide si aprono per il Venezuela.
Il Paese ha superato finora i nodi critici della “massima pressione” orchestrati dall’amministrazione Trump. Il governo ed il PSUV hanno il difficile compito di stabilizzare le istituzioni (compreso il Parlamento) a partire dal prossimo anno. Ciò implica nuove possibilità nell’esercizio del governo, in un quadro diverso da quello del gennaio 2016.
Il parlamento eletto può avere un ruolo importante nel riattivare un urgente dialogo nazionale ed internazionale, con la più amplia schiera di soggetti onestamente disposti a trovare una soluzione che rifiuti categoricamente bloqueo e intervento militare.
Non c’è dubbio che la priorità è la battaglia per eliminare l’applicazione del duro bloqueo, principale punto critico. Senza la sua eliminazione (e lo sblocco dei fondi sequestrati nelle banche internazionali) è illusorio pensare che si possa risolvere positivamente la crisi economica e sociale, in poco tempo o a medio termine.
Ci sarà poi da neutralizzare la farsa della continuità artificiale di Juan Guaidó e del suo entourage di ex-deputati aggrappati alla sedia. Secondo la Costituzione, il loro mandato scade il 6 gennaio 2021. Ma, sotto l’egida degli Stati Uniti, cercheranno di sostenersi a tempo indefinito e al di fuori del periodo costituzionale come “parlamento legittimo”.
Rimane l’incognita della ambigua posizione dell’Italia e della UE. Come ha ricordato lo spagnolo Zapatero, non volendo riconoscere i risultati elettorali, la UE non avrebbe più interlocutori istituzionali a partire dal prossimo 6 gennaio, quando decadrà il vecchio Parlamento e lo stesso Guaidò. L’Unione Europea è chiamata a contribuire al dialogo e non a gettare benzina sul fuoco, suicidandosi politicamente. Ne avrebbe tutto l’interesse, se l’appiattimento a Washington non la accecasse.
Con queste elezioni, la legittimità formale ed essenziale della istituzionalità repubblicana è esplicitamente chiarita. Ora il nuovo parlamento deve dare risposta alle richieste del Venezuela profondo, quello che ha votato e quello che è rimasto in silenzio. Entrambe hanno ancora urgente bisogno di speranza.
FONTE: in America Latina, Venezuela da Marco Consolo .
Il Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati, ritiene opportuno effettuare alcune puntualizzazioni in merito al servizio “Studi rivelano i danni delle sanzioni degli Stati Uniti all’economia venezuelana” pubblicato il 19 novembre scorso dalla televisione venezuelana RT (https://actualidad.rt.com/video/374043-estudios-revelar-dano-sanciones-eeuu-venezuela/amp?__twitter_impression=true).
Il reportage, formalmente strutturato secondo i canoni convenzionali del buon giornalismo, dopo una presentazione iniziale delle tematiche oggetto di discussione, gli effetti delle sanzioni, propone interviste a due economisti. Il primo, Francisco Rodriguez, definito di opposizione al governo Maduro, tratta l’andamento dell’estrazione petrolifera venezuelana e delle ricadute delle misure restrittive sulla stessa, la seconda, Pasqualina Curcio, filo governativa, affronta la questione degli ingenti danni economici e sociali provocati dalle sanzioni.
Nel video l’economista laureato ad Harvard, in collegamento dagli Stati Uniti, sostiene, con tanto di grafico di supporto, che la caduta dell’estrazione del greggio da parte del Venezuela sia iniziata a seguito delle sanzioni occidentali, imposte quando la quotazione del greggio, dal quale è dipendente l’economia del paese, sono scese sotto quota 30$ al barile. Lasciando intendere, senza affermarlo che la pesante crisi economica che si è abbattuta sul paese sia legata a questi provvedimenti restrittivi che, mossi da finalità politiche, quali la caduta di Maduro, si sono invece purtroppo tradotti in pesantissime ripercussioni sulla vita del popolo venezuelano.
Tabella 1: variazione annua del Pil in America Latina, sue sub-regioni e nei principali paesi
Dati rilevati Fmi | Dati rilevati Cepal | Dati rilevati Cepal | Dati rilevati Cepal | |
Anno | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 |
Brasile | + 0,1 | – 3,8 | – 3,6 | + 0,4 |
Argentina | – 2,5 | + 2,5 | – 2,2 | + 2,0 |
Venezuela | – 3,9 | – 5,7 | – 9,7 | – 7,2 |
America Latina | + 1,0 | – 0,1 | – 1,1 | + 1,1 |
America istmica | + 3,9 | + 4,2 | + 3,3 | + 3,6 |
Caraibi | + 4,3 | + 3,9 | – 0,8 | + 1,2 |
Sud America | + 0,3 | – 1,3 | – 2,4 | + 0,6 |
Riteniamo, in base a fondate ragioni, che l’analisi pur riportando dati e fatti concreti, manchi di completezza. Infatti, la crisi economica del paese era inconfutabilmente iniziata già nel 2014 (tabella 1) allor che la quotazione del greggio da circa 110 $ al barile nel corso dell’anno si era dimezzata a circa 55 $ (grafico 1), spingendo il paese in recessione, a causa della stretta dipendenza della sua economia da questa commodity.
Grafico 1: andamento quotazione del barile di petrolio periodo 2014-2020
Grafico 2: andamento quotazione petrolio e entrate dall’export petrolifero Venezuela (2012-2018)
In base a stime, di economisti venezuelani e non, l’economia del paese e il suo bilancio pubblico entrerebbero in crisi quando la quotazione del greggio scende sotto i 70 $ al barile e proprio da questa soglia che, a nostro avviso, sarebbe stato più appropriato far iniziare l’analisi della genesi della crisi economica venezuelana. Indubbiamente anche la capacità estrattiva, che Rodriguez indica erroneamente iniziare a ridursi dal 2016, ha la sua importanza, infatti, seppur il prezzo del petrolio (grafico 2) riprenda a salire nel 2017, a causa di questo fattore, la recessione continua a rimanere pesante.E, nonostante il trend rialzista prosegua per buona parte dell’anno successivo, a causa della sostanziale invarianza delle entrate dall’export petrolifero anche nel 2018 (grafico 2), il Pil venezuelano diminuisce in quell’anno addirittura del 15,0% portando la contrazione cumulata al 44,3% rispetto al livello del 2013, ultimo anno di crescita prima della recessione.
Tuttavia, anche su questo punto l’analisi evidenzia ulteriore incompletezza, poiché come dimostra il grafico 3, il picco di estrazione venezuelano post crisi 2008-09 era stato raggiunto nel 2011, quindi, anche se fino al 2013 la flessione era stata lieve, non possiamo non rilevare come la contrazione fosse ufficialmente iniziata un lustro prima del 2016 come indicato nel servizio.
Grafico 3: andamento dell’estrazione di greggio e altri prodotti energetici. Venezuela: 1990-2016
Le cause della riduzione fino al momento dell’introduzione delle prime misure restrittive, agosto 2017, vanno ricondotte alle evoluzioni del mercato petrolifero mondiale, nel cui ambito nonostante la domanda fra il 2013 e il 2018 si sia mantenuta quasi costantemente al di sopra dell’offerta, quest’ultima ha continuato ad essere incrementata, a causa sia dei mancati tagli alla produzione in sede Opec+, sostanzialmente per motivi geostrategici, che dell’aumento dell’estrazione delle fonti cosiddette non convenzionali: shale oil e shale gas (grafico 4).
Tale fenomeno ha interessato in primis gli Stati Uniti (grafico 5), i quali hanno praticamente raggiunto a fine secondo decennio, l’autosufficienza energetica e si accingono a diventare nei prossimi anni un paese esportatore (grafico 6), modificando sensibilmente la geografia della produzione energetica a danno soprattutto del Medio Oriente, del Venezuela e della Russia. L’espansione della produzione statunitense, ormai dal 2014 primo produttore mondiale di gas e petrolio cumulati (grafico 7), ha doppiamente penalizzato il Venezuela, da un lato per la riduzione del suo tradizionale import venezuelano, fino al quasi totale azzeramento, dall’altro per l’aumento dell’offerta mondiale.
Per approfondire: https://www.lacittafutura.it/economia-e-lavoro/petrolio-risorsa-e-conflitti
Grafico 4: andamento della domanda e dell’offerta mondiale di petrolio. Periodo 2013-2018
Grafico 5: estrazione petrolifera convenzionale e di scisto o Shale (Tight) Oil negli Usa (1990-2024)
Grafico 6: andamento import e export di prodotti energetici negli Stati Uniti
Grafico 7: estrazione di petrolio e gas naturale in Arabia S., Russia e Usa. Periodo 2008-2018
Sovrapponendo a questa dinamica del mercato energetico mondiale, le draconiane misure restrittive occidentali, il Venezuela, nonostante abbia cercato di sostituire la domanda statunitense con quella cinese, turca e indiana, ha subito una riduzione di oltre il 50%. dell’estrazione petrolifera fra il 2013, inizio della effettiva caduta, ed il 2018.
Probabilmente il governo Maduro, in carica proprio dal 2013 dopo la morte di Chavez, di fronte alle prime avvisaglie di cambiamento del mercato petrolifero, rispetto alle alte quotazioni salvo la crisi 2008-09 del decennio precedente, avrebbe dovuto impegnarsi in un processo di diversificazione economica e nell’implementare l’incremento della produzione agricola attraverso lo sviluppo dell’agricoltura familiare, contadina e indigena, tradizionalmente produttrici di beni alimentari primari, nel tentativo di raggiungere l’autosufficienza. Invece, l’economia del paese, anche a causa di situazioni emergenziali (guarimbas e tentativi golpisti), è rimasta profondamente legata alla risorsa petrolifera che ha continuato a rappresentare il 95% del export, il 40% del bilancio statale e il 40% del Pil annuo.
Il coordinamento del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati condanna e chiede la rimozione delle restrizioni unilaterali statunitensi ed europee, economiche, commerciali e finanziarie che stanno causando gravi sofferenze al popolo venezuelano con privazioni di prodotti alimentari e di medicinali, intollerabili soprattutto in questa fase pandemica. Veri e propri atti vessatori disumani e illegali, perché al di fuori del diritto internazionale, verso un popolo che rivendica la propria autodeterminazione e il proprio modello di sviluppo inclusivo cercando di sottrarsi all’imperialismo e allo sfruttamento neocoloniale.
Invitano, inoltre, i governi degli stessi stati a riconoscere la legittimità e la correttezza del processo elettorale di domenica 6 dicembre, realizzato con lo stesso sistema di voto col quale vennero effettuate le legislative del 2015, vinte dal variegato fronte delle opposizioni antichaviste. Coerentemente con la certificazione di regolarità e attendibilità attestata al sistema e al processo elettorale venezuelano da osservatori internazionali, fra cui l’ex presidente Usa Jimmy Carter.
Al contempo invitiamo l’opinione pubblica a non cadere nella trappola dell’informazione mediatica main stream, asservita ai poteri forti e agli interessi imperialistici che, in linea con quanto operato in questi anni, non mancherà di gettare discredito sulla correttezza delle elezioni e sulla legittimità del governo Maduro, quest’ultima invece confermata a netta maggioranza dal’Assemblea Generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite nel settembre 2019.
Tuttavia, non condividiamo, le operazioni analitiche parziali e strumentali che mirano a diffondere informazioni fuorvianti finalizzate a distogliere l’attenzione dai problemi effettivi e a condizionare l’opinione pubblica. Operazioni, di piccolo cabotaggio, che non giovano a far comprendere l’effettiva realtà dei fatti a danno in primis del processo bolivariano e dei suoi sinceri sostenitori.
Il coordinamento del Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati
7 dicembre 2020
L’ex presidente dell’Uruguay, Tabaré Vázquez, è morto nella mattina del 6 dicembre all’età di 80 anni, vittima di un cancro ai polmoni che gli era stato diagnosticato nell’agosto 2019 durante la sua seconda presidenza.
Vázquez, medico oncologo di professione, è stato il primo presidente di sinistra nella storia dell’Uruguay, paese che ha guidato per due mandati in rappresentanza del Frente Amplio (2005-2010 e 2015-2020). Con la sua clamorosa vittoria elettorale nel 2004, il leader del Frente Amplio ha rotto l’egemonia delle forze politiche tradizionali del paese, il Colorado Party e il National Party.
Dal suo arrivo alla presidenza, iniziò una lotta frontale contro il consumo di tabacco e affrontò un processo che ebbe successo contro Philips Morris International, una delle più potenti multinazionali del mondo.
Tabaré stabilì il divieto di fumare in tutti i locali chiusi ad uso pubblico e in tutte le aree di lavoro, sia nella sfera pubblica che in quella privata. E bandì tutti i tipi di pubblicità sui media che incitano all’uso del tabacco. L’Uruguay fu così il primo paese delle Americhe ad attuare una misura di questo tipo e il settimo a livello mondiale. I suoi due genitori e uno dei suoi fratelli erano morti di cancro e sicuramente questo ha condizionato quella lotta.
La famiglia Vázquez Delgado ha rilasciato un comunicato ufficiale in cui ha chiarito che non ci sarà alcuna veglia pubblica a causa dell’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia Covid-19. “Con profondo dolore comunichiamo la morte del nostro caro padre, il dottor Tabaré Vázquez, alle 3:00 per cause naturali della sua malattia oncologica. Vista l’emergenza sanitaria per Covid 19, tenendo conto delle misure stabilite e / o suggerite per il governo nazionale e il governo dipartimentale di Montevideo, e coerentemente con la preoccupazione costante di nostro padre per la salute di tutti gli uruguaiani, esprimiamo la volontà della nostra famiglia riguardo agli atti del suo addio “, si legge nella dichiarazione. “Ho la speranza e il desiderio di poter mettere la fascia presidenziale al prossimo presidente della Repubblica”, aveva detto Vázquez il 27 ottobre 2019 quando era andato a votare. In qualche modo Vázquez aveva voluto delineare la lotta che stava conducendo contro il cancro ai polmoni che gli era stato diagnosticato nell’agosto di quell’anno, dopo la morte di sua moglie María Auxiliadora Delgado. A settembre aveva concluso con successo la radioterapia con radiochirurgia a cui si era sottoposto per cercare di combattere il nodulo polmonare maligno ed era entrato in fase di valutazione. Nel bel mezzo della pandemia di coronavirus, Vázquez ha avuto poche apparizioni pubbliche, sebbene sia rimasto politicamente attivo all’interno del Frente Amplio con un’ultima partecipazione alla Plenaria del Frente Amplio lo scorso ottobre e un incontro giorni fa con José Muijca e Lucía Topolansky a casa sua dove hanno comunicato la loro approvazione per Marcos Carámbula a presiedere il Fronte Ampio.
Tuttavia, nelle ultime settimane aveva avuto una ricaduta. “Voglio essere ricordato come un presidente serio e responsabile”, aveva detto nel programma televisivo “El Legado” in onda domenica 29 novembre. Il corpo di Vázquez sarà sepolto nel cimitero di La Teja in una cerimonia intima riservata a bambini e nipoti. “Esortiamo la popolazione ad accompagnare questi atti dalle loro case attraverso la copertura giornalistica”, afferma il comunicato della famiglia. Ma il Frente Amplio ha chiesto alla militanza di licenziarlo. “La carovana fermerà i blocchi prima di raggiungere il cimitero e noi ci saluteremo suonando i clacson senza scendere dai veicoli. Solo i parenti e la stampa grafica entreranno nel cimitero”.
Vincendo nettamente le elezioni dell’autunno del 2004 (in quelle del 1999 perse per pochissimo), Tabarè, aprì la strada all’Uruguay dei governi progressisti nel cono sud del continente latino-americano, quasi in contemporanea con l’elezione di Lula in Brasile e il consolidamento del governo di Kirchner in Argentina. Il Frente Amplio, la grande alleanza di forze progressiste e di sinistra riuscì nell’impresa ad oltre 40 anni dalla sua fondazione, precedente alla dittatura.
Per la prima volta dalla fondazione del paese, l’Uruguay ebbe un governo dichiaratamente di sinistra rompendo l’egemonia dei due partiti, Blancos e Colorados, che si erano avvicendati al potere per oltre un secolo.
La staffetta con Pepe Muijca (che governò fino dal 2010 al 2015) e la successiva rielezione (2015-2020) hanno consentito all’Uruguay un importante periodo di conquiste sociali e di modernizzazione del paese senza pari nella sua storia recente. L’esito delle ultime elezioni presidenziali, che hanno riportato al potere il rappresentante dei partiti di centro-destra Luis Lacalle, figlio di un altro ex presidente dei Blancos, con uno scarto di soli 30mila voti, ha aperto una riflessione politica anche su una questione centrale registratasi anche in tutti gli altri paesi che hanno vissuto questa stagione di successo delle sinistre: l’emancipazione delle classi popolari e la conquista di nuovi diritti sociali e civili, non si traduce automaticamente in una egemonia culturale che riesca a consolidare durevolmente il percorso progressista.
di Marco Consolo
Domenica 6 dicembre si realizzeranno elezioni politiche in Venezuela per rinnovare il Parlamento per il periodo 2021-2026. Si tratta del processo elettorale n. 25 nei 21 anni di processo bolivariano.
Più di 20 milioni di venezuelane-i sono chiamate-i alle urne per eleggere i 277deputati tra più di 14.000 candidate-i. Si presentano un totale di 107 partiti che si disputeranno i seggi della “Asamblea Legislativa” di Caracas. Dei 107 partiti in lizza, ben 98 sono di opposizione al governo, sia da destra, che da sinistra.
I tempi delle elezioni, presentate dalla destra quasi come un capriccio del governo per disfarsi del parlamento attualmente con maggioranza dell’opposizione, sono scanditi da precisi dettami costituzionali. Ma ancora una volta, in buona compagnia dell’Unione Europea, gli Stati Uniti hanno dichiarato di non riconoscere la legittimità del processo elettorale e quindi i suoi risultati. Come in Bolivia nel 2019 contro Evo Morales, accuseranno il governo di brogli per cercare un pretesto per intervenire nel Paese con le maggiori riserve provate di petrolio al mondo.
E’ quindi alta la posta in gioco, in una scadenza che si realizza in un periodo aspro e difficile, peggiorato dalla pandemia. La crisi politica, sociale ed economica in Venezuela è il risultato diretto della sfacciata ingerenza degli Stati Uniti e dell’Unione Europea contro la quale il Venezuela bolivariano ha dato una dura battaglia. Questa ingerenza, si è tra l’altro esplicitata con le criminali “misure coercitive unilaterali” (chiamate impropriamente sanzioni) da loro imposte. Misure criminali che si configurano come un vero e proprio “bloqueo”, molto simile a quello contro Cuba. Anche in questo caso, si tratta di un bloqueo economico, commerciale e finanziario che ha tagliato l’ accesso a servizi e beni essenziali, tra i quali cibo e medicine, causando la perdita di migliaia di vite di donne e uomini.
Una grave reponsabilità che ricade interamente sui governi criminali che lo applicano e di cui, prima o poi, dovranno rendere conto.
Come negli assedi ai castelli medievali, si cerca di prendere il nemico per fame e per stenti, generare ed approfondire così una crisi economica per provocare una rivolta sociale contro il governo. Una tattica di guerra non convenzionale applicata da subito contro il processo bolivariano. Nella sua versione moderna, il bloqueo è uno degli strumenti per asfissiare il progetto bolivariano, assediato sin dalla prima vittoria di Hugo Chavez, nel 1998. Un progetto che rivendica il controllo sovrano delle risorse, una ridistribuzione dei loro proventi alla popolazione per garantire giustizia sociale: fumo negli occhi della Casabianca.
Da subito, è iniziato l’assedio e la destabilizzazione costante: tentativi di golpe e di omicidio di Chavez prima e poi del Presidente Maduro, massicci finanziamenti esteri all’opposizione della destra golpista e non solo, l’invenzione di un governo parallelo “in esilio”, diversi tentativi di invasione mercenaria (l’ultimo nel maggio 2020) ed un lungo etc..
E ancora una volta, il bue dice cornuto all’asino: nel mondo al rovescio, i veri criminali (a partire da Luis Almagro, Segretario della OEA) hanno denunciato “il regime dittatoriale” venezuelano presso la Corte Penale Internazionale per “crimini contro l’umanità”. Un tentativo disperato di applicare la strategia della guerra giudiziaria (Lawfare) anche in istanze internazionali.
Pirati all’attacco
Come richiesto a gran voce dai settori golpisti dell’opposizione, Washington e Bruxelles hanno seriamente danneggiato l’economia e, di conseguenza, il livello di vita della popolazione. Le loro misure, sempre più aggressive, colpiscono le già critiche condizioni di vita, peggiorate dalla pandemia del COVID-19.
Foto: Cubadebate
Secondo l’economista Francisco Rodriguez (laureato a Harvard ed oppositore del governo Maduro), la caduta della produzione di petrolio è iniziata quando i prezzi del crudo nel 2016 erano piombati a meno di 30 dollari al barile. La caduta si è accelerata puntualmente con l’applicazione di nuove “sanzioni” economiche (quelle finanziarie nell’agosto 2017, le prime petrolifere a gennaio 2019, febbraio 2019, febbraio 2020 contro la società russa Rosneft socia dell’impresa statale venezuelana PdVSA). Secondo Rodriguez, il punto di inflessione coincide con i momenti in cui si sono applicate le sanzioni e le ultime contro Rosneft hanno peggiorato la scarsezza di combustibile [i].
L’economista “chavista”, Pasqualina Curcio mette in risalto gli attacchi alla moneta nazionale. Infatti, nella misura in cui il bolivar si deprezza (come effetto della speculazione e della manipolazione anche attraverso portali web come p.e. dolar today), ha un impatto sui costi di produzione e naturalmente sui prezzi, con l’effetto di una iperinflazione indotta con livelli che hanno raggiunto il 130.000 % nel 2018. Senza considerare il deterioramento del potere d’acquisto e la contrazione dell’economia. Secondo Curcio, in base ai dati del Banco Central, la caduta del PIL tra il 2013 ed il 2019 è stata del 64%. Ovvero, perdite di 194.000 milioni di dollari, equivalenti alla produzione nazionale di un anno e mezzo, a più del totale del debito estero venezuelano (110.000 milioni), al costo dell’importazione di cibo e medicine per un periodo di 30 anni [ii]. Un impatto tremendo, che alcuni soggetti dell’opposizione continuano a negare, accusando il governo di incapacità congenita.
Tra le misure anti-bolivariane degne degli antichi pirati, c’è anche la rapina degli attivi finanziari e delle riserve di oro custodite da diverse banche straniere, a partire dalla Bank of England di “sua maestà Britannica”. Il governo venezuelano rivendica il diritto di farsi restituire dalla Banca le 31 tonnellate di lingotti d’oro che da anni l’istituto custodisce nei suoi forzieri. Un tesoro valutato in circa 887 milioni di dollari che a suo tempo Chavez non riuscì a rimpatriare.
L’impatto delle elezioni
E’ d’obbligo chiedersi se il risultato elettorale favorirà o meno il necessario dialogo per sbloccare il Paese.
In queste elezioni sono in gioco il destino del popolo venezuelano e della sua democrazia partecipativa e protagonica, il futuro del progetto socialista, l’integrazione continentale non subordinata ai voleri dell’ingombrante vicino del nord e molto altro. Il popolo venezuelano è chiamato a votare per restituire al parlamento il suo ruolo nel dibattito politico tra forze diverse che riflettono la pluralità del Paese, in base alla Costituzione ed al rispetto della sovranità nazionale e popolare.
Come si ricorderà, alle ultime elezioni parlamentari del 2015, la destra ha vinto e conquistato il potere legislativo. Ed ha vinto con lo stesso identico sistema elettorale ancora in vigore, e che oggi viene accusato strumentalmente di non essere affidabile. Lo stesso che l’ex-Presidente Jimmy Carter definì come il più sicuro al mondo.
Dal 2015, il parlamento è stato uno strumento di destabilizzazione nelle mani degli Stati Uniti e dei loro alleati per cercare di rovesciare il governo legittimo.
Nel gennaio 2019, con il pieno appoggio dei latifondi mediatici, l’amministrazione Trump ha tirato fuori dal cappello il coniglio-pagliaccio Juan Guaidò, deputato ed allora presidente del Parlamento, auto-proclamatosi “Presidente interino” del Paese. Una farsa senza nessuna base costituzionale e legale, visto che la figura di “presidenza interina” non esiste nella Costituzione venezuelana. E Guaidò non ha mai partecipato a nessuna elezione presidenziale, nè tantomeno è mai stato eletto Presidente.
L’autoproclamazione, appoggiata anche dal cosiddetto “Gruppo di Lima”, è stata inoltre realizzata senza consultare nè il resto dei partiti membri dell’alleanza di opposizione del cosiddetto G4, nè il Parlamento, provocando forti malumori e scontri interni.
Da allora, Guaidò ed i suoi alleati interni ed esteri si sono dedicati ad implementare i molteplici piani di “guerra ibrida” dell’amministrazione statunitense per il “regime change”, per abbattere Maduro. Questi settori appoggiano apertamente il bloqueo, hanno chiesto più volte ed a gran voce l’intervento militare straniero, si sono alleati con i tagliagole del narco-paramilitarismo colombiano, ed hanno fomentato la destabilizzazione politica, sociale ed economica. Non contento, il governo virtuale di Guaidó ha gestito a suo piacimento e con ogni sorta di corruzione i beni venezuelani all’estero, illegalmente messi a sua disposizione dal governo Trump e dai suoi alleati (CITGO e Monomeros tra gli altri).
Ma la decisione di Guaidó e dei dirigenti dell’alleanza G4 di mantenere la strategia fallita del governo parallelo, e confermare nuovamente l’astensione elettorale, ha provocato molte fratture all’interno dei litigiosi partiti del G4 (Acción Democratica, Primero Justicia, Voluntad Popular e Un nuevo tiempo). A destra, si è quindi riconfigurata l’opposizione con l’emergere nel G4 di un settore che si è dissociato dal golpismo e dalla strategia astensionista, convergendo con gli altri settori di opposizione che hanno partecipato alle elezioni presidenziali del 2018. E approfittando di queste contraddizioni, il governo ne ha facilitato la partecipazione elettorale, dopo aver raggiunto un accordo con i dissidenti del G4 e diversi partiti dell’opposizione non golpista. La mediazione non è stata facile, ma il governo bolivariano ha accettato le principali modifiche al sistema elettorale richieste dall’opposizione, che hanno portato ad un ampliamento del sistema proporzionale e del numero dei deputati. Vista la mala parata, i settori golpisti, che sanno di non avere i numeri per vincere, hanno deciso di non esserci per delegittimare la scadenza elettorale.
Sono in buona compagnia degli autoproclamati “paladini della democrazia occidentale”, che mantengono un assordante silenzio di fronte al tragicomico spettacolo elettorale negli Stati Uniti, dove Trump si aggrappa alla sedia, ignorando la sua sconfitta elettorale, in un sistema che Washington vende come esempio democratico al mondo.
La rottura a sinistra
Anche all’interno del Gran Polo Patriótico (GPP), fulcro del processo bolivariano, c’è stata una rottura in base alla recente decisione del Partito Comunista del Venezuela (PCV). Infatti, in questa delicata situazione, il PCV ha deciso di presentare una lista alternativa (Alternativa Popular Revolucionaria), che cerca un proprio spazio politico-elettorale nel processo bolivariano. L’APR è un fenomeno prodotto da tensioni irrisolte all’interno del chavismo, fondamentalmente legato alla risposta del governo bolivariano alle misure coercitive unilaterali, a differenze sulla politica economica, sulla gestione del governo in materia sociale e di lavoro, sulle accuse di criminalizzazione della protesta sociale per le precarie condizioni di vita e di lavoro. Si tratta di una struttura costituita per scopi elettorali, anche se si propone come possibile piattaforma a lungo termine. Con il PSUV sono d’accordo su antimperialismo, socialismo, mantenimento dell’eredità politica di Chavez, ma con un corpo programmatico ancora in via di definizione al loro interno.
In caso riesca a canalizzare il malessere per la complessa emergenza sociale all’interno del mondo “chavista”, il voto “castigo” di questa lista potrebbe essere la sorpresa elettorale, con una riconfigurazione delle maggioranze nel nuovo parlamento.
In questo nuovo scenario, con il riallineamento delle forze, sia all’opposizione che al governo, il settore dell’opposizione che fa riferimento a Guaidò è rimasto con il cerino in mano, spiazzato e fuori gioco, nonostante l’appoggio mediatico internazionale, anche in Italia.
Sul voto, pesa poi l’incognita dell’astensione che si prevede attorno al 50%. I settori golpisti faranno di tutto per aggiudicarsela, come evidenza dell’opposizione al governo. La verità è che, a differenza delle presidenziali, le politiche hanno sempre visto una minore partecipazione. E a questo, bisogna aggiungere la pandemia, le difficoltà nei trasporti, il bloqueo e naturalmente anche lo scontento per la dura situazione sociale che spinge a rimanere a casa.
Da parte chavista si è ripetuto fino alla nausea che si rispetterà la volontà popolare, qualunque essa sia. In tutte le elezioni precedenti, il governo ha accettato i risultati dei partiti di opposizione e dei loro candidati. Chi scrive era presente quando nel 2007 il chavismo ha perso il referendum per la riforma costituzionale ed ha riconosciuto immediatamente la propria sconfitta.
In questi giorni, lo stesso Maduro ha detto pubblicamente che in caso di sconfitta potrebbe andare a casa.
In questo possibile scenario, la nuova Assemblea Nazionale potrebbe promuovere il dialogo verso un accordo nazionale, per poter affrontare l’emergenza sociale ed economica e rivendicare il diritto di vivere degnamente e in pace. Sarebbe un primo passo sulla strada della normalizzazione istituzionale del Paese e la difesa del voto come strumento per l’esercizio e la riaffermazione della sovranità popolare.
Un percorso non facile, vista l’aggressività della destra golpista sostenuta dalla Casabianca, dall’Unione Europea, dalla OEA di Luis Almagro e dal cosiddetto Gruppo di Lima. Un primo risultato politico importante è stato quello di aver isolato le frange golpiste e convinto una gran parte della destra a partecipare alle elezioni.
Sullla scia degli Stati Uniti, l’Unione Europea ha appena deciso di rinnovare per un altro anno le misure coercitive unilaterali imposte al Venezuela e si appresta a non riconoscere le prossime elezioni. Invece di gettare benzina sul fuoco in maniera irresponsabile, l’Unione europea e l’Italia dovrebbero sostenere il dialogo tra le parti, respingendo la via della violenza e dello scontro. La vera sfida per Roma e Bruxelles è smarcarsi dalla follia aggressiva e guerrafondaia di un impero in declino.
[i] https://actualidad.rt.com/video/374043-estudios-revelar-dano-sanciones-eeuu-venezuela/amp?__twitter_impression=true
FONTE: http://marcoconsolo.altervista.org/venezuela-la-posta-in-gioco/