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Nancy Fraser: «I veri cannibali sono i capitalisti»

Giorgio Fazio intervista Nancy Fraser

«La società capitalista dipende da ciò che non era e talvolta ancora non è considerato lavoro». Da questo presupposto Nancy Fraser prova a trovare punti di congiunzione tra le diverse lotte

Con il suo ultimo libro Capitalismo cannibale (Laterza, 2023) Nancy Fraser ci ha consegnato una delle diagnosi più ampie e penetranti, oggi in circolazione, del capitalismo contemporaneo e delle sue tendenze autodistruttive. Intrecciando diverse linee di ricerca e tradizioni teoriche Fraser ha messo a disposizione un aggiornato vocabolario critico, che punta a rendere visibili i potenziali di trasformazione emancipativa che stanno emergendo nell’«interregno» in cui ci troviamo, infestato dai più disparati «fenomeni morbosi».

Questa intervista è stata rilasciata a margine della lezione pubblica che ha tenuto presso il dipartimento di filosofia dell’università La Sapienza di Roma, nell’ambito del ciclo di conferenze dedicato alle nuove frontiere della teoria critica contemporanea: «Technology, Work and Democracy».

* * * *

Il tuo ultimo libro si intitola Capitalismo Cannibale. Perché dovremmo parlare di «capitalismo cannibale»per comprendere le logiche e le dinamiche del capitalismo?

Per definizione un cannibale è colui che mangia la carne di un altro essere umano, quindi più o meno di qualcuno della sua stessa specie. Nella storia razziale è stata proprio l’Europa imperialista a utilizzare questo concetto nei confronti delle persone africane. Io dico che i veri cannibali sono i capitalisti, non riferito ai singoli individui ma all’intero sistema. In qualche modo possiamo dire che questo sistema incentiva e invita i grandi investitori, le grandi corporation e altri soggetti con forti interessi economici ad accumulare profitto mangiando, cannibalizzando, le risorse che non sono necessariamente parte dell’economia ufficiale, come il lavoro di cura, il lavoro coatto e servile, i beni pubblici.

E infine c’è la natura: il nostro sistema invita i grandi capitalisti a prendere ciò che vogliono da risorse minerarie, terre, mari, e non dà loro alcuna responsabilità nel sostituire ciò che hanno preso o nel riparare ai danni che hanno fatto.

Con il cambiamento climatico sappiamo qual è il risultato di questa dinamica di cannibalizzazione: il benessere esterno all’economia è risucchiato e trasformato in valore monetario e non è restituito in alcun modo. Questo sistema sta cannibalizzando le sue stesse condizioni di esistenza poiché ognuno degli elementi che ho appena nominato, il lavoro di cura, il lavoro coatto, le risorse naturali, i beni pubblici e il potere pubblico, è necessario all’accumulazione del capitale, e se li distruggi rischi di far tremare le basi stesse del sistema, ma ancora peggio, metti a rischio il pianeta e la nostra capacità di avere una vita dignitosa su di esso.

Per tutte queste ragioni penso che definire cannibale il capitalismo sia utilizzare una terminologia pertinente e costitutiva del capitalismo stesso in ogni sua forma. Vediamo tutto ciò in modo particolarmente chiaro oggi con il neoliberismo capitalista che ha rimosso ogni forma di controllo e semplicemente lascia liberi i grandi capitali di fare un banchetto delle nostre vite, ma anche in forme precedenti di capitalismo ci sono state queste stesse tendenze all’opera.

Per te è importante oggi mettere nuovamente al centro della nostra attenzione critica il capitalismo. Trai ispirazione da Marx ma vai anche al di là di Marx. Fai riferimento anche ad altri filoni teorici, come per esempio Karl Polanyi e il pensiero eco-marxista, il femminismo della riproduzione sociale e molto altro. Puoi spiegarci questa complessa relazione tra te e Marx da un lato e dall’altro con queste altre costellazioni di pensiero critico?

Da quello che ho appena detto si può comprendere la mia visione del capitalismo: non è solo un sistema economico, come pensano molte persone, esso è piuttosto un complessivo ordine sociale fondato su divisioni istituzionalizzate.

Marx ha teorizzato brillantemente come viene creato il surplus economico attraverso lo sfruttamento del lavoro che viene venduto in termini di forza lavoro o nelle industrie produttive; io non ho nessuna critica da muovergli da questo punto di vista. Quello che cerco di fare è espandere il campo di analisi, per mostrare che sta accadendo molto di più.

Marx ha detto che non si può comprendere da dove viene il surplus e dove si trova il profitto se si guarda solamente alla sfera dello scambio. Abbiamo bisogno di risalire a ciò che lui chiama il «laboratorio segreto» della produzione: dopo che la forza lavoro è stata venduta sul mercato del lavoro che cosa succede ai lavoratori e alle lavoratrici? All’interno della fabbrica l’operaio è pagato solamente il necessario mentre il tempo di produzione che impiega serve a produrre altro valore, il surplus di cui si impossessa il capitalista.

Questo è certo, ma ci sono anche molti altri elementi nascosti e ancor più difficili da osservare di quelli del plusvalore. Osserviamo la riproduzione sociale, ovvero da dove viene la forza lavoro: qualcuno le ha dovuto dare vita, ha dovuto accudirla, nutrirla, ha dovuto prendersene cura, crescerla, educarla, questo è il lavoro di cura della riproduzione sociale. La riproduzione sociale non è solo questo: qualcuno ha dovuto estrarre i cosiddetti materiali grezzi e l’energia che dà corrente alle fabbriche; spesso nella storia del capitalismo queste persone non sono state libere, sono stati schiavi o contadini o lavoratori a giornata o altri tipi di lavoratori a contratto, e tutto questo riguarda ancora un altro «laboratorio segreto», oltre a quelli di cui parla Marx. Ci sono poi i poteri pubblici e le funzioni statali che rendono tutto questo possibile e ovviamente la natura stessa che è la condizione di possibilità di ogni produzione.

Penso che Marx fosse assolutamente consapevole di tutto questo. Se lo si legge con attenzione si possono trovare tutti questi riferimenti. Non ha però teorizzato sistematicamente questi aspetti, quindi quello che sto cercando di fare è espandere l’immagine del capitalismo per offrire una teoria più sistematica del retroterra che rende possibile lo sfruttamento. Non penso affatto che questo contraddica Marx, penso che sia un ulteriore sviluppo del suo lavoro.

Hai nominato Polanyi, alcune persone dicono che il mio lavoro cerca di integrare i due Karl, Marx e Polanyi. Questo perché Polanyi è stato il primo grande teorico della relazione tra economia e società e la sua idea era che l’intero progetto della costruzione del cosiddetto mercato autoregolato, che avrebbe liberato sé stesso dai cittadini, dalla moralità, dalla chiesa e compagnia, questa stessa idea non avrebbe necessariamente distrutto la società, semplicemente l’avrebbe divorata. Non l’ha chiamata cannibalizzazione ma l’idea è simile.

E penso che oggi, riguardo all’eco-marxismo, persone come John Bellamy Foster, Andreas Malm, Jason Moore e altri grandi pensatori attuali abbiano dato vita a un’area di lavoro estremamente creativa da cui ho imparato moltissimo. Loro offrono un’idea molto precisa della distinzione tra valore, valore monetario e benessere, Marx ha individuato questa tensione e loro stanno mostrando come il benessere della natura sia cannibalizzato, usando le mie parole, in quanto è trasformato in valore economico.

Prendo anche moltissimo dalle teorie femministe per riuscire a comprendere l’aspetto della riproduzione sociale e la dimensione del lavoro di cura. C’è uno straordinario lavoro in quest’area che viene specificatamente da quelle che un tempo si definivano femministe socialiste e marxiste e che oggi si definiscono teoriche della riproduzione sociale.

Anche le teorie democratiche sono parte della mia storia perché soprattutto in una società neoliberale vediamo delle falle nel potere pubblico, dal quale il capitalismo dipende ma a cui non vuole obbedire. Il capitalismo ha bisogno di essere regolato altrimenti finirebbe per distruggere sé stesso ma al tempo stesso i singoli capitalisti cercano sempre di evitare la regolazione, il singolo capitalista cerca di evadere le tasse, di compiere operazioni offshore per evadere il controllo, di costruire delle lobby, eccetera. Quindi stanno costruendo dei buchi nel potere pubblico, lo stesso di cui hanno bisogno per sopravvivere e questo è in qualche modo molto interessante per la teoria democratica.

E c’è anche il capitalismo razziale imperialista come parte della storia; per questo mi rifaccio principalmente a W.E.B. Du Bois e in particolare alla letteratura storica che ha ricostruito l’implicazione del lavoro gratuito e schiavista nelle piantagioni. Questa ha mostrato come i profitti dell’industria manifatturiera del nord dell’Inghilterra, le stesse industrie di cui parla Engels, sarebbero stati dimezzati se non si fosse trovato il cotone estremamente economico proveniente dal Mississippi. C’è qui un ampissimo corpo letterario sul lavoro non libero come altra condizione nascosta della storia, un altro «nascondiglio» per fare profitto sfruttando il lavoro coatto. Sono ispirata da tutti questi lavori e cerco di integrare questi temi in una grande teoria sociale che chiamo «capitalismo cannibale».

Potremmo dire che se da un lato il tuo obiettivo è quello di riportare al centro la critica del capitalismo e problematizzare il capitalismo in sé, dall’altro pensi che ci sia bisogno di una visione più ampia del capitalismo, che sia in grado di tenere in considerazione le specificità delle varie crisi generate da questo ordine sociale, che non sono solo crisi economiche. Si tratta quindi di integrare vari filoni di ricerca in una teoria globale della società, ma anche di non perdere di vista la particolarità delle singole traiettorie sociali nelle diverse sfere sociali e delle singole crisi?

Questo è assolutamente vero. Sono contraria a ogni forma di determinismo economico per cui gli sviluppi politici sarebbero un semplice riflesso dello sviluppo economico. Quello che cerco di dire è che il sistema capitalista è profondamente perverso e ha molte contraddizioni al suo interno, dalla tendenza a destabilizzare la riproduzione sociale, a quella a depotenziare i poteri pubblici di cui ha bisogno per supportare il sistema economico, fino alla tendenza a distruggere il benessere della natura di cui c’è bisogno se vuoi avere materie prime o anche solo respirare, bere e mangiare.

Tutte queste, come direbbe Marx, sono delle tendenze di crisi e questo non vuole dire che queste dimensioni precipitino sempre tutte in crisi manifeste, ma che ci sono momenti molto speciali che gli storici chiamano «crisi del sistema globale» in cui tutto l’ordine sociale, tutto il sistema globale inizia a essere destabilizzato. Penso che oggi ci troviamo in questo tipo di situazione. Non possiamo sapere esattamente come andrà a finire, ma mi sembra che questa situazione necessiti di una teoria critica che possa permetterci di comprendere come le diverse crisi interagiscano anche se le loro manifestazioni sono abbastanza differenti. Per questo mi è venuta l’idea di integrare il tutto senza perdere la specificità delle parti.

Dal tuo punto di vista è importante concentrarsi anche sulle reazioni soggettive e politiche a queste differenti crisi oggettive. Relativamente a questo versante soggettivo, parli di due tipi fondamentali di lotte sociali: le lotte all’interno della sfera economica e quelle ai margini di essa, al confine con altre sfere sociali. Il problema ovviamente è come connettere tra di loro questi differenti tipi di lotte.

Marx ha teorizzato la lotta di classe innanzitutto nei luoghi di produzione a partire dalla questione del surplus rispetto agli stipendi e agli orari di lavoro. Ha pensato che la lotta sociale nel capitalismo si sarebbe svolta nella relazione tra lavoro e capitale e si è concentrato moltissimo su come il plusvalore si crei all’interno della fabbrica. Si tratta sicuramente di un tipo di lotta sociale estremamente importante nella società capitalista che storicamente è stata portata avanti dai sindacati e dai partiti dei lavoratori e gran parte del socialismo si è concentrato su questo.

Ma la società capitalista ha molti altri tipi di lotte sociali al suo interno, molti altri attori sociali. Ci sono ad esempio sempre state delle lotte sulla relazione tra stato e mercato, sulla relazione tra industria e natura, abbiamo visto comunità indigene difendere le proprie terre dalle invasioni delle corporations, da uno sviluppo che distrugge i loro spazi e la loro relazione con la terra. Abbiamo visto lotte riferibili alla famiglia, alla cura, ossia se ci sia o meno sufficiente riconoscimento nei confronti delle persone che si dedicano alla cura di bambini e anziani. A tutte queste lotte è stato dato tantissimo peso e lo si percepisce dal modo in cui si sono svolte. Sono quelle che possiamo chiamare lotte di confine, che non provengono dalla fabbrica, ma si verificano nei punti in cui si incontrano produzione e riproduzione, dove lo stato incontra il mercato, dove la società incontra la natura, dove lo sfruttamento incontra l’espropriazione.

Se vogliamo sviluppare una teoria critica che abbia come obiettivo tenere insieme tutti questi elementi, dobbiamo capire che si tratta di lotte insite nella natura stessa del capitalismo, talvolta contro il capitalismo, ma che possono prendere molte forme e non una sola. Il vantaggio di questa concezione è la possibilità di iniziare a pensare che non solamente i lavoratori nelle fabbriche possano essere al centro di possibili rivoluzioni. C’è uno spettro molto più ampio di azioni collettive che potrebbero, certamente non automaticamente, connettersi tra di loro e mettere in piedi una lotta in grado di trasformare la società.

Nella tua visione quindi occorre pensare questo passaggio storico non solo come una crisi di un modello di accumulazione, ma come un addensarsi di diverse crisi, uno snodo radicale che solleva il problema di superare il capitalismo, inteso in senso ampio. Come pensi si possano convincere però tutte quelle persone che oggi partecipano a diverse lotte, per la democrazia, per la difesa dell’ambiente, per la giustizia sociale, ma che non necessariamente condividono l’obiettivo del socialismo? E perché assumere che il capitalismo non possa essere riformato?

Non è la prima volta che si verifica questo tipo di crisi, ce ne sono già state circa tre o quattro nella storia del capitalismo a partire dal quindicesimo e sedicesimo secolo. E in tutti i casi precedenti c’è stato un passaggio da un tipo di accumulazione a un altro tipo di accumulazione. Siamo passati dal capitalismo «mercantile» a quello «coloniale», poi abbiamo avuto una nuova forma di capitalismo, quello «liberale», quindi il «capitalismo organizzato» e ora quello finanziario e neoliberista. In ogni passaggio abbiamo assistito a crisi di massa, depressioni economiche, abbiamo visto i mercati finanziari crollare, la crisi del concetto di famiglia, eccetera. C’è stato un periodo in cui molte persone hanno sperato in una società socialista o addirittura in una soluzione comunista. In entrambi i casi a soluzioni al di là del capitalismo.

Mettiamo per un momento da parte i regimi comunisti realmente esistiti e concentriamoci su come si sia modificato il capitalismo: abbiamo visto il capitalismo socialdemocratico, quello del New Deal e tutto questo è sembrato funzionare per un periodo. Però poi è crollato soprattutto grazie agli sforzi degli ideologi neoliberali che hanno dato una svolta radicale al capitalismo. Il risultato è stato il neoliberismo ed è il punto in cui ci troviamo ora. Dunque, guardando al passato, ci si potrebbe senz’altro aspettare che anche queste crisi si risolvano in una riforma del capitalismo. Non posso escluderlo.

Penso però che ci siano delle caratteristiche della situazione attuale, e quella più evidente è la crisi climatica, che ci mostrano che abbiamo poco tempo a disposizione. La domanda è se effettivamente una forma di capitalismo verde possa emergere o se sia pensabile la decarbonizzazione di tutto il mondo in grado di ridurre drasticamente le emissioni di gas e riparare al danno fatto alle popolazioni. A me sembra improbabile che questo possa succedere all’interno del contesto capitalista.

Nei precedenti passaggi da una forma di capitalismo all’altro i problemi sono stati rinviati e il capitalismo non è stato colpito al cuore. Ogni volta la questione è stata affrontata attraverso riforme del capitalismo che hanno spostato l’attenzione su un altro problema. La socialdemocrazia ha ammorbidito le questioni relative alla cura e alla riproduzione sociale nei paesi ricchi ma ora possiamo vedere retrospettivamente con chiarezza che quella è stata un’era che si è autofinanziata attraverso l’imperialismo e lo sfruttamento della natura.

Quindi la vera domanda è: possiamo fermare lo sfruttamento incontrollato in tutto il mondo in un colpo solo e mantenere ancora un sistema capitalista? Io non penso proprio, anche se potrei sbagliarmi. Per questo vorrei porre un punto prettamente politico.

A chi è scettico rispetto al socialismo vorrei dire che va bene, oggi, concentrarsi su una soluzione ecologista o di giustizia sociale. Io credo che per risolvere questi problemi occorra mettere in discussione il capitalismo, ma se c’è chi pensa che non sia così, d’accordo, fate pure. Mettiamo in atto i cambiamenti necessari e vediamo poi che risultati si otterranno e se ci troveremo ancora in un regime capitalistico, o in uno socialista o in in un altro dal nome che oggi non siamo in grado nemmeno di pronunciare. L’importante è che si fermi lo sviluppo incontrollato del capitalismo, la cannibalizzazione.

Guardando alla situazione internazionale sembra si delinei l’inizio di un nuovo ordine mondiale in cui gli Stati Uniti non sono più l’unico potere egemonico. Possiamo pensare che con il progredire di questo processo ci sarà un sistema internazionale multipolare.

Noi sappiamo dalla teoria di Giovanni Arrighi che quando una costellazione egemonica entra in crisi si avvia un processo di finanziarizzazione dell’economia e una dislocazione del centro delle relazioni internazionali. Questo in parte sembra stia avvenendo. Tuttavia Arrighi aveva riposto anche una speranza in questo passaggio. Ma oggi noi vediamo che Cina e Russia, ad esempio, non sono solo paesi capitalisti ma anche autoritari. Questo processo di ridefinizione degli equilibri internazionali non sembra dischiudere al momento grandi potenzialità emancipative.

Sono molto contenta che tu abbia sollevato questo argomento perché in tutti questi regimi di accumulazione del capitalismo c’è sempre stato un potere egemone che ha organizzato lo spazio internazionale. Come ha scritto brillantemente Immanuel Wallerstein, abbiamo un paradosso nel capitalismo, una sorta di contraddizione tra l’economia globale in cui il capitale vorrebbe spostarsi con grande libertà e il sistema degli Stati nazionali. C’è sempre il problema di come rendere tutto questo armonico, di come riuscire a organizzare lo spazio internazionale rispetto a un sistema diviso in queste due parti. C’è stato un potere globale dominante in tutte le fasi del capitalismo, e così abbiamo avuto una transizione relativamente serena dall’egemonia coloniale imperialista britannica all’Europa socialdemocratica sotto l’egemonia degli Stati uniti. Questa transizione è stata relativamente semplice anche se ovviamente ci sono state in mezzo due guerre mondiali a sancire questo passaggio. Gli Stati uniti sono ora un’egemonia in declino, a un passo dall’essere eclissata economicamente dalla Cina. In effetti se li osserviamo da un punto di vista finanziario gli Usa sono un paese debitore e la Cina il maggior creditore che detiene il controllo di tutti gli obblighi. D’altra parte gli Stati uniti hanno un arsenale militare veramente molto potente e da questo punto di vista rimangono molto forti e pericolosi.

Fino a poco tempo fa avrei detto che anche l’autorità morale degli Stati uniti è in declino; c’è stata una lunga serie di débacle a partire dal Vietnam, poi l’Iraq, l’Afghanistan, in cui gli Stati uniti hanno rivendicato una superiorità morale. Non è chiaro se abbiano ancora quel tipo di autorità morale ma in ogni caso penso che, a differenza della Gran Bretagna, gli Stati uniti non siano disposti a perdere il proprio potere egemone. Penso che stiano combattendo per indebolire la Cina attraverso i suoi poteri secondari ovvero i suoi alleati: Russia, Turchia, eccetera. Dunque direi che restano estremamente pericolosi per il momento.

Quella in Ucraina è anche una guerra per procura tra la Russia e gli Stati uniti che viene combattuta in parte sui corpi delle persone ucraine. Tutte queste mosse, estremamente pericolose, minacciano il sistema globale e per questo ho la sensazione che gli Stati uniti siano un potere davvero pericoloso. Non voglio assolutamente dire che Cina e Russia siano i buoni, anzi la presenza cinese in Africa è estremamente brutale e i crimini di guerra russi in Ucraina sono orripilanti. Ma penso che tutto questo sia molto diverso dalla lettura ideologica che vede un «mondo libero» contrapposto al «mondo autoritario».

Che cosa pensi della posizione di Jurgen Habermas in questo dibattito? Lui da un lato ha criticato queste interpretazioni ideologiche, prendendo le distanze dall’interpretazione degli Usa, ma dall’altro lato ha difeso il diritto internazionale, sostenendo anche che per l’Occidente fosse impossibile non difendere la popolazione ucraina contro questa invasione. Infine cerca ancora di porre il problema del ruolo dell’Europa come potenza internazionale.

Jurgen Habermas continua a ispirarmi con la sua integrità e il suo coraggio. È un’importante voce del pensiero critico, non è tanto importante se abbia un’analisi o una soluzione complete bensì il fatto che mantiene quella che secondo me dovrebbe essere la postura di un teorico critico: non dovremmo tifare per questo o per quell’altro, dovremmo pensare a come promuovere un negoziato di pace. E dovremmo anche provare, per quanto riusciamo, a integrare il livello geopolitico con il tipo di esperienza e di speranza democratica delle persone specifiche, inclusi gli ucraini e le ucraine. Quindi la questione è controfattuale: che cosa potrebbe o non potrebbe venire fatto è davvero difficile da comprendere, dipende da dove collochi l’inizio di questa storia.

Per me inizia nel 1989 con il fallimento degli Stati Uniti nel cercare di costruire un nuovo mondo democratico. Penso che i tedeschi siano molto sensibili da questo punto di vista perché hanno avuto l’esperienza, dopo la Seconda guerra mondiale, di come i loro stessi alleati abbiano ricostruito i propri paesi con il piano Marshall. Per me è una grande delusione il fatto che gli Stati uniti non abbiano provato a fare lo stesso dopo la fine della Guerra fredda; invece, hanno mandato in Russia negli anni Novanta due «Chicago boys» a privatizzare tutto quanto, facendo un disastro.

Poi c’è un’altra grande questione che riguarda la Nato e il rifiuto di integrare la Russia con il pretesto che non fa parte dell’Europa come se avesse senso dire che l’Europa si ferma a un certo punto. La storia potrebbe anche cominciare mettendo in ordine logico l’espansione della Nato come la volontà di spingere la Russia in un angolo. Alla fine dobbiamo però partire da dove ci troviamo e penso che tutti quanti sappiano quale sia la soluzione. Penso che questo conflitto si risolverà con il Donbass che viene integrato alla Russia o comunque con una forte autonomia dall’Ucraina e una maggiore vicinanza alla Russia, magari la Crimea verrà lasciata alla Russia e ciò che rimane dell’Ucraina si unirà all’Unione europea e così via.

Come si negozia questa pace in modo da fermare il prima possibile le morti? Un tempo pensavo di sapere sempre quale fosse la soluzione ma i fatti sono cambiati e mi rendo conto di non sapere ad esempio come trovare una soluzione per la situazione attuale tra Israele e Palestina. Ed è per questo che ammiro Habermas.

Nei tuoi ultimi scritti uno dei temi principali è come si potrebbero far convergere le diverse lotte sociali. Riconosci ancora un ruolo fondamentale in questo processo di convergenza al lavoro?

Vorrei sottolineare la quantità pazzesca di energia creativa nei giovani, e non solo, che sono impegnati nelle lotte ecologiste, femministe, antirazziste, per i diritti del lavoro dei migranti, nel costruire sindacati in settori della distribuzione come Amazon e Starbucks in cui non avevamo mai visto niente di simile e in cui le condizioni di lavoro sono pessime. Questa enorme forza creativa potrebbe, in teoria, diventare parte di qualche tipo di coalizione o addirittura una forza contro-egemonica per un’effettiva trasformazione sociale.

Certo, il nostro presente è anche pieno di energie che vanno in direzioni negative, verso i populismi e i razzismi e addirittura forme di suprematismo bianco, non voglio fingere che sia tutto rose e fiori.

In ogni caso ciò su cui mi concentro è cercare di aiutare gli altri e le altre a connettere le varie parti delle lotte in modo che queste energie possano coordinarsi dato che per ora sono frammentate. Così, in Capitalismo Cannibale, provo ad andare incontro a questo sforzo per una maggiore cooperazione e integrazione tra le varie lotte creando una specie di mappatura dei punti di congiunzione nascosti.

Nei miei lavori più recenti, dopo Capitalismo Cannibale,sto esplorando l’idea di una rinnovata centralità del lavoro che si è sempre trovato nel nucleo delle teorie socialiste, ma reinterpretandolo in maniera estremamente ampia: per il capitalismo non è centrale solo il lavoro in fabbrica ma anche quello riproduttivo. La società capitalista dipende da ciò che non era e talvolta ancora non è considerato lavoro, lavoro non remunerato o sottopagato in alcuni casi razzializzato, fatto da donne spesso senza diritti di cittadinanza e prima ancora di esse da schiave. È un altro volto del lavoro nel capitalismo. Così come un ulteriore volto è quello dell’espropriazione razziale del lavoro di estrazione e di coltura, ambiti in cui vediamo forme di lavoro semi-libero in giro per il mondo.

Possiamo dire dunque che il capitalismo dipende da tre sfere distinte tra loro: il lavoro sfruttato, l’espropriazione e quello che chiamo lavoro domestico ma che non avviene solo all’interno delle case, anzi, una parte è utilizzato per fare ulteriore profitto industrializzando anche il lavoro di cura stesso. Se poi pensassimo al femminismo come a un tipo di lavoro non riconosciuto nemmeno da sé stesso, allora avremmo una coalizione potenzialmente molto potente.

Dunque, non sei d’accordo con le teorie che affermano che il lavoro, la centralità del lavoro, stia scomparendo?

Si potrebbe dire che la forma storicamente normativa del lavoro è sottoposta a enormi pressioni. Il lavoro in fabbrica di tipo fordista in alcuni luoghi si è fermato, anche se non in Cina, ma ovunque a livello mondiale è sottoposto a molte pressioni, con la delocalizzazione della produzione, l’indebolimento dei sindacati, l’ascesa di un’economia dei servizi a basso costo. Questo non significa che il lavoro non sia importante o che stia scomparendo. Significa solo che le condizioni sono cambiate e ora vediamo molto più lavoro nel settore dei servizi, lavoro di assistenza, lavoro migrante. Forme di lavoro sempre esistite ma che prima erano nell’ombra, ora sono molto visibili.

Ad esempio durante la pandemia

Sì, durante la pandemia in particolare. In sostanza non penso ci sia la fine della società basata sul lavoro. Per quanto riguarda il reddito di base universale, non sono una sua grande sostenitrice, ma ciò che apprezzo è la questione del sostentamento: il sostentamento è ciò su cui dovremmo concentrarci, qual è il modo migliore per garantire la sicurezza del sostentamento alle persone, che è un desiderio fondamentale. Il modo migliore potrebbe non essere distribuire denaro, quanto piuttosto potenziare il settore pubblico e avere l’abitazione, l’assistenza sanitaria, l’assistenza ai bambini o agli anziani o alle persone malate, l’istruzione, il tempo libero, come diritti umani fondamentali. Si tratta di pensare alla soddisfazione dei bisogni di base sotto forma di valore d’uso e beni pubblici, non merci. Come fare ciò nella più ampia trasformazione sociale è ovviamente una questione complicata, ma credo che la sicurezza del sostentamento sia un problema fondamentale, data non la scomparsa del lavoro, ma la degradazione delle sue condizioni, compresi i bassi salari.

È interessante vedere quante risorse sta investendo l’amministrazione Biden nel settore pubblico, nella creazione di nuovi posti di lavoro, un programma quasi roosveltiano. È possibile dire che da questo punto di vista l’era neoliberale sia finita negli Stati uniti?

Sì, penso sia giunta al termine da molti punti di vista. Ideologicamente ha perso la propria credibilità, le persone non pensano più che la ricchezza cadrà come briciole dall’alto, o nelle soluzioni di mercato eccetera. Sia nella destra populista che nei movimenti socialisti di cui ho parlato, le persone non credono più a tutto questo. La destra populista sta difendendo il potere pubblico, il potere autoritario pubblico, solo per le persone del colore giusto, ma comunque non è a favore dell’effetto «a pioggia», quindi in questo senso il neoliberismo ha perso credibilità. Rimane in vigore come un regime potente soprattutto a livello globale, dove l’intera architettura finanziaria favorisce le mega-corporazioni rispetto ai regimi di regolamentazione nazionale, ai regimi ambientali, ai regimi del lavoro e così via. I diritti di proprietà intellettuale sono ora fissati a livello globale e questo va contro le popolazioni indigene. Possiamo dire che l’era neoliberale è allo stesso tempo in vigore e delegittimata.

FONTE: https://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/26813-nancy-fraser-i-veri-cannibali-sono-i-capitalisti.html


Giorgio Fazio è ricercatore in filosofia politica presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza. È autore delle monografie: Il tempo della secolarizzazione (Mimesis, 2015) e Ritorno a Francoforte (Castelvecchi, 2020). Ha curato molti volumi della nuova teoria critica tedesca (Habermas, Streeck, Jaeggi).
Nancy Fraser insegna Politica e Filosofia alla New School for Social Research di New York. Capitalismo cannibale (Laterza, 2023) è il suo ultimo libro.Tra le sue più recenti pubblicazioni in lingua italiana: Capitalismo. Una conversazione con Rahel Jaeggi (Meltemi 2019) eFemminismo per il 99%. Un manifesto (con Cinzia Arruzza e Tithi Bhattacharya, Laterza, 2019).

La traduzione è di Zoe Roncalli. Grazie a Maria De Pascale per aver sbobinato l’intervista.

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