di Tommaso Nencioni
Il dibattito suscitato dalla proposta di Mario Draghi di dotare l’Unione europea di un unico Ministro delle finanze – il ché costituirebbe un passo di per sé decisivo verso l’unione federale – pone una sfida anche alle forze di alternativa, e lo spazio di discussione aperto dal sito cambiailmondo.org (Crisi dell’Unione europea e sinistra, Alfiero Grandi e Governance europea: completare o rovesciare?, Roberto Musacchio – ndr) si rivela pertanto quanto mai prezioso. Perché il progetto neo-federale prenda una piega favorevole alle forze popolari, tuttavia, alcune necessità si imporrebbero. Ne enumero cinque: una politica monetaria a servizio del rilancio dell’occupazione, abbandonando il dogma ordoliberista della bassa inflazione, alla cui ombra si nascondono politiche classiste ed anti-popolari; una politica di piano che aiuti a superare lo iato nello sviluppo tra le metropoli e le periferie continentali, la quale a sua volta presuppone una forte legittimazione da parte delle istituzioni pubbliche comunitarie ad intervenire direttamente nell’economia; una politica che armonizzi i regimi fiscali e gli standard salariali e assistenziali dei paesi membri e ponga fine al dumping internazionale; infine, l’avvio di percorsi politici comuni da parte delle grandi famiglie politiche, che portino alla nascita di una cultura politica europea, in modo che eventuali elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo abbiano davvero un senso politico forte e la stessa Assemblea acquisti una nuova legittimità. Il problema non è il carattere massimalistico di questo programma. Anche le forze più radicali potrebbero accettare di arrivarci per gradi. Il problema è: questo programma, se pur graduale, è compatibile con l’Europa reale? Vi si può arrivare non in astratto, ma nelle condizioni reali nelle quali è cioè strutturato lo spazio politico europeo oggi? E soprattutto: quali spazi permangono, nella nuova Europa che si sta disegnando, per l’esercizio di una piena sovranità democratica? Quest’ultimo interrogativo si rivela come particolarmente pressante, nel momento in cui sul vecchio continente si sta realizzando l’antica utopia di Von Hayeck di un governo federale necessariamente sganciato dalla pressione popolare per rispondere solo alla cogenza del pieno dispiegarsi del libero mercato. Un carnevale liberista in cui la prospettiva polanyiana dell’azione politica come difesa del popolo dall’ordine mercatista si rovescia nella difesa dell’ordine mercatista dall’interferenza popolare.
La grande espropriazione e la costruzione dell’Europa reale
Nel corso degli anni Novanta del Novecento, mentre il processo di integrazione europea subiva una brusca accelerazione sia sul paino quantitativo (l’allargamento) che qualitativo (alienazione progressiva della sovranità nazionale da parte degli stati membri), il cosiddetto “modello sociale europeo” era assurto a mito fondativo dell’Unione. A fonte della fiochezza di pochi voci isolate, la grancassa dell’ideologia europeista insisteva sull’imminente avvento di un’età continentale contraddistinta dalla pace tra le nazioni, la libera circolazione di uomini, merci e capitali, la prosperità e l’inclusione sociale. Il modello ideale dell’Europa dei cosiddetti “padri fondatori” – tutti o quasi onesti e brillanti conservatori, va detto, per smontare il mito di una presunta “Europa socialdemocratica” in realtà mai esistita – veniva mitizzato ed ipostatizzato, sorvolando allegramente sulle ragioni storiche forse irripetibili che avevano tenuto a battesimo i “trenta gloriosi” e che stavano declinando già dalla metà degli anni Settanta, oltre che sulla distruzione di quel presunto modello in pieno svolgimento proprio mentre veniva elevato a meta ideale da raggiungere.
La crisi tuttora in corso è però intervenuta a disvelare il carattere reale dell’ideologia europeista, alla cui urgenza anche le sinistre di alternativa avevano fatto atto di riverenza. Anzi, la crisi è assurta ad elemento costituente di ultima istanza dell’Europa reale, in un gioco binario in cui la costituzione materiale dell’Europa sancisce la crisi come agente strutturale delle dinamiche continentali – e all’ombra della crisi si mette in moto il macchinario dell’espropriazione dei ceti subalterni – e al tempo stesso la crisi forza la costruzione del recinto dell’azione politica, al cui esterno si vaticinano solo macerie e populismo. La lotta politica “legittima” in Europa è la lotta per la gestione della crisi e della grande espropriazione; l’accrocchio centrista attorno a questo perno di legittimità serve per espellere dall’arena dell’agibilità politica le forze che si muovono contro la crisi e la grande espropriazione.
L’uso ripetuto che qui si fa del termine “espropriazione” non è casuale. David Harvey ha chiamato infatti “accumulazione per espropriazione” una precisa modalità di evoluzione delle proprie crisi da parte del capitalismo. Secondo la lettura di Harvey, l’epopea dell’accumulazione originaria descritta da Marx nel primo libro del Capitale non sarebbe un fenomeno dato una volta per tutte: il capitalismo necessiterebbe costitutivamente, per garantire la possibilità della propria sopravvivenza, che le condizioni dell’accumulazione originaria si ripropongano in continuazione per sfuggire alla stagnazione ed alla crisi. Devono continuare perpetuamente a sussistere le condizioni per una espansione orizzontale (nuovi territori) e verticale (nuove merci messe a valore) del capitalismo. Harvey chiama “accumulazione per espropriazione” la modalità che usa il capitalismo per ricreare quelle condizioni dell’accumulazione originaria. La storia della costruzione dell’Europa reale negli ultimi tempi appare allora, da questo punto di vista, come la storia dello stabilirsi sul vecchio continente di un modello di accumulazione “per espropriazione”.
Quali le caratteristiche dell’accumulazione originaria che si riscontrano anche nella modalità espropriativa? 1) la mercificazione di beni pubblici prima al di fuori del gioco del libero mercato (la terra nell’accumulazione primitiva, l’acqua ad esempio, o la salute o altri servizi oggi); la creazione di un esercito industriale di riserva (i contadini espulsi dalla terra di allora, i migranti o i giovani disoccupati o i lavoratori espulsi dai processi produttivi di oggi); la privatizzazione e la messa a valore di beni pubblici (ancora la terra nell’Inghilterra pre-rivoluzione industriale, gli asset strategici oggi); l’usura e la “servitù per debiti”, che in forme mutate si riaffaccia nel panorama sociale fin dentro il cuore dell’Occidente sviluppato; infine la colonizzazione e l’imperialismo. In questo regime, a prescindere dal grado di trans-nazionalizzazione dell’economia e degli attori imprenditoriali, gli Stati continuano a giocare un ruolo centrale. Si sviluppano nuove gerarchie territoriali, con i centri forti metropolitani che si fanno gestori privilegiati dell’accumulazione per espropriazione.
È facilmente intuibile come questo stesso meccanismo sia operante in Europa nell’età della crisi: l’istituzionalizzazione della crisi è stata accompagnata da un’abile campagna propagandistica tesa a presentare come “oggettive” le necessità dell’accumulazione per espropriazione e ad imporle come l’unico fulcro di legittimità attorno al quale stabilizzare la lotta politica sul continente. Una delle architravi sulle quali si è basata la costruzione del senso comune attorno alle necessità dell’espropriazione è stata la presunta scomparsa dello Stato-nazione come attore e al contempo “contenitore” politico. Così, mentre i centri forti dell’accumulazione – leggi in primis la Germania – attrezzavano la propria statualità per egemonizzare il processo, le periferie erano convinte ad abbandonare la “zavorra” della sovranità economica e democratica. Lo spazio egemonico tedesco si è organizzato attorno al dumping salariale interno, favorito dall’annessione della ex Germania democratica e dalle “riforme” del governo socialdemocratico di Schroeder, e al contempo sulla devastazione produttiva delle periferie, ottenuta da una parte tramite l’adeguamento dell’euro ai dogmi della Bundesbank, dall’altro tramite le misure imposte alle stesse periferie per uscire (presuntamente) dalla spirale debitoria. Lo spazio post-sovietico è stato così riconvertito a fucina di manufatti a basso valore aggiunto destinati ad essere rielaborati nella metropoli, ed in seguito essere esportati grazie ai prezzi mantenuti artificialmente bassi dal dumping salariale; mentre i paesi dell’area mediterranea sono stati impoveriti dalla dismissione degli apparati pubblici, la rivalutazione illogica della propria moneta e la distruzione del mercato di consumo interno dovuta alle misure austeritarie.
Per una ri-definizione dello Stato-nazione
Lo Stato moderno si presenta, ai suoi albori dell’età dell’assolutismo, come una sconfinata prigione per i ceti subalterni. La nobiltà terrorizzata dalle rivolte contadine delegava alla monarchia centrale i compiti della propria protezione e della terrificante repressione, ed in cambio le giura fedeltà e perpetua il proprio dominio di classe. In questo spazio che si viene progressivamente strutturando, la borghesia si trovava politicamente subordinata, ma vi riscontrava anche l’occasione storica per il proprio grande balzo in avanti. Tuttavia, già nel corso di svolgimento di quel laboratorio politico che fu la Rivoluzione francese, si potevano intravedere alcune prefigurazioni di scenari avvenire: lo Stato borghese, ancora in formazione, già era innervato dalle spinte dal basso che nei due secoli successivi ne avrebbero mutato in profondità le caratteristiche, ben al di là dei desiderata del blocco storico che lo stava tenendo a battesimo.
Nel corso del “lungo Novecento”, questo processo dialettico si spingerà ai limiti delle capacità di tenuta del sistema, all’interno dei singoli Stati come nelle relazioni tra i centri mondiali dell’accumulazione capitalistica e le periferie. Da un lato il nascere ed il consolidarsi del movimento operaio favorirà la ridefinizione della natura dello Stato, da strumento di accentramento di potere nelle mani delle classi dominanti, a spazio politico all’interno del quale quello stesso potere poteva essere conteso dalle classi subalterne. Dall’altro, con le rivoluzioni russa e cinese ed il processo di decolonizzazione, irromperanno entità statuali nuove — non previste dall’ordine statual-borghese Ottocentesco — destinate ad acquisire un crescente potere di interdizione nei confronti degli interessi della metropoli e delle esigenze dell’accumulazione capitalistica. Gli anni Settanta del Novecento rappresentano il culmine di questo processo: le conquiste sociali del movimento operaio arrivarono a mettere in crisi il capitalismo nel cuore stesso della sua accumulazione; mentre la sconfitta statunitense in Vietnam sancì l’affermazione definitiva delle potenzialità dello Stato post-coloniale. Una “tempesta perfetta”.
Dopo un periodo di incertezza e ripiegamento, segnato dall’intensificazione del processo di trans-nazionalizzazione del capitale e dalle prime modificazioni delle funzioni dello Stato-nazione, la metropoli capitalista rilanciava, ridefinendola, la portata della propria azione, approfittando di tre fattori tra loro fortemente interdipendenti: il crollo dell’Urss; la riscossa proprietaria nelle metropoli; la crisi di legittimità di alcuni gruppi dirigenti post-coloniali. Lo Stato-nazione cominciava a sganciarsi dalle funzioni «sociali» di cui si era dotato in risposta alla sfida del movimento operaio; mentre l’Europa industrializzata era investita da una crescente manovra di «esportazione della legittimità» dagli organismi partecipati dal popolo a quelli tecnocratici sovra-nazionali, cui venivano trasferite talune funzioni e prerogative dello Stato-nazione, con relative nuove gerarchie nella divisione continentale del lavoro. Contestualmente, si rafforzava la dimensione coercitiva dello Stato, in termini di controllo sociale e di egemonia. Col crollo del sistema internazionale della guerra fredda si inaugurava, nei rapporti col “terzo mondo”, una stagione ininterrotta di guerre e aggressioni: dall’Afghanistan alla ex-Jugoslavia, dalla Somalia all’Iraq, dalla Libia alla Siria, l’occidente interveniva sugli anelli deboli per disgregare il sistema di Stati sorto dal binomio rivoluzione/decolonizzazione. Al di là della retorica, non si assiste nessuna volontà di implementare la democrazia, né semplicemente di “ricostruire”: dopo le distruzioni ed i bombardamenti, le popolazioni vengono abbandonate al caos e alla disperazione, e ci si limita a militarizzare parziali enclaves attorno alle zone strategiche dal punto di vista geopolitico e dell’accaparramento delle risorse naturali.
In questo contesto, a meno che non si voglia perpetrare la subalternità ai centri forti dell’espropriazione, urge una ri-appropriazione e al contempo ri-definizione da parte delle forze di alternativa dello Stato-nazione, in una triplice direzione: come spazio di una ristabilita agibilità democratica; come leva per ribaltare il rapporto distorto tra politica e mercato; come attore per riequilibrare le esigenze dell’apparato produttivo continentale, e per questa via ricostruire una integrazione europea di carattere solidale. Si tratta di una operazione senz’altro rischiosa, ma necessaria per evitare la ristrutturazione del gioco politico lungo l’asse delle due destre, l’una chiamata a gestire l’espropriazione neoliberale, l’altra evocatrice di un nazionalismo chiuso ed escludente, a forti tinte razziste.
La ri-definizione dello Stato nazione in chiave popolare non deve essere concepita soltanto come una operazione meramente “tecnica” – dotare lo Stato di istanze di cui era stato espropriato – ma soprattutto politica, laddove per atto politico per eccellenza si intenda la creazione di un “popolo”, di un blocco storico capace di opporsi alla grande espropriazione e di prefigurare scenari di governo alternativi, non attendendo che i gruppi dirigenti tradizionali approfittino della crisi per ipotecare fino in fondo gli assetti egemonici avvenire, ma giocando di anticipo. Viviamo un’epoca di transizione tra quelli che Giovanni Arrighi ha chiamato “ordini egemonici” diversi, e storicamente, negli interstizi di questi passaggi di epoca, si aprono grandi possibilità di cambiamento. Le capacità di cooptazione dei gruppi dirigenti nei confronti dei ceti intermedi si indeboliscono a causa della straordinaria polarizzazione della ricchezza, mentre le classi subalterne intravedono improvvisamente spazi di liberazione inattesi. Allo stesso tempo, alle lotte all’interno del regime capitalistico si sommano, se si vuole contraddittoriamente, ma amalgamabili in un disegno di tipo progressivo, nuove lotte contro la pervasività dell’assetto mercatista ritenuto istintivamente inumano e foriero di nuove subordinazioni, proprio come ai tempi dell’accumulazione originaria (Thompson; Polanyi)
La ristrutturazione dello spazio democratico nazionale, sulla base della legittimità al suo interno delle domande conflittuali scatenate dalla grande espropriazione, può davvero offrire il terreno per la ricostruzione una più alta solidarietà continentale che si strutturi sulle macerie dell’Europa reale, a patto di saper costruire strumenti ed istanze di partecipazione politica rinnovati e adeguati alla portata della nuova sfida. La via per l’abbattimento dell’Europa gerarchica e la costruzione dell’Europa democratica non può che passare da qui.
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