di Stefano Fassina
In queste settimane si definisce il senso della vittoria di Syriza alle elezioni politiche del 25 gennaio scorso in Grecia: o il governo Tsipras può contribuire, insieme ai partner dell’euro-zona, a rianimare le democrazie europee attraverso un compromesso di svolta, oppure in Grecia si conferma l’impraticabilità della democrazia sostanziale e l’impossibilità della sinistra nel giogo mercantilista della moneta unica.
La scelta politica sul tavolo dell’Eurogruppo, nell’agenda del Consiglio dei capi di stato e di governo a Bruxelles e nei parlamenti delle capitali di alcuni paesi (tra cui la Germania) deve poggiare su dati di realtà. I governi europei, i parlamenti, i partiti, il dibattito sui media e le opinioni pubbliche devono aprirsi a un’operazione di verità. Avrebbero dovuto farlo subito dopo il risultato delle elezioni europee. In particolare, un’operazione verità l’avrebbe dovuta promuovere il governo italiano all’avvio della presidenza di turno a luglio scorso. Invece, si è cercato di minimizzare e tornare al business as usual. Un piano di investimenti largamente virtuale (“smoke and mirrors”, secondo l’europeista ortodosso Daniel Gros del CERP). Un’interpretazione flessibile delle regole di bilancio pubblico per disinnescare il fiscal compact, comunque inapplicabile ma raccontata come una grande conquista o una grande concessione.
Le verità da affrontare sono due. Innanzitutto, una amara verità specifica: i programmi della Troika hanno avuto come obiettivo prioritario il salvataggio dei creditori della Grecia, non l’aggiustamento dell’economia greca o, come ripete la propaganda dei primi della classe o dei penultimi, il finanziamento delle baby pensioni o degli stipendi dei fannulloni impiegati pubblici: il 90% del bailout è stato assorbito dalle banche, in larga misura tedesche e francesi, disinvolte prestatrici di finanziamenti destinati all’export dei campioni dell’eurozona.
Poi, un’agra verità generale: i programmi della Troika, forma articolata e estrema della linea di politica economica raccomandata dalla Commissione europea e approvata dal Consiglio europeo, sono viziati da un’esiziale contraddizione: la via alla crescita dell’economia e dell’occupazione attraverso la svalutazione interna, ossia mediante austerità e taglio dei redditi da lavoro, è impossibile in quanto generalizzata. È una via che può portare al pareggio o finanche al surplus della bilancia commerciale, ma soltanto al costo di drammatiche contrazioni del prodotto interno e dell’impennata, fino al default, del debito pubblico.
In sintesi, la Grecia dimostra in forma drammaticamente acuta l’insostenibilità della rotta mercantilista dell’eurozona. Senza dubbio, i problemi strutturali della Grecia pre-esistevano agli interventi della Troika. Ma la cura, ingoiata in sospensione di democrazia, ha aggravato la malattia. Ecco il punto.
Dev’essere la cura l’oggetto della discussione. I problemi posti dalla Grecia sono sistemici. Sono, come quelli pur meno intensi di altri cosiddetti “Paesi periferici”, l’altra faccia delle ripetute violazioni da parte della “virtuosa” Germania del limite ai surplus commerciali eccessivi fissato nel “six pack” (6% del Pil). E sono anche l’altra faccia del largamente e lungamente mancato raggiungimento da parte dell’”impeccabile” Bce dell’obiettivo statutario di inflazione (sotto, ma vicino al 2%).
Proprio perché la questione fondamentale posta dalla Grecia è il segno generale della cura, le principali soluzioni prospettate dal governo Tsipras per portare la Grecia fuori dal tunnel dell’involuzione democratica e economica hanno valore sistemico: una conferenza europea per ristrutturare debiti pubblici e privati, in un quadro di responsabilità condivisa tra debitori e creditori; un “New deal europeo” strutturato intorno a una strategia di investimenti per lo sviluppo sostenibile e per la rivitalizzazione della domanda aggregata; l’inversione a U lungo la strada di svalutazione del lavoro per far recuperare a uomini e donne forza negoziale, redditi e potere d’acquisto, oltre che status di cittadinanza democratica.
Invece, da chi ha il coltello dalla parte del manico, la trattativa per la riscrittura e l’estensione del Memorandum è stata avviata come se la Grecia fosse un malato riottoso a seguire scrupolosamente la cura giusta. Il popolo greco sbaglia. Sceglie un governo estremista, anti-establishment. Atene va ricondotta sulla retta via attraverso la chiusura dei rubinetti dei finanziamenti per far fronte alle scadenze con i creditori inflessibili. Insomma, il messaggio è chiaro: il voto democratico è stato una inevitabile perdita di tempo. Siamo nell’universo di TINA: there is no alternative. Nulla da decidere. Le elezioni sono un rito stanco. La politica è soltanto intrattenimento per gli elettori rabbiosi o rassegnati. Serve a dare una verniciata di legittimità alle scelte fatte da altri, gli Stati forti e le elites transnazionali del grande business, senza mandato e senza responsabilità democratica.
Sarebbe ora di un compromesso di svolta democratica e economica nell’eurozona. Il caso Grecia potrebbe essere un’opportunità per correggere la rotta del Titanic Europa ed evitare il naufragio della moneta unica. I forti dovrebbero imparare alla svelta la differenza tra comando e egemonia. La posta in gioco è davvero alta. Tuttavia, tutti i segnali indicano continuità. Qualche concessione lessicale. Qualche, pur utile, cambio nell’agenda delle riforme strutturali. Ma il negazionismo domina la scena. Il compromesso è al ribasso e lascia la grave malattia alla cura di avvelenamento.
Una parte della variegata famiglia socialista e democratica, da trent’anni subalterna alla cultura conservatrice, resiste all’ottusa rigidità teutonica: come nella direttiva della Commissione europea sulle regole di bilancio, considera una grande vittoria il riconoscimento nero su bianco della flessibilità prevista nelle pieghe del Memorandum. Si dimostra ancora una volta inadeguata a costruire un’offensiva per riaprire la partita sullo sviluppo sostenibile e il lavoro e salvare il progetto europeo.
A Madrid, il 21 Febbraio, i leader socialisti e democratici si incontrano e si confortano nella denuncia dell’austerità, precondizione per qualche decimo di punto di spazio fiscale in più da contrattare coi conservatori guidati dalla signora Merkel. Sono davvero sconfortanti, intrappolati a rimorchio dell’impianto del mercantilismo liberista. Bloccati dalle muraglie degli interessi nazionali e delle opinioni pubbliche interne.
È evidente che anche l’accoglimento della lista normalizzata di riforme strutturali presentata dal governo Tsipras lascerebbe la Grecia nel tunnel. Nel migliore dei casi, I greci comprerebbero tempo. È evidente dalla parabola greca che nell’eurozona non vi sono le condizioni politiche per la radicale correzione di rotta nella politica economica necessaria alla ripresa e al miglioramento delle condizioni del lavoro e, quindi, alla sopravvivenza della moneta unica. È evidente che la Grecia per salvarsi deve lasciare l’euro e svalutare.
Rimanere prigionieri della moneta unica, pilastro del mercantilismo liberista, per Syriza vorrebbe dire consumare rapidamente il capitale politico di fiducia ricevuto il 25 gennaio scorso. Vorrebbe dire accompagnare comunque la Grecia al naufragio e lasciare campi di macerie alle scorribande dei neonazisti di Alba Dorata.
È anche evidente che la parabola greca e delle sinistre greche prospetta un destino comune alle democrazie e alle sinistre dell’eurozona. La democrazia, la politica e la sinistra non hanno fiato nella camicia di forza liberista dell’euro. Nell’eurozona non c’è alternativa alla svalutazione del lavoro, al rattrappimento delle classi medie, al collasso della partecipazione democratica. Quindi, non c’è spazio per la sinistra. È possibile che nessun governo esprima “eroi della ritirata”, come Hans Magnus Enzesberger definisce Gorbaciov e gli altri boss del socialismo reale che guidarono la fine dell’impero sovietico senza spargimenti di sangue. È probabile che le condizioni politiche, oltre a impedire le correzioni di rotta necessarie alla sua sopravvivenza, impediscano anche il superamento cooperativo della moneta unica.
Purtroppo, le opinioni pubbliche sono diventate, a causa delle imposte sofferenze e delle nutrite paure, reciprocamente ostili, È possibile quindi che prevalga l’arroccamento delle classi dirigenti dei paesi in difficoltà intorno alla linea dei più forti. È possibile che governi miopi e media al seguito degli interessi più forti continuino a raccontare che, grazie all’ulteriore colpo alle condizioni del lavoro, la luce in fondo al tunnel incomincia a intravedersi. È possibile che uno scenario di rassegnata stagnazione sopravviva per un po’. Ma l’iceberg è sempre più vicino per l’euro, per la democrazia e per la sinistra.
La sinistra può evitare la deriva di svalutazione del lavoro e di svuotamento delle democrazie delle classi medie e, così, si può salvare e ritrovare senso storico soltanto se riesce a spezzare la gabbia dell’euro. Se si ricostruisce nazionale e popolare. Altrimenti è finta o fa testimonianza.
Fonte: http://ideecontroluce.it/
Ma perché dice le stesse cose del M5S? Cerca di metterci più complessità, ma ciò che vale per la Grecia vale anche per noi. Come dice Landini sempre pronto a lottare sulla virgola e poi votare contro quello che dice per “coerenza”. Mah!. Hanno ragione Syriza e Podemos, questi devono andare via o collocarsi definitivamente a destra con Renzi e Berlusconi e lasciarci perdere.
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Comunque questa storia che per fare politica di sinistra bisogna ritornare alla sovranita’ monetaria e nazionale mi pare un enorme abbaglio che pure e’ largamente diffuso a sinistra. Il problema della sinistra e’ secolare perche’ ha smesso di affermare il cuore del pensiero di sinistra ovvero l’uguaglianza. Se non hai la forza di trasmettere i tuoi ideali alla societa’ come pensi di riuscirci con un tecnicismo economico quale la moneta. L’euro e’ solo uno degli strumenti della repressione sociale. Ma il problema non si risolve eliminando uno strumento; altri ce ne saranno. Il problema e’ risvegliare la coscienza di chi subisce e mostrare che si puo’ avere un mondo migliore. Forse i tempi non sono maturi o non ci sono politici e intellettuali all’altezza dell’impresa.
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