Europa

Il voto in Francia e Germania

Gli effetti della guerra in Ucraina sulle elezioni Europee: Macron e Scholtz silurati

Alle elezioni europee Francia e Germania pagano il conto delle loro posizioni belliciste

di Michele Prospero (da l’Unità 11 Giugno 2024)

Una rivoluzione conservatrice è quella avvenuta nelle urne europee. Il cambiamento registrato lungo l’asse franco-tedesco ha ribaltato antichi equilibri mantenendo però inalterati i rapporti di forza complessivi nel Parlamento di Strasburgo. La coalizione tra popolari, socialisti e liberali conferma i numeri indispensabili per dare ancora le carte. Ma ciò che è accaduto in Germania, Francia (ed Austria) lascia un segno storico profondo, con l’affermazione dei simulacri delle ideologie del secolo breve. La guerra è stato uno degli elementi che ha maggiormente influito nel voto.

E però, più che una spinta esplicitamente pacifista, la quale non si è verificata, i risultati nei due principali paesi dell’UE hanno certificato una bocciatura “interna” dei governi: al di là del rifiuto delle fughe in avanti sull’Ucraina sbandierate dal presidente francese o dal ministro Pistorius, a pesare sono state le difficoltà economiche indotte dallo “Zeitenwende” tedesco (il doloroso distacco energetico dalla Russia), e le ricette della “economia di guerra” a ogni piè sospinto ventilata da Macron. Il ricordo del mitico viaggio in treno dei tre capi europei (Draghi, Scholz, Macron) diretti verso Kiev oggi riaffiora come l’immagine che meglio sintetizza la sconfitta dei socialisti e dei liberali.

Dapprima è stato Draghi a scendere dal vagone del potere. Con l’aiuto di Letta, e complice un atlantismo a forte impronta ideologica, nel 2022 ha fatto dell’Italia il primo paese europeo a consegnare lo scettro alla destra radicale. La lezione della caduta di Roma non ha insegnato proprio nulla a Parigi. Eppure, a guerra scoppiata, proprio Macron si era distinto per il ricorso ad un linguaggio più attento alle mediazioni e alle risorse diplomatiche. Diceva che sarebbe stato importante sostenere uno Stato invaso badando però a “non umiliare la Russia”.

L’Eliseo ha dimenticato in fretta le ragioni della politica e ha virato in maniera sin troppo vertiginosa verso la più marcata provocazione bellicista. Sfidato all’inizio dai gilet gialli e poi dai trattori nelle campagne, incalzato dai migranti nelle banlieue e inseguito dai pensionati ovunque, da ultimo Macron ha cercato la salvezza riciclandosi come inflessibile cavaliere di guerra. Incapace di lenire il disagio sociale, il presidente è diventato il simbolo di una impotenza arroccata al potere che predilige la esagerazione nelle relazioni internazionali come arma estrema di sopravvivenza.

L’invocazione di una escalation, che non escludeva l’invio di truppe francesi al fronte, non ha risolto i suoi problemi strutturali di consenso. Non ha convinto i francesi il chiacchiericcio, esibito da Macron insieme a Biden, di un’attualizzazione dello sbarco in Normandia, riscaldato quale metafora di un necessario urto con Mosca, la nuova incarnazione della barbarie nazista. Le rappresentazioni demoniache del nemico hanno acuito la sensazione della insostenibile leggerezza di una ubriacante bolla ideologica. Doppiato nei voti dalla destra lepenista, il campione transalpino della guerra per la democrazia affida le chiavi del potere proprio agli (ex?) amici di Putin.

Anche in Austria il governo è franato davanti alla consistente ascesa della destra populista di FPÖ, che mostra evidenti legami con le mitologie naziste. Ma è soprattutto in Germania che le conseguenze economiche e politiche della guerra hanno distrutto la tenuta della socialdemocrazia. Inadeguato ad una gestione coerente, il cancelliere Scholz ha ceduto di schianto.

Le sue originarie velleità di muoversi con autonomia, per non chiudere i vitali interscambi con Pechino e per difendere l’ossatura di una macchina industriale come quella tedesca dalla catastrofe di una recessione legata al conflitto in Ucraina, sono state mortificate dagli imperativi americani. Il medesimo declino, che si è abbattuto sulla SPD a causa di un leader percepito come irresoluto e arrendevole dinanzi ai comandi esterni ed interni, ha coinvolto anche gli alleati verdi, le cui reiterate accelerazioni militariste non hanno trovato un riscontro nelle schede.

Sulla scena elettorale è comparso una sorta di metapartito atlantista che ha riscosso alterne fortune. Le sue componenti socialista, liberale ed ecologista sono state decapitate senza alcuna remora in Francia e Germania perché ritenute responsabili dell’alta inflazione e giudicate troppo insensibili di fronte alle esigenze di una nuova governance multipolare, vista come la risposta più adatta alle criticità divampate nell’ordine mondiale. La famiglia popolare ha invece retto perché – ad esempio in Italia con Tajani – non ha ostentato il volto di uno scellerato interventismo ed è stata salutata come una garanzia di residua stabilità contro i molteplici agenti dissolutivi.

Le culture socialiste resistono soltanto in paesi come la Spagna e l’Italia, dove però è apparsa un’accentuata radicalizzazione nel segno della coppia destra-sinistra che, in nome della convergenza per affrontare l’emergenza democratica domestica impersonata da “Giorgia”, ha depotenziato la questione internazionale della pace. Sulla buona prova del PD ha inciso chiaramente la presenza nelle liste di sindaci e amministratori che costituiscono lo scheletro dell’unica parvenza di partito rimasta in Italia. È tutta qui la differenza rispetto a Meloni, che con un movimento personale trionfa raccogliendo da sola quasi tutte le preferenze.

La vittoria delle destre non risveglierà un protagonismo continentale né sconvolgerà a breve le politiche di un’Europa che resta guardinga in attesa delle presidenziali americane di novembre. Ad ogni modo, la frattura che la marcia delle destre radicali ha aperto nel cuore della vecchia Europa non può certo essere arginata accarezzando i riti bellici oppure eseguendo con scrupolo gli esercizi del rigore imposti dai sacerdoti dell’eterno Patto di Stabilità.

Considerata la sua gloriosa storia, la SPD precipitata al 14% dietro ai neonazisti di AfD ben riassume l’anno nero della sinistra europea. Se dal generale insuccesso di domenica non nasce una nuova sinistra in grado di scongiurare i rischi di una discesa nel keynesismo militare, nulla potrà frenare il crollo delle democrazie.

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