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Ucraina-Russia: negoziare adesso

Lettera aperta all’Europa di un gruppo di intellettuali (Archer, Brandt, Castellina, della Porta, Kanninen, Löwy, Migone, Patomäki, Pianta, Rovelli, Streeck) perché l’Ue inizi a intavolare negoziati di pace tra Russia e Ucraina. Il testo è stato tradotto in quattro lingue e pubblicato dal Corriere della Sera, da Frankfurter Rundshau e Freitag in Germania, da Ydin in Finlandia e in altri paesi.

L’estensione delle guerre crea pericoli senza precedenti per lo stato del mondo. Assicurare la pace e trovare modi per risolvere i conflitti armati è un dovere fondamentale dei governi. L’Europa ha la particolare responsabilità di iniziare a cercare i modi per porre fine alla guerra che si sta svolgendo all’interno della sua regione – la guerra tra Russia e Ucraina.

Dopo più di due anni di combattimenti, in seguito all’invasione russa, la guerra si trova in uno stallo prolungato, con il rischio di allargamento e approfondimento delle attività belliche.

Indipendentemente dagli obiettivi originari degli aggressori e dalla resistenza giustificata delle vittime, una valutazione razionale della situazione attuale porterebbe entrambe le parti a riconoscere che i loro obiettivi non possono essere raggiunti. È ora responsabilità dell’Europa contribuire a fermare la guerra e sviluppare le condizioni per una soluzione giusta.

Ogni possibile soluzione della guerra tra Ucraina e Russia inizia con l’apertura di un negoziato tra le due parti, direttamente o attraverso intermediari, per quanto riguarda il cessate il fuoco, la fornitura di armi, l’integrità territoriale o una soluzione pacifica duratura.

Tentativi di portare le due parti al tavolo dei negoziati sono stati effettuati in passato da terzi – in particolare la Turchia – ma senza risultati. Il 9 marzo 2024 Papa Francesco ha chiesto l’apertura dei negoziati. Ora, alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo del giugno 2024, abbiamo l’opportunità di mettere la necessità di terminare la guerra nell’agenda dell’Unione europea.

Con la guerra in Ucraina, i Paesi dell’UE hanno ampliato le loro attività in campo militare – ricerca, produzione, trasferimenti di armi, iniziative di difesa e sicurezza. I governi dell’UE sono stati sempre più coinvolti nel fornire all’Ucraina armi più potenti, intelligence e sostegno economico. Il rischio di un’escalation che porti a episodi di scontro tra la Russia e i Paesi europei della NATO è allarmante. La presenza di armi nucleari russe, statunitensi, francesi e britanniche in Europa aumenta drammaticamente il pericolo attuale.

L’UE e i governi europei si sono finora rifiutati di lavorare per una fine negoziata della guerra tra Ucraina e Russia. Nell’attuale dibattito per le elezioni europee, la questione dei negoziati e di un’iniziativa dell’UE per porre fine alla guerra dovrebbe essere inserita nell’agenda dei candidati, dei partiti politici e dei governi, dando seguito all’appassionato appello di Papa Francesco. Il prossimo Parlamento europeo dovrebbe convocare una conferenza esplorativa che coinvolga le due parti e avviare una discussione su un possibile ordine di pace e sicurezza in Europa dopo la guerra in Ucraina. Gli obiettivi di tali colloqui potrebbero essere ri-umanizzare le parti in conflitto, ricostruire la fiducia, proporre passi per ridurre le tensioni e la violenza, esplorare i modi per porre fine alla guerra. Le prospettive per il futuro devono includere la protezione dei diritti umani, le garanzie di sicurezza, la ricostruzione economica, la presa di distanza dal militarismo e dal nazionalismo estremo.Tali sforzi sarebbero accolti con favore dai circa sei milioni di ucraini e dal milione di russi che hanno lasciato i loro Paesi dall’inizio della guerra. Sarebbe importante che tali sforzi siano sostenuti da gruppi di cittadini ucraini e russi che vivono nei Paesi dell’UE. Organizzazioni della società civile europea di ogni tipo potrebbero partecipare attivamente – istituzioni religiose, organizzazioni sociali, gruppi di solidarietà e di pace, voci delle donne, gruppi giovanili, organizzazioni imprenditoriali, sindacati, reti scientifiche, enti culturali e sportivi, organizzazioni dei media, così come singoli artisti, scrittori, intellettuali. Vorremmo che durante la campagna elettorale per le elezioni europee siano organizzati eventi che invitano a “Negoziare adesso!”. Azioni di “diplomazia dal basso” potrebbero contribuire a creare le condizioni per tali negoziati, anche all’interno dell’Ucraina e della Russia.

Non è scritto da nessuna parte che la pace e la sicurezza comune siano una responsabilità soltanto dei governi. In fondo, sono le persone – in quanto cittadini ed elettori – che possono acconsentire alla guerra o sostenere la pace.

Luciana Castellina, già membro del Parlamento Europeo e del Parlamento Italiano

Colin Archer, già segretario generale dell’International Peace Bureau

Peter Brandt, professore emerito di Storia contemporanea, Fern-Universität Hagen

Donatella della Porta, professoressa di Scienze politiche, Scuola Normale Superiore, Firenze

Tapio Kanninen, già capo della pianificazione presso il Dipartimento degli Affari politici delle

Nazioni Unite

Michael Löwy, direttore emerito di ricerca nelle scienze sociali, CNRS, Francia

Gian Giacomo Migone, già presidente della Commissione Affari Esteri del Senato italiano

Heikki Patomäki, professore di Relazioni internazionali, Università di Helsinki

Mario Pianta, professore di Politica economica, Scuola Normale Superiore, Firenze

Carlo Rovelli, professore di Fisica, Università di Aix-Marseille, cofondatore della Global Peace

Dividend Initative

Wolfgang Streeck, professore emerito di Sociologia, Istituto Max Planck per la ricerca sociale,

Germania

13 maggio 2024

Questa lettera aperta è stata pubblicata dal Corriere della Sera del 22 maggio 2023, sul Frankfurter Rundshau e su Freitag in Germania, allegata su Ydin in Finlandia e in altri paesi .

FONTE: https://sbilanciamoci.info/ucraina-russia-negoziare-adesso/

“GUERRE”: Una radiografia della storia mentre cammina

di Luca Baiada (da Carmilla on-line)

Domenico Gallo, Guerre, Delta 3 Edizioni, Grottaminarda 2024, pp. 200, euro 16.

Una guerra che a volte è sembrata quasi ad armi pari, in Ucraina; una strage che vuole sembrare una guerra, a Gaza. Hanno qualcosa in comune? Costringono a riflettere, le due direzioni tematiche di questo studio in presa diretta, fatto di articoli sulla stampa, interventi in convegni e inediti.

Forte della preparazione giuridica – l’autore è stato un magistrato con funzioni presidenziali in Cassazione – e di attenzione ai dati, Domenico Gallo confronta i fatti con le esigenze della condizione umana e con norme rigorose. Sono le garanzie della legalità internazionale e del diritto penale, violate in nome della ragion di Stato, della lotta al terrorismo, della sicurezza, della difesa, dell’identità.

Per un quadro generale. George Kennan, teorico del contenimento del blocco socialista, sul «New York Times» a febbraio 1997, indicò la decisione di espandere la Nato come il più grave errore del dopo guerra fredda. Due anni dopo, nel 1999, la Nato abbandonò il carattere di alleanza difensiva:

Con la scelta che gli Usa hanno imposto alla Nato nel luglio del 1997, il treno della storia è stato deviato su un altro binario, verso un percorso che ci ha sempre più velocemente allontanato dall’orizzonte del 1989 e alla fine è arrivato al capolinea il 24 febbraio 2022, data che simbolicamente rappresenta l’evento opposto e contrario a quello del 9 novembre 1989.

Ci sono rilievi più specifici. Si cita Benjamin Abelow, Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina (Fazi 2023), commentando:

La sciagurata avventura militare di Putin, che ha varcato il Rubicone la mattina del 24 febbraio 2022, [costituisce] una risposta del tutto prevedibile, e perciò prevenibile, a una trentennale storia di provocazioni alla Russia, cominciate durante la dissoluzione dell’Unione sovietica e proseguite, in un crescendo inarrestabile, fino all’inizio del conflitto attuale.

L’ipocrisia di gruppi dirigenti contrapposti, e insieme attivi ai danni del popolo, è denunciata osservando che con la guerra le scelte decisive hanno motivi inconfessabili ma sono ammantate di «valori assoluti, tanto più intransigenti, quanto più farlocchi». Dal 2022, in concreto:

Se dal versante russo si legittima la guerra alzando la nobile bandiera della lotta al nazismo e si risveglia lo spirito patriottico richiamando gli immensi sacrifici umani sostenuti dall’Urss per sconfiggere Hitler, sull’altro versante l’aggressione all’Ucraina è un’aggressione alla democrazia e ai «valori dell’Occidente».

Il contrabbando culturale ha bisogno di personale specializzato, anche in ambito giuridico. Però, mentre ci sono giuristi al servizio della sopraffazione, c’è chi coltiva il diritto in funzione della pace:

«La guerra è un assassinio di massa», così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace through law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni.

Fa venire in mente una vignetta di Giuseppe Scalarini, il bravo disegnatore socialista, successiva alla Grande guerra. Compaiono tutti i mostri partoriti dal conflitto: carovita e profittatori, gioco e prostituzione, malattia mentale e cocaina, infine fascismo e asservimento dei lavoratori.

Diritto significa anche che la giustizia non vive di doppiezza: la vice presidente degli Usa Kamala Harris – osserva Gallo – chiede giustizia sui crimini russi, ma il suo paese non accetta processi ai suoi militari, per i crimini in Afghanistan e in Iraq, e perseguita Julian Assange per aver osato rivelarli.

Possiamo aggiungere che, quando si tratta di difendere la pace, la giustizia non deve temere condizionamenti. Un pacifista del 1915, opponendosi all’entrata in guerra dell’Italia, scrisse:

Noi non auguriamo e non desideriamo la vittoria di nessuno. Chiunque dei due grandi aggruppamenti dovesse vincere vi sarà un popolo vinto che preparerà la rivincita per domani e quindi nuove guerre (vedi la Francia del ’70, e la Bulgaria del ’13), e vi saranno vincitori che domineranno su città, su campagne di nazionalità differente, con la scusa della civiltà superiore, con la scusa del confine da arrotondare, ecc. Noi desideriamo piuttosto che tutti e due gli avversari si esauriscano, non vincano: allora soltanto forse questa potrebbe essere l’ultima guerra, per i suoi stessi orrori, per la sua stessa inutilità. Quindi, non abbiamo scrupoli sulla coscienza. Essi servirebbero soltanto a ungere le ruote: del militarismo, del nazionalismo, del clericalismo. Noi siamo partigiani; e ora più che mai, nella grande crisi, sentiamo il dovere d’irrigidirci nei nostri principî.

Sono parole di un giurista, di un politico, di un organizzatore sindacale ucciso a pugnalate: Giacomo Matteotti[1].

Proprio perché Guerre è il libro di un uomo di legge, la questione della consacrazione della Repubblica alla pace è ancorata a pilastri giuridici, oltre che storici:

La Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto Albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e principi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e della giustizia fra le nazioni) di grande spessore politico e morale. […] Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine «Italia», per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre.

L’autore sa il fatto suo: ha spiegato in un altro libro le manovre con cui nel 1915 l’Italia fu trascinata nel conflitto[2].

Guerre ricostruisce come l’articolo 11 della Costituzione, che contiene una norma di scopo e tre norme strumentali, è stato manipolato sin dal 1991, con la prima guerra del Golfo, separando il ripudio della guerra dalle altre norme; il ripudio, così netto nel testo, un po’ si è tentato di decostituzionalizzarlo, un po’ è stato aggirato con trucchi come chiamare la guerra «operazione di polizia internazionale». Possiamo dire, allora, che trascinare l’Italia in una guerra realizza un ripristino di prerogative autoritarie superate, quindi una spoliazione di sovranità. I sovranisti con l’elmetto sembrano legittimisti senza re ma sono semplicemente eversori. Infatti la situazione, ora, va vista nel quadro d’insieme:

Con l’avvento del nuovo governo quelle forze politiche che hanno vissuto la Costituzione come l’esito di una loro sconfitta storica, adesso hanno la possibilità di prendersi la rivincita e demolire i tratti distintivi della democrazia repubblicana. L’attacco si muove su tre fronti: «presidenzialismo», «riforma della giustizia» e «autonomia differenziata».

In linea con la Costituzione, sono valorizzati i tentativi di fermare il conflitto in Ucraina. A marzo 2022, in Turchia, era stato quasi raggiunto un accordo di pace. Però:

Vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli Usa e la Gran Bretagna, in quanto i principali fornitori di armi all’Ucraina. […] Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande «famiglia atlantica» evidentemente valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte.

C’è un paragone fra i «Pentagon Papers» del 1971 e le rivelazioni del «Washington Post» del 2023 sulla «controffensiva di primavera». A proposito di questo contrattacco: i militari ucraini sono stati addestrati in una base Usa in Germania; già il piano prevedeva per loro elevatissime perdite; poi la controffensiva non ha avuto successo e a quel punto la Nato ha accusato Kiev di essere casualty adverse. Il gergo astruso nasconde la cosa più umana: non voler morire. Viene spontaneo ricordare Caporetto: un’odiosa diceria attribuì le cause ai socialisti e alla vigliaccheria dei soldati; bugie che giustificarono le decimazioni, con Cadorna primo responsabile, e le condanne sommarie di cui si rese colpevole la giustizia militare.

Sul modo in cui il potere gioca a dadi col sangue degli altri, il libro è accorato:

Prima o poi le madri, i padri, i fratelli, le spose chiederanno conto a Zelensky e ai leaders occidentali della vita dei loro cari, sacrificata sull’altare della protervia degli Usa e della Nato. Siamo sicuri che prima o poi Stoltenberg sarà perseguitato da un incubo: vedrà comparire in sogno un esercito di morti che si rialzeranno dal fango delle trincee, con le bende sulle ferite e le divise ancora insanguinate e gli chiederanno con la voce flebile dei fantasmi: restituiteci la vita di cui ci avete derubato.

È così? L’autore ascolta la coscienza e pensa che tutti abbiano una voce interiore viva come la sua. Viene voglia di crederci, ma l’esercito di morti non sempre tocca l’anima. Per esempio.

Abel Gance fra i due conflitti mondiali realizzò un film, J’accuse, denunciando l’infamia della guerra; ne fece due versioni, una muta nel 1919, l’altra col sonoro; rimase inascoltato. Eppure invocava proprio i morti, ma non per nuovo sangue, come fa la retorica sacrificale, anzi: come messaggeri di pace e serenità. Nel film del 1919 un reduce, folle e veggente, fa tornare le ombre dei caduti e poi protegge il loro definitivo, benigno allontanamento. Solo allora una bambina, figlia di uno stupro tedesco su una francese, guida la sua mano per scrivere «j’accuse». Lo splendore del muto, con la musica di Robert Israel, fa di questa scena una pagina vertiginosa. La didascalia riassume: «Et l’enfant à son tour, réapprenait au poète à écrire le mot de sa vie». È arte o promessa? Di sicuro se un giorno, davvero, il popolo ucraino si renderà conto di come è stato usato, farà il suo bene e quello di tutti. Per il resto, l’esperienza del passato mostra la difficoltà di fare giustizia sull’operato degli alti responsabili di scelte sanguinarie.

La questione del terrorismo è presa in esame ad ampio raggio:

Le stragi indiscriminate compiute nel Sud di Israele dai miliziani di Hamas, possono trovare un precedente di pari barbarie solo nel massacro nel campo profughi di Sabra e Chatila eseguito il 16 settembre del 1982 dalle falangi libanesi in cui furono trucidate 3.500 persone innocenti, comprese donne e bambini. Questo per dire che il metodo terroristico elevato alla sua massima potenza non è l’elemento discriminante per qualificare i soggetti che lo praticano. In Medio Oriente il terrorismo non è appannaggio esclusivo di bande che si dedicano al terrore ispirate da fanatismi politici o religiosi, ma è praticato anche dagli Stati.

Più che elencare i metodi delle uccisioni, perdendosi nella pornografia della violenza, è importante guardare ai fini. Gli scopi del governo di Israele sono imperscrutabili, eppure un diplomatico israeliano ha dichiarato che l’obiettivo è distruggere un male assoluto, cioè Gaza:

La parola genocidio è troppo pesante per essere utilizzata a cuor leggero, anche perché sovente è strumentalizzata dalla politica e quindi banalizzata. Tuttavia, se l’obiettivo perseguito è quello della guerra per distruggere Gaza, identificata come il male assoluto, la condotta di Israele, anche in senso tecnico-giuridico, rientra nel concetto di «genocidio» come definito dalla Convenzione Onu del 9 dicembre 1948.

Il giurista ricostruisce i passaggi legali della questione e riflette:

Quando si parla di guerra al terrorismo o comunque si definisce come «guerra» la tempesta di fuoco che Israele ha scatenato contro Gaza, bisogna considerare che la morte di civili o combattenti non costituisce mai l’obiettivo della guerra, ma soltanto un prezzo da pagare per conseguire l’obiettivo politico che si vuole perseguire con la guerra. Invece, in questo caso la morte di civili e combattenti più che un costo sembra l’obiettivo della guerra.

Viene in luce un oggetto inquietante: la politica non più distinguibile dalla guerra. Le due cose sono in una frase celebre di Carl von Clausewitz, smitizzata da Michel Foucault: secondo il filosofo, in realtà la politica è guerra che continua con altri mezzi, questo principio precede Clausewitz ed è stato Clausewitz a rovesciarlo[3]. La posizione di Gallo, però, sembra avvicinarsi di più a un’altra, quella di Gaston Bouthoul, che scrive: «La vecchia illusione ancestrale, che Clausewitz ha eretto a teoria, permane tenace e bene ancorata negli animi; […] ma in realtà, la guerra è un fine che si traveste da mezzo»[4]. Chi ha ragione? Oggi i distinguo sono fragili; politica e guerra sono schiacciate una sull’altra; la pace è un elemento eventuale, un effetto collaterale, un rischio che si mette in conto o che si vuole prevenire. Appunto: sventare la pace.

La preoccupazione per la cultura e l’informazione è frutto di coerenza: per anni l’autore ha affiancato al suo lavoro la produzione saggistica e giornalistica che adesso prosegue. Ecco perché osserva che la prima guerra censurata è stata quella contro la Serbia:

Quando la televisione serba ha cercato di farci vedere qualcosa degli effetti prodotti dai bombardamenti, la Nato l’ha immediatamente tacitata con un bombardamento chirurgico che ha causato «solo» 16 morti. Quindi abbiamo potuto guardare a quel conflitto, senza inquietudine, come se si trattasse di un video-gioco.

Ora sappiamo che l’accettazione della violenza può assumere anche un’altra forma: la guerra fatta combattere agli altri. Se si affianca questo all’attacco all’informazione si arriva a una brutta conclusione: delega e disinformazione sono intercambiabili.

La propaganda accompagna la guerra, specie quella di logoramento, in una trincea dove il fuoco amico è anche quello della menzogna. Chi combatte con le armi oscilla fra diventare un assassino e un cadavere; ma neanche a chi non combatte è risparmiata la polarizzazione:

Come nella Prima guerra mondiale, centinaia di migliaia di vite verranno sacrificate per spostare un confine un po’ più avanti o più indietro. Siamo condannati a rivivere gli orrori di Verdun, come se non avessimo imparato nulla dalla storia. Ha senso tutto questo?

L’assurdità apparente è un effetto dell’ubbidienza e un suo strumento:

Come nella favola di Hans Christian Andersen, tutta la narrazione ipocrita della guerra necessaria per il bene dei popoli può crollare fragorosamente, appena un bambino si alzerà e griderà: il re è nudo.

Si legge che in Palestina, dopo duemila anni, c’è una nuova strage degli innocenti per mano di un nuovo Erode. Sarebbe facile obiettare quanto piacerebbe, ai palestinesi, se in questi mesi ne fossero morti circa trenta e non oltre; perché tale fu, probabilmente, la consistenza di quell’eccidio di ebrei. È più utile considerare che l’accostamento non va preso alla lettera ma serve a qualche riflessione. Erode vuole la morte di un bambino solo, quello che può cambiare la storia, ma non sa qual’è e ordina la strage sperando che il piccolo cada nel mucchio. A Gaza non si vuole uccidere un bambino in particolare; il crimine non è perimetrato; non c’è una fascia di età fuori della quale si è al sicuro. E poi, come detto, lo scopo non c’è o non è chiaro. Però una somiglianza sconcerta: allora come oggi l’attaccamento al potere spinge al massacro: si può temere di perdere un trono oppure un governo uscito dalle elezioni. E allora come oggi il massacro non è proporzionato a ciò che si teme: Erode non rischia di essere spodestato e, anzi, morirà prima che il suo bersaglio diventi adulto; Israele sembra trarre dalla situazione soltanto lacerazioni. Ma c’è altro.

Al momento di prendere decisioni sanguinarie, dopo duemila anni, la novità storica della democrazia moderna è irrilevante. Questo, è un orrore in più. Ci fa vedere meglio il nostro secolo rattrappito: non stiamo vivendo il tempo lineare delle religioni rivelate, con la sua attesa messianica, e neanche quello ciclico della classicità, con la sua rigogliosa grandezza; siamo chiusi in un tempo puntiforme e seriale, in cui succede tutto e non succede niente. Per questo una strage celebre, fondante, quella erodiana, che il cristianesimo pone nella storia della salvezza – quante pale d’altare, quanti bassorilievi, quanti affreschi sulla strage degli innocenti! – , può proiettare un’ombra ingigantita ma insignificante, improduttiva di senso, perché immersa nell’indifferenza o nei diversivi. L’assenza di prospettive è il doppiofondo della tragedia, lo stato sabbioso del sangue. «È la polvere, non il peccato, a separarci dal cielo», scrive Pier Paolo Pasolini.

Dal fondo dell’infanticidio si affacciano domande. Guerre, sui bambini palestinesi:

Quei fanciulli, divenuti un po’ più grandi, avrebbero avuto la tentazione di imbracciare il mitra per vendicare i loro fratellini, le loro madri, i loro padri uccisi dal fuoco israeliano. Uccidere i bimbi palestinesi in fasce, o ancora nelle incubatrici, in fondo costituisce una difesa preventiva contro il terrorismo.

Eppure, neanche con la loro morte è garantita la sicurezza di Israele: per quanto la strage sia vasta, sempre ci sono superstiti e mai dimenticano. Ma non è questo il punto. Forse la ricerca ossessiva del perché, da parte nostra, è a sua volta una trappola, in cui si cade proprio in quanto il sangue è al di là delle nostre capacità di comprensione: capire davvero significherebbe, sembra, attraversare una terra della morte oltre la quale o sei la vittima o sei il suo carnefice. È davvero così? Probabilmente no. Neanche chi muore e chi uccide, capisce.

La possibilità di trasferire tutta la popolazione di Gaza è stata presa in considerazione, tanto che un ministro di Israele ha immaginato un’«isola che non c’è», dove mettere i palestinesi. Vanno di moda progetti futuristici e speciali: certe tecnologie si devono applicare lontano, per proteggere il nido di chi le vuole come gabbia per gli altri.

A proposito di luoghi. In Ucraina e in Palestina il conflitto territoriale assume forme tanto diverse. In un paese enorme si scavano trincee contendendosi un territorio che potrebbe, con un altro sistema politico ed economico, nutrire in pace russi e ucraini. In un luogo piccolissimo si fanno o si progettano isole o moli artificiali per deportare, o solo per alimentare, persone strette come in un formicaio. Evidentemente le ingiustizie profonde sono simili, e sono fatte di disuguaglianza e sfruttamento coperti dal fanatismo, un male in cui prosperano i pescicani affaristi, soprattutto armaioli.

Nel volume c’è un tocco di poesia, con le canzoni. Ecco Luigi Tenco, Un giorno dopo l’altro, «i sogni sono ancora sogni e l’avvenire è ormai quasi passato», perché le promesse all’epoca della caduta del Muro di Berlino non sono state mantenute. Ma ecco anche i Giganti, Proposta, al tempo della guerra in Vietnam: «“Mettete dei fiori nei vostri cannoni” era scritto in un cartello sulla schiena di ragazzi…».

[1] Massimo L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), Donzelli, Roma 2023, p. 118, che cita Giacomo Matteotti, Scrupoli di coscienza, in «La Lotta», XVI, 8 maggio 1915, 19, p. 1, poi in Giacomo Matteotti, Socialismo e guerra, a cura di Stefano Caretti, Pisa University Press, Pisa 2013, p. 97.

[2] Domenico Gallo, Da sudditi a cittadini. Il percorso della democrazia, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2013, paragrafo L’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale: un colpo di Stato monarchico, pp. 41-45.

[3] Michel Foucault, «Bisogna difendere la società», Feltrinelli, Milano 1998 (tit. orig. «Il faut défendre la société», 1997), pp. 22 e 47.

[4] Gaston Bouthoul, L’infanticidio differito, Mondadori, 1972 (tit. orig. L’infanticide différé, 1970), p. 139.

FONTE: https://www.carmillaonline.com/2024/05/12/una-radiografia-della-storia-mentre-cammina/

Numeri della guerra, parole della pace

Intervento di Pier Giorgio Ardeni alla serata con Piergiorgio Odifreddi e Moni Ovadia su Numeri Proibiti: numeri della guerra parole della pace, Mercoledì 15 maggio 2024, Cinema Muovo Nosadella, Bologna

Le spese militari.

Nel mondo oggi si spendono 2.388 miliardi di dollari in armamenti (dati 2023 del SIPRI di Stoccolma), il che vuol dire più del Prodotto Interno Lordo della Russia, del Brasile o dell’Italia (l’ottava, la nona e la decima economia del mondo).

Di questo totale, gli USA spendono il 38.4%, la Cina il 12.4%, la Russia il 4.6% e l’insieme dei paesi NATO il 56%. Gli Stati Uniti spendono più di 8 volte quanto spende la Russia.

Fino al 2021, le cose erano appena un po’ diverse. Negli otto anni 2014-21 il mondo aveva speso 14.400 miliardi di dollari, di cui il 55.4% da parte dei paesi NATO, il 39% da parte degli USA e il 3.8% da parte della Russia. Nel 2021, l’anno prima dell’inizio della guerra in Ucraina, la Russia aveva speso appena 66 miliardi di dollari, appena l’8.2% degli USA, poco più di Gran Bretagna e Arabia Saudita, ma anche di Francia, Germania, Giappone e Corea del Sud e meno del doppio dell’Italia (36,2 miliardi).

La spesa russa era calata, dopo il picco del 2014 di 85 miliardi.

Nel 2022 e 2023 c’è stata un’impennata. La spesa militare russa ha raggiunto i 109 miliardi, quella americana i 916 e quella NATO i 1335 miliardi. Da notare, che la spesa Ucraina ha toccato i 65 miliardi di dollari, ponendo l’Ucraina all’8° posto, appena dietro alla Germania.

Tra i 15 paesi che spendono di più in spese militari, il primato nella spesa per abitante nel 2023 va a Israele (quasi 3mila dollari), seguito da USA (2.700 dollari) e Arabia Saudita (2.052 dollari). L’Ucraina segue al quarto posto con 1.762 dollari a testa.

In rapporto al PIL, l’Arabia Saudita primeggia (7.1%) seguita da Russia (5.9%) e Israele (5.3%), Polonia 3.8%) e USA (3.4%). Nel 2023 è l’Ucraina che è balzata in cima alla classifica con un rapporto pari al 36.7%, ma era già al 4.4% nel 2020. In figura, i primi 10 paesi con rapporto superiore al 2%.

L’Italia (1.61%) è davanti a Germania (1.52%) e Giappone (1.2%): tra i 15 è tra quelli che spendono meno in proporzione al PIL.

Gli eserciti…

In termini di personale attivo, tra militari di professione e riserve, i paesi con i più grossi eserciti sono Corea del Nord (7.769.000), Corea del Sud (6.712.500), Vietnam (5.522.000), India (5.137.500), Russia (3.708.000), Ucraina (2.122.000), Brasile (2.101.500), USA (2.073.000) e Taiwan (1.832.000). Gli eserciti più ampi sono quelli di Cina (2.185.000), India (1.456.000), USA, Corea del Nord (1.280.000) e Russia (1.154.000).

La Russia, quindi, è una grande potenza? È una piccola potenza militare in termini di spesa e una notevole potenza in termini di esercito.

La Russia ha un PIL (dati 2022) che è meno del 9% di quello USA, un ottavo di quello cinese e un settimo di quello europeo. Non è certo più una superpotenza economica. Il PIL pro-capite, poi, pone la Russia parecchi in basso ($ 15.271): è appena più alto di quello della Bulgaria – il paese della UE più povero ($ 13.974) – e di quello cinese ($ 12.720) e inferiore a quello rumeno ($ 15.787). Quel PIL pro-capite, poi, è appena 4 decimi di quello medio della UE. Il PIL pro-capite ucraino, poi è appena di $ 4.434, meno di un terzo di quello russo.

… e le guerre nel mondo

Vi sono sempre conflitti nel mondo. La lista è lunga (e dipende anche dalla definizione di conflitto).

In Palestina, il conflitto tra israeliani e palestinesi va avanti dal 1948 e ha causato circa 240.000 vittime fino al 7 ottobre 2023.

Dopo l’attacco di Hamas (1.200 morti), invasione di Gaza (36mila morti).

La guerra in Ucraina successiva all’invasione russa del 24 febbraio 2022 ha causato tra i 180 e i 220 mila morti. La guerra in Siria, di cui ormai non si parla più, continua – secondo le stime ha causato già più di 600mila morti, più centinaia di migliaia di sfollati e rifugiati.

A Myanmar (Birmania), ad esempio, il conflitto va avanti in varie forme dal 1948 e ha già causato un totale stimato di 180.000 vittime. La guerra in Sudan ha già provocato, secondo alcune stime, fino a 150mila vittime. In Yemen, dal 2014, ci sono già stati 380mila morti. Ci sono poi molti conflitti «a bassa intensità», come si dice, in Colombia, Somalia, Nigeria, Iraq, Afghanistan, Kivu (Congo), Sud Sudan, Kurdistan.

Un immagine che illustra i conflitti e numero di vittime tra il 2015 e il 2020 nel mondo (quelli più cruenti):

Nel 2015, 180mila morti, nel 2016 153mila, nel 2017 139.000, nel 2018 138mila, nel 2019 119.400 e nel 2020 122mila, per un totale di 851mila vittime in sei anni in 27 conflitti diversi.

Quale uso delle risorse pubbliche?

Si spende tanto per armarsi e fare le guerre. Per dar il senso delle proporzioni, il flusso totale di aiuti internazionali e assistenza allo sviluppo nel 2022 è stato di 243.5 miliardi di dollari. In altre parole, si è speso 10 volte tanto in spese militari.

Nel 2020 (l’anno più recente per cui ci sono dati), nel mondo si sono spesi quasi 5mila miliardi di dollari in istruzione (tutti i livelli) e circa 9mila miliardi in sanità.

I 6 paesi che più spendono in spese militari in rapporto al PIL non fanno molto meglio: per l’istruzione, gli USA destinano il 5.4%, Israele il 7.4%, l’Arabia Saudita il 5.1%, l’Ucraina il 5.7% (l’India il 4.6% e la Cina il 3.3%); per la sanità, gli USA danno il 18.8%, Israele l’8.3%, l’Arabia Saudita il 5.5%, l’Ucraina il 7.6%(la Cina il 5.6% e l’India il 3%).

Nel mondo, una buona parte della popolazione, ancora, non riceve alcuna istruzione o non ha neppure un’istruzione primaria (più del 40%).

Eppure, c’è tanto di cui ci si potrebbe e si dovrebbe preoccupare…

Povertà nel mondo

Nel 2024 ci sono ancora 700 milioni di persone (stima della Banca Mondiale) che vivono con meno di $ 2 e 15 centesimi al giorno, la cosiddetta soglia della povertà.

I poveri, negli ultimi anni si erano ridotti di molto ma le crisi del triennio (2020-2022) – pandemia, guerra in Ucraina – hanno peggiorato la situazione. La maggior parte dei poveri vive in Africa sub sahariana, ma ve ne sono anche in India e nel resto dell’Asia e in America Latina.

Negli ultimi anni la povertà era calata, dal 2020 è tornata a salire: basterebbero 165 milioni di dollari per tornare ai livelli del 2019!

Più di tre miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari e mezzo al giorno. 1.3 miliardi hanno meno di $ 1.25.

La povertà c’è anche in Europa: si stima che vi siano 95 milioni di persone «a rischio di povertà o esclusione sociale» (definizione UE), cioè il 21.6%. In Italia, sono il 24.4%! L’Italia ha il tasso di povertà più alto tra i Paesi dell’Europa occidentale, dopo la Spagna (26%).

I poveri “assoluti”, quelli sotto la soglia di povertà (€ 817 al mese), sono in Italia 5 milioni e 670mila (uno ogni 12 abitanti). Il 56% dei poveri vive in Meridione (dove ci sono meno del 40% degli abitanti).

Fame nel mondo.

La fame è ancora un problema! Si stima che vi siano 783 milioni di persone che soffrono la fame cronica e la sottonutrizione. In alcune zone del mondo la quota di persone che soffrono la fame cronica è altissima: 22.5% in Africa sub-sahariana, 15.6% nei paesi dell’Asia meridionale, 7.5% in Africa settentrionale.

La fame non è sempre legata alla povertà, ma alle disponibilità di cibo e all’agricoltura.

Migrazioni

Le guerre, la povertà e la fame sono all’origine delle migrazioni. Le ultime stime parlano di 281 milioni di migranti nel mondo (87 milioni in Europa, 6 milioni in Italia), il 3.5% della popolazione globale (erano il 2.8% nel 2000 e il 2.3% nel 1980 e la popolazione mondiale è cresciuta).

Tra questi, vi sono 35.3 milioni di rifugiati, sfollati o persone che sono dovute fuggire dalle loro case, tra cui 5.9 milioni di palestinesi. Tra i rifugiati, sono 5.4 milioni quelli che hanno chiesto asilo.

L’Europa ha chiuso le frontiere ma gli arrivi continuano.

Le frontiere chiuse non fermano chi emigra dal proprio paese, da chi fugge, da chi cerca condizioni migliori. Dal 2015 sono arrivati in Spagna, Italia, Grecia e Cipro, via mare, 2,5 milioni di persone. Tanti sono stati i morti in mare: 28mila.

Negli ultimi anni, dopo la crisi del 2015-16 dovuta alla guerra in Siria, il flusso era calato, ma da un paio di anni ha ricominciato a crescere (nella figura, gli arrivi mensili): 160mila nel 2022, 270mila nel 2023. Nel 2024 sono già arrivati 55.327 migranti e rifugiati (e 547 sono i morti accertati in mare).

Nel grafico gli arrivi mensili dal Mediterraneo a partire dal 2017.

È un mondo iniquo, ingiusto, sbilanciato.

Le ricchezze sono concentrate nelle mani di pochi, che vivono soprattutto a Occidente.

La distribuzione del reddito è sempre più iniqua

La distribuzione globale del reddito oggi. Guardiamo alla quota di reddito che afferisce al 10% più ricco, che è un indicatore di disuguaglianza.

Il 10% più ricco si prende il 52% del reddito complessivo. Al 50% meno ricco va appena l’8% del reddito complessivo. La classe media e medio alta ottiene il 39.5%. La ricchezza (il capitale, gli immobili, i titoli) è ancora più concentrata. Il reddito medio (globalmente) di un ricco è di € 87.000, quello di un non ricco (il 50% più basso nella scala) è di appena € 2.800 annui.

Il rapporto tra il reddito del 10% più ricco e quello del 50% meno ricco è aumentato nel corso degli ultimi due secoli, da 18 che era nel 1820 fino a raggiungere un massimo durante la Belle Époque, all’apice dell’imperialismo occidentale, quando fu pari a 41. Dopo la Prima guerra e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, il rapporto scese fino a 35 per tornare poi a salire (nel 1980 era vicino a 53). Oggi siamo tornati vicino ai livelli dell’Ancien Regime (38).

I ricchi sono ricchi come allora. La tendenza recente sembra essere al ribasso, ma solo perché sono entrati i nuovi ricchi dai paesi emergenti.

Negli ultimi 30 anni, i ricchi più ricchi hanno visto crescere il loro reddito molto più che ogni altra fascia sociale, in tutti i paesi. L’1% più ricco della popolazione ha visto crescere il suo reddito del 9% all’anno! La classe media e medio-alta del 3%, le classi popolari hanno visto un reddito costante.

E se si tassassero i redditi dei più ricchi?

Nel mondo ci sono 62 milioni di persone con un reddito maggiore di 1 milione di dollari all’anno. Se li si tassasse, con un aliquota progressiva aggiuntiva sopra il milione (dallo 0.6% per redditi fino a 10 milioni, fino al 3.2% per redditi sopra i 100 miliardi), si potrebbe ricavare un cespito pari all’1.6% del reddito globale, pari a diverse centinaia di milioni di dollari, per combattere la fame e la povertà e investire in istruzione, sanità e transizione ecologica. Dite che non ne varrebbe la pena?

Ci sono anche disuguaglianze che possiamo chiamare “climatiche”

Le emissioni di CO2 dipendono dai consumi (stile di vita) e dalle attività economiche (industria, produzione di energia, trasporti, agricoltura e allevamento). Calcolando le emissioni secondo i titolari di quei consumi e attività, si può calcolare quella che viene chiamata la impronta ecologicadi ciascun individuo. Chi emette di più, ovviamente, è anche più ricco perché coinvolto in più attività e con maggiori redditi.

In media, gli esseri umani abitanti del pianeta oggi emettono 6.6 tonnellate di CO2 all’anno. Non tutti, ovviamente, contribuiamo nello stesso modo, alcuni di più (molto di più), altri di meno.

Ordinando la popolazione per quantità di CO2 emessa, come si fa con il reddito, si viene a stabilire che il 10% di produttori di CO2 che producono di più sono responsabili del 48% delle emissioni totali. Il 50% dei produttori che producono di meno, sono invece responsabili del 12%: non siamo tutti responsabili allo stesso modo!

C’è poi un’altra disuguaglianza climatica: i paesi che più subiscono la crisi climatica – i paesi tropicali – sono quelli che meno contribuiscono alle emissioni.

Parole di pace

«Si chiudano gli arsenali, si riempiano i granai», disse Sandro Pertini.

  • Tagliare le spese militari, più spese per istruzione e sanità, veicolo di progresso – cercare il dialogo e la coesistenza: questo vuol dire volere la pace!
  • Intervenire sulla distribuzione del reddito: questo è volere l’eguaglianza!
  • Lottare contro povertà, fame e migrazione per necessità: questo vuol dire preoccuparsi della dignità!
  • Favorire la diminuzione di emissioni di CO2: questo è curarsi della terra!

UN SALUTO E GRAZIE

Maggio 17, 2024

Pier Giorgio Ardeni

FONTE: https://www.pgardeni-up.it/2024/05/17/numeri-della-guerra-parole-della-pace/

Avanza la guerra sucia delle élites occidentali

In parallelo con lo svolgimento delle due guerre in Ucraina e in Palestina si susseguono fatti sempre più inquietanti in diversi paesi europei e anche in Italia. Dalla repressione delle manifestazioni pro-Palestina in Germania e in Francia, all’arresto di singoli militanti in possesso della bandiera palestinese, al divieto di manifestare in ricordo del giorno della vittoria il 9 maggio a Berlino, a singole azioni di intimidazione di chi prova ad esporre liberamente il proprio pensiero considerato “divergente” e non in linea con la narrazione dei maggiori media (ma minoritaria nelle società), fino all’attentato terroristico subito dal premier slovacco Robert Fico. In Italia, l’aggressione e il pestaggio a Chef Rubio da parte di un gruppo di 5 persone nella notte romana per le sue affermazioni sul massacro in corso a Gaza e nei territori occupati. L’avvitamento autoritario a livello istituzionale e politico, la propaganda di guerra e per il riarmo in Europa, vanno di pari passo con la crescita di azioni squadriste di vario genere rivolte contro chi dissente. Pubblichiamo di seguito una analisi della situazione tratta dalla pagina facebook dell’Osservatorio italiano sul neoliberalismo.

I media stanno minimizzando la gravità e la portata di quello che è un vero e proprio attentato omicida di matrice estremista liberale nei confronti del premier slovacco Fico, con articoli che descrivono in modo negativo le sue posizioni politiche non liberali e non atlantiste (come a dire: “insomma, la violenza è brutta senza dubbio, però…”) e arrivando addirittura a insinuare che persino dietro ad un attentato alla vita di un politico accusato di essere ”filorusso” e “nemico dell’Occidente” ci sia Putin (e vabbè, ormai siamo in una fase in cui vale tutto e il contrario di tutto, e anche la propaganda vive alla giornata). I liberal-atlantisti ridacchiano ed esultano sguaiati negli ambienti virtuali “sicuri”: ieri hanno avuto anche la gioia dell’assalto squadrista nei confronti di Chef Rubio, che è stato riempito di botte (“se l’è meritato”). Sono tutti segnali, ulteriori, della lenta ma inesorabile involuzione antidemocratica ed autoritaria del mondo “liberale”, che quando si sente sotto attacco toglie la maschera civile e presentabile e ricorre alla violenza e allo strumento della paura per mantenere l’ordine del sistema di potere esistente.

Il clima è destinato a peggiorare: gli ambienti liberal-atlantisti odiano, nel vero e proprio senso della parola, coloro che sono critici del sistema di potere ”occidentale” (che poi sarebbe meglio chiamare: ”atlantista a guida Usa”), li considerano veri e proprio “nemici interni” e veicolano la retorica violenta e le pulsioni repressive in particolar modo verso i “comunisti antimperialisti” che sono quel soggetto politico che va dritto al cuore della questione politica e che tentano di rendere le persone consapevoli del filo rosso che collega lo sterminio dei palestinesi, la guerra in Ucraina e l‘escalation della tensione politica nel mondo. Questo filo rosso, in poche parole, è la volontà delle èlites occidentali (statunitense, europee, israeliana) di evitare lo scivolamento del mondo verso un multipolarismo in cui le potenze principali dei Brics, Russia e Cina, gli impediranno di comandare sul pianeta e diventare così sempre più ricche e potenti attraverso lo sfruttamento dei popoli di tutto il mondo. Non solo: Cina e Russia sono i massimi esponenti di un modello politico che, nella sua caratteristica più generale, è l’opposto di quello liberal-capitalistico occidentale: nel mondo dei Brics non è l’economia che domina sulla politica, e cioè non sono le aristocrazie capitalistiche che governano il sistema a fini di accentramento ulteriore della ricchezza e del potere, all’interno di un modello di relazioni internazionali in cui la sovranità nazionale è negata e c’è un centro imperialistico che domina su un insieme di vassalli; nei Brics l’economia, e quindi le èlites, sono integrate all’interno della politica e di finalità pubbliche generali, al vertice dei sistemi vi è la classe dirigente politica (fenomeno in cui è la Cina a spiccare, ovviamente) e le relazioni internazionali tra i Brics sono ispirate a criteri di bilateralità e rispetto delle sovranità nazionali.

Il filo rosso, insomma, è la crisi del sistema imperialistico a guida Usa e il pericolo che incombe sul sistema politico che permette ad una ristretta oligarchia economica di comandare sul 99% della popolazione: proprio verso chi vede positivamente, per varie ragioni, questa crisi, e agisce politicamente per accompagnarla e accelerla, la violenza repressiva degli ambienti liberal-atlantisti è destinata ad aumentare fino ad una soglia critica che rischia di far saltare in aria l’assetto politico-istituzionale delle democrazie occidentali.

Chi è critico dell’imperialismo atlantista a guida Usa e del modello liberal-capitalistico, nonché desideroso di vedere il crollo del potere delle oligarchie che oggi governano l’Occidente, è considerato dai liberali atlantisti come un vero e proprio “nemico interno”, un nemico della “civiltà occidentale”: la retorica bellica della guerra in Ucraina non è semplicemente strumentale a distruggere le possibilità di un dibattito razionale sui contenuti, è proprio funzionale a costruire la legittimità dell’esclusione sociale e politica e della repressione autoritaria verso il “nemico interno”. Ovviamente, chi è critico dell’imperialismo Usa, del modello liberal-capitalistico e delle èlite che lo guidano non è “nemico della civiltà occidentale”, ma è un oppositore politico di un sistema di potere e di un’ideologia politica ben precisa all’interno del contesto occidentale, in cui esisteva, esiste ed esisterà un’alternativa: chi “critica l’Occidente” lo fa non per distruggerlo, ma per riformarlo e salvarlo dall’involuzione antidemocratica, antiegualitaria e suprematista (negatrice della giustizia sul piano internazionale) causata dal capitalismo neoliberale e predatorio sostenuto dalla peggiore èlite della storia occidentale.

Siamo entrati in una fase storica e politica in cui, per cause sistemiche ed esterne ben più che politiche interne, il sistema di potere occidentale sta iniziando a scricchiolare: a livello politico si inizia a fare davvero sul serio, non è più uno scambio retorico e propagandistico in un’arena democratica tenuta in piedi per una questione di forma e di rispettabilità di un sistema che, quando è saldissimo sulle proprie fondamenta, può permettersi di far scannare dialetticamente la gente mentre nulla cambia e nessuna prospettiva altra appare all’orizzonte.

È questa la ragione profonda per cui la retorica violenta contro i “nemici interni”, gli atti di squadrismo contro singole persone (nel futuro prossimo, anche contro organizzazioni?) e l‘involuzione autoritaria del sistema politico sono destinate ad aumentare e incancrenirsi: il sistema di potere occidentale è realmente in crisi, per la prima volta dopo decenni, e si trova ad affrontare attori esterni che lo stanno mettendo seriamente in discussione e in pericolo e stanno agendo (con elevate probabilità di successo) verso una ristrutturazione del sistema internazionale dannosa per le oligarchie occidentali. Chi, tra i cittadini delle società occidentali, vede positività e giustizia in questa crisi del sistema imperialistico occidentale e del potere dell’èlite che lo guida, è considerato un vero e proprio nemico e un pericolo, da gestire con la propaganda mediatica fin quando è possibile, da reprimere con la violenza (pubblica e privata) quando sarà necessario. Stiamo entrando in una vera e propria fase ”fascista”, e cioè in una fase di autoprotezione autoritaria e violenta del sistema capitalistico e dei suo agenti, le èlites nazionali e i suoi scagnozzi diffusi nella società che sono disposti a tutto, pur di tenere in piedi un sistema sfruttatore e predatorio che gli consente di vivere “al di sopra delle possibilità”.

“Israele ha ucciso operatori umanitari a Gaza per fermarci”: il racconto di Oscar Camps (Open Arms) a Fanpage

Òscar Camps, fondatore e direttore della Ong Proactiva Open Arms, in un’intervista a Fanpage.it ripercorre il bombardamento con cui l’esercito israeliano ha ucciso sette operatori umanitari che stavano portando alimenti a Gaza. Ora i viaggi si sono fermati: “Non posso mettere a rischio la vita dei miei operatori, se non c’è un cessate il fuoco”.

A cura di Elena Marisol Brandolini

Òscar Camps è un soccorritore, attivista e imprenditore catalano, fondatore e direttore della Ong spagnola Proactiva Open Arms. Assieme alla Ong americana World Central Kitchen dello chef spagnolo José Andrés, Open Arms ha realizzato una missione a Gaza, aprendo per la prima volta, dopo trent’anni, un corridoio marittimo, per portare viveri alla popolazione palestinese. In questa occasione, sette attivisti della WCK sono rimasti uccisi sotto le bombe sganciate dagli israeliani, mentre portavano a termine l’operazione di sbarco dei viveri sulla Striscia. Ne parliamo con Camps, presso gli uffici della sua Ong, nel porto di Badalona.

Ci racconta la sua missione via mare a Gaza?

Pensavo che bisognasse fare qualche cosa per aiutare la popolazione palestinese, ma non sapevo come. Alla fine dello scorso novembre, mi telefonò José Andrés, con lui e la sua Ong, World Central Kitchen, avevamo fatto una missione in Ucraina al principio della guerra, partendo dalla Romania, attraversando il Mar Nero e risalendo il Danubio. Ed era andata molto bene, avevamo fatto quattro viaggi per portare viveri alla popolazione.

E nel caso di Gaza come avete operato?

Andrés voleva fare qualcosa anche a Gaza, mi disse che lì aveva 60 cucine con 300 persone che vi lavoravano per offrire pasti caldi. Era già intervenuto prima in occasione dell’attentato di Hamas e poi, quando sono cominciati i bombardamenti su Gaza, si era spostato sulla Striscia. Ma i camion di viveri non potevano entrare via terra e allora mi propose di allestire una via marittima. Cominciò quindi a muovere tuti i suoi contatti diplomatici, era stato consulente di Obama e ora lo è di Biden alla Casa Bianca, in materia alimentare; Andrés è una persona molto conosciuta, è stato presente in tutti i conflitti in giro per il mondo. Si mise quindi a cercare la maniera di ottenere i permessi per aprire una via marittima. Il 20 dicembre, il ministro degli Esteri israeliano annunciava l’apertura di un corridoio umanitario marittimo dal porto di Larnaca a Cipro fino a Gaza. Pensammo allora che avremmo potuto utilizzare quel corridoio per fare entrare i viveri nella Striscia e cominciammo a prepararci per il viaggio. Noi eravamo in Italia in quel momento, ci avevano bloccati da venti giorni a Crotone.

Cosa aveva mosso Israele ad annunciare l’apertura del corridoio?

Non era stato certo per i contatti di Andrés, capimmo solo più avanti come fosse andata. Appena ci lasciarono partire da Crotone, viaggiammo alla volta di Larnaca con tutti i viveri a bordo. Arrivati, chiedemmo del corridoio, parlammo col governo di Cipro, Andrés andò in Israele a incontrare il ministro degli Esteri. E ci rendemmo conto che era un corridoio finto, perché aveva un porto di uscita ma non di attracco a Gaza, ossia il corridoio non esisteva. E qui cominciò la prima difficoltà: dovevamo fare un progetto per sbarcare sulla spiaggia i viveri. Dal momento che noi siamo esperti di spiagge, abbiamo allestito un progetto di carico, trasporto e sbarco sulla spiaggia, che includeva la costruzione di un piccolo frangiflutti per poter portare una piattaforma flottante trainata da Open Arms con 200 tonnellate di viveri, accostarla al frangiflutti e da lì scaricare i viveri con i camion. Allora, mettemmo in campo tutta la pressione politica necessaria.

In che modo?

José Andrés andò in Giordania per incontrare il re, dicendogli che stavamo presentando un progetto per rendere effettivo il corridoio di Israele e chiedendone il sostegno. Andò a cercare l’appoggio anche degli Emirati Arabi e degli Stati Uniti, conseguendo una pressione diplomatica tale che Israele ci propose di presentargli il progetto. Ci furono molte riunioni, rimanemmo un mese a Larnaca per preparare tutto e alla fine Israele autorizzò la missione: d’altronde non potevano fare altrimenti, perché avevano annunciato il corridoio. Andrés, allora, inviò gente sua a Gaza per realizzare il frangiflutti, mentre Israele cercava di rendere difficile l’operazione con ispezioni continue, rallentando i tempi dei lavori. Magari pensavano che non ne saremmo stati capaci e invece ci riuscimmo.

Come si arriva all’attentato in cui vengono uccisi sette cooperanti della WCK?

Non appena Israele approva il progetto, Biden annuncia che una Ong e gli Stati Uniti avrebbero fatto un porto: rimaniamo molto sorpresi, perché il porto lo avevamo costruito noi… Allora, Ursula von del Leyen arriva a Cipro e, senza neppure passare a salutarci, informa in conferenza stampa che il corridoio umanitario europeo sarà presto in funzione… Ossia, tutti si ascrivono il merito dell’operazione. Facciamo il primo viaggio e rientriamo con l’idea di farne altri. A quel punto, gli Emirati Arabi affittano un’imbarcazione, la Jennifer, con 600 tonnellate di viveri per partecipare alla missione. Ovviamente, in una situazione del genere, conta molto l’elemento meteorologico, perché col mare cattivo diventa impossibile sbarcare i viveri. Appena il tempo si ristabilisce ci muoviamo tutti per il secondo viaggio, con l’Open Arms, la Jennifer e un altro rimorchiatore ad accompagnarci.

Prima però va rimesso a posto il frangiflutti che era stato danneggiato dal maltempo e Andrés invia dei lavoratori apposta a Gaza. Ricominciano le difficoltà messe in atto per rallentare i lavori da parte delle autorità israeliane, che ci avevano contingentato i tempi dell’operazione. Comunque ci riusciamo, la Jennifer rimane in acque internazionali e noi entriamo con la piattaforma a Gaza con i viveri, la svuotiamo e torniamo a ricominciare, per finire col trasportare tutte le tonnellate di cibo. Ossia, il corridoio comincia a essere aperto stabilmente, vi è la presenza di altri paesi, con una quantità di viveri consistente: a quel punto, credo che Israele si renda conto che è un processo che si va consolidando. Finiamo di scaricare i viveri e mentre ce ne stiamo andando verso le acque internazionali per un altro carico, cominciano a bombardare gli operatori della WCK che erano rimasti a terra, ammazzandoli tutti.

Avete assistito alla tragedia?

Non l’abbiamo vista ma l’abbiamo sentita, eravamo in mare, abbiamo sentito il bombardamento e le grida per radio, hanno sganciato tre bombe…

Hanno ucciso intenzionalmente?

Certo, hanno attaccato prima la terza macchina dove c’era il personale addetto alla sicurezza, erano state rispettate tutte le richieste avanzate dalla autorità israeliane, la rotta era stabilita, avevano i passaporti di tutti noi, tutto era in regola, eravamo in zona di controllo dell’esercito israeliano. Avrebbero potuto attaccare loro come noi, che eravamo molto vicini. Hanno bombardato la macchina come avrebbero potuto bombardare la nostra imbarcazione.

Perché lo hanno fatto?

Io credo che volessero fermare tutto. Aprire una via umanitaria per mare e non metterci un porto è già un modo per generare una falsa aspettativa, poi arrivano questi da Badalona e risolvono il tema del porto mancante, riescono a sbarcare i viveri nonostante le difficoltà una, due volte… Quando l’operazione si va consolidando, bombardano e finisce tutto.

Pensate di tornarci?

Non posso mettere a rischio la vita dei miei operatori, se non c’è un cessate il fuoco. Questa via non era la soluzione, era solo una via in più. La soluzione è un cessate il fuoco e la pace. E adesso è tutto fermo.

E la WCK?

Hanno fermato tutto. Loro a Gaza hanno dei collaboratori locali, il resto è tutto fuori ormai. E a Cipro io ho l’imbarcazione e ci sono ancora tonnellate di cibo non distribuito, dovremo vedere cosa farne.

Conosceva le persone che sono state uccise?

Sì, avevamo lavorato insieme. Eravamo a Cipro all’inizio per preparare tutto e poi avevamo viaggiato verso il frangiflutti. Quando erano a Gaza già non ci vedevamo più, ma ci parlavamo per telefono.

Le è parso sufficiente il cordoglio espresso dalle cancellerie europee e dagli Stati Uniti per la strage?

Non capisco come la presidente della Commissione possa venire a Larnaca ad annunziare che rappresentiamo la prova pilota del corridoio umanitario europeo e quando poi vengono uccisi gli operatori umanitari della prova pilota europea, si limiti a esprimere le condoglianze. Mi sembra un livello di ipocrisia così alto che mi defrauda.

Borrell ha detto che Israele sta utilizzando la fame come un’arma di guerra, che ne pensa?

Quello che sta succedendo a Gaza è un genocidio pensato per eliminare il massimo di gente possibile, davanti alla passività degli Stati. Non posso capacitarmi che si ammazzino oltre 30.000 persone, che si permetta in pieno secolo XXI a uno Stato di comportarsi così. Ci sono norme che il diritto internazionale impone anche alle guerre.

Che ne pensa del cessate il fuoco che si sta discutendo all’Onu?

Credo che la situazione richieda un intervento, se non si arriva al cessate il fuoco. Va fermata immediatamente. La Spagna vende armi a Israele, tutti esprimono cordoglio ma vendono armi, c’è un alto grado di cinismo e di ipocrisia nella classe politica mondiale. Incriminare Netanyahu per crimini di guerra non è un’assurdità, a lui interessa far crescere il conflitto per mantenersi nel potere. La stessa società israeliana sarebbe dovuta intervenire. È una vergogna globale.

continua su: https://www.fanpage.it/politica/israele-ha-ucciso-operatori-umanitari-a-gaza-per-fermarci-il-racconto-di-oscar-camps-open-arms-a-fanpage/
https://www.fanpage.it/

F-16, “bersagli legittimi” e NATO. Cosa ha detto (veramente) Vladimir Putin

di Marinella Mondaini (da l’AntiDiplomatico)

Il presidente russo Vladimir Putin ha visitato il 344esimo Centro Statale Addestramento e Riqualificazione del personale dell’aviazione militare del Ministero della Difesa russo e ancora una volta ha chiarito le motivazioni dell’Operazione Speciale Militare russa in Ucraina, che in Occidente vogliono far passare come “invasione” e “aggressione”, ha parlato della NATO e della sorte ineluttabile che aspetta gli F16 se verranno forniti all’Ucraina:

“Nel 2022, gli Stati Uniti hanno speso 811 miliardi di dollari e la Federazione Russa 72 miliardi. La differenza è evidente, più di dieci volte. Le spese per la Difesa degli Stati Uniti corrispondono a circa il 40% della spesa di tutto il mondo per la difesa globale,  la Russia il 3,5%. Perciò, tenendo presente questo rapporto, noi avremmo in mente di combattere con la NATO ?? Questo è semplicemente un delirio! Noi adesso durante l’Operazione Militare Speciale stiamo proteggendo la nostra gente che vive nei nostri territori storici. Se dopo il crollo dell’Unione Sovietica, si fossero costruite, come aveva proposto la Russia, delle relazioni di sicurezza completamente nuove in Europa, oggi non sarebbe successo niente di quello che sta succedendo, non ci sarebbe stata nessuna Operazione Speciale.

Loro avrebbero dovuto tenere conto dei nostri interessi nel campo della sicurezza, noi abbiamo cercato di parlarne, anno dopo anno, decenni dopo decenni,  ma le nostre richieste sono state sempre completamente ignorate e adesso loro sono arrivati direttamente ai nostri confini. Forse siamo noi che ci siamo mossi verso i confini di quei paesi che facevano parte del blocco Nato?? Noi ci siamo avvicinati alla Nato?? Noi abbiamo attraversato l’oceano fino al confine degli Stati Uniti?? Sono loro che si sono avvicinati a noi e hanno attraversato l’oceano per farlo! Quindi noi stiamo proteggendo il nostro popolo nei nostri territori storici.  Pertanto, ciò che stanno dicendo sul fatto che la Russia attaccherà l’Europa dopo l’Ucraina è una assurdità colossale. 

Ma loro dicono questo per intimidire la popolazione allo scopo di estorcerle denaro, hanno bisogno di giustificarsi e quindi spaventano la loro popolazione con la “minaccia russa”, mentre dettano al mondo intero i loro voleri. La Nato adesso si sta allargando nella regione dell’Asia-Pacifico, nel Medio Oriente, in altre regioni del mondo, stanno già entrando in America Latina. E tutto questo con vari pretesti, sotto diverse salse, è sempre la stessa cosa: stanno promuovendo la Nato e trascinando con sé i loro satelliti europei, quelli che a quanto pare credono che tutto ciò corrisponda ai loro interessi nazionali, hanno paura di una Russia grande e forte, ma sbagliano. Noi non abbiamo intenzioni aggressive nei confronti di questi Stati. Non avremmo mai fatto nulla in Ucraina se non ci fosse stato il colpo di Stato e se non avessero poi iniziato la guerra nel Donbass. Sono stati loro a scatenare la guerra nel 2014, dove hanno usato persino l’aviazione, tutti hanno visto le immagini di quando bombardavano Doneck dagli aerei, una città pacifica è stata bombardata con i missili dal cielo! Ma siete diventati pazzi?? Noi abbiamo comunque accettato di fare gli accordi di Minsk. Si è scoperto che ci hanno ingannato, l’hanno tirata lunga per otto anni alla fine e ci hanno costretto a passare a un’altra forma di protezione dei nostri interessi e della nostra gente. Perciò è una totale assurdità che la Russia attacchi gli altri paesi, la Polonia, gli Stati baltici, spaventano persino la popolazione della Repubblica ceca, ma queste sono semplicemente follie, è un altro modo di ingannare la propria popolazione, di estorcere soldi alla gente che porterà questo peso di spesa sulle proprie spalle”.

Poi a Putin viene rivolta questa domanda: “I paesi della NATO stanno pianificando di fornire i loro caccia all’Ucraina. I media stanno discutendo del fatto che gli aerei F-16 saranno utilizzati nella zona dell’Operazione Militare Speciale contro truppe e strutture russe, anche dal territorio dei paesi della NATO. Ci sarà permesso di colpire questi obiettivi negli aeroporti della NATO?  

La risposta del presidente russo: “se consegneranno gli F-16, pare anche che stiano addestrando i piloti, ciò non cambierà la situazione sul campo di battaglia. Noi distruggeremo i loro aerei, proprio come oggi distruggiamo i loro carri armati, i veicoli corazzati e altre attrezzature, compresi i sistemi di razzi a lancio multiplo. Naturalmente, se vengono utilizzati da aeroporti di paesi terzi, diventano per noi un obiettivo legittimo, non importa dove si trovino. E gli F-16 sono anche portatori di armi nucleari, certamente di questo terremo conto quando organizzeremo il lavoro di combattimento”.

Intanto le indagini sulla strage del Crocus City Hall proseguono. I primi risultati confermano pienamente la natura pianificata delle azioni dei terroristi, l’attenta preparazione e il sostegno finanziario da parte degli organizzatori del crimine. In base alle dichiarazioni rilasciate dai 4 terroristi detenuti, allo studio dei dispositivi tecnici che sono stati a loro sequestrati e all’analisi delle informazioni sulle transazioni finanziarie, sono state ottenute prove del loro legame con i nazionalisti ucraini.

L’indagine ha a disposizione dati confermati secondo cui gli autori dell’attacco terroristico hanno ricevuto ingenti somme di denaro e criptovalute dall’Ucraina, che sono state utilizzate per preparare la strage.Un altro sospettato coinvolto in un piano di finanziamento del terrorismo è stato identificato e arrestato. L’indagine chiederà al tribunale di scegliere una misura preventiva sotto forma di detenzione nei suoi confronti.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-f16_bersagli_legittimi_e_nato_cosa_ha_detto_veramente_vladimir_putin/40832_53855/

GAZA – Il Cessate il fuoco non è un optional: è un obbligo!

il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco “per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”. Le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamenti su Gaza e facilitare l’ingresso degli aiuti umanitari

di Domenico Gallo

Il 25 marzo dopo 170 giorni, durante i quali Israele ha messo a ferro e a fuoco la Striscia di Gaza provocando sofferenze inenarrabili alla sua sfortunata popolazione, finalmente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato una Risoluzione (n.2728) che chiede un immediato cessate il fuoco“per la durata del mese di Ramadan, che porti a un cessate il fuoco duraturo e sostenibile”, così come il ritorno in libertà immediato e senza condizioni degli ostaggi e un maggiore accesso degli aiuti umanitari a Gaza.

“Non c’è un momento da perdere – ha scritto la Segretaria Generale di Amnesty International Agnés Callamard- le autorità israeliane devono fermare immediatamente la loro brutale campagna di bombardamentisu Gazafacilitare l’ingresso degli aiutiumanitari.

Israele, Hamas e gli altri gruppi armati devono operare perché il cessate il fuoco duri. Gli ostaggi civili devono tornare immediatamente in libertà. Tutti i palestinesi arbitrariamente detenuti in Israele, compresi i civili arrestati a Gaza, devono essere a loro volta scarcerati”.

Le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sono immediatamente esecutive e vincolanti per tutti gli Stati, eccetto – evidentemente – Israele, che non accetta alcun vincolo fondato sulle regole del diritto. Infatti, Netanyahu non ha battuto ciglio ed ha celebrato le prime 24 ore di “cessate il fuoco” con bombardamenti che hanno provocato 76 morti e nei giorni successivi ha continuato come se niente fosse.

Israele, non ha avuto alcuna remora a continuare l’attacco agli ospedali ed a portare nuovamente la morte all’interno dell’Ospedale Al Shifa di Gaza City.

L’esercito israeliano, infatti, ha comunicato (il 28 marzo) di aver ucciso 200 persone in una settimana di operazioni dentro e attorno all’Ospedale.

Ovviamente si trattava di “terroristi”, anche se medici, pazienti, personale sanitario o giornalisti: il fatto stesso che siano stati uccisi è la prova regina della loro qualità di terroristi.

Malgrado i moniti dei suoi stessi alleati, Israele sta continuando i preparativi per l’assalto finale a Rafah, l’ultima città a confine con l’Egitto, dove sono concentrati 1.500.000 palestinesi sfollati dal centro e dal nord di Gaza.

Il rigetto dell’ordine di cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza ed il rifiuto -nei fatti- di adempiere alle misure dettate dalla Corte Internazionale di Giustizia del 26 gennai, ribadite con l’ordinanza emessa il 28 marzo, pongono lo Stato di Israele in una condizione veramente singolare nell’ordinamento internazionale. Si tratta dello Stato che realizza (e rivendica) la massima ribellione possibile alle regole che governano la vita della Comunità Internazionale, uno Stato fuorilegge, nel senso letterale del termine.

Eppure tutta la comunità degli Stati occidentali, si è mobilitata per “punire” la Russia, nell’adempimento di un imperativo indiscutibile, quello che Stoltenberg/Stranamore, ha definito: “un mondo fondato sulle regole.”

Che fine fa quest’imperativo del “mondo fondato sulle regole”, che giustifica la guerra da remoto che stiamo conducendo contro la Russia col sangue degli ucraini, di fronte all’aperta ribellione di Israele alle regole fondanti della Comunità internazionale che interdicono la violenza brutale ed il genocidio.?

Se Israele non si sente vincolato al rispetto del diritto internazionale, avendo sperimentato almeno 56 anni di violazione delle regole del diritto internazionale, specialmente il diritto umanitario, senza conseguenza alcuna, sono gli altri Stati che devono agire adottando delle misure adeguate, ai sensi del Cap. VII della Carta dell’ONU, per convincere/costringere Netanyahu a rispettare le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e i provvedimenti della Corte internazionale di Giustizia che ha ordinato ad Israele di smettere di uccidere le persone protette e di far soffrire la fame al gruppo etnico palestinese, a rischio di genocidio.

L’Unione europea ha adottato una caterva di sanzioni a danno della Russia per sanzionare la “violazione delle regole”. Ricordiamo sommessamente che in un documento del Parlamento Europeo (29/2/2024) si rinfaccia alla Russia di aver provocato la morte di 520 minori ucraini: il fatto che Israele, in soli cinque mesi di guerra abbia causato la morte di 13.000 minori a Gaza, non ha provocato alcun turbamento nelle bronzee facce dei leader politici italiani ed europei, mentre un silenzio di tomba è caduto di fronte all’aperta ribellione di Israele all’ordine di cessate il fuoco.

Si tratta di uno scandalo che non può essere tollerato oltre.

E’ questo il momento di agire, l’Unione Europea, e tutti i suoi Stati membri devono deliberare delle misure urgenti volte a far valere l’obbligo di cessare il fuoco. Per quanto riguarda l’Italia, la fornitura di armi ad Israele (per 2,1 milioni dall’inizio del conflitto) ed il definanziamento dell’UNRWA ci rendono complici delle stragi compiute dall’esercito israeliano e dello strangolamento della popolazione di Gaza attraverso la privazione dei beni essenziali per la vita.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2024/04/il-cessate-il-fuoco-non-e-un-optional-e-un-obbligo/

Conflitto a Gaza, “due responsabili”. Ucraina, “il coraggio della bandiera bianca”

Incontro con Papa Francesco, che ai microfoni della RSI e ospite a Cliché si esprime sulle due guerre in corso

Lorenzo Buccella (da Rtsi on line)

Papa Francesco è ospite a Cliché, magazine culturale di Lorenzo Buccella in onda sulla Radiotelevisione svizzera (RSI), in una puntata dedicata al bianco (mercoledì 20 marzo), il colore del bene, della luce, ma sul quale errori e sporcizia risaltano maggiormente. Fra le tante sporcizie c’è la guerra: il conflitto in Ucraina e quello in Palestina, sui quali il pontefice si è espresso ai nostri microfoni:

In Ucraina c’è chi chiede il coraggio della resa, della bandiera bianca. Ma altri dicono che così si legittimerebbe il più forte. Cosa pensa?

“È un’interpretazione. Ma credo che è più forte chi vede la situazione, chi pensa al popolo, chi ha il coraggio della bandiera bianca, di negoziare. E oggi si può negoziare con l’aiuto delle potenze internazionali. La parola negoziare è una parola coraggiosa. Quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, occorre avere il coraggio di negoziare. Hai vergogna, ma con quante morti finirà? Negoziare in tempo, cercare qualche paese che faccia da mediatore. Oggi, per esempio nella guerra in Ucraina, ci sono tanti che vogliono fare da mediatore. La Turchia, si è offerta per questo. E altri. Non abbiate vergogna di negoziare prima che la cosa sia peggiore”.

Anche lei stesso si è proposto per negoziare?

“Io sono qui, punto. Ho inviato una lettera agli ebrei di Israele, per riflettere su questa situazione. Il negoziato non è mai una resa. È il coraggio per non portare il paese al suicidio. Gli ucraini, con la storia che hanno, poveretti, gli ucraini al tempo di Stalin quanto hanno sofferto….”.

Come trovare una bussola per orientarsi su quanto sta accadendo fra Israele e Palestina?

“Dobbiamo andare avanti. Tutti i giorni alle sette del pomeriggio chiamo la parrocchia di Gaza. Seicento persone vivono lì e raccontano cosa vedono: è una guerra. E la guerra la fanno due, non uno. Gli irresponsabili sono questi due che fanno la guerra. Poi non c’è solo la guerra militare, c’è la “guerra-guerrigliera”, diciamo così, di Hamas per esempio, un movimento che non è un esercito. È una brutta cosa”.

La colomba è il simbolo della pace, è il segnale che la guerra è finita. Ma poi c’è il dopoguerra, che comunque è un altro momento in cui si devono ricucire tutte queste ferite…

“C’è un’immagine che a me viene sempre. In occasione di una commemorazione dovevo parlare della pace e liberare due colombe. La prima volta che l’ho fatto, subito un corvo presente in piazza San Pietro si è alzato, ha preso la colomba e l’ha portata via. È duro. E questo è un po’ quello che succede con la guerra. Tanta gente innocente non può crescere, tanti bambini non hanno futuro. Qui vengono spesso i bambini ucraini a salutarmi, vengono dalla guerra. Nessuno di loro sorride, non sanno sorridere. È un bambino che non sa sorridere sembra che non abbia futuro. Pensiamo a queste cose, per favore. La guerra sempre è una sconfitta, una sconfitta umana, non geografica”.

Come le rispondono i potenti della terra quando chiede loro la pace?

“C’è chi dice, è vero ma dobbiamo difenderci… E poi ti accorgi che hanno la fabbrica degli aerei per bombardare gli altri. Difenderci no, distruggere. Come finisce una guerra? Con morti, distruzioni, bambini senza genitori. Sempre c’è qualche situazione geografica o storica che provoca una guerra… Può essere una guerra che sembra giusta per motivi pratici. Ma dietro una guerra c’è l’industria delle armi, e questo significa soldi”.

Quale rapporto ha un Papa con l’errore?

“È forte, perché quanto più una persona ha potere corre il pericolo di non capire le scivolate che fa. È importante avere un rapporto autocritico con i propri errori, con le proprie scivolate. Quando una persona si sente sicura di sé stesso perché ha potere, perché sa muoversi nel mondo del lavoro, delle finanze, ha la tentazione di dimenticarsi che un giorno starà mendicando, mendicando giovinezza, mendicando salute, mendicando vita… è un po’ la tentazione dell’onnipotenza. E questa onnipotenza non è bianca. Tutti dobbiamo essere maturi nei nostri rapporti con gli errori che facciamo, perché tutti siamo peccatori”.

FONTE: https://www.rsi.ch/info/mondo/Conflitto-a-Gaza-%E2%80%9Cdue-responsabili%E2%80%9D.-Ucraina-%E2%80%9Cil-coraggio-della-bandiera-bianca%E2%80%9D–2091038.html

L’IDENTITÀ DELLO STATO DI ISRAELE

di Raniero La Valle

Nelle ricostruzioni dei 75 anni del conflitto israelo-palestinese, nessuno, neanche Guterres, ha ricordato il 2018, che invece spiega tutto. È l’anno in cui, il 19 luglio, lo Stato di Israele cambiò natura, e da Stato democratico, come era nel disegno del sionismo, è diventato per legge costituzionale uno “Stato Nazione del popolo ebraico”. Ciò spiega tutto, nel senso che se il principio fondativo che voleva congiungere democrazia ed ebraismo ammetteva l’esistenza dell’ “Altro”, fino a permettere il sogno dei “due popoli in due Stati”, il trapasso allo Stato Nazione del popolo ebreo riservava solo a questo il diritto all’autodeterminazione, cioè i diritti politici, e rendeva incompatibile l’esistenza di un secondo popolo; di qui i 700.000 coloni irradiati in 279 insediamenti oggi presenti nel Territori occupati abitati da 3 milioni di palestinesi. La novità era così riferita in una nostra newsletter del 24 luglio 2018 (“Sionismo senza democrazia?”), che qui vi trascriviamo così come l’abbiamo ritrovata:

“C’è una notizia che è stata quasi nascosta, perché è difficilissimo darla, non sanno come farla accettare dal senso comune, ma è di tale portata da marcare una cesura nella storia che stiamo vivendo. Lo Stato di Israele, almeno nella sua veste ufficiale e giuridica, cambia natura. Non è più lo Stato che unisce democrazia ed ebraicità, come era nel sogno del sionismo, ma è definito come uno Stato-Nazione ebraico, uno Stato del solo popolo ebreo nel quale gli altri, quale che sia il loro numero, sono neutralizzati nella loro dimensione politica, cioè nella loro esistenza reale: non partecipano di ciò che, in democrazia, si chiama autodeterminazione, la quale è riservata al solo popolo ebreo, il solo sovrano.

Gli altri sono naturalmente gli Arabi, e in modo specifico i Palestinesi, musulmani o cristiani che siano.
Infatti giovedì 19 luglio il Parlamento israeliano, la Knesset, ha approvato a stretta maggioranza con 62 voti favorevoli e 55 contrari una legge di rango costituzionale che era in gestazione da tempo, la quale fissa in questi termini perentori la natura dello Stato, che finora non si era voluta definire in alcuna Costituzione formale, in base all’idea che la vera Costituzione d’Israele è la Torah (la Scrittura). Per intenderci un primo articolo Cost. del tipo “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…” sarebbe stato impensabile per Israele; e infatti, dopo un primo approccio iniziale per il quale furono consultati i libri di Carl Schmitt, il tentativo costituzionale fu abbandonato, come ci ha raccontato a suo tempo Jacob Taubes. Però per il sionismo fondatore che aveva voluto bruciare i tempi dell’Attesa visto il ritardo del Messia, era fuori discussione che dovesse trattarsi di uno Stato democratico. Sicché almeno una correzione è stata introdotta all’ultimo momento nel testo della legge, su richiesta del Presidente di Israele Reuven Rivlin, che in una lettera ai parlamentari aveva espresso il timore che essa potesse “recare danno al popolo ebraico, agli Ebrei nel mondo e allo Stato di Israele”. È stata abolita infatti la norma che permetteva a qualsiasi comunità (ebrea ma anche non ebrea) di costituirsi come comunità identitaria chiusa, su base religiosa o nazionale, con esclusione dal proprio ambito di tutti gli altri (non-ebrei, non-drusi, non ortodossi, ecc), il che rischiava di creare in Israele una rete di apartheid segregati a pelle di leopardo; invece, caduta questa norma, la separazione che viene costituzionalizzata è posta a garanzia dei soli insediamenti ebraici, privando di diritti tutti gli altri.

Dal punto di vista politico la legge votata dalla Knesset liquida la causa palestinese, prelude all’annessione dei Territori Occupati, licenzia definitivamente l’opzione fatta propria da tutta la comunità internazionale dei due popoli in due Stati e rottama le risoluzioni dell’ONU sul conflitto in Palestina e sullo status di Gerusalemme. Quali poi saranno i fatti è tutto da vedere: la resistenza di Gaza, da sola, con i suoi patetici aquiloni accesi, come le pietre di David contro Golia, tiene in realtà aperta tutta la questione.

Ma c’è un livello ancora più profondo: che succede con l’ebraismo? La ragione per cui Israele si è decisa a questo passo non può essere banalizzata: l’andamento demografico in Medio Oriente è tale che ben presto in Israele gli Ebrei saranno una minoranza rispetto alla crescente popolazione arabo-palestinese; e siccome in democrazia contano i numeri e non si è fatta e neanche tentata la pace tra i due popoli, gli Ebrei di Israele temono di essere sopraffatti, e perciò la democrazia è un lusso che non possono mantenere. Nell’alternativa tra democrazia ed ebraismo, la scelta è per l’ebraismo. Purtroppo manca la lucidità di comprendere che è una falsa alternativa. Questa incompatibilità non è vera: ma per riconoscerlo ci vuole una conversione culturale e religiosa profonda.

Gli Ebrei (anche gli Ebrei non credenti dello Stato d’Israele) fondano sulla Scrittura la loro identità di popolo e di Stato. Ma quando questa tradizione si è formata (quando Dio ha “parlato” ad Abramo, Mosè, David e anche ai profeti) poteva concepirsi che l’identità di un popolo si preservasse nell’uniformità di un regno, nella inviolabilità dei confini, nella non contaminazione con gli stranieri, nella regola di purità, antidoto ad ogni meticciato.

Ma come preservare questa identità nelle condizioni della democrazia, del pluralismo, dell’eguaglianza, della globalizzazione, dello Stato di diritto, non poteva essere oggetto della rivelazione di allora, Dio non poteva dirlo al suo popolo. Un indizio fortissimo di come altrimenti essere popolo lo aveva fornito Gesù, ma quella Parola non fu riconosciuta da Israele come la Parola attesa. Dunque occorrerebbe che, come hanno fatto pur dolorosamente altre tradizioni, anche quella ebraica cercasse i nuovi sensi delle sue Scritture, che cosa davvero sarebbe la fedeltà alla Parola ricevuta letta non più nelle condizioni di ieri, con gli occhi rivolti alle tempeste passate, ma nelle condizioni di oggi, con gli uomini di oggi, con la meravigliosa multicolore umanità di oggi, con gli occhi rivolti al futuro da costruire, a questo Messia che ha sempre da venire, ma come pace non come apocalisse. È attraverso questo lavacro, non più nel sangue ma nell’acqua di nuovo condivisa della Palestina che Israele salverà se stesso, la propria identità, e la vita delle genti, non più stranieri.
La cosa non interessa solo gli Ebrei. Sarebbe così importante che i nostri gruppi di dialogo ebraico-cristiano, liberi dalle suggestioni dei richiami a un vecchio fondamentalismo biblico, cercassero con i fratelli Ebrei questi nuovi sensi e questa nuova comprensione della Parola liberatrice”.

Fin qui la nostra lettera di allora, con il link a cui essa rimandava, che era un articolo di Haaretz, “La legge che dice la verità su Israele”, e il testo della legge votata dalla Knesset. I “fatti” che in quei testi si temevano, che temeva lo stesso Reuven Rivlin, presidente di Israele, si sono verificati nella maniera più atroce, fino al 7 ottobre di Hamas e alla reazione di Israele a Gaza.

Ma il monito di questi eventi va ben oltre gli stretti protagonisti. Riguarda le grandi Potenze, a cominciare dall’America: rinunziate ai progetti di un potere esclusivo, di “competizioni strategiche” che nell’esclusione dell’altro non possono che portare al reciproco genocidio. Riguarda l’Europa: non coccolarti la guerra che hai in casa, che tanto ti piace per debellare la Russia, la guerra civile europea è già in nuce la guerra mondiale. Riguarda le religioni, di che cosa devono procurare la “salvezza” se non dell’anima del mondo? Riguarda il dialogo ebraico-cristiano: non è solo questione di parlarsi e abbracciarsi tra “fratelli maggiori e minori”, è questione di guardare in fondo a sé stessi, è un appello alla conversione.

Nel sito pubblichiamo il testo citato di Hareetz, con il testo della legge costituzionale israeliana un articolo di Umberto Baldocchi “Guerra assoluta e mutazione antropologica” e un manifesto di Pane Pace Lavoro di Reggio Emilia.

Costituente Terra (Raniero La Valle)

FONTE: https://a4kqk.r.a.d.sendibm1.com/mk/cl/f/sh/SMK1E8tHeGSV5WppvEMtcUMvt8pZ/TF47mdcEwsKy

Chi si crede “padrone del mondo” è fuori di testa

di Dante Barontini (da Contropiano)

Se c’è un rimprovero da fare al segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, riguardo al suo discorso di ieri, è quello di aver detto alcune banalità. Semplici constatazioni di una realtà esistente da decenni, ma che hanno fatto saltare sulla sedia come tarantolati l’ambasciatore israeliano Gilad Erdan e soprattutto il suo capo, il ministro degli esteri Eli Cohen.

Potete leggere il discorso completo di Guterres alla fine di questo articolo. Qui ci limitiamo a indicare i passaggi salienti che hanno fatto esplodere il fronte degli stragisti internazionali, portatori di una “narrazione” che il resto del mondo – la stragrande maggioranza degli Stati e della popolazione – proprio non può più tollerare.

Guterres, come ogni titolare di “poltrone” di prima fila in organismi statutariamente super partes non è affatto un estremista, men che meno un “antisemita”.

Portoghese, “socialista” nel senso (vuoto) contemporaneo, è stato presidente del consiglio del suo paese, poi presidente del Consiglio Europeo che ha approvato l’Agenda di Lisbona (una strategia di “riforme economiche” che hanno distrutto il welfare europeo e l’istruzione nei paesi dove sono state adottate), poi Alto Commissario Onu per i rifugiati, e infine Segretario Generale.

Un “sughero”, come si dice in gergo, capace di affrontare mille tempeste senza mai affondare, grazie a una capacità di compromesso certo poco commendevole ma altamente redditizia per la propria carriera.

Ma proprio questa capacità di compromesso lo ha obbligato a tener conto – nell’affrontare la guerra in corso sopra Gaza e dopo il “diluvio di Al Aqsa” – di tutte le posizioni esistenti sul pianeta, e non solo di quelle Usa-Israele (come si fa ad ogni ora sui “nostri” media mainstream).

E dunque a tirar fuori le formule che noi definiamo “banalità”, anche se ovviamente sono particolarmente urticanti per i sionisti e “l’area euro-atlantica”.

Com’era inevitabile, dovendo dare un colpo al cerchio e un altro alla botte, ha iniziato con la condanna dell’offensiva di Hamas.

In un momento cruciale come questo, è fondamentale essere chiari sui principi, a partire da quello fondamentale del rispetto e della protezione dei civili. Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele.

Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili – o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni. Noto con rispetto la presenza tra noi dei membri delle loro famiglie.

Se, giustamente, si fissa come principio “il rispetto dei civili”, ne consegue che ogni strage di civili deve essere condannata in toto allo stesso modo. Indipendentemente da chi ne provoca una (o più), e a prescindere dai mezzi usati (semi-artigianali o altamente tecnologici).

Il secondo principio obbligatorio da fissare in una sede “super partes” è ovviamente “il contesto” in cui esplode un conflitto e “la storia” alle spalle dei “fatto contingente”. Una guerra, una strage, un conflitto, insomma, non è un asteroide che ci cade sulla testa ma il frutto avvelenato di quel che è avvenuto in precedenza.

Stiamo illustrando criteri semplici, di quelli che si insegnano alle medie inferiori, non di alta filosofia politica. Uno studente che non li capisse, o provasse a negarli, sarebbe giustamente bocciato.

Nel presentare in modo concreto anche questo secondo principio Guterres ha dovuto necessariamente pronunciare anche le frasi che gli hanno attirato addosso l’odio dell’establishment occidentale al completo, a partire da Israele.

La Palestina nel 1940

È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite.

Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese.

Anche la guerra ha delle regole.

C’è qualcuno – che non sia israeliano o in malafede – che possa negare che i palestinesi abbiano subito per 75 anni (dalla fondazione dello stato di Israele) tutte quelle ingiustizie, persecuzioni, deportazioni ed anche molto altro (omicidi mirati, torture, “detenzioni amministrative” senza processo, anche di bambini, ecc)?

Sono fatti. Comprovati, registrati in video, foto, documenti, testimonianze. Riconosciuti da Stati, storici, politici, ricercatori. Anche occidentali, persino israeliani…

Una banalità ripeterlo. Ma necessaria, in un consesso ufficialmente “terzo”.

Tanto è bastato a farne chiedere le dimissioni da parte israeliana (e solo da loro). Con espressioni inequivocabili su quale sia la mentalità imperante nel governo Netanyahu: “Signor segretario generale, in che mondo vive?” ha gridato Cohen.

Ho sentito le richieste di una ‘risposta proporzionata’ – ha poi aggiunto – e la risposta proporzionata al brutale massacro del 7 ottobre è la distruzione totale di Hamas“.

E l’ambasciatore israeliano all’Onu, Gilad Erdan: “Il segretario generale dell’Onu, che dimostra comprensione per la campagna di uccisioni di massa di bambini, donne e anziani non è adatto a guidare le Nazioni unite. Chiedo si dimetta immediatamente“.

A quell’ora Jens Stoltenberg, ossequiente segretario generale della Nato, stava parlando (in Europa) e non ha fatto in tempo a riscrivere il suo discorso, altrimenti non si sarebbe arrischiato a finire sotto la stessa frusta.

Anche lui, infatti, come Guterres e altri leader occidentali, ha cercato di porre un limite alla “risposta” che Tel Aviv sta praticando: “Israele ha il diritto di difendersi ma deve farlo in linea con il diritto internazionale e la protezione dei civili è cruciale.”

Non che Stoltenberg sia rinsavito all’improvviso (è il “falco” meno raziocinante, sul fronte del sostegno all’Ucraina). Ma deve aver fiutato la dimensione esplosiva dei problemi internazionali se Netanyahu passerà la “linea rossa” del tollerabile per il resto del mondo.

E immediatamente, stamattina, è scoppiata la più devastante “grana strategica” proprio all’interno della Nato. Il presidente turco Erdogan – un furioso massacratore dei curdi e dell’opposizione interna – ha rotto il fronte dell’alleanza militare occidentale: “I militanti di Hamas sono dei “liberatori” che combattono per la loro terra e “non dei terroristi”, come riporta Al Arabiya.

Circa la metà di coloro che sono stati uccisi negli attacchi israeliani su Gaza sono bambini, persino questo dato dimostra che l’obiettivo è un’atrocità, per commettere crimini contro l’umanità premeditati”.

Non abbiamo problemi con lo Stato di Israele ma non abbiamo mai approvato le atrocità commesse da Israele e il suo modo di agire, simile a un’organizzazione più che uno Stato”, ha aggiunto Erdogan. Discorso fatto camminando sulle uova, districandosi tra alleanze esterne con gli Usa e un sentiment interno di massa decisamente a favore del campo opposto, a Gaza.

Ma tornando per un attimo all’accoppiata ambasciatore/ministri di Israele all’Onu, un paio di cose dimostrano senza se e senza ma che in queste teste il “doppio standard” è vissuto come un diritto a fare sempre quel che si vuole o conviene.

Altrimenti non si potrebbe neanche pensare di dire che Hamas conduce una “ campagna di uccisioni di massa di bambini, donne e anziani” mentre la propria aviazione ultramoderna, in questi quindici giorni, ha distrutto metà delle case di Gaza uccidendo – dati provvisori, visto che molti corpi sono rimasti sotto le macerie – quasi 6.000 palestinesi, di cui oltre un terzo bambini al di sotto dei dodici anni (la popolazione di Gaza, al 40%, rientra in questa fascia di età).

Gli israeliani hanno contato 120 bambini uccisi nell’attacco di Hamas. E certamente la morte di ognuno di loro è ingiustificabile. Ma perché 2.000 bambini palestinesi dovrebbero invece essere contabilizzati come parte (provvisoriamente) della “risposta proporzionata”? Siamo già quasi a 20 contro uno. Roba da far impallidire Kappler.

Un criterio generale è insomma valido per tutti. Altrimenti c’è solo il “diritto alla vendetta”, che naturalmente non ha confini né limiti, se non l’autosoddisfazione del “vendicatore”.

E non serve neanche essere studiosi dell’Antico Testamento per sapere che ogni vendetta ne chiama altre, all’infinito, un tempo dopo l’altro.

Che è poi la storia – “il contesto” e “i precedenti” – di cui gli israeliani di destra (Netanyahu & co.) e tutto l’establishment euro-atlantico non vogliono neanche sentir nominare.

“Tutto” andrebbe limitato all’”attacco terroristico di Hamas”, trattato come un “atto ingiustificato e non provocato”. 75 anni di guerre, di stragi, deportazioni, non contano nulla. Un branco di migliaia folli si sarebbe svegliato una mattina e, imbevuti di integralismo religioso e odio antisemita, si sarebbero avventati su pacifici israeliani occupati nel loro normale tran tran, in un giorno di festa. Sembra di sentire Gramellini…

Molto comodo, retoricamente. E molto falso. Anche perché i palestinesi sono semiti e sanno di esserlo. Ma anche perché pure lo Stato di Israele è per legge uno “stato confessionale”, ovvero uno “stato ebraico” e non laico. Gli “altri” possono essere tollerati, se utili e sottomessi, ma non saranno mai dei “pari” (si chiama apartheid…).

Normali tecniche di “disumanizzazione del nemico” di turno, certo. Ma se i rappresentanti ufficiali di un governo (ministro degli esteri e ambasciatore) arrivano a pretendere che queste tecniche siano l’unica “verità” cui il mondo si dovrebbe attenere, allora siamo ben oltre le colonne d’Ercole del suprematismo razzial-religioso.

C’è il gruppo dirigente di uno Stato in fondo minore (10 milioni di abitanti) che, essendo spalleggiato e protetto da sempre dalla superpotenza Usa, è arrivato a sentirsi “padrone del mondo”.

Ma non metterà uno scolapasta in testa mentre si avvia sul viale del tramonto o del ricovero. Chi crede di avere gott mit uns è sempre pericoloso. Per sé e per il mondo.

*****

Il discorso completo di Antonio Guterres all’Onu

La situazione in Medio Oriente si fa di ora in ora più terribile. La guerra a Gaza infuria e rischia di estendersi a tutta la regione. Le divisioni stanno spaccando le società. Le tensioni minacciano di esplodere.

In un momento cruciale come questo, è fondamentale essere chiari sui principi, a partire da quello fondamentale del rispetto e della protezione dei civili. Ho condannato in modo inequivocabile gli orribili e inauditi atti di terrore compiuti da Hamas il 7 ottobre in Israele.

Nulla può giustificare l’uccisione, il ferimento e il rapimento deliberato di civili – o il lancio di razzi contro obiettivi civili. Tutti gli ostaggi devono essere trattati umanamente e rilasciati immediatamente e senza condizioni. Noto con rispetto la presenza tra noi dei membri delle loro famiglie.

È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione. Hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite.

Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese.

Anche la guerra ha delle regole. Dobbiamo chiedere a tutte le parti in causa di sostenere e rispettare gli obblighi derivanti dal diritto umanitario internazionale; di prestare costante attenzione, nella conduzione delle operazioni militari, a risparmiare i civili; di rispettare e proteggere gli ospedali e di rispettare l’inviolabilità delle strutture dell’ONU che oggi ospitano più di 600.000 palestinesi.

L’incessante bombardamento di Gaza da parte delle forze israeliane, il livello di vittime civili e la distruzione di quartieri continuano a crescere e sono profondamente allarmanti.

Piango e onoro le decine di colleghi dell’ONU che lavorano per l’UNRWA [Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente] – purtroppo almeno 35 – uccisi nei bombardamenti su Gaza nelle ultime due settimane. Devo alle loro famiglie la mia condanna di queste e di molte altre uccisioni simili.

La protezione dei civili è fondamentale in ogni conflitto armato. Proteggere i civili non può mai significare usarli come scudi umani. Proteggere i civili non significa ordinare a più di 1 milione di persone di evacuare a sud, dove non ci sono ripari, cibo, acqua, medicine e carburante, e poi continuare a bombardare il sud stesso.

Sono profondamente preoccupato per le chiare violazioni del diritto umanitario internazionale a cui stiamo assistendo a Gaza. Voglio essere chiaro: nessuna parte di un conflitto armato è al di sopra del diritto internazionale umanitario.

Fortunatamente, alcuni aiuti umanitari stanno finalmente arrivando a Gaza. Ma si tratta di una goccia di aiuti in un oceano di necessità. Inoltre, le forniture di carburante delle Nazioni Unite a Gaza si esauriranno nel giro di pochi giorni. Questo sarebbe un altro disastro. Senza carburante, gli aiuti non possono essere consegnati, gli ospedali non hanno energia e l’acqua potabile non può essere purificata o addirittura pompata.

La popolazione di Gaza ha bisogno di aiuti continui ad un livello corrispondente alle enormi necessità. Gli aiuti devono essere consegnati senza restrizioni. Rendo omaggio ai nostri colleghi delle Nazioni Unite e ai partner umanitari a Gaza che lavorano in condizioni pericolose e rischiano la vita per fornire aiuti a chi ne ha bisogno. Sono un’ispirazione.

Per alleviare le sofferenze epiche, rendere più facile e sicura la consegna degli aiuti e facilitare il rilascio degli ostaggi, rinnovo il mio appello per un immediato cessate il fuoco umanitario.

Anche in questo momento di grave e immediato pericolo, non possiamo perdere di vista l’unica base realistica per una vera pace e stabilità: la soluzione dei due Stati. Gli israeliani devono vedere concretizzate le loro legittime esigenze di sicurezza e i palestinesi devono vedere realizzate le loro legittime aspirazioni a uno Stato indipendente, in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite, il diritto internazionale e gli accordi precedenti.

Infine, dobbiamo essere chiari sul principio di sostenere la dignità umana. La polarizzazione e la disumanizzazione sono alimentate da uno tsunami di disinformazione. Dobbiamo opporci alle forze dell’antisemitismo, del bigottismo antimusulmano e di tutte le forme di odio.

Oggi è la Giornata delle Nazioni Unite, che segna i 78 anni dall’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite. La Carta riflette il nostro impegno comune a promuovere la pace, lo sviluppo sostenibile e i diritti umani. In questa Giornata delle Nazioni Unite, in questo momento critico, faccio appello a tutti affinché ci si ritiri dall’orlo del baratro prima che la violenza mieta altre vite e si diffonda ancora di più.

FONTE: https://contropiano.org/news/internazionale-news/2023/10/25/chi-si-crede-padrone-del-mondo-e-fuori-cranio-0165645

Il 7 ottobre, le forze israeliane hanno sparato anche ai propri civili, dice una sopravvissuta del kibbutz

Aggiornamento, 23 ottobre 2023

The Electronic Intifada è ora in grado di pubblicare l’intera intervista con Yasmin Porat, la sopravvissuta del Kibbutz Be’eri che ha detto alla radio israeliana che le forze di sicurezza israeliane “senza dubbio” hanno ucciso un gran numero dei loro stessi civili in seguito all’assalto di Hamas del 7 ottobre.

Quando questo articolo è stato pubblicato originariamente, il 15 ottobre, la registrazione dell’intervista non era disponibile sul sito web dell’emittente statale israeliana Kan e non era inclusa nell’edizione online di Haboker Hazeh di quel giorno, il programma che ha intervistato Porat.

Dopo la pubblicazione di questo articolo, l’intervista completa è stata caricata da Kan. Include diversi minuti extra che sono stati eliminati dalla versione dell’intervista che avevamo originariamente ottenuto e tradotto.

Nell’intervista integrale, Porat afferma che i combattenti palestinesi – che secondo lei trattavano lei e gli altri civili israeliani “umanamente” – intendevano “rapirci a Gaza. Non per ucciderci.

Aggiunge che “dopo essere stati lì per due ore con i sequestratori, arriva la polizia. Ha luogo uno scontro a fuoco iniziato dalla nostra polizia”.

Potete ascoltare l’intervista completa con i sottotitoli in inglese qui nel video qui sotto. Una trascrizione completa è in fondo a questa pagina.

Da notare anche che Mondoweiss il 22 ottobre ha pubblicato una storia basata su resoconti dei media israeliani che indicavano che le forze israeliane erano responsabili di molte morti civili e militari israeliane in seguito all’offensiva palestinese del 7 ottobre.

Ciò include la scioccante rivelazione che alcuni civili israeliani erano vivi fino a due giorni prima che le forze israeliane li uccidessero, insieme ai combattenti palestinesi che li tenevano prigionieri.

Il quotidiano israeliano Haaretz il 20 ottobre ha pubblicato un’intervista – solo nella sua edizione ebraica – con un uomo chiamato Tuval che viveva nel Kibbutz Be’eri, ma che era assente il 7 ottobre. Il compagno di Tuval venne tuttavia ucciso negli eventi.

Haaretz riferisce: “Secondo lui [Tuval], solo lunedì notte e solo dopo che i comandanti sul campo avevano preso decisioni difficili – compreso il bombardamento delle case con tutti i loro occupanti all’interno per eliminare i terroristi insieme agli ostaggi – l’IDF [ L’esercito israeliano] completa la presa del kibbutz. Il prezzo fu terribile: furono uccise almeno 112 persone Be’eri. Altri sono stati rapiti. Ieri, 11 giorni dopo il massacro, in una delle case distrutte sono stati scoperti i corpi di una madre e di suo figlio. Si ritiene che altri corpi giacciano ancora tra le macerie”.

Questa testimonianza sembrerebbe indicare che molti prigionieri israeliani erano ancora vivi lunedì 9 ottobre, osserva Mondoweiss, ben due giorni dopo gli eventi di sabato 7 ottobre.

“Anche se potrebbe essere comprensibile che i prigionieri fossero stati uccisi nel frenetico fuoco incrociato di una prima risposta israeliana all’attacco del 7, questo resoconto sembrerebbe indicare che la decisione di assaltare il kibbutz e tutti coloro che si trovavano all’interno fu presa come un chiaro calcolo militare. ”, aggiunge Mondoweiss.

Qui l’intervista con Yasmin Porat:

Articolo originale (del 15 OTTOBRE 2023)

Una donna israeliana sopravvissuta all’assalto di Hamas agli insediamenti vicino al confine di Gaza il 7 ottobre afferma che i civili israeliani sono stati “senza dubbio” uccisi dalle loro stesse forze di sicurezza.

È successo quando le forze israeliane si sono impegnate in feroci scontri a fuoco con combattenti palestinesi nel Kibbutz Be’eri e hanno sparato indiscriminatamente sia contro i combattenti che contro i loro prigionieri israeliani.

“Hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi”, ha detto alla radio israeliana. “C’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante” e persino bombardamenti di carri armati.

La donna, Yasmin Porat, 44 anni, madre di tre figli, ha detto che prima di ciò, lei e altri civili erano stati trattenuti dai palestinesi per diverse ore e trattati “umanamente”. Era fuggita dal vicino rave “Nova”.

Una registrazione della sua intervista, dal programma radiofonico Haboker Hazeh (“This Morning”) condotto da Aryeh Golan sull’emittente statale Kan, è circolata sui social media.

L’intervista è stata tradotta da The Electronic Intifada. Puoi ascoltarlo con i sottotitoli in inglese in questo video e la trascrizione è alla fine di questo articolo:

In particolare, l’intervista non è inclusa nella versione online di Haboker Hazeh del 15 ottobre, episodio in cui apparentemente è andata in onda.

Potrebbe essere stato censurato a causa della sua natura esplosiva.

Porat, originaria di Kabri, un insediamento vicino al confine libanese, ha senza dubbio vissuto cose terribili e ha visto uccidere molti non combattenti. Il suo partner, Tal Katz, è tra i morti.

Tuttavia, il suo resoconto mina la versione ufficiale israeliana dell’omicidio deliberato e sfrenato da parte dei combattenti palestinesi.

Anche se non appare più sul nostro sito web, ci sono pochi dubbi sull’autenticità della registrazione.

Almeno un account in lingua ebraica ha pubblicato parte dell’intervista su Twitter, ora ufficialmente chiamato X, e ha accusato Kan di funzionare come un “media al servizio di Hamas”.

(https://twitter.com/JackRussell2022/status/1713530285478793571?ref_src=twsrc%5Etfw)

Porat ha raccontato la sua testimonianza anche al quotidiano israeliano Maariv.

Tuttavia, l’articolo di Maariv, pubblicato il 9 ottobre, non fa alcun riferimento specifico ai civili uccisi dalle forze israeliane.

E in un’intervista di mezz’ora con il Canale 12 israeliano giovedì, Porat ha parlato di intensi spari dopo l’arrivo delle forze israeliane. La stessa Porat ha ricevuto una pallottola alla coscia.

Trattati “umanamente”

Porat non solo dice a Kan che gli israeliani sono stati uccisi nel pesante contrattacco delle forze di sicurezza israeliane, ma dice che lei e altri civili prigionieri sono stati trattati bene dai combattenti palestinesi.

Porat stava partecipando al rave “Nova” quando è iniziato l’assalto di Hamas con missili e parapendii motorizzati. Lei e il suo compagno Tal Katz sono fuggiti in macchina nel vicino Kibbutz Be’eri dove hanno avuto luogo molti degli eventi che descrive nelle sue interviste ai media.

Secondo Porat parlando con Maariv, lei e Katz inizialmente cercarono rifugio nella casa di una coppia chiamata Adi e Hadas Dagan. Dopo che i combattenti palestinesi li hanno trovati, sono stati tutti portati in un’altra casa, dove otto persone erano già tenute prigioniere e una persona era morta.

Porat ha detto che la moglie dell’uomo morto “ci ha detto che quando loro [i combattenti di Hamas] hanno cercato di entrare, il ragazzo ha cercato di impedire loro di entrare e ha afferrato la porta. Hanno sparato alla porta e lui è stato ucciso. Non li hanno giustiziati”.

“Non ci hanno abusato. Ci hanno trattato in modo molto umano”, ha spiegato Porat a un sorpreso Golan nell’intervista alla radio Kan.

“Con questo intendo dire che ci proteggono”, ha detto. “Ci danno da bere qua e là. Quando vedono che siamo nervosi ci calmano. È stato molto spaventoso ma nessuno ci ha trattato violentemente. Fortunatamente non mi è successo niente di simile a quello che ho sentito dai media”.

“Sono stati molto umani nei nostri confronti”, ha detto Porat nella sua intervista a Canale 12. Ha ricordato che un combattente palestinese che parlava ebraico “mi disse: ‘Guardami bene, non ti uccideremo. Vogliamo portarti a Gaza. Non ti uccideremo. Quindi stai tranquilla, non morirai’. Questo è quello che mi ha detto, con quelle parole”.

“Ero tranquilla perché sapevo che non mi sarebbe successo nulla”, ha aggiunto.

“Ci hanno detto che non saremmo morti, che volevano portarci a Gaza e che il giorno dopo ci avrebbero riportati al confine”, ha detto Porat a Maariv.

Nell’intervista a Channel 12, Porat spiega che, sebbene i combattenti palestinesi avessero tutti carichi di armi, non li ha mai visti sparare ai prigionieri o minacciarli con le loro armi.

Oltre a fornire ai prigionieri acqua potabile, ha detto che i combattenti li hanno lasciati uscire sul prato perché faceva caldo, soprattutto perché l’elettricità era interrotta.

Giovane e spaventata

Circa otto ore dopo l’inizio dell’attacco di Hamas e circa mezz’ora dopo la chiamata di Porat alla polizia, sono arrivate le forze israeliane e ne è seguito il caos, ha detto Porat a Kan.

“All’inizio non c’erano forze di sicurezza [israeliane] con noi”, ha ricordato Porat, sottolineando che la sua prima chiamata alla polizia israeliana è rimasta senza risposta. “Siamo stati noi a chiamare la polizia, insieme ai sequestratori perché i sequestratori volevano che arrivasse la polizia. Perché il loro obiettivo era rapirci a Gaza”.

“Ritengono che i soldati non uccideranno gli ostaggi. Quindi vogliono uscire con noi vivi e vogliono che la polizia lo permetta”, ha detto Porat a Canale 12.

Sebbene i prigionieri israeliani fossero solo una dozzina, Porat è stato incaricata di dire alla polizia israeliana che 40 di loro erano detenuti dai combattenti di Hamas, che secondo le stime di Porat contavano tra i 40 e i 50 uomini, per lo più ventenni. Loro stessi erano giovani e spaventati, ha detto a Canale 12.

Un combattente descritto da Porat come un comandante sulla trentina ha chiesto di parlare con la polizia ed è stato messo a confronto con un ufficiale israeliano di lingua araba.

Dopo la loro breve conversazione, circa quattro dozzine di combattenti palestinesi e la loro dozzina di prigionieri israeliani hanno atteso l’arrivo dell’esercito, con alcuni membri del gruppo che si sono riversati fuori in giardino per trovare sollievo dal caldo pomeridiano.

Grandinate di proiettili, mortai e proiettili di carri armati

Le forze israeliane hanno annunciato il loro arrivo con una pioggia di colpi di arma da fuoco, cogliendo di sorpresa i combattenti e i loro prigionieri israeliani.

“Eravamo fuori e all’improvviso c’è stata una raffica di proiettili contro di noi da parte dell’unità [israeliana] YAMAM. Abbiamo iniziato tutti a correre per cercare riparo, ha detto Porat a Canale 12.

Porat ha detto di essersi arresa ai soldati israeliani mezz’ora dopo l’inizio del feroce scontro a fuoco che consisteva in “decine e centinaia e migliaia di proiettili e mortai che volavano in aria”, e che uno dei combattenti palestinesi, un comandante, ha deciso di arrendersi e l’ha usata in effetti come uno scudo umano.

“Comincia a spogliarsi”, ha ricordato Porat ad Aryeh Golan di Kan. “Mi chiama e inizia a uscire di casa con me, sotto il fuoco. In quel momento grido ai [commandos israeliani]… quando riescono a sentirmi, di smettere di sparare”.

“E poi mi hanno sentito e hanno smesso di sparare”, ha aggiunto. “Vedo gente del kibbutz sul prato. Fuori ci sono cinque o sei ostaggi stesi a terra. Proprio come pecore al macello, tra le sparatorie dei nostri commando e dei terroristi”.

“I terroristi gli hanno sparato?” chiede Golan.

“No, sono stati uccisi dal fuoco incrociato”, risponde Porat. “Capisci che c’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante.”

Golan incalza: “Quindi le nostre forze potrebbero avergli sparato?”

“Indubbiamente”, risponde l’ex prigioniera, e aggiunge: “Hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi, perché c’era un fuoco incrociato molto, molto pesante”.

“Dopo un folle fuoco incrociato, due proiettili di carri armati sono stati sparati sulla casa. È un piccolo kibbutz, niente di grande”, spiega Porat.

Porat e l’uomo che l’ha presa prigioniera sono sopravvissuti entrambi. Il palestinese è stato fatto prigioniero dalle forze israeliane. Ma secondo Porat, quasi tutti gli altri abitanti dell’insediamento sono stati uccisi, feriti o dispersi, si ritiene siano stati portati a Gaza.

Porat ha detto a Kan di aver perso dozzine di amici che erano stati al rave, persone che vedeva regolarmente alle feste nella scena trance israeliana.

“Sono arrabbiata con lo Stato, sono arrabbiato con l’esercito”, ha detto Porat a Maariv. “Per 10 ore il kibbutz è stato abbandonato”.

Lo sforzo congiunto americano-israeliano di dipingere Hamas come peggiore dell’ISIS al fine di giustificare il genocidio in atto da parte di Israele contro la popolazione civile a Gaza dipende dal fatto che il pubblico internazionale non veda o ascolti resoconti come quello di Porat.

I leader israeliani, già oggetto di forti critiche per non essere riusciti ad anticipare e prevenire l’offensiva di Hamas, non vorranno inoltre che i loro catastrofici fallimenti siano aggravati dalla consapevolezza che molti degli israeliani morti potrebbero essere stati uccisi dal “fuoco amico” in un disastroso contratttacco di guerra israeliano.

Direttiva Annibale?

Saleh al-Arouri, un alto comandante militare di Hamas, ha affrontato direttamente le affermazioni di Israele secondo cui i suoi combattenti si proponevano di uccidere deliberatamente quanti più civili possibile.

La campagna di propaganda israeliana ha incluso racconti di spaventose atrocità – per le quali non è stata prodotta alcuna prova – secondo cui i palestinesi avrebbero decapitato dozzine di bambini israeliani e le donne sarebbero state violentate.

Al-Arouri ha detto giovedì in un’intervista ad Al Jazeera che i combattenti della forza militare della sua organizzazione, le Brigate Qassam, erano soggetti a un rigido protocollo per non danneggiare i civili.

Ma al-Arouri ha detto che dopo che la divisione israeliana di Gaza – l’unità dell’esercito che circonda la Striscia di Gaza – è crollata molto più rapidamente del previsto, le persone a Gaza si sono precipitate nell’area di confine dopo aver appreso che era stata aperta, provocando il caos. Ha detto che questo potrebbe includere altre persone armate che non facevano parte di Qassam.

Al-Arouri ha affermato che ciò ha portato i combattenti Qassam a impegnarsi con soldati, guardie degli insediamenti e residenti armati, provocando la morte di civili.

Al-Arouri ha anche invocato la possibilità che Israele abbia utilizzato la cosiddetta Direttiva Annibale – un protocollo che consente alle forze israeliane di usare una forza schiacciante per uccidere uno dei soldati catturati piuttosto che permettere che venga fatto prigioniero.

La logica alla base della Direttiva Annibale è quella di evitare che un nemico abbia prigionieri che possano essere utilizzati nei negoziati sullo scambio di prigionieri.

Tuttavia in questo caso, se la direttiva fosse stata attuata dalle forze israeliane, sarebbe stata utilizzata contro i civili.

Al-Arouri ha detto ad Al Jazeera: “Siamo certi che i giovani [combattenti] siano stati bombardati insieme ai prigionieri che erano con loro”.

Il resoconto di Porat, tra gli altri, sottolinea la necessità di un’indagine indipendente, che difficilmente Israele permetterà mai.

L’attuale narrativa propagandistica è semplicemente troppo preziosa per i genocidari di Tel Aviv.

Ali Abunimah è il direttore esecutivo di The Electronic Intifada.

David Sheen è l’autore di Kahanism and American Politics: The Democratic Party’s Decades-Long Courtship of Racist Fanatics.


Trascrizione dell’intervista di Kan a Yasmin Porat

Aryeh Golan: Ora abbiamo con noi Yasmin del Kibbutz Kabri. Shalom Yasmin.

Yasmin Porat: Shalom buongiorno.

Aryeh Golan: Eri a quella festa nella natura che si è trasformata in una festa di macelleria.

Yasmin Porat: Vero.

Aryeh Golan: Sei stata addirittura ostaggio per due ore e mezza dei terroristi di Hamas.

Yasmin Porat: Vero. Dopo la festa, io e il mio compagno siamo fuggiti – siamo finiti a – siamo rimasti bloccati nel Kibbutz Be’eri, cercando riparo quando non ci siamo resi conto che i terroristi erano penetrati. Fondamentalmente, cercavamo protezione dai Qassam [razzi].

Aryeh Golan: Sì.

Yasmin Porat: Abbiamo bussato alla porta di una coppia davvero adorabile, i Dagan, Hadas e Adi, e ci hanno portato nella loro stanza di sicurezza rinforzata. Siamo rimasti con loro nella stanza di sicurezza rinforzata per un periodo che va dalle sei alle otto ore. Con grande paura, perché sapevamo che nel kibbutz c’era stata un’infiltrazione di circa 100 terroristi. E si udivano gli spari da ogni direzione. Fino ad arrivare alla fase in cui quella coppia ci informa che i terroristi sono proprio nella casa accanto. E sembra che ci raggiungeranno. E infatti neanche cinque minuti dopo tutta la casa va in frantumi. E per un’ora riusciamo a impedire loro di irrompere nella nostra stanza di sicurezza rinforzata. E da un’ora circa 10 terroristi bussano alla cassaforte rinforzata. Urla in arabo. È stata un’ora molto tesa. E abbiamo provato una grande paura indescrivibile. Dopo un’ora sono riusciti a entrare e ci hanno portato tutti e quattro in una casa vicina dove c’erano già altri otto ostaggi. Ci siamo uniti a quegli otto ed eravamo circa 12 ostaggi con 40 terroristi che ci sorvegliavano. Sto mantenendo la storia breve.

Aryeh Golan: Hanno abusato di te?

Yasmin Porat: Non ci hanno abusato. Ci hanno trattato in modo molto umano, il che significa…

Aryeh Golan: Umanamente? Veramente?

Yasmin Porat: Sì, intendo dire che ci proteggono. Ci danno qualcosa da bere qua e là. Quando vedono che siamo nervosi, ci calmano. È stato molto spaventoso ma nessuno ci ha trattato violentemente. Fortunatamente non mi è successo niente di simile a quello che ho sentito dai media.

Aryeh Golan: Sono successe cose orribili, orribili.

Yasmin Porat: Vero. Ma dopo due ore, per un breve periodo, all’inizio non c’erano forze di sicurezza [israeliane] con noi. Siamo stati noi a chiamare la polizia insieme ai rapitori perché i rapitori volevano che arrivasse la polizia. Perché il loro obiettivo era rapirci a Gaza. Non per ucciderci.

Aryeh Golan: Mm hm.

Yasmin Porat: E dopo che siamo stati lì per due ore con i rapitori, è arrivata la polizia. Ha luogo uno scontro a fuoco iniziato dalla nostra polizia. Uno scontro a fuoco molto molto difficile, in termini di quantità di munizioni volate lì. E alla fine… no, durante [la battaglia], uno dei terroristi decide di arrendersi, il terrorista con cui ho stretto un legame. Nel corso di quelle due ore sono entrata in contatto con alcuni dei rapitori, quelli che custodivano gli ostaggi.

Aryeh Golan: Sì

Yasmin Porat: E decide di usarmi come scudo umano. Decide di arrendersi. Non ne sono consapevole in quei momenti, è in retrospettiva. Comincia a spogliarsi, prende, mi chiama e comincia a uscire di casa con me, sotto il fuoco. A quel tempo ho urlato allo YAMAM [commandos israeliani] quando eravamo già – quando potevano sentirmi, di smettere di sparare.

Aryeh Golan: Sì

Yasmin Porat: E poi mi sentono e smettono di sparare. Vedo sul prato, nel giardino, la gente del kibbutz. Ci sono cinque o sei ostaggi che giacciono a terra fuori, proprio come pecore al macello, tra gli spari dei nostri [combattenti] e dei terroristi.

Aryeh Golan: I terroristi gli hanno sparato?

Yasmin Porat: No, sono stati uccisi dal fuoco incrociato. Capisco che c’è stato un fuoco incrociato molto, molto pesante.

Aryeh Golan: Quindi le nostre forze potrebbero avergli sparato?

Yasmin Porat: Senza dubbio.

Aryeh Golan: Quando Hamas ha cercato di eliminare i rapitori?

Yasmin Porat: Hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi. Perché c’era un fuoco incrociato molto, molto pesante. Sono stata liberata verso le 5:30. Apparentemente i combattimenti sono finiti alle 8:30. Dopo un folle fuoco incrociato, due proiettili di carri armati furono sparati nella casa. È una piccola casa kibbutz, niente di grande. L’hai visto al telegiornale.

Aryeh Golan: Sì

Yasmin Porat: Non è un posto grande. E in quel momento tutti furono uccisi. C’era silenzio, tranne che per un sopravvissuto che uscì dal giardino, Hadas.

Aryeh Golan: Come sono stati uccisi tutti?

Yasmin Porat: Dal fuoco incrociato.

Aryeh Golan: Fuoco incrociato, quindi potrebbe provenire anche dalle nostre forze?

Yasmin Porat: Senza dubbio.

Aryeh Golan: Davvero?

Yasmin Porat: Questo è ciò in cui credo.

Aryeh Golan: Oy, sembra così brutto.

Yasmin Porat: Sì. E tutti sono morti.

Aryeh Golan: E tu, grazie a quel terrorista che ha deciso di arrendersi…

Yasmin Porat: Esattamente.

Aryeh Golan: E tu sei sopravvissuto e tutti gli altri sono stati uccisi lì.

Yasmin Porat: Fatta eccezione per un’altra donna che è sopravvissuta, l’hanno ritrovata più tardi [si interrompe]. La persona che si è occupata dell’evento l’ha controllata o qualcosa del genere. L’hanno trovata quando ha alzato la testa, in mezzo a tutti i corpi. E poi, semplicemente…

Aryeh Golan: E il tuo partner, chi era con te?

Yasmin Porat: ucciso.

Aryeh Golan: Anche lui è stato ucciso?

Yasmin Porat: Sì. Tutti sono stati uccisi lì. Semplicemente orribile.

Aryeh Golan: Sei tornata a Kabri?

Yasmin Porat: Sono tornata a Kabri e lì è iniziato il caos.

Aryeh Golan: Nel nord?

Yasmin Porat: Sì. Quindi ora sono un ospite. Sono ospitata in un modo adorabile nel Kibbutz Ein Harod. E sono qui per ora.

Aryeh Golan: Sei nella valle [Jezreel] adesso. Va bene, Yasmin, hai vissuto un’esperienza orribile.

Yasmin Porat: Vero.

Aryeh Golan: Hai perso il tuo partner, hai visto persone uccise insieme a te.

Yasmin Porat: E io…

Aryeh Golan: [INTERRUZIONI] Cosa è successo a quel terrorista che si è arreso?

Yasmin Porat: È ancora arrestato, ed è stato appena chiamato per un interrogatorio per aiutare… Sapete, sarà interrogato riguardo all’accusato. E purtroppo decine di altri miei amici sono stati uccisi perché…

Aryeh Golan: [INTERRUZIONI] Dozzine di amici?

Yasmin Porat: Sì perché è una comunità, la scena trance, andiamo alle stesse feste. Vuol dire che oltre al mio compagno, conoscevo decine e centinaia di amici, e ogni giorno apprendo che almeno 10 miei amici sono morti. Quindi non so nemmeno come digerire questa situazione.

Aryeh Golan: È molto difficile da digerire perché non è mai successo prima.

Yasmin Porat: Vero, proprio questo.

Aryeh Golan: Ti auguro il meglio, Yasmin.

Yasmin Porat: Grazie mille.

Aryeh Golan: Tieni duro.

Yasmin Porat: Grazie, grazie.

Aryeh Golan: Dopo tutto quello che hai passato.

Yasmin Porat: Grazie mille. Ciao ciao.

Aryeh Golan: Ciao. 5:53.

FONTE: https://electronicintifada.net/content/israeli-forces-shot-their-own-civilians-kibbutz-survivor-says/38861




Israeli forces shot their own civilians, kibbutz survivor says

(From: https://electronicintifada.net/content/israeli-forces-shot-their-own-civilians-kibbutz-survivor-says/38861)

Update, 23 October

The Electronic Intifada is now able to publish the entire interview with Yasmin Porat, the Kibbutz Be’eri survivor who told Israeli radio that Israeli security forces “undoubtedly” killed a large number of their own civilians following the Hamas assault on 7 October.

When this article was originally published on 15 October, a recording of the interview was not available on the website of Israeli state broadcaster Kan and was not included in the online edition of Haboker Hazeh for that day, the program that interviewed Porat.

Following the publication of this article, the full interview was uploaded by Kan. It includes several extra minutes that were edited out of the version of the interview that we had originally obtained and translated.

In the full-length interview, Porat states that the Palestinian fighters – who she says treated her and the other Israeli civilians “humanely” – intended to “kidnap us to Gaza. Not to murder us.”

She adds that “after we were there for two hours with the abductors, the police arrive. A gun battle takes place that our police started.”

You can listen to the full interview with English subtitles here in the video below. A full transcript is at the bottom of this page.

Also of note is that Mondoweiss on 22 October published a story based on accounts in Israeli media indicating that Israeli forces were responsible for many Israeli civilian and military deaths following the 7 October Palestinian offensive.

This includes the shocking revelation that some Israeli civilians were alive for up to two days before Israeli forces killed them, along with Palestinian fighters who were holding them.

Israel’s Haaretz newspaper on 20 October published an interview – only in its Hebrew edition – with a man called Tuval who lived in Kibbutz Be’eri, but who was away on 7 October. Tuval’s partner was however killed in the events.

Haaretz reports: “According to him [Tuval], only on Monday night and only after the commanders in the field made difficult decisions – including shelling houses with all their occupants inside in order to eliminate the terrorists along with the hostages – did the IDF [Israeli army] complete the takeover of the kibbutz. The price was terrible: at least 112 Be’eri people were killed. Others were kidnapped. Yesterday, 11 days after the massacre, the bodies of a mother and her son were discovered in one of the destroyed houses. It is believed that more bodies are still lying in the rubble.”

This testimony would seem to indicate that many Israeli captives were still alive on Monday, 9 October, Mondoweiss observes, a full two days after the events of Saturday, 7 October.

“While it might be understandable if captives had been killed in the hectic crossfire of an initial Israeli response to the attack on the 7th, this account would seem to indicate that the decision to assault the kibbutz and everyone inside was made as a clear military calculation,” Mondoweiss adds.

Here’s the interview with Yasmin Porat:

Original article

An Israeli woman who survived the Hamas assault on settlements near the Gaza boundary on 7 October says Israeli civilians were “undoubtedly” killed by their own security forces.

It happened when Israeli forces engaged in fierce gun battles with Palestinian fighters in Kibbutz Be’eri and fired indiscriminately at both the fighters and their Israeli prisoners.

“They eliminated everyone, including the hostages,” she told Israeli radio. “There was very, very heavy crossfire” and even tank shelling.

The woman, 44-year-old mother of three Yasmin Porat, said that prior to that, she and other civilians had been held by the Palestinians for several hours and treated “humanely.” She had fled the nearby “Nova” rave.

A recording of her interview, from the radio program Haboker Hazeh (“This Morning”) hosted by Aryeh Golan on state broadcaster Kan, has been circulating on social media.

The interview has been translated by The Electronic Intifada. You can listen to it with English subtitles in this video and a transcript is at the end of this article:

Notably, the interview is not included in the online version of Haboker Hazeh for 15 October, the episode in which it apparently aired.

It may well have been censored due to its explosive nature.

Porat, who is from Kabri, a settlement near the Lebanese border, undoubtedly experienced terrible things and saw many noncombatants killed. Her own partner, Tal Katz, is among the dead.

However, her account undermines Israel’s official story of deliberate, wanton murder by the Palestinian fighters.

Although it no longer appears on the Kan website, there can be little doubt about the recording’s authenticity.

At least one Hebrew-language account posted part of the interview on Twitter, now officially called X, and accused Kan of functioning as “media in the service of Hamas.”

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תקשורת בשירות החמאס:
ניצולה שמספרת שהמחבלים לא פגעו בה והרבה מאהובינו נהרגו ע”י חיילינו, מופצת כעת ברשתות החמאס:
“השדר הישראלי, אריה גולן, ראיין עדת ראייה שנכחה בקונצרט בהתנחלות בארי. ההתנגדות לא רצתה להרוג אותנו, אלא טיפלה בנו בצורה אתית והרגיעה את מצב הטרור שבו חיינו”
🤬🤬🤬 pic.twitter.com/Gq2pRm5YBW

— Jack Russell 🐶 (@JackRussell2022) October 15, 2023

Porat also gave her account to the Israeli newspaper Maariv.

However, the Maariv story, published on 9 October, makes no specific mention of civilians being killed by Israeli forces.

And in a half-hour interview with Israel’s Channel 12 on Thursday, Porat speaks of intense gunfire after Israeli forces arrived. Porat herself received a bullet in the thigh.

Treated “humanely”

Not only does Porat tell Kan that Israelis were killed in the heavy counterattack by Israeli security forces, but she says she and other captive civilians were well treated by the Palestinian fighters.

Porat had been attending the “Nova” rave when the Hamas assault began with missiles and motorized paragliders. She and her partner Tal Katz escaped by car to nearby Kibbutz Be’eri where many of the events she describes in her media interviews took place.

According to Porat speaking to Maariv, she and Katz initially sought refuge in the house of a couple called Adi and Hadas Dagan. After the Palestinian fighters found them they were all taken to another house, where eight people were already being held captive and one person was dead.

Porat said that the wife of the dead man “told us that when they [the Hamas fighters] tried to enter, the guy tried to prevent them from entering and grabbed the door. They shot at the door and he was killed. They did not execute them.”

“They did not abuse us. They treated us very humanely,” Porat explained to a surprised Golan in the Kan radio interview.

“By that I mean they guard us,” she said. “They give us something to drink here and there. When they see we are nervous they calm us down. It was very frightening but no one treated us violently. Luckily nothing happened to me like what I heard in the media.”

“They were very humane towards us,” Porat said in her Channel 12 interview. She recalled that one Palestinian fighter who spoke Hebrew, “told me, ‘Look at me well, we’re not going to kill you. We want to take you to Gaza. We are not going to kill you. So be calm, you’re not going to die.’ That’s what he told me, in those words.”

“I was calm because I knew nothing would happen to me,” she added.

“They told us that we would not die, that they wanted to take us to Gaza and that the next day they would return us to the border,” Porat told Maariv.

In the Channel 12 interview, Porat elaborates that although the Palestinian fighters all had loaded weapons, she never saw them shoot captives or threaten them with their guns.

In addition to providing the captives with drinking water, she said the fighters let them go outside to the lawn because it was hot, especially as the electricity was cut.

Young and scared

About eight hours after the start of the Hamas attack and about half an hour after Porat’s calls to the police, Israeli forces arrived and chaos ensued, Porat told Kan.

“At first there was no [Israeli] security force with us,” Porat recalled, noting that her first call to the Israeli police went unanswered. “We were the ones who called the police, together with the abductors because the abductors wanted the police to arrive. Because their objective was to kidnap us to Gaza.”

“They understand that soldiers will not kill hostages. So they want to come out with us alive and for the police to permit it,” Porat told Channel 12.

Though the Israeli captives numbered only a dozen, Porat was instructed to tell Israeli police that 40 of them were being held by the Hamas fighters, who themselves numbered between 40 and 50 men mostly in their 20s, by Porat’s estimate. They themselves were young and scared, she told Channel 12.

A fighter Porat described as a commander in his 30s asked to speak to the police and was put on with an Arabic-speaking Israeli officer.

After their brief conversation, the four dozen or so Palestinian fighters and their dozen Israeli prisoners awaited the arrival of the army, with some of the group spilling outside to the garden for relief from the afternoon heat.

Hails of bullets, mortars and tank shells

Israeli forces announced their arrival with a hail of gunfire, catching the fighters and their Israeli captives by surprise.

“We were outside and suddenly there was a volley of bullets at us from the [Israeli unit] YAMAM. We all started running to find cover, Porat told Channel 12.”

Porat said she surrendered to the Israeli soldiers half an hour into the fierce gun battle that consisted of “tens and hundreds and thousands of bullets and mortars flying in the air,” and that one of the Palestinian fighters, a commander, decided to surrender and used her in effect as a human shield.

“He starts to disrobe,” Porat recalled to Kan’s Aryeh Golan. “He calls to me and he starts to leave the house with me, under fire. At that time I yell to the [Israeli commandos] … when they can hear me, to stop firing.”

“And then they heard me and stopped firing,” she added. “I see people from the kibbutz on the lawn. There are five or six hostages lying on the ground outside. Just like sheep to the slaughter, between the shooting of our commandos and the terrorists.”

“The terrorists shot them?” Golan asks.

“No, they were killed by the crossfire,” Porat responds. “Understand there was very, very heavy crossfire.”

Golan presses: “So our forces may have shot them?”

“Undoubtedly,” the former captive responds, and adds, “They eliminated everyone, including the hostages because there was very, very heavy crossfire.”

“After insane crossfire, two tank shells were shot into the house. It’s a small kibbutz house, nothing big,” Porat explains.

Porat and the man who took her captive both survived. The Palestinian was taken prisoner by Israeli forces. But according to Porat, almost everyone else in the settlement was killed, wounded or missing, believed to have been taken to Gaza.

Porat told Kan she lost dozens of friends who had been at the rave – people she would regularly see at parties in Israel’s trance scene.

“I’m angry at the state, I’m angry at the army,” Porat told Maariv. “For 10 hours the kibbutz was abandoned.”

The joint American-Israeli effort to paint Hamas as worse than ISIS in order to justify Israel’s unfolding genocide against the civilian population in Gaza depends on the international public not seeing or hearing accounts like Porat’s.

Israeli leaders, already under intense criticism for failing to anticipate and prevent the Hamas offensive, will also not want their catastrophic failures to be compounded by knowledge that many of the Israelis who died may well have been killed by “friendly fire” in a disastrous Israeli counterattack.

Hannibal Directive?

Saleh al-Arouri, a senior Hamas military commander, has directly addressed Israel’s claims that his fighters set out to deliberately kill as many civilians as possible.

The Israeli propaganda campaign has included lurid atrocity tales – for which no evidence has been produced whatsoever – that Palestinians beheaded dozens of Israeli babies and that women were raped.

Al-Arouri said in an interview with Al Jazeera on Thursday that fighters of his organization’s military force, the Qassam Brigades, were under strict protocol to not harm civilians.

But al-Arouri said that after Israel’s Gaza division – the army unit that surrounds the Gaza Strip – collapsed much more quickly than expected, people in Gaza rushed to the boundary area after learning it had been opened, causing chaos. He said this may have included other armed persons who were not part of Qassam.

Al-Arouri said that this caused Qassam fighters to engage with soldiers, settlement guards and armed residents, which led to civilian deaths.

Al-Arouri also invoked the possibility Israel used the so-called Hannibal Directive – a protocol that allows Israeli forces to use overwhelming force to kill one of their own captured soldiers rather than allow them to be taken prisoner.

The rationale for the Hannibal Directive is to avoid allowing an enemy to have captives that can be used in prisoner exchange negotiations.

However in this case, if the directive was implemented by Israeli forces, it would have been used against civilians.

Al-Arouri told Al Jazeera, “We are certain that young men [fighters] were bombed along with the prisoners who were with them.”

Porat’s account, among others, underscores the need for an independent investigation, one which Israel is unlikely ever to permit.

The current propaganda narrative is simply too valuable to the genocidaires in Tel Aviv.

Ali Abunimah is executive director of The Electronic Intifada.

David Sheen is the author of Kahanism and American Politics: The Democratic Party’s Decades-Long Courtship of Racist Fanatics.

Transcript of the Kan interview with Yasmin Porat

Aryeh Golan: Now we have with us Yasmin from Kibbutz Kabri. Shalom Yasmin.

Yasmin Porat: Shalom good morning.

Aryeh Golan: You were at that nature party that turned into a butchery party.

Yasmin Porat: True.

Aryeh Golan: You were even a hostage for two and a half hours held by Hamas terrorists.

Yasmin Porat: True. After the party, my partner and I fled to – we ended up at – we got stuck at Kibbutz Be’eri, looking for cover when we didn’t realize terrorists had penetrated. Basically, we sought protection from the Qassams [rockets].

Aryeh Golan: Yes.

Yasmin Porat: We knocked on the door of a really sweet couple, the Dagans, Hadas and Adi, and they took us in, to their reinforced security room. We were in the reinforced security room with them for between six to eight hours. Under great fear, because we knew there was a penetration of about 100 terrorists in the kibbutz. And the gunshots could be heard from every direction. Until we got to the phase when that couple informs us that the terrorists are right in the house next door. And it seems they will reach us. And in fact not five minutes later the whole house shatters to pieces. And for an hour we manage to prevent them from breaking into our reinforced security room. And for an hour about 10 terrorists are banging on the reinforced safe room. Screams in Arabic. It was a very tense hour. And we felt great indescribable fear. After an hour they managed to break in and they removed the four of us to a nearby house where there were already eight other additional hostages. We joined those eight and we were about 12 hostages with 40 terrorists that were guarding us. I’m keeping the story short.

Aryeh Golan: Did they abuse you?

Yasmin Porat: They did not abuse us. They treated us very humanely, meaning …

Aryeh Golan: Humanely? Really?

Yasmin Porat: Yes, by that I mean they guard us. They give us something to drink here and there. When they see we are nervous, they calm us down. It was very frightening but no one treated us violently. Luckily nothing happened to me like what I heard in the media.

Aryeh Golan: Horrible, horrific things occurred.

Yasmin Porat: True. But after two hours, briefly, at first there was no [Israeli] security force with us. We were the ones who called the police together with the abductors because the abductors wanted the police to arrive. Because their objective was to kidnap us to Gaza. Not to murder us.

Aryeh Golan: Mm hm.

Yasmin Porat: And after we were there for two hours with the abductors, the police arrive. A gun battle takes place that our police started. A very very difficult gun battle, in terms of the amount of ammunition that flew there. And at the end… no, during [the battle], one of the terrorists decides to surrender, the terrorist I made a connection with. Over the course of those two hours I connected with some of the abductors, those that guarded the hostages.

Aryeh Golan: Yes

Yasmin Porat: And he decides to use me as a human shield. He decides to surrender. I am not aware of it in those moments, it’s in retrospect. He starts to disrobe, he takes – he calls to me and he starts to leave the house with me, under fire. At that time I yelled to the YAMAM [Israeli commandos] when we were already – when they can hear me, to stop firing.

Aryeh Golan: Yes

Yasmin Porat: And then they hear me and stop firing. I see on the lawn, in the garden of the people from the kibbutz. There are five or six hostages lying on the ground outside, just like sheep to the slaughter, between the shooting of our [fighters] and the terrorists.

Aryeh Golan: The terrorists shot them?

Yasmin Porat: No, they were killed by the crossfire. Understand there was very, very heavy crossfire.

Aryeh Golan: So our forces may have shot them?

Yasmin Porat: Undoubtedly.

Aryeh Golan: When they tried to eliminate the abductors, Hamas?

Yasmin Porat: They eliminated everyone, including the hostages. Because there was very, very heavy crossfire. I was freed at approximately 5:30. The fighting apparently ended at 8:30. After insane crossfire, two tank shells were shot into the house. It’s a small kibbutz house, nothing big. You saw it on the news.

Aryeh Golan: Yes

Yasmin Porat: Not a large place. And at that moment everyone was killed. There was quiet, except for one survivor that came out of the garden, Hadas.

Aryeh Golan: How were they all killed?

Yasmin Porat: From the crossfire.

Aryeh Golan: Crossfire, so it could also be from our forces?

Yasmin Porat: Undoubtedly.

Aryeh Golan: Really?

Yasmin Porat: That’s what I believe.

Aryeh Golan: Oy it sounds so bad.

Yasmin Porat: Yes. And everyone died.

Aryeh Golan: And you, thanks to that terrorist who decided to give himself up …

Yasmin Porat: Exactly.

Aryeh Golan: And you survived and all the rest were killed there.

Yasmin Porat: Except for one other woman who survived, they found her later [trails off]. The person who dealt with the event checked her or something. They found her when she lifted her head, amongst all the bodies. And then, simply …

Aryeh Golan: And your partner, who was with you?

Yasmin Porat: Killed.

Aryeh Golan: He was killed too?

Yasmin Porat: Yes. Everyone was killed there. Just horrible.

Aryeh Golan: Have you returned to Kabri?

Yasmin Porat: I returned to Kabri and then the chaos started there.

Aryeh Golan: In the north?

Yasmin Porat: Yes. So now I’m a guest. I’m being hosted in a lovely way in Kibbutz Ein Harod. And I’m here for now.

Aryeh Golan: You’re in the [Jezreel] Valley now. Alright, Yasmin, you’ve undergone a horrific experience.

Yasmin Porat: True.

Aryeh Golan: You lost your partner, you saw people killed alongside you.

Yasmin Porat: And I …

Aryeh Golan: [INTERRUPTS] What happened to that terrorist who gave himself up?

Yasmin Porat: He is still arrested, and he was just called in for interrogation to help … You know, he will be interrogated about the accused. And sadly dozens more of my friends were killed because …

Aryeh Golan: [INTERRUPTS] Dozens of friends?

Yasmin Porat: Yes because it’s a community, the trance scene, we go to the same parties. It means that besides my partner, I knew dozens and hundreds of friends, and every day I learn that at least 10 of my friends have died. So I don’t even know how to digest this situation.

Aryeh Golan: It’s very difficult to digest because this has never happened before.

Yasmin Porat: True, exactly that.

Aryeh Golan: All the best to you Yasmin.

Yasmin Porat: Thank you very much.

Aryeh Golan: Hold it together.

Yasmin Porat: Thank you, thank you.

Aryeh Golan: After everything you have been through.

Yasmin Porat: Thank you very much. Bye bye.

Aryeh Golan: Bye. 5:53.




Leggi anche:

Israel furious that elderly captive spoke of humane treatment by Hamas

Petizione per le dimissioni di Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea

Petizione per le dimissioni di Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea


Al Consiglio europeo, al Parlamento europeo e ai cittadini dell’Unione europea

Perché questa petizione è importante

Nel rispondere alla recente crisi in Israele e Palestina, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha violato il quadro giuridico dell’Unione europea e ignorato la decenza morale di base. Pur condannando gli attacchi ai civili in Israele, ha sostenuto l’isolamento dei civili di Gaza da acqua, cibo ed elettricità e il bombardamento della popolazione di Gaza con il pretesto della “difesa”. Questa azione unilaterale ignora il diritto internazionale e il mandato democratico degli Stati membri dell’UE.

Il Presidente della Commissione europea ignora quindi

– il diritto internazionale,

– il mandato democratico degli Stati membri dell’UE,

– il comportamento etico appropriato,

– la necessaria prudenza diplomatica.

I sottoscritti chiedono le sue immediate dimissioni.
 

Azioni problematiche

1. Posizione unilaterale senza mandato

Ursula von der Leyen ha sostenuto l’isolamento dei civili di Gaza dall’acqua, dal cibo e dall’elettricità e il bombardamento di Gaza con il pretesto della “difesa” senza un mandato degli Stati membri dell’UE.

2. ignorare il diritto internazionale (articolo 33 della Convenzione di Ginevra: divieto di punizioni collettive)

Mentre gli Stati membri dell’UE, le Nazioni Unite e altri organismi internazionali hanno riconosciuto la terribile situazione umanitaria di Gaza come risultato della punizione collettiva, la Presidente von der Leyen ha esplicitamente espresso solidarietà unilaterale con Israele.

3. minare l’autorità morale dell’UE

L’atteggiamento della Presidente nei confronti di Israele è in netto contrasto con la sua condanna di azioni simili in passato, come quelle della Russia contro le infrastrutture civili in Ucraina, che ha definito crimini di guerra. Si tratta di un’applicazione del diritto internazionale a proprio piacimento, che mina l’autorità morale dell’UE.

4. elusione dei processi istituzionali

Le azioni di Ursula von der Leyen non solo hanno aggirato il Consiglio europeo, ma hanno anche ignorato la separazione dei poteri all’interno dell’UE, secondo la quale la politica estera non è determinata dalla Commissione.
 

Appello all’azione

In risposta al superamento dell’autorità della Presidente della Commissione e al mancato rispetto dei principi fondamentali dei diritti umani e della democrazia, chiediamo a Ursula von der Leyen di dimettersi immediatamente dalla sua posizione di Presidente della Commissione europea. Se si rifiuta di farlo, chiediamo al governo tedesco di revocare la sua carica di commissario.

Chiediamo ai cittadini e alle istituzioni dell’UE di difendere i valori che ci uniscono come comunità e di cercare di ripristinare l’autorità morale dell’Unione europea sulla scena internazionale.

Il diritto internazionale deve valere per tutti. Se non viene applicato equamente ovunque, non vale nulla.

(Petizione di MERA25 Germania)


Firma questa dichiarazione se sei d’accordo che le azioni di Ursula von der Leyen sono incompatibili con i principi e le leggi dell’Unione europea e giustificano le sue immediate dimissioni.

Lasciategli mangiare cemento

Israele non sta solo decimando Gaza con attacchi aerei, ma sta impiegando la più antica e crudele arma di guerra: la fame. Il messaggio di Israele, alla vigilia di un’invasione di terra, è chiaro. Lascia Gaza o muori.

di CHRIS HEDGES

Israele, con il sostegno degli Stati Uniti e degli alleati europei, si sta preparando a lanciare non solo una campagna di terra bruciata a Gaza, ma la peggiore pulizia etnica dai tempi delle guerre nell’ex Jugoslavia. L’obiettivo è spingere decine, molto probabilmente centinaia di migliaia di palestinesi oltre il confine meridionale di Rafah nei campi profughi in Egitto. Le conseguenze saranno catastrofiche, non solo per i palestinesi, ma per tutta la regione, e quasi certamente scateneranno scontri armati nel nord di Israele con Hezbollah in Libano e forse con Siria e Iran.

L’amministrazione Biden, eseguendo pedissequamente gli ordini di Israele, sta alimentando la follia. Gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a porre il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva pause umanitarie per fornire cibo, medicine, acqua e carburante a Gaza. Ha bloccato le proposte di cessate il fuoco. Ha proposto un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che afferma che Israele ha il diritto di difendersi. La risoluzione chiede inoltre all’Iran di smettere di esportare armi a “milizie e gruppi terroristici che minacciano la pace e la sicurezza in tutta la regione”.

Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono moralmente in bancarotta e complici del genocidio quanto coloro che furono testimoni dell’Olocausto nazista degli ebrei e non fecero nulla.

Il conflitto, che è costato la vita a 1.400 israeliani e ad almeno 4.600 palestinesi a Gaza, si sta ampliando. Israele ha effettuato un secondo attacco aereo su due aeroporti in Siria. Scambia quotidianamente raffiche di razzi con le milizie Hezbollah. Le basi militari americane in Iraq e Siria sono state attaccate dalle milizie sciite. Giovedì la USS Carney, un cacciatorpediniere lanciamissili, ha abbattuto tre missili da crociera, apparentemente lanciati dagli Houthi nello Yemen e diretti verso Israele.

Israele sta anche lottando per sedare i violenti scontri quotidiani nella Cisgiordania occupata. Domenica ha effettuato un attacco aereo su una moschea nel campo profughi di Jenin – il primo attacco aereo in Cisgiordania da due decenni – che ha ucciso almeno 2 persone. Coloni ebrei armati si sono scatenati nelle città palestinesi della Cisgiordania. Secondo l’ufficio umanitario delle Nazioni Unite, almeno 90 palestinesi in Cisgiordania sono stati uccisi da coloni armati o dall’esercito israeliano dall’incursione in Israele del 7 ottobre da parte di Hamas e altri combattenti della resistenza. Nelle ultime due settimane sono stati arrestati circa 4.000 lavoratori di Gaza e 1.000 palestinesi della Cisgiordania, raddoppiando il numero dei prigionieri palestinesi portandolo a 10.000 detenuti da Israele, oltre la metà dei quali sono prigionieri politici

“Molti dei prigionieri hanno avuto arti, mani e gambe rotte… espressioni degradanti e ingiuriose, insulti, imprecazioni, legati con le manette alla schiena e stringendoli all’estremità fino a causare forti dolori… nudi, umilianti e di gruppo perquisizione dei prigionieri”, ha detto in una conferenza stampa la Commissione per gli Affari dei Detenuti dell’Autorità Palestinese, Qadura Fares.

B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha detto alla BBC che dall’attacco del 7 ottobre è stato documentato “uno sforzo concertato e organizzato da parte dei coloni per sfruttare il fatto che tutta l’attenzione internazionale e locale è focalizzata su Gaza e sul nord di Israele per cercare di impossessarsi di terre in Cisgiordania.”

All’interno di Israele, i palestinesi con cittadinanza israeliana e documenti di identità di Gerusalemme vengono molestati, detenuti, arrestati ed espulsi dal lavoro e dalle università in quella che viene descritta come una “caccia alle streghe”. Più di 152.000 israeliani sono stati evacuati da città e villaggi vicino ai confini di Gaza e del Libano.

Gli Stati Uniti, nel tentativo di contrastare una risposta militare dell’Iran che potrebbe innescare una guerra regionale, stanno dispiegando altre 2.000 truppe in Medio Oriente. Rischiererà uno dei suoi gruppi d’attacco nel Golfo Persico e invierà ulteriori sistemi di difesa aerea nella regione. La USS Dwight D. Eisenhower e il suo gruppo d’attacco – che lo scorso fine settimana erano stati schierati nel Mar Mediterraneo orientale per unirsi alla USS Gerald R. Ford – sono stati reindirizzati nel Golfo Persico. Nel Golfo Persico sono stati inviati anche una batteria antimissile THAAD (Terminal High Altitude Area Defense) e battaglioni del sistema di difesa missilistica Patriot.

Israele ha scatenato i suoi quattro cavalieri dell’Apocalisse: morte, carestia, guerra e conquista.

Ha dato agli abitanti di Gaza due scelte. Lascia Gaza o muori.

I palestinesi verranno uccisi non solo dalle bombe e dai proiettili e, eventualmente, con l’invasione di terra, dai proiettili e dai proiettili dei carri armati, ma dalla fame e da epidemie come il colera. Senza acqua, carburante e medicine e con il collasso dei servizi igienico-sanitari, le malattie si diffonderanno rapidamente. L’ONU afferma che gli ospedali di Gaza “sono sull’orlo del collasso”. Migliaia di pazienti moriranno una volta esaurito il carburante per i generatori ospedalieri.

Un medico dell’ospedale al-Shifa di Gaza ha riferito in un’intervista sabato: “Stiamo crollando”. Ha parlato della mancanza di ossigeno, luce e forniture mediche, di mancanza d’acqua in alcuni reparti, di preoccupazioni per il colera e della perdita di medici uccisi dagli attacchi aerei israeliani, compreso un dentista ucciso nel bombardamento israeliano di una chiesa ortodossa che ha provocato almeno 18 morti, compresi diversi bambini.

La manciata di camion, 37 finora, di aiuti a Gaza è un cinico espediente di pubbliche relazioni richiesto dall’amministrazione Biden. Farà ben poco per alleviare la crisi umanitaria architettata da Israele. L’ONU afferma di aver bisogno di almeno 100 tir di aiuti al giorno. L’ultimo impianto di desalinizzazione dell’acqua di mare funzionante di Gaza è stato chiuso domenica per mancanza di carburante.

Israele non ha intenzione di revocare l’assedio totale su Gaza. Ha annunciato che aumenterà i suoi attacchi aerei. Continuerà, come ha fatto nelle ultime due settimane, a estinguere le vite dei palestinesi e a terrorizzarli e a farli morire di fame spingendoli a lasciare Gaza.

L’assalto di terra a Gaza non sarà rapido. Implica settimane, forse mesi, di combattimenti di strada. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha paragonato l’incombente battaglia a Gaza all’assalto statunitense alla città irachena di Mosul, controllata dall’ISIS, nel 2014. Ci sono voluti nove mesi agli Stati Uniti per riconquistare Mosul.

Quando Israele dice che questa sarà una “lunga guerra”, per una volta sta dicendo la verità.

Israele ha richiesto maggiori aiuti militari a Washington, 14,3 miliardi di dollari, compresi 10,6 miliardi di dollari per la difesa aerea e missilistica. Lo otterrà. Israele sta rapidamente esaurendo le sue scorte mentre martella Gaza, anche nel sud di Gaza, dove sono fuggite centinaia di migliaia di famiglie sfollate dal nord.

Israele non permetterà la distribuzione dei 100 milioni di dollari in aiuti statunitensi promessi ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, almeno fino a quando la campagna della terra bruciata non sarà terminata. Ma a quel punto Gaza sarà irriconoscibile. Israele lo avrà annesso in parte o del tutto. Forse il denaro può essere destinato alla costruzione di altri insediamenti ebraici illegali nella Cisgiordania occupata. E promettere aiuti non equivale ad appropriarsene. Quindi forse anche questo fa parte dell’illusione.

I funzionari egiziani sono profondamente consapevoli di ciò che verrà dopo. Fino alla metà, forse di più, dei 2,3 milioni di palestinesi verranno spinti da Israele in Egitto, al confine meridionale di Gaza, e non gli sarà mai permesso di tornare.

“Ciò che sta accadendo ora a Gaza è un tentativo di costringere i residenti civili a rifugiarsi e a migrare in Egitto, cosa che non dovrebbe essere accettata”, ha avvertito il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Rapporti provenienti dall’Egitto sostengono che Washington ha promesso di condonare gran parte dell’enorme debito egiziano di 162,9 miliardi di dollari, oltre a offrire altri incentivi economici in cambio dell’acquiescenza dell’Egitto alla pulizia etnica dei palestinesi. I profughi, una volta attraversato il confine con l’Egitto, verranno lasciati a marcire nel Sinai.

“C’è il grave pericolo che ciò a cui stiamo assistendo possa essere una ripetizione della Nakba del 1948 e della Naksa del 1967, anche se su scala più ampia. La comunità internazionale deve fare di tutto per evitare che ciò accada di nuovo”, ha affermato Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi occupati dal 1967.

Israele utilizza da tempo la guerra per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi. I funzionari governativi hanno apertamente chiesto un’altra Nakba, o “catastrofe”, il termine per gli eventi del 1947-1949, quando oltre 750.000 palestinesi furono sottoposti a pulizia etnica dalla Palestina storica e costretti nei campi profughi per creare lo Stato di Israele. Durante la guerra del 1967, che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, Israele effettuò la pulizia etnica di altri 300.000 palestinesi durante la Naksa, o “giorno della battuta d’arresto”, che viene commemorato ogni anno dai palestinesi.

La pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele, tuttavia, non si limita alle guerre. È in corso una pulizia etnica al rallentatore mentre Israele ha costantemente costruito sempre più colonie esclusivamente ebraiche e ha sequestrato in modo incrementale la terra palestinese. I palestinesi, a cui vengono negate le libertà civili fondamentali nello stato di apartheid israeliano, sono stati derubati di beni, tra cui, spesso, delle loro case. Hanno dovuto affrontare crescenti restrizioni sui loro movimenti fisici. Sono stati bloccati dal commercio e dagli affari, in particolare dalla vendita di prodotti agricoli. Si sono ritrovati sempre più impoveriti e intrappolati dietro i muri e le recinzioni di sicurezza erette intorno a Gaza e in Cisgiordania. Allo stesso tempo, hanno sopportato periodici attacchi aerei israeliani, omicidi mirati e attacchi quasi quotidiani da parte di coloni ebrei armati e dell’esercito israeliano.

Israele ha impedito ai palestinesi che lasciavano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza di ritornare al ritmo di circa 9.000 palestinesi all’anno dopo l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, fino alla firma degli accordi di Oslo nel 1994, secondo l’Israel Human Human Resources. gruppo per i diritti umani HaMoked. Secondo B’Tselem, Israele ha anche revocato i permessi di residenza a circa 14.000 palestinesi che vivevano a Gerusalemme Est dal 1967.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle attività umanitarie, Israele ha demolito 9.880 strutture, tra cui oltre 2.600 edifici residenziali abitati, sfollando oltre 14.000 persone e colpendone 233.681 nella sola Cisgiordania tra il 1° gennaio 2009 e il 7 ottobre 2023. Affari. Dall’attacco del 7 ottobre, altre 38 case e altre strutture sono state demolite in Cisgiordania, colpendo altre 13.613 persone e provocandone lo sfollamento.

Secondo i dati di Peace Now e del quotidiano israeliano Haaretz, meno del 2,2% delle richieste palestinesi di permessi di costruzione presentate tra il 2009 e il 2020 sono state approvate.

Il numero di coloni israeliani nei territori occupati, tuttavia, è passato da zero prima della guerra del giugno 1967 a un numero compreso tra 600.000 e 750.000 sparsi in almeno 250 insediamenti e avamposti in tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, tutti in violazione del diritto internazionale.

Israele non nasconde le sue intenzioni.

Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha detto alle truppe che si preparavano ad entrare a Gaza: “Ho rilasciato tutte le restrizioni”.

Il membro della Knesset Ariel Kallner, membro del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha invitato X, precedentemente noto come Twitter, a “una Nakba che oscurerà la Nakba del 48”.

L’esercito israeliano ha mobilitato Ezra Yachin, un veterano dell’esercito di 95 anni, per “motivare” le truppe. Yachin era un membro della milizia sionista Lehi che compì numerosi massacri di civili palestinesi, incluso il massacro di Deir Yassin del 9 aprile 1948, dove furono massacrati oltre 100 civili palestinesi, molte donne e bambini.

“Siate trionfanti e finiteli e non lasciate nessuno indietro. Cancellatene il ricordo”, ha detto Yachin rivolgendosi alle truppe israeliane.

“Cancellate loro, le loro famiglie, le madri e i bambini”, ha proseguito. “Questi animali non possono più vivere”.

“Ogni ebreo con un’arma dovrebbe uscire e ucciderli”, ha detto. “Se hai un vicino arabo, non aspettare, vai a casa sua e sparagli”.

Dove sono i nostri interventisti umanitari? Quelli che hanno pianto lacrime di coccodrillo sui diritti umani di ucraini, iracheni, siriani, libici e afghani, per giustificare massicce spedizioni di armi e la guerra? Dov’è la vecchia ala pacifista del Partito Democratico e della classe liberale? Cosa è successo agli intellettuali pubblici che denunciavano il massacro di innocenti e la macchina da guerra statunitense? Dove sono i giuristi che sostengono lo stato di diritto internazionale? Perché le poche voci solitarie che parlano del genocidio dei palestinesi da parte di Israele vengono attaccate, censurate e denigrate?

“Il presidente precedente voleva metterci al bando e probabilmente metterci nei campi di concentramento”, ha detto la deputata del Michigan Rashida Tlaib, di origine palestinese, in una manifestazione a sostegno del cessate il fuoco il 20 ottobre a Washington, davanti al Campidoglio degli Stati Uniti. “Questo vuole semplicemente che moriamo. È così che ci si sente. Che si vergognino.”

Israele non fermerà la sua campagna di genocidio a Gaza contro i palestinesi finché non ci sarà un embargo sulle armi da parte degli Stati Uniti nei confronti di Israele. I nostri sistemi d’arma, munizioni e aerei d’attacco sostengono il massacro. Dobbiamo porre fine agli aiuti militari da 3,8 miliardi di dollari che gli Stati Uniti danno ogni anno a Israele. Dobbiamo sostenere il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e chiedere la sospensione di tutti gli accordi di libero scambio e di altri accordi tra Stati Uniti e Israele. Solo quando questi sostegni verranno eliminati da Israele, la leadership israeliana sarà costretta, come è stato il regime di apartheid in Sud Africa, a integrare i palestinesi in un unico stato con pari diritti. Finché rimarranno questi sostegni, i palestinesi saranno condannati.

FONTE: https://substack.com/

TRADUZIONE: CAMBIAILMONDO.ORG

FERMARE LA TERZA GUERRA MONDIALE – ROMA 26/27 OTTOBRE

CONFERENZA INTERNAZIONALE, Roma, 27-28 ottobre 2023. Hotel Universo, Via Principe Amedeo, 5/b.

La Conferenza Internazionale di Roma “Fermare la Terza Guerra Mondiale. Per una pace vera e giusta“, organizzata dal Fronte Dissenso italiano assieme ad altri movimenti europei e internazionali, sta prendendo slancio. 

Hanno sottoscritto l’Appello che la convoca, oltre a migliaia di cittadini, decine di organizzazioni politiche e movimenti sociali dei diversi paesi e continenti: dalla Russia all’Ucraina, dall’Afghanistan agli U.S.A., dall’India all’Iraq, dalla Cina alla Palestina, dal Brasile alla Palestina, dall’Africa a tanti paesi dell’Europa. Delegazioni da molti di questi paesi saranno presenti alla Conferenza. 

L’iniziativa è rivolta a tutti i cittadini ed ai movimenti per la pace per dare forza alla resistenza contro le élite dominanti dei paesi NATO e contrastare la russofobia e la propaganda basata sulla menzogna della “guerra d’aggressione russa”

L’appello è sostenuto in Italia da personaggi di spicco come il generale Fabio Mini, il fisico Carlo Rovelli, l’ex ambasciatore in Cina Alberto Bradanini, lo storico Franco Cardini.

Alla conferenza parteciperanno tra gli altri l’ex primo ministro slovacco Ján Cˇarnogursky´, l’ex vice ministro della Difesa greco Konstantinos Isychos, il deputato libanese Ali Fayyad (Hezbollah), Karl Krökel degli Artigiani per la Pace di Dessau, Ernesto Arellano segretario della Confederazione Nazionale del Lavoro delle Filippine, la nota attivista pacifista americana Sara Flounders, il politologo olandese Kees van der Pijl, l’intellettuale marxista ungherese Tamás Krausz, il professore ed ex consigliere scientifico di Attac Rudolph Bauer.

La conferenza vuole gettare le basi per una rete internazionale inclusiva, duratura, e ben organizzata per la pace e contro ogni imperialismo. Il programma della conferenza ruota infatti attorno all’elaborazione di una dichiarazione comune per fondare questa rete. A tal fine saranno discusse le cause dei conflitti, anzitutto quello tra la Russia e la NATO in Ucraina, e indicati i compiti ed i passi da compiere per sventare il pericolo di una terza guerra mondiale. Di centrale importanza sarà la discussione sul tramonto del predominio nord-americano e l’avvento di un nuovo ordine mondiale multipolare rispettoso della sovranità dei popoli e degli stati nazionali.

La conferenza di Roma inizierà venerdì 27 ottobre alle ore 10:00, si concluderà sabato 28 ottobre alle ore 13:00. A seguire, a partire dalle ore 15:00, è indetta una manifestazione in Piazza dell’Esquilino a Roma, cui prenderanno la parole i delegati dei diversi paesi.

Per informazioni e ottenere l’accredito stampa:
conferenzainternazionaledipace@gmail.com
www.internationalpeaceconference.info
Tel: +39 320 40 12 846

Per maggiori informazioni: info@frontedeldissenso.it

FRANCIA-GERMANIA, IL DIVORZIO

di Sandro De Toni

La guerra in Ucraina sta ponendo fine anche all’Unione europea così come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi decenni, cioè un’Unione co-diretta dal duo franco-tedesco. Uno dei sintomi – peraltro poco avvertito dai commentatori italiani – è rappresentato dalle divergenze sempre più marcate tra Parigi e Berlino. I terreni di scontro sono essenzialmente tre: l’adesione dell’Ucraina alla Nato, la “Difesa europea” e la riforma del Patto di stabilità.
A segnalare il raffreddamento dei rapporti tra le due capitali, l’annullamento della visita del Presidente francese prevista per il 2 luglio scorso a Berlino per celebrare il sessantesimo anniversario del Trattato dell’Eliseo, il Patto di amicizia franco-tedesco. Una visita rinviata ufficialmente a causa delle rivolte delle banlieue.

A Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio scorso, Macron aveva ammesso di “aver fatto un’affermazione severa dichiarando, nel dicembre del 2019, la morte cerebrale della Nato; Vladimir Putin l’ha risvegliata con il peggiore degli elettrochoc”. Si stenta a riconoscere il Presidente che all’inizio del conflitto, fino a qualche mese fa, chiamava Putin un giorno sì e l’altro pure per convincerlo a sedersi al tavolo delle trattative. Un Presidente che nel corso del suo viaggio a Mosca e Kiev del 7-8 febbraio 2022, suggeriva una sorta di “finlandizzazione” dell’Ucraina con uno statuto di neutralità.

Parigi ha poi capovolto la sua posizione sull’adesione dell’Ucraina al Patto atlantico diventando uno dei suo maggiori sponsor. I motivi sono due, uno tattico, l’altro strategico. Parigi si avvicina tatticamente ai paesi dell’est europeo e ai paesi baltici, cercando di conquistare la leadership nella futura UE che la vede insieme, per l’appunto alla Polonia, come il paese con le forze armate più forti. Approfittando della confusione strategica che regna in Germania, orfana di una pluridecennale ostpolitik che garantiva materie prime e risorse energetiche a basso costo e pressata dagli Usa a ridimensionare i suoi rapporti commerciali con la Cina, Parigi si accredita presso le capitali dell’est europeo come garante del permanere di una politica europea antirussa. Sempre nella capitale slovacca ha avuto modo di chiarire di non credere “che ci sia un Europa occidentale ed un Europa orientale, una vecchia Europa e una nuova Europa. Sarebbe perpetuare una frontiera artificiale imposta per decenni dall’Unione sovietica”. Per rendere più credibile il suo avvicinamento alle preoccupazioni dei paesi dell’est europeo Macron ha annunciato la fornitura all’Ucraina di missili Scalp a medio raggio (300 km) che possono perforare le difese dei bunker.

In una prospettiva a medio termine, conclusa temporaneamente la guerra in Ucraina con una tregua sul modello coreano, rimarrebbe il problema di fornire garanzie a Kiev nel caso di una ripresa dell’aggressione russa. I dirigenti francesi hanno parecchi dubbi sul futuro impegno statunitense sul suolo europeo che prevedono sarà rivolto invece con sempre maggior attenzione all’indopacifico. Vincolare gli Usa con l’adesione dell’Ucraina alla Nato e con il dispositivo dell’articolo 5 del Trattato di difesa del Nordatlantico, fornirebbe una garanzia non solo agli ucraini ma anche agli altri europei. Gli Stati uniti condividerebbero così con i paesi del vecchio continente il fardello della probabile futura ripresa della guerra.

Il voltafaccia di Macron ha irritato non poco Berlino. Olaf Scholz teme invece che questo passo possa condurre ad un’escalation bellica e punta a ristabilire nei prossimi anni un rapporto meno conflittuale con la Federazione russa per salvaguardare gli interessi del proprio apparato produttivo.

Anche l’ipotesi di una “Difesa europea” (all’interno della Nato, beninteso) fa litigare i due ex-comprimari: la Germania si riarma ma con apparati bellici statunitensi, mentre Parigi punta le sue carte sui consorzi industriali europei. Il caso degli F-16 acquistati dalla Germania invece di puntare su un aereo di fabbricazione europea è emblematico.

Infine, mentre la Francia, insieme a Italia e Spagna, vuole riformare i criteri pro-ciclici del Patto di stabilità europeo abbandonando almeno parzialmente le politiche di austerità, Berlino vuole sostanzialmente mantenerle.

La domanda da porsi è se può continuare ad esistere un’Unione europea con una Germania declassata ad un ruolo subalterno. Difficile da credere.

Domenico Gallo: la Pace tra Russia e Ucraina fu “sventata” dall’occidente a inizio primavera del 2022

Sventare la Pace?

Adesso sappiamo che nel marzo aprile del 2022 le Cancellerie dei principali paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia, si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace, che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni.

(articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano del 22 giugno con il titolo, USA & C: hanno sabotato il piano di pace del 2022)

di Domenico Gallo

Nell’era della comunicazione, in cui siamo interconnessi con tutto il mondo e possiamo ricevere qualunque notizia in tempo reale, ancora una volta viene fuori che le Cancellerie delle grandi potenze agiscono nel modo più occulto possibile e tengono rigorosamente nascoste le loro scelte di guerra che passano sulla testa dei popoli.

Noi credevamo che la diplomazia segreta, intessuta sulla pelle dei popoli appartenesse al passato, com’ è avvenuto durante la Prima guerra mondiale quando, attraverso un Trattato segreto stipulato a Londra il 26 aprile 1915, un piccolo Re, concordò, all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica, l’entrata dell’Italia in guerra, ben sapendo che avrebbe determinato la morte di centinaia di migliaia dei suoi sudditi.

Invece adesso viene fuori che le Cancellerie dei principali paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia, si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace, che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni.

In verità il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Si trattava di un’anticipazione giornalistica, che non venne confermata dalle parti in causa, però se ne potevano dedurre delle tracce dalle dichiarazioni di Zelensky e dei suoi più stretti consiglieri che all’epoca, in più occasioni, riconobbero che l’Ucraina poteva rinunziare all’ingresso nella NATO e accettare uno status di neutralità.

Già all’epoca, gli osservatori più attenti, come Jeffrey Sachs (intervista al Corriere della Sera del 1° maggio 2022) osservarono con sospetto che, a fronte di queste proposte di pace, l’Amministrazione USA aveva mantenuto un silenzio di tomba. In realtà non solo l’Amministrazione USA, ma anche la Gran Bretagna, i vertici dell’Unione Europea e le Cancellerie dei principali paesi europei hanno mantenuto un silenzio di tomba, in ciò aiutati dall’atteggiamento omertoso della stampa che non ha mai posto domande che potessero disturbare il manovratore.

Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Time erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Il 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leaders africani, guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022, si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento con la firma del capodelegazione dell’Ucraina.

Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Charkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”. Il documento, in 18 articoli, era denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina.”

L’accordo non si limitava a petizioni di principio, ma conteneva un allegato dettagliato con clausole specifiche, fino alle unità di equipaggiamento da combattimento e al personale delle Forze armate. Si trattava, pertanto, di un accordo specifico, concreto, del tutto idoneo a porre fine alla guerra. Un indizio è la prova di un fatto ignoto che si desume da un fatto noto. Il fatto noto è l’esistenza di un trattato di pace che avrebbe posto fine alla guerra.

Da questo fatto, non più contestabile, se ne deduce che vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli USA e la Gran Bretagna, in quanto i principali fornitori di armi all’Ucraina.

L’accordo non è stato attuato perché evidentemente Biden e Jhonson hanno posto il veto, assicurando a Zelensky che gli avrebbero fornito una tale potenza di fuoco da rovesciare le sorti del conflitto. L’accordo non poteva essere sconosciuto dagli Stati indicati come garanti della protezione dell’Ucraina neutrale da ogni aggressione, fra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Turchia; di conseguenza anche i vertici dell’Unione Europea ne dovevano essere a conoscenza.

Essendo a conoscenza dell’accordo questi Stati ed i vertici UE dovevano necessariamente essere a conoscenza anche delle manovre poste in essere per sventare la pace. Eppure hanno taciuto, hanno conservato un silenzio di tomba, evidentemente condividendo quelle condotte che hanno istigato l’Ucraina a stracciare l’accordo che i suoi stessi negoziatori avevano firmato.

Quando si fanno dei misfatti occorre tenerli rigorosamente nascosti per poter conseguire lo scopo. Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande “famiglia atlantica”, evidentemente valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte.

Nascondendo questa verità, che la guerra poteva essere fermata dopo poche settimane dal suo scoppio ed evitati infiniti lutti, è stato compiuto un tradimento in danno di tutti i popoli europei. Per completare l’opera, anche adesso la notizia dell’accordo di pace sventolato da Putin è stata tenuta rigorosamente segreta da TV, giornali ed agenzie di stampa. Ma noi non possiamo tacere e la urliamo sui tetti.

FONTE: https://www.domenicogallo.it/2023/06/sventare-la-pace/

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