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L’ampliamento dei Brics ulteriore passo in avanti nella ridefinizione degli assetti geopolitici e geoeconomici internazionali – parte III

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Processo di dedollarizzazione II

L’utilizzo delle principali valute: la supremazia decadente del Dollaro

Nell’intento di inquadrare all’interno di una cornice oggettiva la situazione della moneta statunitense, sia in relazione ai prematuri slanci verso l’imminente disarcionamento del Dollaro dal ruolo di asse portante del Sim (Sistema monetario internazionale), sia rispetto alle affermazioni di inattaccabilità della sua egemonia globale, procediamo ad analizzare il panorama valutario internazionale alla luce delle varie funzioni rivestite dalle principali monete.

Nel campo delle operazioni internazionali effettuate tramite coppie di valute attraverso il Forex1, secondo l’ultima inchiesta triennale della Banca dei Regolamenti Internazionali (Bri), che considera l’interscambio da entrambi i lati, quindi su base 200, nel 2022 il Dollaro restava saldamente al vertice con l’88,5 delle operazioni in valuta estera (grafico 1), quota rimasta invariata dal 19892

Grafico 1: ruolo degli Usa e del Dollaro a livello mondiale. Periodo: 2° quadrimestre 2022

Ad ampia distanza seguivano l’Euro col 32 e la coppia Yen – Sterlina entrambi col 17, mentre lo Yuan, seppur in espansione rispetto allo 0 del 2007 arrivava a ricoprire solo il 7 del totale, sempre nel secondo semestre 2022 (grafico 2).

Grafico 2: quota di transazioni in Yuan nell’ambito del Forex fra 2007 e 2022. Fonte: Bri

Le sanzioni alla Russia spingono i Brics verso la dedollarizzanione delle transazioni

Le transazioni internazionali hanno tuttavia subito una brusca accelerazione verso la dedollarizzazione dall’inizio del 2022, soprattutto per quelle riguardanti i paesi del Brics, a seguito delle varie tranche di misure restrittive adottate contro la Russia. In particolare, ma non solo, ciò ha interessato principalmente l’interscambio fra Mosca e Pechino, il quale nel corso del 2023, in contemporanea con un cospicuo aumento del 26,4% del valore dei commerci, giunti al record assoluto di 240 miliardi di $, in base ai dati dell’Amministrazione generale delle dogane di Pechino3, ha registrato anche una rapida impennata delle transazioni in Yuan. Infatti, secondo quanto dichiarato dalla governatrice della Banca centrale russa, Elvira Nabiullina, la quota di esportazioni russe effettuate tramite la divisa cinese è passata dal 0,4% di due anni or sono al 34,5% di inizio 2024, mentre per ciò che concerne le importazioni, nello stesso arco di tempo, è salita dal 4,3% al 36,4%.

Quindi in soli due anni la moneta cinese è divenuta la più utilizzata dalla Russia nelle transazioni estere, con inevitabili riflessi sulla composizione delle riserve valutarie di Mosca, come ha esplicitamente affermato la governatrice stessa: “Fino al 2022, nelle nostre riserve c’era una quota significativa di Dollari ed Euro. Ciò era dovuto al fatto che i contratti di commercio estero erano in gran parte stipulati in queste valute. Ora, l’attività economica estera sta passando molto attivamente all’uso di altre divise, principalmente lo Yuan”4.

In pratica le sanzioni occidentali hanno determinato un doppio, seppur diversificato effetto boomerang a danno degli stessi committenti: i paesi europei nel suo complesso sono risultati penalizzati negli scambi commerciali sia con Mosca che con Pechino nel 2023, mentre gli Usa hanno principalmente subito una flessione nell’utilizzo della propria moneta nelle transazioni internazionali.

La ridefinizione della geografia dei commerci mondiali e dell’utilizzo delle valute, risultano tuttavia tendenze in atto su scala globale che vanno ben oltre i confini delle relazioni economiche fra Mosca e Pechino.

Negli ultimi due anni, infatti, gli scambi commerciali relativi a prodotti energetici raffinati, gas e petrolio sono stati effettuato in misura crescente con valute alternative al Dollaro. Un processo in rapida evoluzione sotto la spinta delle sanzioni e della determinazione dei Brics di perseguire una ridefinizione degli equilibri geoecenomici globali che ha portato nel 2023 a circa il 20% la quota del commercio globale di petrolio, la commodity più scambiata5, ad essere oggetto di transazioni in altre monete, compresi i Dirham emiratini e le Rupie indiane. New Delhi, infatti, grazie ad un accordo con Abu Dhabi finalizzato a regolare le loro transazioni in Rupie, principalmente petrolio, è divenuta nel 2023, secondo Mario Lettieri e Paolo Raimondi6, la seconda partner commerciale degli Emirati, con un interscambio totale in graduale avvicinamento ai 100 miliardi di $, e sta lavorando ad un’intesa con l’Arabia Saudita per regolare gli acquisti di petrolio in Rupie, oltre a stringere accordi con altri paesi per transazioni in valute nazionali. Ciò al netto del fatto che Riad dopo aver espletato tutti i passaggi formali per l’adesione al Brics prevista per il 1 gennaio 2024 insieme ad Iran, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia e Argentina, dopo il ritiro di quest’ultima ad opera di Milei il 29 dicembre 2023, non ha ancora ufficializzato l’ingresso nel blocco, restando in una fase di empasse7. Posizione attendista, in merito alla quale la leadership saudita dovrà sciogliere la riserva entro il prossimo vertice del Brics+8, previsto per ottobre a Kazan in Russia, garantendo o meno al propria presenza.

Sostanzialmente analoga la situazione per ciò che concerne l’utilizzo del Dollaro nell’ambito dell’intero interscambio commerciale fra soli paesi del Brics, nel cui contesto durante il 2023 il biglietto verde è stato ridimensionato ad appena il 28,7% del totale.

Una quota che con il recente ingresso nel Brics degli Emirati Arabi Uniti e dell’Iran, nel 2022 rispettivamente settimo e ottavo produttori mondiali di petrolio9, andrà con ogni probabilità incrementandosi nell’anno in corso, anche alla luce del fatto che i primi stanno tessendo la tela diplomatica con altri 15 paesi per promuovere gli scambi in monete nazionali e il secondo ne ha estrema necessità essendo stato soggetto a pesanti sanzioni da Trump a partire dall’agosto 2018, facendo carta straccia dell’accordo sul nucleare (Jcpoa) raggiunto da Obama con i vertici della Repubblica Islamica nel luglio del 2015, nell’ambito del quadro diplomatico detto P5+1 vale a dire Stati Uniti, Cina, Russia, Regno Unito, Francia e Germania 10.

La situazione valutaria relativa alle riserve monetarie e al mercato dei titoli di stato

Rispetto all’utilizzo delle monete in qualità di riserve valutarie, al cospetto di una situazione sostanzialmente analoga di attuale supremazia del biglietto verde, diversa risulta invece la dinamica registrata nel corso dell’ultimo ventennio, durante il quale il Dollaro ha subito un marcato ridimensionamento passando dal 72% del 2000 al 58,4% del 2023 (grafico 3), tuttavia a favore di monete di propri alleati geopolitici come il Dollaro australiano e quello canadese.

Grafico 3: quota di riserve delle Banche centrali in dollari 1995-2023. Fonte :Fmi

Viceversa, lo Yuan è salito da 0% di inizio millennio, quando la Cina non era ancora membro del Wto, al 2,6% dello scorso anno, una quota che seppur in leggera crescita appare ancora decisamente bassa per poter pensare di scalfire l’egemonia del biglietto verde (grafico 4). L’espansione della valuta cinese in questo campo risulta penalizzata, oltre che dalla sua mancata totale internazionalizzazione, dal fatto che per qualsiasi paese risulta problematico detenere riserve in valute diverse rispetto a quella in cui è stato denominato il proprio debito sovrano.

Grafico 4: quote delle 7 valute detenute come riserve monetarie delle Banche centrali fra 2016 e 2022. Dollaro in viola, Euro in verde chiaro, Sterlina inglese in verde scuro, Yen giapponese in grigio, Yuan cinese in nero, Dollaro australiano in rosso e dollaro canadese in giallo. Fonte: 11

Gli investimenti sul Dollaro sono ancora percepiti come un rifugio sicuro per i capitali anche per quanto riguarda il mercato dei Titoli di stato, nel cui contesto si registra ancora un netto predominio del biglietto verde grazie ai 23.000 miliardi di $ di Titoli del Tesoro Usa, un valore 11 volte superiore ai 2.000 $ di quello tedesco12.

Il ruolo preminente del Dollaro, in questo campo è supportato anche dall’imponente debito federale degli Stati Uniti che ad inizio 2024 ha raggiunto la stratosferica cifra di 34.000 miliardi di dollari, pari al 123,3% del Pil13, del quale, tuttavia, solo il 24% corrispondente a circa 8.100 miliardi di $ (grafico 5 – istogramma) è in mano a soggetti stranieri, sia governi che investitori privati.

Nonostante il disimpegno della Cina che, per motivi geopolitici e per ritorsione verso la guerra commerciale di Trump, ha alleggerito la propria posizione sui Treasury bond14 dal 15% del 2010 al 10% del 2023, e del Giappone sceso, da oltre il 35% del 2005 al 15% dello scorso anno (grafico 5 – diagramma), la disponibilità estera dei titoli di stato statunitensi, è cresciuta nel 2023 di 427 miliardi di dollari a beneficio di altri attori come Regno Unito, Canada, India e Francia15 (grafico 6).

Grafico 5: diagramma lineare quota di debito pubblico Usa detenuto da Giappone e Cina 2000-2023 (valori a destra). Istogramma: entità di debito pubblico in mani straniere (valori a sinistra)

Grafico 6: possessori internazionali di titoli di stato Usa confronto gennaio 2018 – marzo 2023

Il ruolo egemone dello Swift fra le piattaforme di pagamenti internazionali

Lo Swift, acronimo di Society for Worldwide Interbank Financial Telecomunican (società per le telecomunicazioni finanziarie interbancarie mondiali), costituisce un sistema di pagamenti interbancari internazionali che, attraverso l’attribuzione di un codice ad ogni istituto bancario, consente di facilitare le transazioni finanziarie su piazze estere.

La piattaforma finanziaria in questione risulta controllata dalle Banche centrali di Belgio, dove ha la sede, Francia, Stati Uniti, Canada, Germania, Italia, Paesi Bassi, Svezia, Svizzera, Giappone e Regno Unito ed ha lo scopo di consentire il pagamento diretto anche nel caso in cui i due soggetti coinvolti nella transazione non siano clienti dello stesso istituto bancario.

In base a quanto riportato nel sito ufficiale dello Swift16 attualmente vi sono collegate 11.600 istituzioni bancarie appartenenti a oltre 200 fra paesi e territori ed indubbiamente costituisce la piattaforma dominante nel sistema finanziario internazionale per il trasferimento di fondi.

La ripartizione geografica delle transazioni relativa al mese di gennaio del 2022, l’ultimo prima dell’escalation del conflitto in Ucraina e delle sanzioni occidentali ai danni di Mosca, presentava il seguente quadro: il 45,5% riguardavano Europa, Medio Oriente e Africa, il 40% Americhe e Regno Unito e il 14,5% Asia e Pacifico17.

A conferma della crescita del proprio ruolo nel contesto economico-finanziario internazionale, anche la Cina, ha proceduto alla strutturazione di una propria piattaforma denominata Cips, acronimo di Cross-Border Interbank Payment System (sistema di pagamento interbancario di pagamento) incentrata sullo Yuan e gestita dalla Banca centrale cinese, la People’s Bank of China (Bpc), la quale, tuttavia, nel 2020, secondo Lettieri e Benvenuti, non arrivava a coprire nemmeno lo 0,5% del volume delle transazioni internazionali18. Alla piattaforma cinese ad inizio 2022 aderivano 1.280 banche appartenenti a 103 paesi, fra le quali istituti europei, statunitensi, giapponesi, russi e africani e nel 2016 ha sottoscritto un accordo con lo Swift in modo potervi operare anche i soggetti che non hanno aderito al Cips.

Anche la Russia ha un proprio sistema di pagamenti il Spfs, acronimo di System for Transfert of Financial Messages (sistema per il trasferimento di messaggi finanziari) ma a differenza del Cips cinese viene utilizzato soprattutto per i regolamenti interni oltre che da alcune banche con sedi in Germania e Svizzera oltre a quelle di paesi dello spazio ex sovietico come Bielorussia, Armenia, Kazakistan e Kirghizistan, per un totale di 400 istituti di credito sempre ad inizio 2022.

L’utilizzo dello Swift come arma geopolitica

Risultando un sistema di pagamento sotto controllo esclusivamente occidentale, lo Swift con l’acuirsi delle tensioni internazionali è stato trasformato da semplice strumento finanziario, in parallelo col ruolo del Dollaro19, in un’arma di natura geopolitica in considerazione del fatto che le istituzioni bancarie che ne vengono escluse accusano gravi problematiche nell’attuare trasferimenti di fondi all’estero.

Il potere di comminare l’esclusione di determinate istituzioni bancarie dallo Swift è riservato agli istituti finanziari e alle autorità nazionali che le supervisionano. Ed stato proprio nell’ambito dei vari pacchetti sanzionatori imposti unilateralmente alla Russia senza approvazione dell’Onu a partire dal 23 febbraio 202220, che la terza tranche entrata in vigore il 2 marzo successivo, su input dei governi di Stati Uniti, Canada, Regno Unito e Unione Europea, ha disposto l’esclusione di 7 banche russe dallo Swift21. Mentre nel sesto pacchetto, approvato il 3 giugno, stessa sorte è stata riservata anche alla principale banca russa, la Sberbank, in parte di proprietà del colosso del gas Gazprom, alla Credit Bank of Moscow e alla Russian Agricultural Bank22. Tuttavia, i governi dei paesi membri dell’Ue non hanno escluso la terza banca russa, Gazprombank, in quanto viene utilizzata da Mosca per le transazioni energetiche e, per quel che ci riguarda, in particolare del gas dal quale dipendeva fino ad inizio 2022 oltre 40% del’totale dell’import dell’Ue23 e che nel 2023 ha continuato a coprire il 15% l’approvvigionamento estero comunitario24. Con l’inquietante paradosso che mentre abbiamo diminuito l’import di gas russo via conduttura acquistato con contratti pluriennali a basso costo, a causa delle sanzioni e del sabotaggio dei gasdotti del baltico, nei primi sette mesi del 2023 l’Ue, rispetto al corrispondente periodo del 2021, ha incrementato di ben il 40% (da 15 mln a 22 mln di mc) l’import da Mosca del sensibilmente più costoso GNL25.

A seguito della frattura geoeconomica apertasi fra Russia e paesi occidentali a causa dalle varie tranche di provvedimenti restrittivi, arrivati alla tredicesima il 23 febbraio 2024, e dal Piano REPowerEU del 18 maggio 2022, tramite il quale abbiamo deciso di rinunciare ameno sulla carta alle fonti e ai prodotti energetici russi, Mosca ha elaborato varie strategie per aggirare le sanzioni, cercando canali commerciali alternativi, soprattutto Cina e India, e utilizzando altre valute per regolare i pagamenti internazionali. Rispetto a quest’ultima problematica, le autorità russe si sono orientate principalmente verso l’utilizzo dello Yuan contribuendo ad aumentare il ruolo della divisa cinese nel panorama mondiale delle transazioni, una strategia non solo di natura economico-finanziaria ma anche, se non soprattutto, di carattere geopolitico. Conseguentemente la filiale moscovita della Industriale and Commercial Bank of China (ICBC), la principale banca mondiale con 400 milioni di clienti e 203 filiali estere, fra cui anche Milano26, dislocate in 40 paesi, ha sensibilmente aumentato il volume delle transazioni in Yuan fra Mosca e Pechino, in quanto collegata sia alla piattaforma cinese Cips che a quella russa Spfs, oltre che allo Swift27. Infatti negli ultimi 3 trimestri del 2022 la filiale moscovita dell’ICBC ha incrementato di oltre il 290% i depositi dei clienti e quasi 50 istituzioni bancarie vi hanno aperto un conto per poter operare con la Russia, aggirando di fatto le sanzioni occidentali28.

Il processo di dedollorazione, seppur in recente accelerazione, ha tuttavia un orizzonte ancora lontano per potersi completare, in quanto la maggior parte dei regolamenti dei flussi commerciali viene ancora effettuata tramite le valute dei paesi del G7 e in particolar in Dollari attraverso lo Swift. Infatti, a settembre dello scorso nell’ambito dello Swift, il Dollaro ricopriva una quota del 45,58% delle transazioni, l’Euro il 23,60%, la Sterlina il 7,32% e lo Yen il 4,20%, mentre lo Yuan seppur in crescita si attestava al quinto posto col 3,71%.

L’effettiva emancipazione del Brics+ dalla piattaforma sotto controllo occidentale potrà realizzarsi solo creando un proprio sistema multilaterale di pagamenti basato sulle proprie divise nazionali. Ed è proprio in questa ottica che a partire dal 2018 si stanno impegnando nella realizzazione del progetto Brics Play basato sull’utilizzo di tecnologie innovative come le piattaforme blockchain29 e le valute digitali ufficiali controllate della Banche Centrali (CBCD30), fra le quali lo Yuan digitale, entrato in vigore ad inizio 2022, oltre a numerose altre che si trovano nelle diverse fasi di progettazione e sperimentazione, soprattutto appartenenti a potenze emergenti come Russia, Arabia Saudita e Sudafrica (carta 1). Infatti il Brics Pay è stato predisposto in modo da poter utilizzare tutte le monete digitali dei paesi del Brics+31.

Carta 1: la situazione delle CBDC nei vari paesi.

Fonte: statista https://it.benzinga.com/2023/06/26/cbdc-quali-rischi-investitori-crypto/

Conclusioni

L’attuale situazione internazionale relativa all’impiego delle principali valute, per ciò che concerne le transazioni internazionali, le riserve delle Banche centrali e il mercato dei titoli di stato, come emerso in precedenza, presenta dunque carattere di fluidità e complessità che, a nostro avviso, per essere efficacemente inquadrata necessita di tenere in considerazione oltre alle dinamiche in atto anche la panoramica generale globale.

In considerazione di ciò, il quadro descritto in sintesi dall’agenzia britannica Reuters “Le Banche centrali stanno sperimentando una più ampia varietà di asset, fra cui obbligazioni di società private (corporate bonds. ndr), titoli di stato (government bonds), beni immobiliari, oro e ovviamente altre valute”, al pari di quello dall’amministratore delegato di Toscafund Hong Kong, Mark Tinkter, “Questo è il processo in corso. Il Dollaro verrà utilizzato sempre di meno nel sistema globale”32, a nostro avviso, se, da un lato, risultano entrambi centrati in relazione alle dinamiche in atto, dall’altro, non fotografano esaustivamente nel suo complesso la situazione valutaria mondiale attuale.

Dalla nostra analisi emerge come in un contesto in cui la posizione del Dollaro risulti al momento ancora maggioritaria, la sua parabola discendente sembra inesorabilmente esser stata imboccata, come ha efficacemente inquadrato la Banca centrale indiana (Reserve bank of India – Rbi): “Sembra, quindi evidente che mentre il dominio rimane per ora incontrastato, esso ha iniziato ad erodersi lentamente e in futuro l’ordine economico dovrà evolversi per guardare oltre la valuta statunitense”. Una prospettiva sostenuta anche dalla maggior parte degli analisti più qualificati, i quali prevedono che il Dollaro, almeno per qualche lustro, non verrà scalzato, principalmente per mancanza di competitor effettivi33, dalla leadership globale da altre valute, premunendosi, tuttavia, di specificare che il panorama valutario mondiale è destinato a subire un inevitabile riequilibro.

Lo scenario che potrebbe delinearsi nel Sistema monetario internazionale (Sim), nel cui ambito il Dollaro a fine 2022 rappresentava ancora il 56% degli investimenti finanziari internazionali e il 58,4% delle riserve delle Banche centrali34 (tabella 1), non presagisce tanto il passaggio di leadership a vantaggio di un’altra divisa, quanto, nel contesto della ridefinizione degli equilibri geoeconomici e geopolitici sospinti in senso multipolare dal Brics, la formazione di un ordine valutario internazionale basato su un nuovo assetto “multy-currency35.

La tendenza, già in atto da alcuni anni, e in accelerazione dal febbraio 2022, indica che le Banche centrali stanno operando in modo da adeguare i propri asset monetari verso un paniere diversificato di valute, sotto la spinta dell’evoluzione strutturale del commercio mondiale a favore dei paesi emergenti e della riorganizzazione per aree geoeconomiche “amichevoli”.

Tabella 1: quota attuale di utilizzo del dollaro nelle forme di impiego

Tipologie di impiegoDollaro 2023
Investimenti finanziari56,0%
Riserve delle Banche Centrali58,4%
Forex (anno 2022) indice su base 20088,5
Swift (settembre 23)45,58%

Il processo di dedollarizzazione dell’economia e del Sistema monetario internazione è destinato a proseguire, tuttavia attraverso un non lineare incedere, le cui eventuali accelerazioni potrebbero derivare da eventi internazionali particolarmente gravi sia di carattere geoeconomico/finanziario che geopolitico/militare.

Soprattutto ulteriori tensioni geopolitiche o, addirittura, rotture dell’ordine economico internazionale, come le sanzioni alla Russia e il piano comunitario REPoweEU36 o di un inizio di disimpegno dagli asset in Dollari da parte dei grandi fondi di investimento, BlackRock e Vanguard in primis37, finiranno per imprimere nuovo slancio allo sganciamento dal Dollaro. In tal caso potrebbe formarsi, secondo Reanud Lambert e Dominique Plihon, un’area “Indipendente dal Dollaro” per gli stati sotto sanzioni statunitensi. In tale contesto, come afferma a tal proposito l’autorevole economista James K. Galbraith: “La Cina assumerebbe un ruolo chiave tra i due sistemi (monetari. ndr), (divenendo. ndr) punto di fermo di una struttura multipolare”.

Washington potrebbe, quindi, risultare lei stessa penalizzata dall’estremizzazione dell’utilizzo a fini politici del Dollaro, come rileva anche Galbraith: “Se Pechino dovesse a sua volta essere oggetto di decisioni così severe (come quelle imposte a Mosca. ndr), allora potrebbe prodursi una rottura in grado di dividere il mondo in due blocchi isolati”. Un passo azzardato che, visto l’enorme interscambio commerciale38 e finanziario in essere fra Washington e Pechino, gli Stati Uniti valuteranno sicuramente a fondo prima di compiere, in quanto innescherebbe ripercussioni negative in primis sui propri titoli di stato.39

“La multipolarità monetaria perseguita dal Brics, (parallelamente a quella geopolitica e geoeconomica. ndr)”, conclude Galbraith, “Potrebbe essere negativa per l’oligarchia, ma vantaggiosa per la democrazia, per la protezione del pianeta e per il bene comune. Da questo punto di vista non arriverà troppo presto. Le grandi trasformazioni dell’ordine economico mondiale sopraggiungono solo in occasione di crisi estrema”.

L’accelerazione del processo di ridimensionamento della supremazia globale del Dollaro risulterebbe, dunque, più interconnessa al livello di spregiudicatezza delle linee di politica internazionale di Washington, che alla reali attuali potenzialità del Brics di realizzare a breve un ordine monetario internazionale alternativo. Come già ebbe a presagire nel marzo 2022, all’indomani delle prime misure restrittive, il Vice direttore generale del Fmi, Gita Gopinath: “Le sanzioni contro la Russia potrebbero erodere il dominio del Dollaro incoraggiando blocchi di trading più piccoli in altre valute”. Anche perché il Brics nel suo complesso non sembra nelle condizioni di riuscire a portare a compimento il progetto di sostituzione del Dollaro con un’altra valuta a corso legale, essendo al momento orientato verso l’istituzione di una unità di conto40, più che di una moneta comune.

Il futuro Sistema Monetario Internazionale potrebbe anche assumere un assetto multipolare strutturato in “zolle valutarie”, ciascuna dominata da una singola divisa che andrebbe a ricalcare quello geopolitico globale attualmente in fase di ridefinizione, il quale sembrerebbe orientato a delinearsi in “placche geopolitiche e geoeconomiche” tendenzialmente assoggettate all’influenza di una potenza macroregionale

Indipendente dai connotati che assumerà in futuro il Sistema monetario internazionale, i tempi di sviluppo della curva di flessione della supremazia globale del Dollaro risultano, quindi in primis, nelle mani, o per meglio dire nelle politiche, delle future amministrazioni di Washington a partire da quella che uscirà dalle ormai prossime presidenziali del novembre.

Andrea Vento – 29 aprile 2024

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati (Giga)

NOTE:

1Il Forex è il mercato dove avvengono tutte le negoziazioni che hanno per oggetto le differenti valute. Non a caso, il termine stesso Forex deriva dall’inglese FOReign EXchange market. Ha origini antiche e nasce da esigenze commerciali di cambiare una valuta per un’altra, al fine di concludere transazioni. Il Forex è il mercato delle valute e ad essere scambiate non sono le singole valute, come spesso si dice, ma coppie di valute. Per esempio, non è possibile vendere dollari e basta. Bisogna vendere dollari e comprare, contemporaneamente, un’altra valuta, ad esempio euro. Nel Forex si ragiona, quindi, in termini di coppie di valute: ad esempio, EUR/USD sta ad indicare il cambio euro/dollaro.

https://www.prestitionline.it/guide-prestiti/domande-frequenti/cos-e-il-forex-e-come-funziona

2 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

3 https://www.agenzianova.com/a/65a10ef4d46c74.84366983/4764358/2024-01-12/cina-russia-interscambio-commerciale-tocca-record-di-240-miliardi-di-dollari-nel-2023

4 https://www.agenzianova.com/news/russia-la-governatrice-della-banca-centrale-lo-yuan-cinese-ha-rimpiazzato-il-dollaro-nelle-nostre-operazioni/

5 Il commercio del petrolio ammonta a circa 1/5 del valore dell’interscambio mondiale complessivo

6 Nei Brics non si usa più il dollaro di Mario Lettieri e Paolo Raimondi. https://www.italiaoggi.it/news/nei-brics-non-si-usa-piu-il-dollaro-2627434

7 https://it.marketscreener.com/notizie/ultimo/L-Arabia-Saudita-sta-ancora-considerando-l-adesione-ai-BRICS-dicono-le-fonti-45767507/

8 Brics+ è nuova denominazione del gruppo allargato, dopo gli ingressi del 1 gennaio 2024

9 https://www.energiaitalia.news/news/petrolio/petrolio-la-classifica-dei-20-piu-grandi-produttori-mondiali/25339/

10 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/iran-tornano-vigore-le-prime-sanzioni-usa-21095

11https://www.groupama-am.com/it/article/la-progressiva-de-dollarizzazione-delleconomia-mondiale/

12 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

13 https://www.italiaoggi.it/news/il-debito-usa-e-sempre-piu-alto-2624189

14 I Treasury Bond (T-Bond) sono titoli del debito pubblico statunitense di lungo termine

15 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

16 https://www.swift.com/about-us

17 https://www.fondopriamo.it/blog/priamo/sistema-swift

18 https://www.italiaoggi.it/news/nei-brics-non-si-usa-piu-il-dollaro-2627434

19 Saggio: L’ascesa dei Brics parte II: La complessa questione della dedollarizzazione di Andrea Vento (mettere link)

20 La prima tranche di sanzioni occidentali è stata introdotta un giorno prima l’avvio dell’Operazione speciale russa in Ucraina a conferma della finalità di natura geoeconomica tesa a creare una frattura fra Ue e Russia a beneficio Usa

21 Nel dettaglio il provvedimento sanzionatorio ha colpito: VTB, Bank Otkritie, Novikombank, Promsvyazbank, Rossiya Bank, Sovcombank, Vneseheconombank (VEB) https://www.confindustria.it/home/crisi-ucraina/sanzioni

22 https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2022/06/03/russia-s-aggression-against-ukraine-eu-adopts-sixth-package-of-sanctions/

23 https://www.agi.it/estero/news/2022-01-29/ucraina-ue-ridurre-dipendenza-gas-da-russia-15406821/

24 https://www.shipmag.it/europa-diminuisce-la-domanda-di-gas-ma-limport-dalla-russia-resta-alto/

25 https://www.rinnovabili.it/mercato/politiche-e-normativa/gnl-dalla-russia-ue/

26 https://milan.icbc.com.cn/it/column/1438058492186738925.html

27 https://wise.com/it/swift-codes/ICBKCNBJNTG

28 https://www.geopolitica.info/esclusione-russia-swift-internazionalizzazione-renminbi/

29 https://blog.osservatori.net/it_it/blockchain-spiegazione-significato-applicazioni

30 Central Bank Digital Currency: può essere definita come la rappresentazione digitale di una moneta nazionale, intesa come moneta a corso legale, emessa e gestita da un’istituzione sovrana come la banca centrale. Si tratta quindi di una passività bancaria denominata in un’unità di conto esistente, accessibile a tutti, che funge sia da mezzo di scambio sia da riserva di valore. A differenza delle criptpvalute e delle stablecoin, una CBDC è quindi direttamente sostenuta da un governo e rappresenta una passività della banca centrale.

Fonte: https://civitas-schola.it/2022/02/09/valute-digitali-emesse-dalla-banca-centrale/

31 https://www.italiaoggi.it/news/nei-brics-non-si-usa-piu-il-dollaro-2627434

32 https://www.reuters.com/markets/currencies/end-king-dollar-forces-play-de-dollarisation-2023-05-25/

33 lo Yuan è la moneta che in teoria potrebbe sostituire il dollaro a causa del suo ruolo crescente nell’economia mondiale (la Cina rappresenta il 18% del PIL mondiale). Tuttavia, le autorità cinesi non accetteranno mai di non controllare la loro bilancia dei capitali, il che rende lo Yuan di fatto incompatibile con un ruolo di valuta di riserva.

34 Dati diramati da Christophe Morel, chief economist di Groupama Asset Management, https://esgnews.it/focus/opinioni/la-progressiva-de-dollarizzazione-delleconomia-mondiale/

35 Vale a dire multi valutario

36 Piano dell’Ue finalizzato al superamento delle forniture energetiche dalla Russia e alla ridefinizione della geografia degli approvvigionamenti comunitari a beneficio di altri paesi come Usa, Qatar, Norvegia, e Algeria

https://ec.europa.eu/eurostat/documents/4187653/16179953/energy-imports.png/43bcbb87-3336-27a6-bec6-11628a74c98d?t=1703163769017

37 Tesi sostenuta dal prof. Alessandro Volpi nella trasmissione “Scommesse al posto del Welafre” di Ottolina tv a partire dal minuto 36. https://www.youtube.com/watch?v=zic9zuZDPTA&ab_channel=OttolinaTV

38 Nel 2022, ultimo anno con dati completi a disposizione, l’interscambio complessivo Cina – Usa, nonostante la guerra commerciale, secondo i dati ufficiali del Bureau of Economic Analysis ha raggiunto la cifra record di 690,6 miliardi di $, superando il precedente primato di 659 miliardi del 2018. L’export cinese negli Usa è risultato di 536,8 miliardi di $ e quello statunitense in Cina 153,8 con un saldo a favore di Pechino di 383 miliardi. https://www.agenzianova.com/a/63e320597ef4b1.11519917/4240576/2023-02-08/usa-cina-record-scambi-commerciali-nel-2022-690-miliardi-di-dollari-nonostante-tensioni

Nel 2023 l’interscambio commerciale Cina – Usa si è ridotto per la prima volta dal 2019 attestandosi a 644,4 miliardi $

39 James K. Galbraith “The dollar system in a multi-polar world” – International Journal of Political Economy vol.51, n°4, New York 2022

40 Il progetto è stato recentemente proposto dalla Russia e dal Brasile in ambito Brics.

Unità di conto: uno strumento comune per misurare il valore delle transazioni economiche tramite la fissazione dei prezzi e la contabilizzazione dei debiti e dei crediti, associati al passaggio di proprietà dei beni o delle attività senza un contestuale regolamento in moneta

https://www.treccani.it/enciclopedia/unita-di-conto_(Dizionario-di-Economia-e-Finanza)

Senegal, un altro Paese perso alla causa del neocolonialismo occidentale ?

di Giovanni Santini (da Dakar)

Il Senegal ha scelto, in modo plebiscitario, il suo nuovo Presidente. Anche se lo spoglio non è ancora terminato e quindi manca l’ufficialità, la tendenza, a due terzi dei voti scrutinati è ormai chiara: Bassirou Diomaye, rappresentante del partito Pastef ha una superiorità schiacciante, di molto superiore al 50%, che gli permetterebbe di essere eletto al primo turno.

Presentatosi al posto di Ousmane Sonko, capo carismatico del partito che non ha potuto candidarsi per guai giudiziari, sarà con i suoi 44 anni, il più giovane Presidente della storia del Senegal.

I motivi che hanno indotto i senegalesi, in grande maggioranza, a votare un politico quasi sconosciuto fino a pochi mesi fa, sono diversi.

Innanzitutto il rigetto del Presidente uscente, Macky Sall, accentuatosi nelle ultime settimane dopo il maldestro tentativo di quest’ultimo di rimanere al potere ben oltre i limiti temporali previsti dalla Costituzione ed oltre il dissenso , ormai diffuso in tutta la società, per le sue politiche liberiste ed i suoi legami con la Francia. Anche la classe media, moderatamente agiata e benpensante, che lo aveva appoggiato per larga parte dei suoi due mandati, non ne poteva più del suo attaccamento al potere e dei tentativi di eliminare, per via giudiziaria, il principale oppositore, Ousmane Sonko. Le violente proteste seguite a tali tentativi e l’aperta violazione della Costituzione stavano facendo perdere al Senegal la propria fama di Paese pacifico e democratico a cui i senegalesi tengono molto e che costituisce un forte incentivo per gli investimenti stranieri. Nelle strade si respira un senso di liberazione e sul web si moltiplicano i commenti entusiasti per la fine di un incubo.

Ma un elemento altrettanto importante è costituito dalla proposta politica del Pastef, completamente opposta a quella portata avanti in questi anni e che interpreta il diffuso sentimento anticoloniale e segnatamente anti francese che pervade la società senegalese.

L’azione politica del Presidente uscente si era concentrata soprattutto sulla realizzazione di grandi opere infrastrutturali, con l’intervento di capitali stranieri ma anche di grandi investimenti statali. L’allargamento della rete autostradale, inesistente fino a dodici anni fa; una moderna linea ferroviaria che serve la regione di Dakar; la creazione di un polo amministrativo ed industriale ad una trentina di chilometri dalla capitale per favorirne il decongestionamento; il miglioramento della viabilità della medesima, con la costruzione di viadotti e l’acquisto di autobus ecologici.

Tutti questi investimenti, però, hanno avuto una ricaduta minima sulle condizioni di vita delle famiglie, costrette a fare i conti con un costo della vita crescente in maniera esponenziale rispetto a salari e stipendi stagnanti; laddove, poi, si possa contare su un’entrata fissa a fine mese, visto che gli indici di disoccupazione e lavoro informale sono stati anche loro sempre crescenti negli ultimi anni.

Il malcontento popolare contro l’attuale governo ha raggiunto il culmine negli ultimi mesi quando non solo le bollette di energia elettrica ed acqua, ma anche gli ingredienti basici dell’alimentazione senegalese, come pane, riso e cipolle, hanno subito aumenti drastici.

L’agenda politica del Pastef, che si ispira, come dichiarato dai suoi principali esponenti, ad un “panafricanismo di sinistra”, prevede, in totale rottura con il passato, la rivendicazione della sovranità politica, finanziaria ed economica del Paese; il rifiuto delle ricette neoliberiste imposte dal Fondo Monetario Internazionale a fronte dei propri prestiti, di cui l’ultimo, di 1,8 miliardi di dollari, approvato a giugno 2023, potrebbe essere rinegoziato o addirittura abbandonato dal nuovo governo; la messa in discussione del franco CFA, la moneta di 14 Paesi ex colonie francesi, controllata dalla Francia; la rinegoziazione dei contratti fin qui stipulati con società straniere per lo sfruttamento di petrolio, gas e miniere, che potrebbe cambiare il volto economico del Paese; la lotta alla corruzione che è stata il corollario dei contratti per le grandi opere infrastrutturali e per l’ammodernamento del Paese, stipulati con società straniere, con beneficio di queste ultime e dei politici di turno; una politica sociale per alleviare le difficili condizioni di vita della popolazione, sia urbana che rurale, attraverso, tra l’altro, un controllo dei prezzi dei beni di prima necessità.

Anche nella politica internazionale la discontinuità è evidente. In campagna elettorale Diomaye ha dichiarato che, pur non nutrendo ostilità nei confronti della Francia, il Senegal rivendica il diritto di scegliere i propri partner, non escludendo a priori alcuno Stato, con evidente riferimento alla Russia.

Insomma, è evidente che dopo Mali, Burkina Faso e Niger, il dominio neo coloniale francese in Africa occidentale sta perdendo un ulteriore pezzo, forse il più importante. E questa volta non attraverso un colpo di Stato militare, sia pure appoggiato dalla popolazione, ma per via costituzionale, nel rispetto di quella “democrazia” tanto cara al mondo occidentale, per la cui affermazione non si lesinano guerre e bombe su civili inermi.

Nel caso del Senegal il distacco è sancito dalla volontà popolare, attraverso il più democratico degli esercizi politici, le elezioni.

Chi avrà il coraggio di paventare interventi o ritorsioni, come avvenuto per gli altri Paesi che rifiutano l’appartenenza al vecchio mondo neo coloniale e liberale?

FONTE: http://www.rifondazione.it/esteri/index.php/2024/03/25/il-senegal-altro-paese-perso-alla-causa-del-neocolonialismo-occidentale/

Il neocolonialismo del premier Meloni

di Monica Di Sisto

Il “Piano Mattei” tra pomposa propaganda e misera realtà.

“Signora presidente del Consiglio, sul piano Mattei avremmo auspicato di essere consultati”. Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, ha aperto con queste parole il proprio intervento al Vertice Italia-Africa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha promosso sotto i propri diretti auspici con ministri e capi di Stato del continente africano.

Faki, dopo aver ascoltato le proposte della presidente del Consiglio culminate nel cosiddetto “Piano Mattei”, di cui molto si parla ma che non è dato conoscere nemmeno al Parlamento italiano come documento ufficiale comprensivo di progetti e cifre specifiche, ha precisato che “l’Africa è pronta a discutere contorni e modalità dell’attuazione. È necessario passare dalle parole ai fatti, non ci accontentiamo di promesse che poi non sono mantenute”.

“Per me i partiti politici sono come i taxi: li prendo perché mi conducano dove voglio, io pago la corsa e scendo”: è una delle frasi più celebri che si attribuiscono a Enrico Mattei, dirigente pubblico fondatore di imprese (all’epoca di Stato) come Eni, Saipem e Agip Gas. E a chi scrive la presidenza Meloni sembra l’ennesimo taxi di passaggio che alcune imprese e gruppi di interessi italiani e transnazionali – noti e meno noti – prenderanno, addebitando la corsa al contribuente col pretesto di un viaggio in Africa che non è certo sarà nemmeno raggiunta. Quindi il presidente Faki fa bene ad essere un po’ preoccupato. E noi con lui.

I fondi che finanzieranno il cosiddetto Piano Mattei ammontano a cinque miliardi e mezzo di euro, ma non sono “soldi freschi” ma già promessi: una parte consistente, circa tre miliardi di euro, vengono dal Fondo italiano per il clima, la restante parte dal bilancio, esiguo, degli interventi di Cooperazione allo sviluppo. A mezzo stampa stiamo apprendendo, per voce degli assegnatari dei progetti, che serviranno a coltivare semi oleosi per i biocarburanti, a insegnare agli africani a fare i mercatini contadini come li facciamo in Italia, a costruire impianti con cui liberare i cereali dalle tossine, e poi infrastrutture energetiche con cui l’Europa potrà continuare a estrarre energia dalla sponda sud del Mediterraneo. Ci sono alcune nostre imprese che sistemeranno delle scuole, altre che pianteranno dei pannelli.

Siamo comunque sempre nel regno selle dichiarazioni e delle ipotesi, perché alle associazioni italiane che fanno progetti di cooperazione lo Stato chiede, per somme anche piccolissime, progetti dettagliati, preventivi, bilanci e accurate descrizioni degli interventi con tanto di numero di beneficiari, previsioni di ricadute e lettere di istituzioni e organizzazioni dei Paesi interessati che garantiscano la necessità e bontà delle proposte. Ai promotori dei progetti del Piano Mattei, niente: non un bando, non una gara, nessun percorso trasparente e verificabile da parte del cittadino-contribuente. Se non ne sappiamo nulla noi, figuriamoci il presidente Faki.

Uno dei primi incidenti diplomatici dell’attuale presidente del Consiglio è stato quello di scambiare un comico-imitatore proprio per il presidente Faki, e di essere registrata mentre pensava di tessere importanti relazioni diplomatiche. Ora siamo noi cittadini ad ascoltare l’imitazione un po’ pomposa, ma decisamente rabberciata, di un vero piano di cooperazione internazionale. E poco importa che la presidente conservatrice della Commissione europea, Ursula von der Leyen, accompagnata dall’altrettanto conservatrice presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola, si siano precipitate a lodare il “Piano che non c’è”. In campagna elettorale, lo sappiamo, ogni imitazione vale.

Ma è il franco richiamo del chadiano Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana – “Quello vero”, come ha detto Giorgia Meloni, non quello imitato dai due comici russi nella finta telefonata a Palazzo Chigi – a richiamare alla realtà.

FONTE: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-03-2024/3058-il-neocolonialismo-del-premier-meloni-di-monica-di-sisto

L’egemonia statunitense e lo spettro del mondo multipolare

di Marco Consolo

Il mondo sta cambiando ad una velocità mai conosciuta prima verso una nuova e accelerata riorganizzazione multipolare.

Non c’è dubbio che la fase aperta con l’implosione della URSS e la caduta del muro di Berlino stia rapidamente volgendo al termine.  In questa accelerata transizione si sta chiudendo la fase in cui gli Stati Uniti erano l’unica superpotenza mondiale, con una indiscutibile egemonia planetaria. Ma come ricordava il nostro Antonio Gramsci, “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati[1] e in questa transizione in chiaroscuro nascono i mostri. La crisi di governance planetaria è squadernata davanti ai nostri occhi.

In un mondo in aperta transizione, una delle differenze con il passato è la presenza di una crisi globale multifattoriale, soprattutto economica, ambientale e alimentare. Si tratta di una crisi di lunga data, notevolmente aggravata prima con la pandemia e poi con la guerra in Ucraina.

Nessun Paese ne è indenne e il continente latino-americano è tra i più esposti, per vari motivi. La Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi delle Nazioni Unite (CEPAL) prevede un tasso di crescita di appena l’1% nel 2023. In un quadro di leggi fiscali fortemente regressive e in assenza di riforme profonde del sistema fiscale, le risorse disponibili (e il margine di manovra) per politiche pubbliche in grado di ridurre il divario sociale sono quindi fortemente ridotte.

Il baricentro della geo-politica si sta inesorabilmente spostando verso il continente asiatico.


Fascismo e guerra

Come nel caso della crisi del 1929, il capitale cerca di superare le proprie crisi attraverso due strumenti complementari: il fascismo (che oggi riprende fiato seppur con caratteristiche diverse dal passato) e la guerra. Entrambi appaiono come i mostri del giorno d’oggi (e dell’immediato futuro).

La guerra è presente in quasi tutti i continenti e, dopo quella nella ex-Jugoslavia, nel cuore dell’Europa la guerra in Ucraina è un altro importante tassello di questo sconvolgimento globale. La narrazione occidentale non è più egemone sulle cause e sulle responsabilità della guerra che non sono condivise a livello mondiale. Viceversa, la visione che si fa avanti è quella di una guerra degli Stati Uniti e della NATO alla Russia (ed all’Europa?), come ammettono gli stessi dirigenti politici che, da prima dello scoppio del conflitto, dichiarano di volere la caduta del governo Putin. Ed il fallimento della controffensiva ucraina contro la Russia rappresenta una sconfitta della strategia della NATO, che in questa guerra è coinvolta sin da prima che iniziasse.

Mentre scrivo questo pezzo, sulle sponde del Mediterraneo è in atto l’ennesima carneficina contro il popolo palestinese, un tentativo di “pulizia etnica” per mano del governo di Israele. Una situazione che non può essere definita di guerra, vista anche la sproporzione di forze in campo. Ed anche in questo caso, la narrazione occidentale a difesa di Israele perde forza ed egemonia di fronte al genocidio in atto a Gaza.

Negli Stati Uniti (anche se una guerra in appoggio a Israele ha maggiore consenso di quella ucraina), affrontare la lunga campagna elettorale per le presidenziali, con due conflitti aperti o sulle spalle, non è certamente la migliore opzione, né per Biden, né per il Partito Democratico. La paziente tessitura messa in piedi da Washington per ricucire i rapporti tra Israele, Arabia Saudita ed altri Paesi arabi (con i cosiddetti “Accordi di Abramo”), si è dissolta come neve al sole. Nei Paesi musulmani è riemerso il mai sopito sentimento anti-USA, identificati come i protettori di Israele.

Nel frattempo, nel quadrante dell’Asia-Pacifico e dei suoi importanti corridoi marittimi, cresce la tensione e gli Stati Uniti sperimentano ballon d’essai per preparare il conflitto con il pretesto di Taiwan.

Questa tendenza di fondo alla guerra (e quindi all’instabilità), di cui la NATO è la principale locomotiva, si intreccia fortemente con la crisi degli equilibri planetari usciti dalla IIa guerra mondiale e con il tentativo dell’Occidente globale di impedirne a tuti i costi la modifica.

Dalla caduta del muro di Berlino ad oggi, la globalizzazione neo-liberista ha esteso su scala planetaria i rapporti socio-economici capitalistici ed accentuato il predominio dei Paesi occidentali e in particolare degli Stati Uniti. Mentre con la presidenza Trump avevamo assistito a un certo ripiegamento “deglobalizzante” verso l’interno, viceversa l’amministrazione Biden ha riproposto il ruolo centrale ed egemone degli Stati Uniti sullo scacchiere globale. Allo stesso tempo, ha approfondito il sistema delle cosiddette “sanzioni” (più correttamente “misure coercitive unilaterali” fuori dal sistema ONU), tra cui quelle contro la Russia nel quadro della guerra in Ucraina.

Le attuali élite al potere negli Stati Uniti e nei suoi satelliti sono i principali beneficiari dell’instabilità globale che usano per ricavarne profitto, con una chiara strategia di destabilizzazione. Sono i colpi di coda di un impero in fase di declino commerciale, economico e politico che farà l’impossibile per non perdere i propri privilegi come superpotenza globale. Gli Stati Uniti non sono disposti ad accettarlo e cercano viceversa di preservare ed estendere il loro dominio, perché ritengono che questo caos li aiuterà a contenere e destabilizzare i loro rivali geopolitici, ovvero i nuovi poli di crescita globale, integrati da Paesi sovrani indipendenti, non più disposti a inginocchiarsi nel ruolo di maggiordomi.

Allo stesso tempo,  l’irresistibile ascesa della Cina (prima economica, ora sempre più politica e in parte anche militare), il paradossale rafforzamento della Russia e il suo nuovo protagonismo, l’emergere di vari organismi internazionali basati su questi due Paesi, come la Shangai Cooperation Organization (SCO) [2] e soprattutto i BRICS+ (con  l’ingresso di altri importanti Paesi) stanno contribuendo a mettere in discussione l’egemonia degli USA, e a creare un forte contrappeso assente da decenni, con una modifica profonda dei rapporti di forza mondiali.


Uno spettro si aggira per il mondo: i Brics+

Da parte sua, l’Occidente ha sbandierato una serie di successi, come l’allargamento della Nato in Europa (ed in America Latina con la Colombia come “alleato strategico”) ed il presunto isolamento della Russia nello scacchiere mondiale. In realtà, il conflitto in Ucraina, ha rafforzato il multipolarismo e la crescita di diversi attori internazionali non in linea con la narrativa occidentale.

In questo nuovo quadro in transizione, un fantasma si aggira per il mondo: l’alleanza dei Paesi Brics. Un nuovo blocco economico e politico, alternativo al “giardino europeo” (Josep Borrell dixit) ed occidentale, in cerca di un nuovo ordine mondiale e un maggior equilibrio economico e geo-politico. Sul versante non occidentale è la realtà più solida. L’alleanza BRIC, formata nel 2009 (inizialmente da Brasile, Russia, India, Cina), si è ingrandita con il Sudafrica nel 2010 prendendo il nome di BRICS. Nel loro ultimo vertice a Johannesburg (agosto 2023), i Brics hanno deciso di espandersi ulteriormente con l’entrata di Arabia Saudita, Iran, Etiopia, Egitto, Argentina [3] ed Emirati Arabi Uniti, a partire dal gennaio 2024 (dando vita ai Brics+). Un “evento storico” secondo il Presidente cinese Xi Jinping, che viene al culmine di un processo maturato lentamente, ma che paradossalmente la guerra in Ucraina ha accelerato ed ampliato, con la presenza di più di 60 Paesi invitati.

I BRICS+ sono quindi un’alleanza delle maggiori potenze economiche non occidentali e dei principali Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente, che ridisegna i rapporti di forza planetari. Come ha ricordato il presidente brasiliano Lula da Silva, “rappresenteranno il 36% del Pil mondiale e il 47% della popolazione dell’intero pianeta”. Ed “a questa prima fase se ne aggiungerà un’altra di ulteriore ampliamento” verso un nuovo ordine mondiale che appare sempre più affrancato da Stati Uniti e NATO. Oggi, alla porta dei Brics+ bussano più di 20 Paesi interessati a far parte di una organizzazione capitanata dalla Cina (avversario strategico degli Stati Uniti e della Nato) e di cui nel 2024 la Russia avrà la presidenza.

Come è del tutto evidente, i Brics+ sono Paesi molto diversi tra loro, ma uniti dall’obiettivo comune della cooperazione economica e della lotta all’unilateralismo. Lungi dall’essere una debolezza (come vociferano i suoi detrattori), la eterogeneità politica dei suoi governi ne rappresenta la forza intrinseca, non basata su una sintonia ideologica. Una parte importante dei Paesi del Sud globale non è più disposta a farsi impoverire dall’Occidente e dalle condizioni capestro delle sue istituzioni (a cominciare dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dal Club di Parigi). Questi Paesi ritengono che il loro sviluppo economico e sociale non possa dipendere principalmente (o quasi esclusivamente) dal rapporto con l’Occidente ed propongono una politica concreta di cooperazione mondiale alternativa alla globalizzazione a trazione statunitense ed occidentale.

Allo stesso tempo, i Brics si appellano all’ONU per riforme politiche e un maggiore dialogo, mentre sostengono una redistribuzione del potere nella governance globale, monetaria e politica, affinché il Sud globale sia equamente rappresentato.

Su quale debba essere il ruolo politico dei Brics (e dei Brics+), il dibattito interno è comunque aperto. Al momento prevale la visione di chi pensa più a un blocco non allineato per favorire gli interessi economici dei “Paesi in via di sviluppo”, più che a una alleanza politica di sfida aperta all’Occidente. La stessa Cina continua ad avere un atteggiamento prudente e pragmatico, mentre lavora incessantemente per il suo rafforzamento. Nonostante ciò, i Brics+ hanno buone possibilità di cambiare la direzione della Storia, e già oggi sono parte attiva di una nuova architettura politica, economica e finanziaria ancora in nuce, ma che sta provando a chiudere la fase del mondo unipolare a trazione Usa. L’obiettivo è avanzare verso un mondo multipolare, per sua natura obbligato al dialogo.

Data la complessiva potenza economica, industriale e tecnologica di questa alleanza e le immense risorse naturali a disposizione, l’emergere dei BRICS+ segna l’accelerazione del declino dell’unipolarismo statunitense, favorisce la transizione ad un ordine mondiale multipolare ed accelera il processo di de-dollarizzazione.


Sganciarsi dal dollaro

Lo strapotere occidentale e più di recente la guerra hanno obbligato questi Paesi a tessere una rete di rapporti diversificati, rafforzando la messa a punto di modalità di commercio alternative a quelle esistenti con la divisa statunitense, incrementandone la possibilità di perdere la sua posizione di valuta di scambio e di riserva internazionale.

Infatti, è bene ricordare che dagli accordi di Bretton Woods del 1944 fino ad oggi, il dollaro è stata la moneta di gran lunga più utilizzata nel commercio internazionale. Il suo ruolo dominante è stato rafforzato dall’avere anche avuto la funzione di valuta di riserva internazionale.  Un dominio accresciuto dopo il 1971, quando l’amministrazione statunitense di Richard Nixon ha abolito la convertibilità (e rimborsabilità) del dollaro in oro (il cosiddetto Gold standard) secondo un rapporto di cambio fisso. In altri termini, dal 1971 ciò ha significato una vantaggiosa posizione di rendita in quanto gli Stati Uniti erano liberi di stampare la moneta usata a livello mondiale senza garanzia, cioè senza l’obbligo di possedere una quantità d’oro pari ai biglietti verdi in circolazione e senza doverne rispondere. Un privilegio esclusivo che ha permesso agli Stati Uniti di comprare (e consumare) merci prodotte altrove senza rispondere dei propri debiti, ma semplicemente stampando dollari, ed inondandone il mondo, in base alle loro necessità.

Sul versante monetario, seppure fino ad oggi i Brics non hanno una loro valuta autonoma, cresce nel blocco la volontà di un progressivo sganciamento dal dollaro, con l’utilizzo di valute locali, di unità di conto monetarie, di misure di compensazione.  Come ha dichiarato a Johannesburg il Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa, i governi dei Brics “hanno incaricato i loro ministri delle Finanze e governatori delle Banche centrali, di considerare la questione di valute locali, strumenti di pagamento e piattaforme e di riferire agli stessi leader dei Brics nel prossimo vertice”.

Nel frattempo, i governi dei Paesi Brics non sono stati con le mani in mano e ormai da qualche anno commerciano utilizzando valute diverse dal dollaro.

Non c’è da stupirsi se, sin dall’inizio di questo percorso, i media occidentali hanno fatto a gara per cercare di minimizzarne l’impatto sul monopolio del biglietto verde. Ma, al contrario di quanto affermano, il lancio di una moneta comune da parte dei Brics+ potrebbe significare la fine dell’egemonia del dollaro ed un terremoto mondiale, con contraccolpi innanzitutto negli Stati Uniti.

Come si ricorderà, è stato proprio l’ennesimo rifiuto degli Stati Uniti di cedere una parte del potere nella gestione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) a far traboccare il vaso e nel 2014 i Brics decisero di creare una propria banca, la Nuova Banca di Sviluppo, autonoma ed alternativa al FMI. Alla sua guida c’è oggi Dilma Roussef, ex-Presidente del Brasile. In altre parole, da quella data i Brics hanno lavorato per costruire una alternativa concreta alle istituzioni economiche internazionali, gestite da Washington e dai suoi alleati occidentali, anche in campo finanziario, di esclusivo predominio anglo-statunitense dalla fine del secondo conflitto mondiale.


Da Marco Polo alla Nuova via della Seta

Nel 2023 compie dieci anni l’iniziativa della Repubblica Popolare Cinese nota come One Belt, One Road Initiative, o anche come “Nuova Via della Seta”, lanciata da Xi Jinping nel 2013.

La Nuova Via della Seta è volta a migliorare i corridoi commerciali internazionali esistenti e a crearne di nuovi. Comprende diverse aree come, tra le altre, la Cintura economica della Via della Seta e la Via della Seta marittima. Il suo obiettivo iniziale era quello di costruire infrastrutture e collegare i Paesi eurasiatici, ma tra i più recenti obiettivi dichiarati c’è anche quello di garantire la sicurezza e la stabilità nel continente.

Come si ricorderà, il percorso della Belt and Road è iniziato con il primo Forum di cooperazione internazionale tenutosi a Pechino nel maggio 2017. Il secondo Forum si è svolto nella capitale cinese due anni dopo (aprile 2019), con un crescendo di presenze di capi di Stato e di governo. Dopo la pausa obbligata della pandemia del Covid19, il terzo Forum della Belt and Road si è di nuovo riunito a Pechino (17-18 ottobre 2023). In questa ultima occasione hanno partecipato delegazioni di oltre 140 Paesi e di più di 30 organizzazioni internazionali, e il numero di partecipanti ha superato le 4.000 presenze [4].


Risultati dell’iniziativa cinese

Il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese ha recentemente pubblicato un “Libro bianco sull’attuazione dell’Iniziativa della Nuova Via della Seta” [5].

Secondo il Libro bianco, negli ultimi 10 anni l’iniziativa ha attirato quasi 1.000 miliardi di dollari di investimenti e ha dato vita a più di 3.000 progetti di cooperazione congiunta. Secondo Pechino, ha creato 420.000 posti di lavoro di aziende cinesi nei Paesi lungo la Belt and Road. Nell’iniziativa sono coinvolti in totale più di 150 Paesi e più di 30 organizzazioni internazionali, con cui la Cina ha firmato circa 200 accordi di cooperazione, oltre a 28 “Trattati di Libero Commercio” tra la Cina ed altrettanti Paesi e regioni.

Il Libro bianco sostiene che l’iniziativa Belt and Road rende i Paesi partecipanti più attraenti per gli investimenti delle grandi imprese globali. Ad esempio, i flussi di investimenti diretti transfrontalieri nel Sud-est asiatico, in Asia centrale e in altre regioni, dove la maggior parte degli Stati ha aderito all’iniziativa cinese, sono in costante aumento. Nel 2022 gli investimenti diretti esteri (IDE) nel Sud-est asiatico hanno rappresentato il 17,2% del totale globale, con un aumento del 9% rispetto al 2013.

Sempre secondo Pechino, il commercio tra i Paesi partecipanti sta crescendo: dal 2013 al 2022, il valore totale delle importazioni e delle esportazioni tra la Cina e gli altri Paesi aderenti al progetto ha raggiunto i 19,1 trilioni di dollari, con un tasso di crescita medio annuo del 6,4% [6].

E secondo il Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese, il “Fondo per la Via della Seta”, che si occupa dell’attuazione dell’iniziativa, ha firmato accordi su 75 progetti.

Uno dei risultati concreti raggiunti negli anni è stato il lancio del treno container Cina-Europa, con un percorso che collega più di 20 Paesi [7].


Quali prospettive ?

Ci troviamo quindi di fronte a una situazione internazionale che obbliga a ripensare le strategie di partenariato globali e regionali e ad attribuire maggiore rilevanza ai legami Sud-Sud nel commercio, negli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e nella cooperazione.

È chiara l’importanza che ha la Cina per l’economia globale. Il gigante asiatico è diventato il primo esportatore e il secondo importatore al mondo. Secondo la Banca Mondiale [8], nonostante le sue politiche rigorose, l’economia cinese è piuttosto aperta al commercio estero, un settore che negli ultimi anni ha rappresentato circa il 35% del suo Prodotto Interno Lordo, e i suoi principali partner commerciali sono attualmente gli Stati Uniti, Hong Kong, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Australia e Germania. I suoi principali prodotti di esportazione includono apparecchiature elettriche ed elettroniche, macchinari vari, reattori nucleari, produzione di pannelli solari, edifici prefabbricati, plastica, tessuti confezionati, strumenti tecnici e medici e veicoli.

Le importazioni comprendono apparecchiature elettriche ed elettroniche, carburanti, minerali, oli, prodotti di distillazione.

La crescente presenza della Cina nell’economia mondiale e la sua ascesa come potenza globale continuano a generare diverse preoccupazioni e più di una tensione nelle relazioni commerciali con gli Stati Uniti e le altre economie occidentali.

In effetti, il rafforzamento della presenza cinese rappresenta sempre più una sfida allo status quo internazionale ed alle potenze egemoniche esistenti in quanto al controllo di importanti aree del mondo. Il reclamo territoriale sulle isole nel Mar Cinese Meridionale e l’uso di vecchie e nuove rotte commerciali attraverso la “Nuova via della Seta” sono sfide “non dichiarate” a questo ordine mondiale e parte delle attuali tensioni con gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda gli aspetti puramente economici e commerciali, l’evoluzione dell’apparato produttivo cinese negli ultimi anni ha permesso alle sue aziende di inserirsi nelle diverse filiere produttive globali. Così, sono passate da una produzione iniziale a scarso valore aggiunto a competere con successo nei settori più sofisticati e ad alta intensità tecnologica. È in questo processo che la Cina è diventata, per gli Stati Uniti e l’Unione Europea, un’economia rivale, dando così inizio ai diversi capitoli di una guerra commerciale [9].  Come afferma Broggi (2021) [10], i dati sono conclusivi: “nell’ultimo decennio, la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come principale fornitore nella maggior parte dei Paesi dell’Asia, dell’Africa, dell’Europa e del Sud America”. Appare chiaro che, più prima che poi, un nuovo ordine internazionale dovrà adattarsi a questa nuova realtà.

Anche se oggi siamo lontani dal periodo di crescita a due cifre, la posizione della Cina come potenza economica globale ha continuato a consolidarsi. Questo nonostante la battuta d’arresto rappresentata dalla pandemia e dalle politiche di forti restrizioni e di “Covid zero” che il governo di Xi Jinping ha applicato, chiudendo intere province che sono importanti centri economici, come Shanghai, Shenzhen e Chengdu.

In questo quadro complesso dobbiamo considerare anche gli impatti economici della guerra in Ucraina che ha rafforzato i rapporti con la Russia di Putin.

Il risultato del 2022 vede l’economia cinese crescere del 3%, uno dei valori più bassi degli ultimi decenni, mentre per il 2023 si prevede una crescita tra il 5% e il 6% [11]. Queste proiezioni si basano sulla ripresa dei consumi interni, con la crescita del credito, sugli investimenti infrastrutturali e su vari stimoli fiscali. Tuttavia, sarà necessario monitorare l’evoluzione del Covid e le risposte del governo cinese a un’eventuale sua ripresa.

Sul fronte esterno, oltre a uno scenario complicato in cui i suoi principali partner commerciali continueranno a rallentare le loro economie con politiche di contrazione della domanda, la Cina continuerà ad affrontare una guerra commerciale guidata dagli Stati Uniti, caratterizzata da forti restrizioni all’accesso alla tecnologia e da vari meccanismi di protezione. Ma nonostante questo scenario, è chiaro che la strategia di espansione della Cina continuerà a godere di un importante sostegno finanziario statale che garantirà una notevole autonomia.

In questo contesto generale, piaccia o meno, l’economia mondiale continuerà a dipendere in larga misura dal motore economico cinese.


E l’Europa ?

Per l’Europa il futuro è incerto, debole e pieno di ombre, nella misura in cui è in balia dei poteri forti e dei governi a loro alleati.

A partire dalla guerra in Ucraina, le “sanzioni” economiche, la rottura delle relazioni commerciali tra l’Unione Europea e la Russia, insieme all’attentato ad hoc al gasdotto North Stream, hanno pesantemente penalizzato l’economia europea e in particolare quella tedesca, che aveva, come uno degli elementi della sua competitività, l’approvvigionamento di materie prime a basso costo. Ma anche nel “Belpaese” le imprese italiane hanno subito forti perdite, in particolare per quanto riguarda l’export tricolore di prodotti chimici, alimentari, macchinari, abbigliamento e mobili, con pesanti crolli di fatturato [12].

Invece di seguire il cammino pragmatico dell’integrazione euro-asiatica e rafforzare i vincoli economici mutuamente vantaggiosi con la Russia e con la Cina, la UE si è imbarcata in una missione suicida per conto dei suoi curatori (fallimentari ?) di Washington nel tentativo, condannato al fracasso, di indebolire la Russia e contenere la Cina. Oggi l’Unione Europea si trova economicamente indebolita, senza un forte baricentro di governo, più divisa che nel passato e maggiormente subalterna alla volontà degli Usa.

Dopo essere stati condannati all’irrilevanza politica sullo scacchiere mondiale, i Paesi europei sono chiamati a pagare il conto delle ambizioni imperiali degli Stati Uniti e a fornire assistenza militare, visto che la strategia militare di Washington non dispone di mezzi sufficienti per farsene carico autonomamente [13].  E le “politiche di difesa e sicurezza” dell’Unione Europea sono sempre più una fotocopia di quelle della NATO (di cui ormai è un’appendice) che fa pressioni per destinare almeno il 2% del PIL dei diversi Paesi alla spesa militare.

Lungi dall’essere un attore geo-politico indipendente o una “potenza geo-politica” (nonostante i deliri di onnipotenza della sig.ra Von der Leyen e di Borrell), la attuale UE ha significato la riduzione del potere degli Stati membri con l’erosione delle proprie sovranità nazionali, in modo da non rappresentare una sfida per gli interessi ed il potere degli Stati Uniti.

I segnali di una profonda crisi del progetto di integrazione europea si sono moltiplicati e la Brexit è stata solo il segnale più evidente. Il potenziale di crescita economica sembra esaurito (almeno in questa fase) e la maggioranza dei membri del blocco hanno un cronico deficit di bilancio ed un debito eccessivo. Il livello di vita (ed il potere d’acquisto) delle popolazioni continua ad abbassarsi, mentre le promesse di prosperità e benessere del “giardino europeo” appartengono al passato. Cresce, quindi, la disillusione e lo scontento tra la popolazione.

E nella profonda crisi di identità europea, nell’insicurezza e la paura del presente, nell’incertezza del futuro, cresce anche il neo-fascismo del XXI° secolo, con caratteristiche diverse dal passato. Un fenomeno che trascende le frontiere europee e con cui l’orizzonte dell’Utopia dovrà fare i conti.


Note

[1] A. Gramsci, Quaderni dal carcere (Q 3, §34, p. 311)

[2] http://eng.sectsco.org/

[3] Nel caso dell’Argentina, l’entrata nei BRICS era stata decisa dal governo di Alberto Fernandez. Ma la vittoria nel novembre 2023 di Javier Milei, fino ad oggi fortemente contrario, potrebbe segnare una battuta d’arresto. D’altra parte, Brasile, Cina e India rappresentano quasi il 30% dell’export totale argentino.

[4] https://sputniknews.lat/20231017/las-claves-del-tercer-foro-de-cooperacion-internacional-de-la-franja-y-la-ruta-en-pekin-1144799870.html

[5] https://english.www.gov.cn/archive/whitepaper/202310/10/content_WS6524b55fc6d0868f4e8e014c.html

[6] Ibidem

[7] https://it.euronews.com/2022/07/31/treno-merci-cina-europa-primo-viaggio-hefei-budapest

[8] https://www.worldbank.org/en/country/china/publication/china-economic-update-december-2022

[9] Nel 2018, l’amministrazione del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi su una serie di prodotti cinesi.

[10] Brasó Broggi, Carles (2021): Algunas causas de la guerra comercial entre China y Los Estados Unidos. Universitá Oberta de Catalunya. Barcelona.

[11] https://www.worldbank.org/en/news/press-release/2023/06/14/priority-reforms-key-for-sustaining-growth-and-achieving-china-s-long-term-goals-world-bank-report

[12] https://www.infomercatiesteri.it/scambi_commerciali.php?id_paesi=88#

[13] https://www.rand.org/pubs/commentary/2023/11/inflection-point-how-to-reverse-the-erosion-of-us-and.html

FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/legemonia-statunitense-e-lo-spettro-del-mondo-multipolare/

Le nuvole nere sull’ordine mondiale

di Vincenzo Comito

La tragedia in Israele e Gaza non deve far dimenticare le trasformazioni di più lungo periodo dell’ordine mondiale, guidate dall’evoluzione economica delle diverse aree del mondo. Facciamo il punto sui nuovi rapporti di forza nell’economia del pianeta.

La tragedia in Israele e Gaza, la guerra in Ucraina, il moltiplicarsi di conflitti “locali” hanno radici storiche e politiche profonde, specifiche a ciascuna area, ma si inseriscono in un quadro comune, segnato dalla crescente fragilità dell’ordine internazionale. Oggi si trovano quasi tutti d’accordo sull’idea che il mondo uscito dalla seconda guerra mondiale stia ora progressivamente svanendo, come intitolava ad esempio un recente articolo di “Le Monde” (Frachon, 2023). Il segretario generale della Nazioni Unite, Antonio Guterrez ha ribadito che “le strutture attuali di governance mondiale riflettono il mondo di ieri”. Ma ci sono idee piuttosto confuse su come esso si stia veramente trasformando e in che direzione si stia andando. E non manca chi cerca di frenare il movimento. 

Certo, non siamo nella situazione in cui si è trovato a suo tempo Claudio Rutilio Namaziano, che, partito in nave da Roma per ritornare alla natia Gallia dopo un soggiorno nella capitale dell’Impero e facendo sosta ogni sera lungo il percorso in un porto diverso, assistette in tempo reale al crollo in pochi giorni del sistema imperiale, città per città (è il tema del suo poema De reditu suo, diventato di recente un film, De reditu, “Il ritorno”). Nel nostro caso il percorso appare invece lungo e tortuoso. 

C’è un vasto accordo sul fatto che la potenza economica, finanziaria, tecnologica, militare degli Stati Uniti, sino a ieri paese di gran lunga dominante, si stia progressivamente riducendo rispetto al resto del mondo, anche se il dibattito è aperto su quanto forte sia tale riduzione e come si collochi oggi invece in termini di peso effettivo la potenza in ascesa, la Cina, rispetto a quello degli Stati Uniti.

Certo, per quanto riguarda le trasformazioni in atto alcuni dati appaiono impressionanti. Secondo i calcoli di IMF e Banca Mondiale, nel 2022 il pil cinese, calcolato con il criterio della parità dei poteri di acquisto, risultava ormai grosso modo pari al 19% di quello mondiale e quello degli Stati Uniti “solo” al 15%. 

Anche in campo tecnologico studi recenti nostrano come la Cina tende a diventare più importante degli Stati Uniti, anche se essa presenta qualche debolezza su alcuni settori. Una ricerca australiana (Hurst, 2023), sponsorizzata anche dal dipartimento di Stato statunitense, indica in effetti che su 44 settori tecnologici esaminati nello studio la Cina ha oggi il primato su tutti gli altri paesi, compresi gli Stati Uniti, in ben 37 di essi, mentre questi ultimi continuano a guidare il resto del mondo soltanto nelle restanti 7 tecnologie. Nessuno degli altri paesi ha quindi il primo posto in qualche settore.

In particolare gli sviluppi in atto nel campo delle tecnologie relative alle energie rinnovabili, settore nel quale il dominio della Cina appare quasi incolmabile, mostrano la forza di tale trasformazione in atto. 

Più in generale il mondo occidentale non appare più egemonico ed esso ha perduto e sta perdendo un numero crescente dei suoi monopoli. Ricordiamo, a questo proposito, che ormai i paesi in via di sviluppo controllano circa il 60% del pil mondiale e che nel 2030 i due terzi delle classi medie saranno in Asia. La partita, per molti versi, sembra ormai decisa.

Gli Stati Uniti cercano di resistere

Ma gli Stati Uniti non vogliono riconoscere le nuove realtà in atto. Graham Allison, professore ad Harvard, riassume perfettamente la situazione: “Gli americani sono scioccati dall’idea che la Cina non resti al posto che gli era stato a suo tempo assegnato in un ordine internazionale diretto dagli Stati Uniti” (Bulard, 2023).

Così, dopo le misure varate da Trump contro le merci asiatiche, con Biden l’ostilità è fortemente aumentata. Si è sviluppata un’offensiva economica, tecnologica, finanziaria, militare, politica, tout azimut, rivolta contro tutte le iniziative e le mosse di Pechino, cercando di coinvolgere quanto più paesi possibile in tutti i continenti e su tutte le questioni.

Una nuova isteria maccartista ha conquistato tutti gli strati della società e della politica Usa, se escludiamo alcune parti del sistema economico che hanno invece interesse a sviluppare i rapporti con il paese asiatico.

L’offensiva di Washington presumibilmente fallirà, almeno in gran parte, ma essa rischia di danneggiare intanto gravemente la relativa pace del mondo e lo sviluppo dei rapporti economici tra i vari paesi del mondo.

Verso un nuovo ordine multipolare?

Certamente Cina e Stati Uniti saranno i due massimi protagonisti della scena mondiale ancora almeno per un lungo periodo, con la stessa Cina che dovrebbe accrescere ancora il suo peso rispetto al rivale. Essi continueranno comunque insieme a condizionare gli sviluppi del mondo in maniera molto rilevante. Ma la rivalità tra i due paesi non sembra poter esaurire il quadro del nuovo ordine mondiale in via di formazione. Può darsi che si stia configurando un secolo cinese, come pensano alcuni, ma molti altri prevedono invece l’affermazione di un mondo pluralista, in cui, accanto ai due giganti economici, si affermino una serie di potenze intermedie che, cercando di tenere buoni rapporti con i due, tendano comunque ad affermare la propria autonomia.

Bisogna considerare che gli stessi cinesi auspicano da parte loro la costruzione di un mondo multipolare. 

Qualcuno ha parlato a proposito di questi nuovi sviluppi di “età delle potenze intermedie”, sia nel senso di un loro peso economico e politico piuttosto consistente, che in quello di una posizione di mezzo tra le due grandi potenze. Invece di un menu di alleanze a prezzo fisso, in cui bisognava scegliere uno dei due campi, si potrebbe affermare un mondo con scelte à la carte (Russell, 2023), in cui magari i vari paesi tendano anche a giocare le due grandi potenze una contro l’altra, per ottenere il massimo dei vantaggi possibili. C’è chi, ad esempio lo storico Franco Cardini (Cardini, 2023), vede peraltro delinearsi un “multipolarismo imperfetto”, “confuso, slabbrato, pieno di labilità e di incognite”. 

I rapporti Cina-Usa 

Bisogna comunque a questo punto fare una disgressione. Da anni ormai gli Stati Uniti perseguono in ogni modo il tentativo di ridurre al massimo i rapporti economici con la Cina e stanno cercando anche di spingere i fedeli e mediocri esecutori che guidano Bruxelles a fare altrettanto. E certo qualche risultato è stato in questo senso raggiunto e qualcun altro potrebbe seguire. Ma bisogna d’altro canto considerare che tale politica di riconfigurazione delle catene di approvvigionamento è alla fine almeno in parte evitata dalla Cina attraverso una triangolazione di produzioni. Le imprese del paese asiatico, invece di esportare le loro merci direttamente in Usa, lo fanno attraverso paesi terzi; la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina rimane così intatta (The Economist, 2023) ed anzi le mosse di Biden spingono a più stretti legami tra la Cina e gli altri paesi esportatori, ottenendo così l’effetto opposto a quello desiderato. Mentre gli Stati Uniti non possono fare a meno di alcuni tipi di prodotti cinesi, ora la lotta al cambiamento climatico ha comunque bisogno del sostegno delle tecnologie e delle produzioni del paese asiatico. 

Tutta la manovra di Biden produce d’altro canto dei costi più elevati per le imprese e per i consumatori, mentre l’industria cinese rappresenta oggi intorno al 30% di quella mondiale, qualcosa in più della situazione presente al momento in cui Trump ha lanciato la campagna anticinese, mentre, più in generale, l’industria mondiale si concentra sempre più nell’Asia del Sud-Est (Bezat, 2023). 

Appare comunque abbastanza chiaro che la stessa Cina, viste anche le difficoltà con l’Occidente, tende a rafforzare fortemente i suoi rapporti economici con i paesi del Sud del mondo. Intanto il Fondo Monetario Internazionale mette in guardia contro una frammentazione geo-economica, una nuova spinta protezionista che potrebbe frenare lo sviluppo dell’economia mondiale (Bezat, 2023).

I paesi Arabi

Uno degli esempi possibili di come si possa configurare il nuovo ordine mondiale è rappresentato dagli sviluppi in atto nei paesi del Golfo (England, 2023).

In tale area ci sono due potenze principali, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, la prima il più importante esportatore di petrolio del mondo, la seconda il centro commerciale dominante. Per diversi decenni tale area è stata fortemente nell’orbita statunitense; gli Usa erano il garante della loro sicurezza, mentre i paesi arabi assicuravano ad essi delle forniture stabili e sicure di energia. 

Ma oggi l’area rifiuta di accettare la domanda degli Stati Uniti di essere con loro o contro di loro (England, 2023). La Cina è oggi in effetti il principale cliente del petrolio del Golfo ed altri importanti partner sono anche l’India e la Turchia. Il commercio dell’Arabia Saudita con la Cina è altrettanto grande in valore quanto quello con gli Usa, la Gran Bretagna e l’UE messi insieme. Al di là del solo commercio, i paesi arabi, assetati di tecnologie, portano avanti importanti progetti nel campo della stessa energia, dell’IA, dell’auto, finanza, infrastrutture, ecc., mentre vengono avanti investimenti diretti reciproci. Con la Cina i paesi del Golfo hanno firmato un accordo di partnership strategica. Essi si sono poi ben guardati di condannare la Russia per la questione ucraina, paese con cui cooperano attraverso l’Opec+. 

Non che i rapporti con gli Stati Uniti siano diventati ostili. Il paese continua ad essere il principale fornitore di armi e l’alleanza militare è mantenuta, mentre continuano ad essere molto rilevanti gli investimenti dei paesi del Golfo in Usa. Si potrebbe dire che la loro sicurezza riposa oggi con gli Usa, la politica energetica si fa con la Russia, mentre la prosperità economica è sempre più legata alla Cina e agli altri paesi asiatici (England, 2023). Essi alla fine sono per un mutamento nell’ordine mondiale e pensano che saranno uno dei poli principali del mondo multipolare emergente.

E gli altri paesi del Sud

Il caso dei paesi del Golfo può essere considerato per molti versi come abbastanza rappresentativo della posizione della gran parte degli altri paesi intermedi, dall’India, al blocco dei paesi dell’Asean, al Brasile, al Sud-Africa, all’Algeria, all’Argentina, alla Turchia, per citarne molti tra i principali, per molti versi alla stessa Germania, anche se quest’ultima rimane un caso particolare. Certo, ognuno di questi paesi ha più simpatie verso uno dei due raggruppamenti, chi verso la Cina/Russia, chi verso gli Stati Uniti, ma comunque essi si sforzano di tenere rapporti amichevoli con ambedue i fronti. 

Un caso particolare è quello dell’India, piuttosto ostile alla Cina, ma amica contemporaneamente di Russia e Stati Uniti, comunque nello stesso tempo partecipe dei raggruppamenti dei Brics, a sostanziale guida cinese e alla Sco, a guida cinese e russa. Un altro caso ancora più particolare è quello della Germania, che, pur inserita nell’area atlantica, vede al suo interno manifestarsi una lotta tra quelli che vogliono mantenere stretti contatti economici con la Cina e gli atlantisti.

Da segnalare infine come la Russia, in relazione agli avvenimenti in Ucraina, stia velocemente spostando la sua collocazione economica dalla Europa all’Asia.    

Il caso degli enti internazionali

Esaminiamo a questo punto la situazione e le prospettive di alcune strutture, pilastri della dominazione statunitense sul mondo, le istituzioni finanziarie e commerciali e il dollaro.  

Dopo la fine della seconda guerra mondiale fu creata una serie di istituzioni che avrebbero dovuto contribuire a stabilizzare il nuovo ordine mondiale uscito dalla fine della guerra. Furono così creati il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e l’Organizzane per il Commercio Mondiale. Tali organismi risultarono presto essere governati in via quasi esclusiva dagli Stati Uniti, anche se l’Europa avrebbe avuto diritto, per graziosa concessione Usa, alla direzione del Fondo. 

Tali organismi si trovano oggi in grande difficoltà e per diverse ragioni. Prendiamo in particolare il caso del Fondo Monetario Internazionale. Oggi molti paesi in via di sviluppo, dal Brasile alla Cina, contestano le sue operazioni, indicando che tali organismi sono operanti e sono organizzati per favorire l’Occidente ed anche al recente vertice dei Brics è stato chiesto una maggiore rappresentanza nell’organismo per i paesi in via di sviluppo. Lo stesso segretario generale dell’Onu ha chiesto una più grande peso dei paesi in via di sviluppo nelle organizzazioni internazionali. Lula ha poi espresso preoccupazione perchè a suo dire il Fondo asfissia le economie in difficoltà ponendo condizioni molto dure al loro salvataggio (Beattie, 2023). 

In teoria è allo studio una revisione delle quote dei vari paesi. Considerando il suo peso economico, la Cina dovrebbe passare dall’attuale 6,4% di quote al 14,1%, mentre gli Stati Uniti dovrebbero scendere dal 17,4% al 14,8% (Beattie, 2023), perdendo anche il diritto di veto sulle decisioni dell’organismo. Ma questi ultimi sono ovviamente contrari a questo mutamento e la situazione appare bloccata. Intanto il Fondo, come la Banca Mondiale, avrebbero bisogno di molti più fondi per operare (la cooperazione dei paesi ricchi diminuisce mentre le necessità dei paesi del Sud aumentano; è stato così calcolato che la Banca Mondiale ha oggi una capacità di finanziamento cinque volte minore che negli anni sessanta del Novecento (Bouissou, 2023), all’aumento dei quali la Cina potrebbe collaborare in maniera sostanziale. 

Con il blocco, i tre organismi stanno sempre più perdendo di rilevanza, mentre la Cina, i parte con altri paesi, sta potenziando dei meccanismi alternativi, che tendono a diventare più importanti di quelli citati. Ricordiamo che sono in piedi orami da dieci anni i meccanismi della BRI, che in tale periodo ha messo in opera investimenti per mille miliardi di dollari rivolti a 150 paesi. Ci sono poi gli organismi di finanziamento del commercio estero del paese asiatico, mentre ormai funziona quasi a pieno regime l’AIIB, rivolta all’Asia e si stanno potenziando le istituzioni bancarie dei Brics e dello Sco.

La dedollarizzazione

L’egemonia degli Stati Uniti sul resto del mondo riposa per una parte molto consistente sul controllo della moneta internazionale, il dollaro. La moneta Usa è di gran lunga la più usata per gli scambi commerciali, per le operazioni finanziari sui mercati, come infine moneta di riserva, portando ad un “esorbitante privilegio” per il paese, come ha detto qualcuno. In tale situazione, da una parte il paese si può permettere una politica di bilancio molto libera, dall’altra può condizionare e ricattare gli altri paesi del mondo.

Come è noto, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina gli Stati Uniti hanno reagito tra l’altro con il sequestro delle riserve in dollari della Russia; ma è anche noto che tale misura ha scosso in profondità i governi della gran parte dei paesi del Sud, che hanno cominciato a pensare che la stessa cosa avrebbe potuto succedere anche a loro in futuro. 

Così negli scorsi mesi abbiamo assistito ad una serie di iniziative anche disordinate volte a ridurre il peso del dollaro nel regolamento delle transazioni commerciali tra i vari paesi. Il fenomeno più vistoso manifestatosi sino ad oggi è indubbiamente il passaggio dal regolamento della maggior parte delle transazioni della Russia dal dollaro allo yuan. C’è da dire che in generale le ipotesi della sostituzione del dollaro con lo yuan non sembra completamente fattibile, vista l’ostilità da parte di alcuni paesi, ma comunque il suo ruolo dovrebbe aumentare fortemente. Intanto va avanti il progetto dello yuan elettronico. I Brics stanno ora discutendo su quale meccanismo utilizzare per ancorarvi i loro scambi. Comunque l’abbandono del dollaro da parte dei paesi del Sud, che a chi scrive sembra ormai inevitabile, si potrà svolgere solo lentamente e con fatica, visto il radicamento profondo dell’attuale sistema e la resistenza occidentale a ogni cambiamento. Il dollaro conserverà peraltro ancora a lungo un ruolo importante.

Certo la soluzione migliore sarebbe quella di riformare il sistema monetario internazionale sulla base del meccanismo dei diritti speciali di prelievo, soluzione anch’essa osteggiata dagli Stati Uniti. 

Conclusioni

Nel testo abbiamo cercato comunque di cogliere i movimenti essenziali delle trasformazioni in atto nell’assetto dell’ordine mondiale.

Tale trasformazione procede lentamente, almeno su alcuni fronti, ma apparentemente in maniera inesorabile. Forse non si tratta tanto di un passaggio del testimone dagli Stati Uniti alla Cina, come si era magari portati a pensare qualche tempo fa. Tale ipotesi si scontrerebbe da una parte con le evidenti riserve di una parte almeno dei paesi del Sud, ma anche con l’apparente scarso interesse della stessa Cina ad occupare tale ruolo, anche se essa non è da scartare del tutto. Questo non toglie che la Cina si avvii probabilmente ad essere la potenza economica più rilevante a livello economico e tecnologico e non impedisce il fatto che gli Usa conservino comunque una forza considerevole in diversi campi.

Naturalmente la storia ci ha abituato a sconvolgimenti anche repentini della situazione e le previsioni che possiamo fare sono comunque soggette a molta cautela. 

Ci troviamo oggi comunque in una situazione nella quale, per riprendere un’idea di Gramsci, il vecchio ordine non ce la fa più e il nuovo stenta ancora ad emergere. Si può ricordare a questo proposito come la crisi del ‘29 sia stata anche provocata dal fatto che la Gran Bretagna non aveva più la forza per governare il mondo e gli Stati Uniti non erano ancora pienamente in grado di sostituirla. Viviamo degli anni di rilevanti disordini che potrebbero appunto essere originati dalla mancanza di un nuovo e chiaro ordine delle cose (Leonhardt, 2023).

In ogni caso, se andiamo verso un mondo pluralista, come sembra di poter intravedere, bisogna cercare di creare al più presto delle istituzioni adeguate per il suo governo. Tra l’altro, sarebbe necessario varare un nuovo sistema monetario inclusivo e mettersi d’accordo sul rinnovamento di Banca Mondiale, Fondo Monetario, Organizzazione per il Commercio. La maggiore difficoltà alla costruzione di tale sistema rimangono gli Stati Uniti. 

Testi citati nell’articolo

-Beattie A., Why the «Global South» isn’t running the IMF, www.ft.com, 5 ottobre 2023

-Bezat J-M., Chine-Etats-Unis, l’impossible divorce, Le Monde, 29 agosto 2023

-Bouissou J., FMI et Banque mondiale : le Sud veut peser, Le Monde, 11 ottobre 2023

-Bulard M., Quand le Sud s’affirme, Le Monde diplomatique, ottobre 2023

-Cardini F., La deriva dell’Occidente, Laterza, Bari-Roma, 2023  

-England A., « Bridges with everyone » : how Saudi Arabia and UAE are positioning themselves for power, www.ft.com, 23 agosto 2023 

-Frachon A., Le monde post-1945 s’efface, Le Monde, 6 ottobre 2023

-Hurst D., China leading US in technology race in all but a few fields, thinktank finds, www.theguardian.com, 2 marzo 2023

-Leonhardt D., The global context of Hamas-Israel war, www.nytimes.com, 9 ottobre 2023 

-Russell A., The à la carte world : our new geopolitical order, www.ft.com, 21 agosto 2023

The Economist, Costly and dangerous, 12 agosto 2023 

FONTE: https://sbilanciamoci.info/le-nuvole-nere-sullordine-mondiale/

Lasciategli mangiare cemento

Israele non sta solo decimando Gaza con attacchi aerei, ma sta impiegando la più antica e crudele arma di guerra: la fame. Il messaggio di Israele, alla vigilia di un’invasione di terra, è chiaro. Lascia Gaza o muori.

di CHRIS HEDGES

Israele, con il sostegno degli Stati Uniti e degli alleati europei, si sta preparando a lanciare non solo una campagna di terra bruciata a Gaza, ma la peggiore pulizia etnica dai tempi delle guerre nell’ex Jugoslavia. L’obiettivo è spingere decine, molto probabilmente centinaia di migliaia di palestinesi oltre il confine meridionale di Rafah nei campi profughi in Egitto. Le conseguenze saranno catastrofiche, non solo per i palestinesi, ma per tutta la regione, e quasi certamente scateneranno scontri armati nel nord di Israele con Hezbollah in Libano e forse con Siria e Iran.

L’amministrazione Biden, eseguendo pedissequamente gli ordini di Israele, sta alimentando la follia. Gli Stati Uniti sono stati l’unico Paese a porre il veto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva pause umanitarie per fornire cibo, medicine, acqua e carburante a Gaza. Ha bloccato le proposte di cessate il fuoco. Ha proposto un progetto di risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che afferma che Israele ha il diritto di difendersi. La risoluzione chiede inoltre all’Iran di smettere di esportare armi a “milizie e gruppi terroristici che minacciano la pace e la sicurezza in tutta la regione”.

Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali sono moralmente in bancarotta e complici del genocidio quanto coloro che furono testimoni dell’Olocausto nazista degli ebrei e non fecero nulla.

Il conflitto, che è costato la vita a 1.400 israeliani e ad almeno 4.600 palestinesi a Gaza, si sta ampliando. Israele ha effettuato un secondo attacco aereo su due aeroporti in Siria. Scambia quotidianamente raffiche di razzi con le milizie Hezbollah. Le basi militari americane in Iraq e Siria sono state attaccate dalle milizie sciite. Giovedì la USS Carney, un cacciatorpediniere lanciamissili, ha abbattuto tre missili da crociera, apparentemente lanciati dagli Houthi nello Yemen e diretti verso Israele.

Israele sta anche lottando per sedare i violenti scontri quotidiani nella Cisgiordania occupata. Domenica ha effettuato un attacco aereo su una moschea nel campo profughi di Jenin – il primo attacco aereo in Cisgiordania da due decenni – che ha ucciso almeno 2 persone. Coloni ebrei armati si sono scatenati nelle città palestinesi della Cisgiordania. Secondo l’ufficio umanitario delle Nazioni Unite, almeno 90 palestinesi in Cisgiordania sono stati uccisi da coloni armati o dall’esercito israeliano dall’incursione in Israele del 7 ottobre da parte di Hamas e altri combattenti della resistenza. Nelle ultime due settimane sono stati arrestati circa 4.000 lavoratori di Gaza e 1.000 palestinesi della Cisgiordania, raddoppiando il numero dei prigionieri palestinesi portandolo a 10.000 detenuti da Israele, oltre la metà dei quali sono prigionieri politici

“Molti dei prigionieri hanno avuto arti, mani e gambe rotte… espressioni degradanti e ingiuriose, insulti, imprecazioni, legati con le manette alla schiena e stringendoli all’estremità fino a causare forti dolori… nudi, umilianti e di gruppo perquisizione dei prigionieri”, ha detto in una conferenza stampa la Commissione per gli Affari dei Detenuti dell’Autorità Palestinese, Qadura Fares.

B’Tselem, l’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha detto alla BBC che dall’attacco del 7 ottobre è stato documentato “uno sforzo concertato e organizzato da parte dei coloni per sfruttare il fatto che tutta l’attenzione internazionale e locale è focalizzata su Gaza e sul nord di Israele per cercare di impossessarsi di terre in Cisgiordania.”

All’interno di Israele, i palestinesi con cittadinanza israeliana e documenti di identità di Gerusalemme vengono molestati, detenuti, arrestati ed espulsi dal lavoro e dalle università in quella che viene descritta come una “caccia alle streghe”. Più di 152.000 israeliani sono stati evacuati da città e villaggi vicino ai confini di Gaza e del Libano.

Gli Stati Uniti, nel tentativo di contrastare una risposta militare dell’Iran che potrebbe innescare una guerra regionale, stanno dispiegando altre 2.000 truppe in Medio Oriente. Rischiererà uno dei suoi gruppi d’attacco nel Golfo Persico e invierà ulteriori sistemi di difesa aerea nella regione. La USS Dwight D. Eisenhower e il suo gruppo d’attacco – che lo scorso fine settimana erano stati schierati nel Mar Mediterraneo orientale per unirsi alla USS Gerald R. Ford – sono stati reindirizzati nel Golfo Persico. Nel Golfo Persico sono stati inviati anche una batteria antimissile THAAD (Terminal High Altitude Area Defense) e battaglioni del sistema di difesa missilistica Patriot.

Israele ha scatenato i suoi quattro cavalieri dell’Apocalisse: morte, carestia, guerra e conquista.

Ha dato agli abitanti di Gaza due scelte. Lascia Gaza o muori.

I palestinesi verranno uccisi non solo dalle bombe e dai proiettili e, eventualmente, con l’invasione di terra, dai proiettili e dai proiettili dei carri armati, ma dalla fame e da epidemie come il colera. Senza acqua, carburante e medicine e con il collasso dei servizi igienico-sanitari, le malattie si diffonderanno rapidamente. L’ONU afferma che gli ospedali di Gaza “sono sull’orlo del collasso”. Migliaia di pazienti moriranno una volta esaurito il carburante per i generatori ospedalieri.

Un medico dell’ospedale al-Shifa di Gaza ha riferito in un’intervista sabato: “Stiamo crollando”. Ha parlato della mancanza di ossigeno, luce e forniture mediche, di mancanza d’acqua in alcuni reparti, di preoccupazioni per il colera e della perdita di medici uccisi dagli attacchi aerei israeliani, compreso un dentista ucciso nel bombardamento israeliano di una chiesa ortodossa che ha provocato almeno 18 morti, compresi diversi bambini.

La manciata di camion, 37 finora, di aiuti a Gaza è un cinico espediente di pubbliche relazioni richiesto dall’amministrazione Biden. Farà ben poco per alleviare la crisi umanitaria architettata da Israele. L’ONU afferma di aver bisogno di almeno 100 tir di aiuti al giorno. L’ultimo impianto di desalinizzazione dell’acqua di mare funzionante di Gaza è stato chiuso domenica per mancanza di carburante.

Israele non ha intenzione di revocare l’assedio totale su Gaza. Ha annunciato che aumenterà i suoi attacchi aerei. Continuerà, come ha fatto nelle ultime due settimane, a estinguere le vite dei palestinesi e a terrorizzarli e a farli morire di fame spingendoli a lasciare Gaza.

L’assalto di terra a Gaza non sarà rapido. Implica settimane, forse mesi, di combattimenti di strada. Il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha paragonato l’incombente battaglia a Gaza all’assalto statunitense alla città irachena di Mosul, controllata dall’ISIS, nel 2014. Ci sono voluti nove mesi agli Stati Uniti per riconquistare Mosul.

Quando Israele dice che questa sarà una “lunga guerra”, per una volta sta dicendo la verità.

Israele ha richiesto maggiori aiuti militari a Washington, 14,3 miliardi di dollari, compresi 10,6 miliardi di dollari per la difesa aerea e missilistica. Lo otterrà. Israele sta rapidamente esaurendo le sue scorte mentre martella Gaza, anche nel sud di Gaza, dove sono fuggite centinaia di migliaia di famiglie sfollate dal nord.

Israele non permetterà la distribuzione dei 100 milioni di dollari in aiuti statunitensi promessi ai palestinesi in Cisgiordania e a Gaza, almeno fino a quando la campagna della terra bruciata non sarà terminata. Ma a quel punto Gaza sarà irriconoscibile. Israele lo avrà annesso in parte o del tutto. Forse il denaro può essere destinato alla costruzione di altri insediamenti ebraici illegali nella Cisgiordania occupata. E promettere aiuti non equivale ad appropriarsene. Quindi forse anche questo fa parte dell’illusione.

I funzionari egiziani sono profondamente consapevoli di ciò che verrà dopo. Fino alla metà, forse di più, dei 2,3 milioni di palestinesi verranno spinti da Israele in Egitto, al confine meridionale di Gaza, e non gli sarà mai permesso di tornare.

“Ciò che sta accadendo ora a Gaza è un tentativo di costringere i residenti civili a rifugiarsi e a migrare in Egitto, cosa che non dovrebbe essere accettata”, ha avvertito il presidente egiziano Abdulfattah al-Sisi.

Rapporti provenienti dall’Egitto sostengono che Washington ha promesso di condonare gran parte dell’enorme debito egiziano di 162,9 miliardi di dollari, oltre a offrire altri incentivi economici in cambio dell’acquiescenza dell’Egitto alla pulizia etnica dei palestinesi. I profughi, una volta attraversato il confine con l’Egitto, verranno lasciati a marcire nel Sinai.

“C’è il grave pericolo che ciò a cui stiamo assistendo possa essere una ripetizione della Nakba del 1948 e della Naksa del 1967, anche se su scala più ampia. La comunità internazionale deve fare di tutto per evitare che ciò accada di nuovo”, ha affermato Francesca Albanese, Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi occupati dal 1967.

Israele utilizza da tempo la guerra per giustificare la pulizia etnica dei palestinesi. I funzionari governativi hanno apertamente chiesto un’altra Nakba, o “catastrofe”, il termine per gli eventi del 1947-1949, quando oltre 750.000 palestinesi furono sottoposti a pulizia etnica dalla Palestina storica e costretti nei campi profughi per creare lo Stato di Israele. Durante la guerra del 1967, che portò all’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, Israele effettuò la pulizia etnica di altri 300.000 palestinesi durante la Naksa, o “giorno della battuta d’arresto”, che viene commemorato ogni anno dai palestinesi.

La pulizia etnica dei palestinesi da parte di Israele, tuttavia, non si limita alle guerre. È in corso una pulizia etnica al rallentatore mentre Israele ha costantemente costruito sempre più colonie esclusivamente ebraiche e ha sequestrato in modo incrementale la terra palestinese. I palestinesi, a cui vengono negate le libertà civili fondamentali nello stato di apartheid israeliano, sono stati derubati di beni, tra cui, spesso, delle loro case. Hanno dovuto affrontare crescenti restrizioni sui loro movimenti fisici. Sono stati bloccati dal commercio e dagli affari, in particolare dalla vendita di prodotti agricoli. Si sono ritrovati sempre più impoveriti e intrappolati dietro i muri e le recinzioni di sicurezza erette intorno a Gaza e in Cisgiordania. Allo stesso tempo, hanno sopportato periodici attacchi aerei israeliani, omicidi mirati e attacchi quasi quotidiani da parte di coloni ebrei armati e dell’esercito israeliano.

Israele ha impedito ai palestinesi che lasciavano la Cisgiordania e la Striscia di Gaza di ritornare al ritmo di circa 9.000 palestinesi all’anno dopo l’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza nel 1967, fino alla firma degli accordi di Oslo nel 1994, secondo l’Israel Human Human Resources. gruppo per i diritti umani HaMoked. Secondo B’Tselem, Israele ha anche revocato i permessi di residenza a circa 14.000 palestinesi che vivevano a Gerusalemme Est dal 1967.

Secondo i dati dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle attività umanitarie, Israele ha demolito 9.880 strutture, tra cui oltre 2.600 edifici residenziali abitati, sfollando oltre 14.000 persone e colpendone 233.681 nella sola Cisgiordania tra il 1° gennaio 2009 e il 7 ottobre 2023. Affari. Dall’attacco del 7 ottobre, altre 38 case e altre strutture sono state demolite in Cisgiordania, colpendo altre 13.613 persone e provocandone lo sfollamento.

Secondo i dati di Peace Now e del quotidiano israeliano Haaretz, meno del 2,2% delle richieste palestinesi di permessi di costruzione presentate tra il 2009 e il 2020 sono state approvate.

Il numero di coloni israeliani nei territori occupati, tuttavia, è passato da zero prima della guerra del giugno 1967 a un numero compreso tra 600.000 e 750.000 sparsi in almeno 250 insediamenti e avamposti in tutta la Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, tutti in violazione del diritto internazionale.

Israele non nasconde le sue intenzioni.

Il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha detto alle truppe che si preparavano ad entrare a Gaza: “Ho rilasciato tutte le restrizioni”.

Il membro della Knesset Ariel Kallner, membro del partito Likud di Benjamin Netanyahu, ha invitato X, precedentemente noto come Twitter, a “una Nakba che oscurerà la Nakba del 48”.

L’esercito israeliano ha mobilitato Ezra Yachin, un veterano dell’esercito di 95 anni, per “motivare” le truppe. Yachin era un membro della milizia sionista Lehi che compì numerosi massacri di civili palestinesi, incluso il massacro di Deir Yassin del 9 aprile 1948, dove furono massacrati oltre 100 civili palestinesi, molte donne e bambini.

“Siate trionfanti e finiteli e non lasciate nessuno indietro. Cancellatene il ricordo”, ha detto Yachin rivolgendosi alle truppe israeliane.

“Cancellate loro, le loro famiglie, le madri e i bambini”, ha proseguito. “Questi animali non possono più vivere”.

“Ogni ebreo con un’arma dovrebbe uscire e ucciderli”, ha detto. “Se hai un vicino arabo, non aspettare, vai a casa sua e sparagli”.

Dove sono i nostri interventisti umanitari? Quelli che hanno pianto lacrime di coccodrillo sui diritti umani di ucraini, iracheni, siriani, libici e afghani, per giustificare massicce spedizioni di armi e la guerra? Dov’è la vecchia ala pacifista del Partito Democratico e della classe liberale? Cosa è successo agli intellettuali pubblici che denunciavano il massacro di innocenti e la macchina da guerra statunitense? Dove sono i giuristi che sostengono lo stato di diritto internazionale? Perché le poche voci solitarie che parlano del genocidio dei palestinesi da parte di Israele vengono attaccate, censurate e denigrate?

“Il presidente precedente voleva metterci al bando e probabilmente metterci nei campi di concentramento”, ha detto la deputata del Michigan Rashida Tlaib, di origine palestinese, in una manifestazione a sostegno del cessate il fuoco il 20 ottobre a Washington, davanti al Campidoglio degli Stati Uniti. “Questo vuole semplicemente che moriamo. È così che ci si sente. Che si vergognino.”

Israele non fermerà la sua campagna di genocidio a Gaza contro i palestinesi finché non ci sarà un embargo sulle armi da parte degli Stati Uniti nei confronti di Israele. I nostri sistemi d’arma, munizioni e aerei d’attacco sostengono il massacro. Dobbiamo porre fine agli aiuti militari da 3,8 miliardi di dollari che gli Stati Uniti danno ogni anno a Israele. Dobbiamo sostenere il movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS) e chiedere la sospensione di tutti gli accordi di libero scambio e di altri accordi tra Stati Uniti e Israele. Solo quando questi sostegni verranno eliminati da Israele, la leadership israeliana sarà costretta, come è stato il regime di apartheid in Sud Africa, a integrare i palestinesi in un unico stato con pari diritti. Finché rimarranno questi sostegni, i palestinesi saranno condannati.

FONTE: https://substack.com/

TRADUZIONE: CAMBIAILMONDO.ORG

L’economia di guerra oggi (Parte I°)

di Andrea Vento

L’inizio dell’Operazione militare russa in Ucraina il 24 febbraio dello scorso anno, grave escalation del conflitto iniziato nel 2014, ha inevitabilmente innescato un’ampia gamma di effetti principalmente riconducibili a tre distinte sfere, seppur tra loro interconnesse e interdipendenti. Gli analisti hanno, infatti, registrato significativi mutamenti:

  1. nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche,
  2. nella dinamica dell’economia mondiale oltre che nella sua struttura produttiva,
  3. nel ciclo economico e nei bilanci statali in primis dei Paesi coinvolti direttamente nel conflitto, e, seppur in misura minore, anche nei cosiddetti cobelligeranti e, perfino in quelli, maggioritari per numero, che hanno mantenuto una posizione neutralista.

La frattura geopolitica e geoeconomica

Nel contesto delle relazioni geopolitiche si è determinata una profonda frattura interna all’Europa delimitata dai confini occidentali di Russia e Bielorussia provocata non tanto dalla votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo 2022 di condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, approvata da 141 Paesi su 193, quanto dall’introduzione delle misure restrittive promosse dagli Stati Uniti ai danni di Mosca e adottate da parte di 37 Paesi (pari a solo il 19% del totale) appartenenti al cosiddetto Occidente globale, vale a dire i Paesi Nato e i loro più fidati “alleati” nei vari scacchieri regionali (carta 1).

Carta 1: i 37 Paesi che hanno imposto le sanzioni alla Russia

La rottura più marcata si è quindi concretizzata fra i Paesi dell’Occidente globale, da un lato, e Russia e Bielorussia, dall’altro, con i restanti Stati del panorama mondiale che hanno mantenuto i rapporti politici ed economici con Mosca, espandendoli ed approfondendoli in non pochi casi. In particolare Cina, India, Iran, Arabia Saudita e la maggior parte dei Paesi africani, mediorientali e latinoamericani.

In merito alle sanzioni, ormai giunte all’undicesimo pacchetto a giugno 2023, ed ai suoi effetti sulla Russia e sui Paesi che le hanno introdotte abbiamo analizzato in profondità con alcuni saggi ai quali rimandiamo1. Rileviamo in sintesi come tali provvedimenti abbiano innescato nei Paesi europei una marcata crisi di approvvigionamento delle materie prime, agricole ed energetiche e dato nuovo impulso alla spirale inflazionistica, principalmente sul gas naturale, innescata dalla speculazione finanziaria già dalla fine estate del 2021, diversi mesi prima dell’escalation del conflitto e dell’introduzione del primo pacchetto sanzionatorio il 23 febbraio 2022.

Le ripercussioni del confitto in Ucraina sull’economia mondiale

L’avvio dell’Operazione militare speciale russa, le varie tranche di misure restrittive occidentali e l’impennata dell’inflazione, causata dalla speculazione finanziaria, e i loro conseguenti molteplici effetti negativi, compreso il rialzo dei tassi da parte di numerose banche centrali, Federal Reserve (Fed) e Banca Centrale Europea (Bce) in primis, hanno inevitabilmente generato ricadute negative sull’andamento dell’economia mondiale e su quello di un cospicuo numero dei Paesi, in particolare su quelli europei. Infatti, se a gennaio 2022, prima dell’escalation del conflitto e delle sanzioni, il Fondo Monetario Internazionale prevedeva per l’anno appena iniziato, dopo il +6,0% del 2021, un consolidamento della ripresa post crisi pandemica con una crescita del 4,4%, il dato definitivo del 2022 indicava un rallentamento della stessa al 3,5%. Risultato non disastroso, esclusivamente ottenuto grazie alla buona tenuta dei Paesi emergenti che chiudono l’anno con un lusinghiero +4,0%, non distante dal +4,8% previsto a gennaio (tabella 1). Nel contesto delle Economie emergenti risalta la situazione dell’India che evidenzia un eccellente +7,2%, la quale, al pari della Cina, ha intensificato le relazioni commerciali con la Russia, beneficiando di prezzi ribassati del costo delle materie prime offerti da Mosca, divenendo, fra le varie, il principale acquirente mondiale di petrolio russo2 (tabella 2). Più marcata invece la flessione delle Economie sviluppate che ripiegano nel dato definitivo a +2,7% rispetto al 3,9% previsto a gennaio 2022.

Se ampliamo l’arco temporale delle previsioni all’Outlook del Fmi di ottobre 2021 rileviamo una contrazione della crescita ancora maggiore sia per l’economia mondiale (+4,9%), che per i singoli Paesi e blocchi geoeconomici. In quest’ultimo contesto registriamo tuttavia una maggiore flessione nelle Economie avanzate, da 4,5% a 2,7% pari a -40%, rispetto a quelle Emergenti da +5,1% a 4,0%, corrispondente a -20% determinato dalla mancata adozione delle sanzioni da parte di quest’ultime, al contrario delle prime (tabella 1).

Tabella 1: previsioni e dati definitivi in % anni 2022 e 2023 dei vari Word Economic Outlook Fmi

Tipologia di datiPrevisioni 2022Previsioni 2022Previsioni 2022Previsioni 2022Definitivo 2022Previsioni 2023Previsioni 2023
Economic Outlook FmiOttobre 2021Gennaio 2022Aprile 2022Ottobre 2022Luglio 2023Gennaio 2023Luglio 2023
Economia mondiale4,94,43,63,23,52,93,0
Economie avanzate4,53,93,32,42,71,21,5
Economie emergenti5,14,83,83,74,04,04,0

Infine, la revisione al ribasso delle previsioni di gennaio 2022 rispetto a quelle di ottobre 2021 è principalmente riconducile, e in ciò troviamo conforto nell’analisi del Fmi, dall’acuirsi dell’impennata dell’inflazione trainata dall’aumento dei prodotti energetici. In particolare le quotazioni del gas nella parte terminale del 2021 raggiungono livelli molto elevati, attestandosi in dicembre ad una media mensile di 110,12 per MegaWatt/ora sul mercato TTF di Amsterdam, oltre 4 volte il prezzo medio di maggio 2021 (25,21 ) e 5 volte e mezzo quello di aprile (20,50 )3.

Tabella 2: previsioni e dati definitivi in % anni 2022 e 2023 dei vari Word Economic Outlook Fmi

Tipologia di datiPrevisioni 2022Previsioni 2022Previsioni 2022Previsioni 2022Definitivo 2022Previsioni 2023Previsioni 2023
Economic Outlook FmiOttobre 2021Gennaio 2022Aprile 2022Ottobre 2022Luglio 2023Gennaio 2023Luglio 2023
Economia mondiale4,94,43,63,23,52,93,0
Russia4,74,5-8,5-3,4-2,10,31,5
Stati Uniti5,24,03,71,62,11,41,8
Germania4,63,82,11,51,80,1-0,3
Italia4,23,82,33,23,70,61,1
Cina8,08,14,43,23,05,25,2
India9,59,08,26,87,26,16,1

Conseguentemente al rallentamento dell’economia mondiale, alle tensioni commerciali già in atto da tempo fra Usa e Cina, ai colli di bottiglia emersi a seguito della ripresa dopo la crisi pandemica nell’offerta di beni e semilavorati, alla cosiddetta crisi dei “microchip” e all’avanzare del processo di deglobalizzazione, anche il commercio ha subito inevitabili ricadute negative. Secondo il report dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) dell’aprile 20234appesantito dagli effetti della guerra in Ucraina (sanzioni comprese, ndr), dall’inflazione ostinatamente elevata, dalla politica monetaria più restrittiva e dall’incertezza dei mercati finanziari, il volume del commercio mondiale di beni (servizi esclusi. ndr) dovrebbe crescere dell’1,7% quest’anno, dopo una crescita del 2,7% nel 2022“, una aumento inferiore alle previsioni di ottobre 2022 (3,5%) causato dal rallentamento del quarto trimestre (tabella 3).

Tabella 3: variazione % del commercio mondiale previsioni e dati definitivi Wto anni 2022 e 2023

Tipologia di datiPrevisioni 2022Previsioni 2023Previsioni 2022Previsioni 2023Definitivo 2022Previsioni 2023
Wto reportAprile 2022Aprile 2022Ottobre 2022Ottobre 2022Aprile 2023Aprile 2023
Commercio mondiale di merci3,03,43,51,02,71,7

Nel caso in cui le previsioni del Wto per il 2023 fossero confermate dal dato definitivo, si registrerebbe il secondo anno consecutivo nel quale la crescita economica mondiale risulterebbe superiore a quella del commercio globale, andandosi ad aggiungere agli anni 2015, 2016, 2018 e 2019, oltre al 2020, anno nel quale il tasso di riduzione degli scambi commerciali (-5,1%) ha superato quello del Prodotto lordo globale (-3,3%)5. Nell’arco degli ultimi nove anni, dunque solo nel 2017 e nel 2021 la crescita dei commerci è risultata superiore quella della ricchezza prodotta su scala globale. Ciò conferma le analisi del Giga che avevano rilevato i primi segnali di deglobalizzazione già nel 2014 con l’insorgere della strategia del reshoring. Politica industriale che in seguito ha tratto nuova linfa dalle politiche “America first” di Trump6, dal graduale ritorno di misure protezionistiche e dalle tensioni con la Cina sfociate in “guerra commerciale” e dall’accorciamento delle catene di approvvigionamento (supply chain), indotte dalla crisi pandemica.

Su questo scenario, ad inizio 2022, cala la frattura geopolitico-militare causata dal conflitto in Ucraina che, di fronte all’evidenza della scarsa capacità di resilienza delle catene globali del valore (Global Value Chain) determina la ricerca di strategie alternative finalizzate alla rilocalizzazione delle produzioni. Il processo di deglobalizzazione, benché ancora lontano dal sua completo sviluppo7, dal 2022 registra un’altra accelerazione e una parziale riorganizzazione del modello di internazionalizzazione delle produzioni che tende geograficamente a restringersi su base macroregionale (near-shoring) o su base “amicale”, vale a dire nei Paesi geopoliticamente vicini (friend-shoring)8.

Con attenzione osserviamo i nuovi assetti e le inedite configurazioni che si stanno delineando a livello geoeconomico globale e macroregionale, consapevoli che il percorso sia lungo e tortuoso e l’incedere lento e oneroso, in quanto molteplici e complessi risultano i fattori resistenti per i Paesi occidentali che giocoforza sono ricorsi a tale strategia, dopo le sanzioni comminate alla Russia, il piano RepowerEu9 e le contromisure di Mosca. Pesano, soprattutto per gli Stati europei, la mancanza di materie prime, le differenze salariali, che seppur ridottesi, continuano a sussistere rispetto ai Paesi emergenti, le norme ambientali più restrittive e i costi della riattivazioni delle reti produttive abbandonate o della creazione ex-novo.

Andrea Vento – 8 settembre 2023

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

NOTE:

1 https://magazine.cisp.unipi.it/guerra-ucraina-un-primo-bilancio-delle-sanzioni-contro-la-russia/

Crisi ucraina: solo la mobilitazione popolare può fermare la guerra

2 https://iari.site/2023/05/14/il-petrolio-russo-in-india-rischio-dipendenza-energetica/

3 Vedi tabella 2 del saggio: Approvata la nona tranche di sanzioni alla Russia

cambiailmondo.org/2022/12/21/approvata-la-nona-tranche-di-sanzioni-alla-russia-nonostante-leconomia-italiana-vada-incontro-a-nuova-recessione-e-unulteriore-crisi-social/

4 https://formatresearch.com/2023/04/05/wto-omc-la-crescita-del-commercio-rallentera-all17-nel-2023-dopo-lespansione-del-27-nel-2022-si-prevede-che-la-crescita-del-commercio-globale-nel-2023-sara-ancora-inferiore-alla-media-nonos/

5 Grafico 1 pag 3 “Trade outlokk” Wto 23

6 https://am.pictet/it/blog/articoli/guida-alla-finanza/america-first-il-dizionario-economico-di-donald-trump

7 https://www.logisticanews.it/reshoring-negli-usa-il-trend-prende-corpo-diventera-globale/

8 https://med.ispionline.it/agenda/re-shoring-near-shoring-or-friend-shoring/

9 Il vero atto di nascita dell’incremento dei prezzi dell’energia, dell’inflazione e dell’aumento dei tassi.

Paragrafo: Il piano REPoowerEU. La rottura strategica con la Russia di Raffaele Picarelli https://codice-rosso.net/il-vero-atto-di-nascita-dellincremento-dei-prezzi-dellenergia-dellinflazione-e-dellaumento-dei-tassi/

Macron vuole un invito al vertice dei BRICS? L’idea è coraggiosa e innovativa: l’Editoriale del Global Times di Pechino

Foto: Wikipedia (https://it.wikipedia.org/wiki/Emmanuel_Macron#/mediaFile:Emmanuel_Macron_2022.png)

Secondo quanto riportato dai media francesi, il Presidente francese Emmanuel Macron avrebbe chiesto al Presidente sudafricano Cyril Ramaphosa di essere invitato al vertice dei BRICS in programma ad agosto. La notizia non è stata ancora confermata dall’Eliseo e il portavoce del presidente sudafricano ha dichiarato di non essere a conoscenza della richiesta di Macron. Mosca ha chiesto a Parigi di fornire una spiegazione: Vogliono stabilire ancora una volta un qualche tipo di contatto per mostrare l’attività di Parigi, oppure si tratta di una sorta di cavallo di Troia? La notizia ha suscitato una notevole attenzione, ma gli atteggiamenti delle varie parti in causa sono diversi. I media francesi hanno commentato: “È una cosa un po’ folle e senza precedenti”. In ogni caso, considerando l’attuale panorama internazionale, si tratta di un’idea audace e innovativa.

Considerare questa idea audace o addirittura “folle” è stata la reazione iniziale di molte persone quando hanno appreso la notizia. Vale la pena di approfondire il perché di questo atteggiamento. Ciò indica che le persone hanno assunto inconsciamente la divisione tra Nord e Sud e quella tra Est e Ovest come uno stato normale, al punto che anche un pensiero che possa rompere queste norme e schemi mentali appare piuttosto sorprendente.

D’altra parte, però, questa idea sembra ragionevole. La Francia è un grande Paese europeo che si è reso conto in anticipo dei cambiamenti storici che si stanno verificando nel panorama globale. Lo stesso Macron ha fatto dichiarazioni sorprendenti in diverse occasioni, dimostrando un certo livello di autonomia separato da Washington. Questi fattori fanno pensare che non sarebbe particolarmente strano se Macron partecipasse al vertice dei BRICS. Il fatto stesso che queste notizie emergano in Francia e non in altri Paesi la dice lunga.

I Paesi membri dei BRICS sono tutte economie emergenti che rappresentano gli interessi dei Paesi in via di sviluppo nella comunità internazionale. In quanto Paese sviluppato, è possibile che la Francia partecipi al Vertice dei BRICS? Che tipo di reazione chimica genererebbe la partecipazione della Francia? A prescindere da altri fattori specifici e intricati, nel contesto della crescente divisione tra Nord e Sud, Est e Ovest, e dell’intensificarsi dei confronti sul campo, è necessario che qualcuno trascenda le barriere ideologiche e geopolitiche e si liberi da vincoli mentali e concettuali. Questo potrebbe potenzialmente portare a effetti positivi inaspettati.

Macron ha sottolineato che l’Europa dovrebbe perseguire una “autonomia strategica” e la Francia ha anche una tradizione di diplomazia indipendente. Se la Francia riuscirà davvero a fungere da ponte tra i diversi schieramenti nelle divisioni e spaccature del mondo, sicuramente farà risaltare il suo status internazionale e creerà risultati storici. Macron ha chiaramente queste ambizioni e sta facendo questi tentativi e sforzi. Lo apprezziamo e lo rispettiamo, e siamo disposti a comprendere con benevolenza il rilascio da parte della Francia di informazioni sul desiderio di Macron di partecipare al vertice dei BRICS.

Tuttavia, ad essere sinceri, le preoccupazioni di Mosca non sono superflue. La Francia dovrebbe anche essere consapevole di quanto sia profonda la frattura tra Paesi occidentali e non occidentali e quanto sia sottile la fiducia reciproca. Soprattutto lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina e il contenimento e la reprimenda della Cina da parte degli Stati Uniti hanno creato una pressione sempre maggiore per costringere i Paesi a “schierarsi”. È molto difficile (in questo contesto, ndt) per la Francia ottenere un’autentica autonomia strategica e una diplomazia indipendente.

Dopo la visita di Macron in Cina ad aprile, egli ha esortato l’Europa a sviluppare una maggiore autonomia strategica, provocando una polemica simile a uno tsunami in Europa e negli Stati Uniti. Se poche parole hanno portato a una situazione del genere, è prevedibile che le resistenze incontrate saranno molto forti se si agisce (di conseguenza, ndt). È inevitabile che ci si chieda fino a che punto la Francia possa agire secondo la propria volontà o se debba ancora conformarsi alle forti opinioni di Washington. I Paesi BRICS devono considerare la notizia della richiesta di Macron in modo completo e attento.

Una cosa è certa: Questa vicenda ha dimostrato l’enorme influenza del meccanismo di cooperazione dei BRICS. “BRICS+” aderisce al principio del multilateralismo, attirando decine di economie emergenti e Paesi in via di sviluppo a partecipare al processo di cooperazione, che coincide con il nuovo multilateralismo sostenuto da Francia ed Europa. Il “BRICS+” può aprirsi ai Paesi sviluppati come la Francia, grazie alla sua enorme influenza nei Paesi in via di sviluppo? Si tratta di una domanda interessante, che l’organizzazione BRICS potrebbe prendere in seria considerazione alla luce di questa notizia. Tuttavia, deve essere pragmatica, non formalistica, e non lasciare che il perseguimento di questa forma influisca sulla cooperazione pragmatica del meccanismo BRICS stesso.

Diverso da un circolo ristretto come il Gruppo dei Sette (G7), il meccanismo dei BRICS esiste come piattaforma emergente per la governance globale. Aderisce all’apertura, all’inclusione, alla cooperazione e ai risultati vantaggiosi per tutti e crea un partenariato di sviluppo globale unito, equo, equilibrato e inclusivo. Purché si presentino con uguaglianza e buona volontà e vogliano sinceramente promuovere la cooperazione e lo sviluppo, i Paesi BRICS accolgono con favore la partecipazione di altre entità alla cooperazione allo sviluppo globale, tra cui non solo la Francia, ma anche gli Stati Uniti.

FONTE: https://www.globaltimes.cn/page/202306/1292607.shtml – (14/06/2023)

Traduzione: cambiailmondo.org

La Guerra contro il mondo multipolare

di Hauke Ritz*

Politici di spicco suggeriscono che si potrebbe rischiare una continua escalation della guerra in Ucraina perché una vittoria russa sarebbe peggiore di una terza guerra mondiale. A cosa è dovuta questa enorme volontà di escalation? Perché sembra non esistere un piano B? Per quale motivo l’élite politica degli Stati Uniti e quella della Germania hanno legato il proprio destino all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale?

Non si può ignorare che il mondo occidentale sia in preda a una sorta di frenesia bellica nei confronti della Russia. Ogni escalation sembra portare quasi automaticamente alla successiva. Non appena è stata decisa la consegna di carri armati all’Ucraina, si è parlato della consegna di jet da combattimento. Un drone spia americano era appena stato abbattuto vicino al confine russo dal passaggio ravvicinato di un caccia russo, quando la Corte penale internazionale dell’Aia ha pubblicato un mandato di arresto per Vladimir Putin. Criminalizzando il presidente russo, l’Occidente ha deliberatamente distrutto il percorso verso una soluzione negoziale e ha portato l’escalation a un nuovo livello. Ma come se il livello così raggiunto non fosse abbastanza alto, la Gran Bretagna ha annunciato la consegna di munizioni all’uranio, considerate armi “convenzionali” che lasciano una contaminazione radioattiva sul luogo dell’esplosione. La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è consistita nella decisione di posizionare armi nucleari tattiche in Bielorussia a stretto giro.

La rinuncia al controllo dell‘escalation

Da dove deriva questa disposizione quasi automatica all’escalation da parte dei politici al potere oggi? È un fenomeno di decadenza? Qualcosa di analogo si verifica quando l’adattamento allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) è diventato più importante dell’adattamento alla realtà. Oppure la disponibilità all’escalation può essere spiegata razionalmente? È forse l’espressione di un certo obiettivo politico che è stato minacciato ma che non può essere abbandonato dalla classe politica al potere e che quindi sembra raggiungibile solo attraverso un azzardo?

Una dichiarazione molto significativa, rilasciata dal Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg il 18 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, fa pensare a quest’ultima ipotesi: Stoltenberg ha ammesso nel suo discorso che, continuando a sostenere l’Ucraina, c’era il rischio di un’escalation militare tra la NATO e la Russia che non poteva più essere controllata. Tuttavia, ha fatto seguito a questa ammissione chiarendo immediatamente che non esistono soluzioni prive di rischi e “che il rischio più grande di tutti sarebbe una vittoria russa”. In un certo senso, Stoltenberg ha legittimato il rischio di un’escalation militare tra le due superpotenze nucleari. In altre parole, si potrebbe tranquillamente rischiare l’escalation perché una vittoria russa in Ucraina sarebbe potenzialmente peggiore di una terza guerra mondiale.

Ora, si potrebbe liquidare la dichiarazione di Stoltenberg come irrazionale se non fosse in linea con altre dichiarazioni allarmanti di politici, militari e persone che gravitano in questi mondi. Si consideri, ad esempio, l’osservazione fiduciosa di Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, che si è detto sicuro che Putin non userà le armi nucleari anche in caso di escalation (1), il che implicherebbe dunque che si può osare un’escalation. Che altri leader della NATO la pensino allo stesso modo è stato recentemente reso noto da una prostituta (Hanna Lakomy su “Berliner Zeitung”) che bazzica in questi ambienti. Anche il capo del governo ungherese, Victor Orban, ha recentemente avvertito che i Paesi occidentali sono sul punto di discutere seriamente l’invio di proprie truppe in Ucraina. Solo due giorni dopo, il famoso giornalista investigativo Seymour Hersh, noto per le sue fonti nella burocrazia di Washington, ha lanciato avvertimenti molto simili. Secondo Hersh, il governo statunitense sta valutando la possibilità di inviare proprie truppe in Ucraina sotto la copertura della NATO. Il presidente serbo, a sua volta, ha commentato la notizia del mandato di arresto della Corte penale internazionale contro il presidente russo con le parole “E sono pronto a dirvi che temo che non siamo lontani dallo scoppio della terza guerra mondiale”. Perché si era creata una situazione “in cui entrambe le parti scommettono su tutto o niente e rischiano fino in fondo”. Lo scorso dicembre, il leggendario Segretario di Stato americano Henry Kissinger aveva espresso sentimenti simili. Nel suo articolo “Come evitare un’altra guerra mondiale”, ha descritto come in questa guerra si scontrino posizioni assolutiste che potrebbero effettivamente portare allo scoppio di una guerra mondiale.

Affermazioni di questo tipo sollevano la questione di cosa si stia effettivamente combattendo in Ucraina: qual è il vero scopo di questa enorme volontà di escalation? I bacini carboniferi del Donbass? Probabilmente no. Ma allora di cosa si tratta?

Il contrasto tra ordine mondiale unipolare e multipolare

La tesi di lavoro di questo saggio è che nel conflitto ucraino si stanno confrontando due concetti di ordine mondiale, ovvero la contrapposizione tra un ordine mondiale unipolare e uno multipolare. Di seguito, le caratteristiche di entrambi i principi dell’ordine mondiale saranno sviluppate e messe a confronto.

Se si esaminano i documenti di politica estera pubblicati negli ultimi due decenni dalle principali riviste di politica estera occidentale (ad esempio negli Stati Uniti “Foreign Affairs”, rivista del Council on Foreign Relations, o in Germania “Internationale Politik”, rivista del DGAP – Consiglio tedesco per le relazioni estere), una circostanza colpisce particolarmente: in queste pubblicazioni l’obiettivo di un mondo normativamente governato dagli Stati Uniti o dalla NATO non viene messo in discussione, ma sempre presupposto. Il potenziale fallimento del dominio occidentale non viene nemmeno preso in considerazione, nemmeno come possibilità. La situazione è simile a quella di quasi tutti gli altri think tank statunitensi o tedeschi e delle loro pubblicazioni sulla geopolitica e la politica estera. Per queste istituzioni la validità dell’ordine mondiale incentrato sull’Occidente è inconfutabile, mentre il declino della Russia è considerato un dato di fatto.

In altre parole, al momento non sembra esistere un “piano B” nella pianificazione politica occidentale. È proprio l’assenza di un tale piano che potrebbe spiegare l’enorme disponibilità dell’Occidente all’escalation. Per qualche motivo, l’élite politica degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, della Germania e di numerosi altri Paesi, ha legato il proprio destino politico all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale. Gli Occidentali sembrano essere dominati dall’idea che la guerra in Ucraina possa portare a un cambio di regime a Mosca e quindi a una restaurazione del potere occidentale. Ma ora che, contrariamente alle aspettative, il predominio dell’Occidente ha iniziato a scivolare, si stanno verificando le reazioni isteriche di cui sopra.

Per arrivare al nocciolo del conflitto, dobbiamo quindi rispondere alla domanda su che cosa sia in realtà un ordine mondiale a guida occidentale, sul perché sia chiamato anche ordine mondiale unipolare, tra le altre cose, e su quale sia il suo contro-concetto.

Caratteristiche dell’ordine mondiale unipolare

Un ordine mondiale unipolare è un ordine globale strutturato in modo tale che solo una regione del globo sia davvero abbastanza sviluppata da essere il polo di potere che dà forma a tutte le sfere del mondo moderno. In un ordine mondiale unipolare, ad esempio, gran parte del potere militare sarebbe concentrato nelle mani di un’unica superpotenza o alleanza di Stati. A causa di questa concentrazione di potere, in questo caso ci sarebbe anche una sola norma di politica estera che strutturerebbe la politica estera di tutti i Paesi. Una politica estera sovrana sarebbe, per così dire, modellata solo dal centro, il polo unico; il resto del mondo, cioè la periferia, dovrebbe seguirla.

Il polo di potere in un mondo unipolare plasmerebbe le condizioni quadro delle relazioni economiche globali, ad esempio propagando una teoria economica generalmente riconosciuta come valida e controllando importanti istituzioni come la Banca Mondiale, il FMI o persino i grandi gestori di fondi. Il polo di potere eserciterebbe anche il controllo su una quota significativa delle materie prime globali, sulle rotte commerciali via terra e via mare e sulla fatturazione globale. A causa di questo monopolio economico, la crescita economica in altre regioni del mondo potrebbe essere colpita, il che ridurrebbe notevolmente la possibilità di emergere di un secondo centro di potere.

In un ordine mondiale unipolare, anche le tendenze a lungo termine dello sviluppo tecnologico sarebbero progettate e modellate da un solo polo di potere, che dominerebbe allo stesso tempo lo sviluppo e la progettazione del sistema finanziario globale e la regolamentazione giuridica delle relazioni economiche.

Tutto ciò porterebbe il diritto internazionale ad assumere la forma di una politica interna mondiale. Infine, in un ordine mondiale unipolare, anche lo sviluppo della cultura sarebbe orientato verso il centro globale: tutte le tendenze decisive nascerebbero al centro e da lì si diffonderebbero alla periferia. Questo influenzerebbe aspetti diversi come la forma del sistema educativo, l’emergere di mode, tendenze estetiche e stili, e persino la questione dei criteri con cui artisti e scrittori, così come scienziati e le loro teorie, ottengono o meno un riconoscimento internazionale. In breve, tutte le questioni riguardanti lo sviluppo della civiltà sarebbero determinate da un solo potere centrale in un ordine mondiale unipolare.

In un certo senso, un ordine mondiale unipolare creerebbe un mondo in cui l’esterno o l’altro scomparirebbero. In un mondo unipolare, ci sarebbe un solo polo di potere e quindi un solo modello di civiltà. Un ordine mondiale unipolare sarebbe in definitiva un impero la cui sfera di potere comprenderebbe l’intero globo per la prima volta nella storia: il mondo assumerebbe una struttura completamente immanente.

Dal 1991 al 2022 – Un ordine mondiale unipolare in sospeso

Questo elenco delle caratteristiche di un mondo unipolare è stato volutamente scritto a immagine e somiglianza di questo ordine mondiale per sottolinearne chiaramente il carattere presuntuoso, addirittura antiumanista. Tuttavia, bisogna tenere presente che un ordine mondiale unipolare è già esistito in forma latente a partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, e molti dei criteri appena elencati in realtà descrivono già il nostro mondo di oggi. La situazione degli ultimi tre decenni non è stata il risultato di un processo di sviluppo naturale, ma piuttosto l’esito non pianificato del crollo caotico dell’Unione Sovietica, che ha colto di sorpresa quasi tutti i contemporanei. È stata quindi una svolta storica difficile da prevedere che ha portato gli Stati Uniti a trovarsi nel ruolo di polo di potere unipolare del mondo negli anni Novanta.

Il risultato è stato che nel primo decennio e mezzo dopo il crollo dell’URSS, gli USA hanno potuto determinare la forma della politica globale quasi da soli. Hanno dominato tutte le istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nonché molte delle fondazioni attive a livello internazionale e, a partire dagli anni ’90, sempre più spesso anche molte organizzazioni non governative, che in molti casi possono certamente essere considerate organizzazioni semi-governative. Infine, gli Stati Uniti hanno avuto una grande influenza anche nella sfera della cultura (soft power), nella misura in cui le tendenze e le mode emerse negli Stati Uniti hanno influenzato lo sviluppo della cultura mondiale nel suo complesso. Inoltre, sono stati in grado di determinare autonomamente la standardizzazione di nuove tecnologie come Internet e i telefoni cellulari e di utilizzarle per la loro influenza culturale e per lo spionaggio.

Si può quindi affermare che l’ordine mondiale unipolare è rimasto in sospeso dal 1991 fino alla crisi finanziaria del 2008. Sebbene in quel periodo il mondo avesse già una struttura unipolare, mancavano ancora i criteri decisivi per la piena attuazione dell’unipolarismo. Gli Stati Uniti, tuttavia, erano così forti della loro nuova posizione di potere che hanno valutato male il rischio che comportava l’instaurazione definitiva di un tale ordine. Dal mandato di George W. Bush Jr. in poi, l’ordine mondiale unipolare è stato apertamente proclamato dagli USA, dividendo il mondo in Stati amici e nemici (i cosiddetti “Stati canaglia”).

I primi segni di crisi dell’ordine mondiale unipolare dopo il 1991

L’euforia è durata poco. Sono stati tre i fattori principali che hanno provocato la graduale erosione del ruolo degli Stati Uniti come polo di potere unipolare nella politica mondiale: in primo luogo, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti si sono giocati la loro reputazione politica globale con un comportamento apertamente imperialista in Iraq. Attraverso l’esibizione di un imperialismo dichiarato, è emersa una nuova consapevolezza in gran parte del mondo arabo, in America Latina e nel Sud e Sud-Est asiatico. La subordinazione a lungo termine di questi Paesi all’egemonia statunitense è man mano divenuta sempre più difficile.

Un secondo fattore è stato che, a partire dalla metà degli anni Novanta, l’ascesa di Cina, India e di una serie di piccole economie emergenti ha iniziato a spostare l’equilibrio economico globale. Il deficit commerciale degli Stati Uniti ha rivelato la dipendenza dell’economia americana dall’economia finanziaria, perché il settore produttivo, necessario per la stabilità del settore finanziario, è andato perso nel corso degli anni. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, gli squilibri strutturali dell’economia statunitense sono diventati generalmente visibili. Da allora, il ruolo del dollaro come valuta mondiale e di riserva è stato messo sempre più apertamente in discussione.

Il terzo fattore che ha messo in discussione l’ordine mondiale unipolare nella seconda metà degli anni Novanta è stato il fatto che la Russia è riuscita gradualmente a ripristinare la propria sovranità e il proprio potenziale militare dopo il crollo dell’URSS negli anni Novanta. Il discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 può essere visto come un punto di svolta simbolico, in cui la Federazione Russa ha assunto una contro-posizione differenziata davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino.

In quanto erede diretto dell’Unione Sovietica, la Russia ha un potenziale di armi nucleari, pari a quello degli Stati Uniti, che ostacola un ordine mondiale unipolare. Questo perché un ordine mondiale unipolare richiede il monopolio dell’uso della forza per essere realizzato e in questo senso assomiglia a uno Stato che non può esistere senza il monopolio dell’uso della forza. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno ampliato la NATO verso est durante il mandato di Bill Clinton, in violazione di precedenti accordi con Mosca, e hanno iniziato a sviluppare uno scudo missilistico durante il mandato di George W. Bush jr. L’intenzione di neutralizzare la capacità di attacco della Russia è stata tuttavia vanificata dallo sviluppo di nuovi missili russi. Anche se non esiste ancora un’alleanza ufficiale tra Russia e Cina o Russia e India, il potenziale nucleare russo è comunque un fattore che protegge indirettamente l’ascesa economica di questi Paesi.

A partire dagli anni Novanta, al ruolo di seconda potenza nucleare di Mosca si è aggiunto anche quello di fornitore di sistemi di difesa moderni. Vendendo sistemi di difesa aerea, ad esempio, Mosca è stata in grado di limitare in modo massiccio il raggio d’azione militare degli Stati Uniti. Paesi ricchi di petrolio e sovrani come l’Iran o il Venezuela sono stati in grado di proteggersi dall’azione militare degli Stati Uniti, anche grazie all’acquisto di armi russe.

A causa di questi tre fattori, gli intellettuali hanno parlato della fine dell’ordine mondiale unipolare al più tardi a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008: non appena è stata proclamata, sembrava già parte del passato. L’insieme di libri, articoli e saggi scritti in tutti i continenti su questo slittamento di potere dalla metà degli anni ’90 potrebbe riempire intere biblioteche. (2) Ciò solleva naturalmente la questione del perché Stoltenberg e i suoi compagni d’armi oggi sembrino addirittura disposti ad accettare un’escalation sconsiderata, compreso il rischio di una guerra mondiale, solo per far passare qualcosa che è sostanzialmente inapplicabile. Non sono a conoscenza delle numerose analisi negli uffici del Dipartimento di Stato americano e nei corridoi della NATO che trattano dell’impossibilità di un ordine mondiale unipolare?

È vero che la sovranità e la forza militare russa sono uno dei tre fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare. Se la Russia riuscirà a difendere la sua zona d’influenza in Ucraina, avrà indirettamente difeso anche la sovranità di numerosi altri Paesi al di fuori dell’Occidente. Agli occhi del mondo, una vittoria russa in Ucraina equivarrebbe quindi all’attuazione dell’ordine mondiale multipolare. Tuttavia, si tratterebbe solo di un passo evolutivo che avverrà comunque nei prossimi anni. Infatti, l’enorme sviluppo economico della Cina, dell’India, ma anche del Brasile, dell’Iran, dell’Indonesia e di numerosi altri Paesi emergenti non può più essere fermato e porterà in ogni caso a un mondo multipolare. Anche il risveglio intellettuale e politico che si sta verificando in vaste aree dell’emisfero meridionale e orientale, nel corso del quale vengono ricordati anche i crimini dell’imperialismo occidentale, va in questa direzione e rende impossibile una centralità permanente dell’ordine mondiale in Occidente. (3)

Unipolarismo e valori occidentali

Storicamente, un ordine mondiale multipolare è “la norma”: Quasi per tutta la storia dell’umanità, il mondo è sempre stato costituito da diversi poli di potere. Anche negli ultimi secoli di dominazione europea, nella stessa Europa sono sempre esistiti diversi centri di potere che si controllavano e limitavano a vicenda. Il tentativo della Francia sotto Napoleone di unificare l’intera Europa con la forza militare fallì a causa della Russia. Anche il tentativo del “Terzo Reich” di sottomettere nuovamente l’Europa con la forza militare è fallito a causa di Mosca. E anche il tentativo degli Stati Uniti, avviato dopo il crollo dell’URSS, di estendere il proprio potere dall’Europa al mondo intero si è nuovamente infranto a causa della resistenza russa.

È per via di questo schema costante della storia mondiale che la NATO sta ora letteralmente azzannando la Russia e trascurando gli altri fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare? Comunque sia, l’alba di un ordine mondiale multipolare vedrà il mondo tornare a un vecchio schema. Non c’è motivo di descrivere questo ritorno di un vecchio ordine come il “rischio più grande di tutti”, come ha fatto Stoltenberg durante l’ultima Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Al contrario: un ordine mondiale unipolare monopolizzerebbe il potere su scala globale. Si tratterebbe di uno sviluppo che non solo sarebbe in contraddizione con gli interessi di Russia, Cina, India e numerosi altri Paesi dell’emisfero meridionale e orientale, ma una tale concentrazione di potere sarebbe anche fondamentalmente in contrasto con i valori dell’Occidente stesso.

I valori occidentali sono emersi da una serie di rivoluzioni iniziate con le aspirazioni di autonomia delle città-stato italiane del Rinascimento, proseguite nella Confederazione svizzera, attraverso la guerra dei contadini tedeschi, la rivolta olandese, le rivoluzioni inglese e americana e infine culminate nella grande rivoluzione francese. (4) I valori occidentali sono quindi valori rivoluzionari, del tutto incompatibili con l’idea di una concentrazione globale del potere. Si basano sulla possibilità di un’inversione dei rapporti di forza esistenti che può essere avviata in qualsiasi momento. Desacralizzano il potere e sono quindi in grado di impegnarlo per il bene comune. Questa idea è stata istituzionalizzata nella Repubblica. L’idea della separazione dei poteri svolge un ruolo decisivo nel garantire equilibri stabili, nel rendere visibili gli abusi di potere e nel correggere le politiche sbagliate.

Il fatto che l’Occidente, tra tutti i Paesi, abbia fatto dell’idea di un ordine mondiale unipolare e quindi del concetto di concentrazione globale del potere la base della sua politica estera nell’era iniziata dopo la caduta del Muro di Berlino dimostra quanto il mondo occidentale si sia allontanato dalle sue basi intellettuali. Naturalmente, l’Occidente è sempre stato diviso tra la sua tradizione imperiale e quella repubblicana. Spesso le due sono esistite in parallelo, anche se i loro principi filosofici si escludevano a vicenda. Un esempio famoso è la rivolta degli schiavi ad Haiti, che il governo francese cercò invano di sedare con la forza delle armi, anche se gli schiavi in rivolta invocavano i valori della Rivoluzione francese. Con le sue azioni, Parigi ha chiarito che i valori della Rivoluzione francese – cioè libertà, uguaglianza, fraternità – dovevano valere solo per i cittadini francesi, ma non per quelli delle colonie. (5)

Tuttavia, deve essere successo qualcosa nell’Occidente stesso che ha fatto sì che l’ambivalenza che esisteva ancora all’epoca tra repubblica e impero, che poteva esistere in parallelo per molto tempo, si è chiaramente dissolta nel nostro tempo a favore dell’imperialismo nella forma di un ordine mondiale unipolare. Un Occidente che voglia professare i propri valori politici potrebbe, al contrario, lottare per un mondo multipolare, in accordo con la Russia e le grandi civiltà dell’Asia. Un ordine mondiale multipolare trasferirebbe nel mondo l’idea della separazione dei poteri e quindi l’effetto benefico degli equilibri di potere; rimarrebbe la competizione tra civiltà.

La competizione tra civiltà

La competizione tra civiltà è un fattore importante per il futuro sviluppo dell’umanità. Proprio perché le nuove tecnologie del XXI secolo permettono di interferire con i diritti naturali degli individui su una scala molto più ampia rispetto al XX secolo, la competizione tra civiltà deve essere mantenuta ad ogni costo. I diritti naturali sono diritti che precedono il diritto positivo stabilito da uno Stato. Questi diritti esistono “per natura” e sono dati per scontati, come il diritto di disporre del proprio corpo, i diritti fondamentali della libertà umana o il diritto dei genitori di crescere i propri figli.

Tecnologicamente, oggi è possibile monitorare una persona per tutta la vita, memorizzare e valutare in modo permanente le sue tracce digitali e, su questa base, regolare e limitare individualmente il suo accesso alla società. Questo permette di intervenire nell’ordine della legge naturale che prima era impensabile. Lo sviluppo futuro dell’ingegneria genetica si aggiunge a tutto questo e potrebbe, ad esempio, mettere in discussione il diritto all’integrità corporea e all’autonomia della persona in modo molto più drastico di quanto abbiano potuto fare i dittatori del passato. Finché le civiltà possono essere messe a confronto tra loro, questi sviluppi indesiderati delle singole civiltà possono essere riconosciuti e nominati. In un mondo determinato da civiltà diverse, nessuna di esse potrebbe interferire con i diritti naturali dei propri cittadini per un lungo tempo senza subire uno svantaggio strutturale nei confronti delle altre civiltà.

In un mondo unipolare, invece, la comparabilità e la competizione latente delle civiltà scomparirebbero. In un mondo del genere, sarebbe molto più facile definire in modo esaustivo le implicazioni di potere della tecnologia moderna e limitare o addirittura abolire i diritti naturali. Ne consegue che: chi sogna un mondo tecnocratico in cui l’uomo sia sottomesso alla tecnologia non può evitare di lottare per un mondo unipolare per realizzare questo obiettivo. Al contrario, se si vuole vedere tutelata la libertà e la dignità umana nel XXI secolo, si deve lottare per un mondo multipolare. Vediamo quindi che i due concetti di ordine mondiale, unipolarismo e multipolarismo, rappresentano ordini di valori diversi.

Un altro svantaggio dell’ordine mondiale unipolare è che non dà spazio alla diversità culturale del mondo e alla diversità delle civiltà emerse nella storia. Poiché l’ordine unipolare cerca di governare il mondo secondo un unico principio, deve inevitabilmente vedere una minaccia nella diversità culturale e tendere a unificare culturalmente il mondo. Ma questo provocherebbe inevitabilmente una resistenza, alla quale il governo mondiale unipolare può rispondere solo con la propaganda, la manipolazione o la violenza. Per questo motivo, un ordine mondiale unipolare sarebbe possibile solo come dittatura globale.

I fautori di un ordine mondiale unipolare sostengono spesso che solo un governo mondiale potrebbe abolire la guerra e garantire la pace nel mondo. Tuttavia, qualsiasi conquistatore del passato avrebbe potuto affermare lo stesso, secondo il motto: “Quando vi avrò conquistati tutti, allora…”. Ci devono essere altri modi per garantire la pace nel mondo che non la realizzazione di un monopolio globale del potere. Perché la strada per raggiungere questo obiettivo è lastricata di sangue e violenza, come ha recentemente sottolineato il musicista Roger Waters nel suo discorso alle Nazioni Unite. (6)

È vero che anche in un ordine mondiale multipolare esiste un pericolo di guerra a causa della moltitudine di attori. Tuttavia, va detto in primo luogo che le guerre all’interno di un ordine mondiale multipolare non assumerebbero probabilmente il carattere assoluto che caratterizza la ricerca dell’unipolarismo, a cui ha fatto riferimento anche Roger Waters nel suo discorso all’ONU. In secondo luogo, non sono solo gli equilibri di potere a proteggere dalla guerra, ma anche la cultura. In una certa misura, il livello di cultura determina la capacità di pace di una società. Poiché il livello di cultura in un mondo multipolare potrebbe essere inegualmente più sviluppato che in un ordine mondiale unipolare orientato all’unificazione, la pace in un ordine mondiale multipolare potrebbe essere garantita in due modi, da un lato attraverso gli equilibri di potere e dall’altro attraverso il più alto livello di cultura possibile.

Anche l’argomentazione secondo cui alcuni problemi, come la regolamentazione delle armi di distruzione di massa, il cambiamento climatico o la prevenzione delle pandemie, potrebbero essere risolti solo a livello internazionale non è efficace, perché il polo di potere unipolare o il “governo mondiale” cercherebbero di convertire questi problemi internazionali in una fonte di legittimità per il proprio potere. Invece di risolvere i problemi, se ne temerebbe l’appropriazione indebita. Un polo di potere unipolare non avrebbe alcun interesse a risolvere i problemi internazionali o globali, poiché ne avrebbe bisogno come pretesto per esercitare il proprio potere. Chiunque abbia seguito con un po’ di distanza i dibattiti pubblici in Occidente negli ultimi anni potrebbe facilmente vedere le indicazioni di una simile appropriazione indebita del potere. Chi vuole davvero risolvere i problemi citati dovrebbe quindi impegnarsi maggiormente per la stipula di trattati tra Stati sovrani, invece di un “governo mondiale” che sarebbe al di sopra di tutti e quindi non potrebbe più essere controllato da nessuno.

L’unipolarismo, la guerra e il fallimento politico dell’Europa

Fa parte della natura del nostro mondo il fatto che esso sia costituito da diverse civiltà molto grandi e antiche. Molte di queste civiltà hanno prodotto in passato importanti conquiste culturali che hanno anche costituito dei punti di riferimento per il futuro dell’umanità. Tuttavia, queste civiltà sono nate da religioni e filosofie molto diverse e da storie diverse. Sebbene si possano trovare valori e intuizioni comuni, gli approcci scelti si basano spesso su principi opposti tra i quali non sempre sembra possibile un compromesso. Ad esempio, i confini della vergogna, l’ordine dei sentimenti e degli affetti, il rapporto dell’individuo con la famiglia, la società e lo Stato, il senso del tempo e della storia o il rapporto con la propria soggettività sono codificati in modo molto diverso nelle diverse culture.

Il polo di potere unipolare, a sua volta, non può essere culturalmente neutrale e inevitabilmente globalizzerebbe l’ordine di valori della sua cultura di origine – nel mondo di oggi, quella degli Stati Uniti. Le altre culture al di fuori del polo di potere difficilmente potrebbero quindi essere rappresentate culturalmente. La loro diversità culturale rappresenterebbe una fonte costante di instabilità all’interno dello “Stato mondiale”, che l’ordine mondiale unipolare dovrebbe contrastare con una sempre maggiore omogeneizzazione. La propaganda e la violenza dovrebbero essere costantemente utilizzate a questo scopo, il che a sua volta porterebbe a nuove resistenze. Ma questo meccanismo sopprimerebbe, indebolirebbe e forse addirittura dissolverebbe proprio quelle conquiste culturali di cui l’umanità ha tanto bisogno per riappropriarsi del proprio futuro.

È chiaro che molte delle civiltà più antiche non possono acconsentire alla loro dissoluzione in un ordine mondiale unipolare dominato dalla cultura consumistica americana senza opporre resistenza. Il tentativo di stabilire un mondo unipolare deve quindi necessariamente portare a una situazione in cui le rivendicazioni di un ordine unipolare e le rivendicazioni di uno Stato sovrano più grande, che eventualmente rappresenti anche la propria sfera culturale, entrano in conflitto esistenziale tra loro. In questo conflitto, o il concetto di governo mondiale crollerà o lo Stato in questione perderà la sua sovranità. In un certo senso, tra Stati Uniti e Russia è sorto esattamente un conflitto di questo tipo: poiché non è possibile alcun compromesso tra gli Stati Uniti, in quanto rappresentanti dell’ordine mondiale unipolare, e la Russia, in quanto rappresentante dei Paesi emergenti che lottano per la sovranità, ora c’è persino la minaccia di una guerra tra le due potenze nucleari.

Chiunque rifletta su questi problemi con un po’ di conoscenza storica e senso di responsabilità deve, per tutte queste ragioni, rifiutare l’idea di un mondo unipolare o di un governo mondiale. Poiché il concetto di istituire un governo mondiale porta necessariamente a un conflitto esistenziale tra potenze nucleari, questo concetto non avrebbe mai dovuto essere ricercato dagli europei. Quando, a partire dagli anni Novanta, è apparso chiaro che gli Stati Uniti non potevano più staccarsi da questo piano, gli europei avrebbero dovuto separarsi dagli USA.

Il fatto che gli Stati Uniti siano stati ricettivi a queste fantasie di potere è dovuto anche al fatto che si tratta di un Paese molto giovane che si è espanso quasi continuamente dalla sua fondazione. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti non hanno il tipo di esperienze storiche drastiche che l’Europa ha subito più volte sul suo territorio, dalla Guerra dei Trent’anni alle due guerre mondiali. Chi è stato così viziato dalla Storia come gli Stati Uniti ha avuto difficoltà a imparare la maturità e l’autocontrollo. Sarebbe stato quindi compito degli europei esercitare saggezza e lungimiranza e contrastare l’euforia di potenza statunitense con una riflessione sul bene comune di tutta l’umanità. Una riflessione, si badi bene, che avrebbe dovuto essere concepita in dialogo con le altre grandi civiltà.

Come si vede, gli argomenti a favore di un ordine mondiale multipolare sono ovvi. Avrebbero potuto essere sviluppati senza sforzo nei ministeri degli Esteri di Germania, Francia o Italia. Perché ciò non sia avvenuto, perché l’Europa non abbia intrapreso un percorso indipendente e abbia invece assecondato una “Grande Strategia” americana che avrebbe potuto fare dell’Europa, ancora una volta, il campo di battaglia di una grande guerra, è sconcertante. Il fatto che quasi nessuno delle migliaia di esperti che lavorano nei ministeri degli Esteri dei vari Paesi europei sia apparso pubblicamente come voce critica e ammonitrice indica o un’enorme mancanza di senso di responsabilità o dimostra che i rappresentanti dell’intellighenzia sono stati attivamente esclusi da queste istituzioni.

Il fallimento dell’Europa e la vera paura delle élite

Il fatto che oggi, 33 anni dopo la riunificazione, l’Europa si trovi di fronte al pericolo reale di una guerra nucleare è l’espressione di un fallimento fondamentale della politica estera tedesca, francese e italiana che difficilmente può essere descritto a parole. Nel 1989, l’Europa è stata benedetta dalle circostanze della storia. Era dotata della possibilità di un ordine di pace duraturo, potenzialmente in grado di durare per generazioni, sotto forma di unificazione tedesca ed europea. L’Europa di oggi, invece, che sta di nuovo sguinzagliando i cani da guerra sul suo continente con un occhio al futuro e persino con una certa astuzia, (7) si è dimostrata indegna di questo dono. Il potere in politica estera di almeno due decenni è stato sprecato per un obiettivo discutibile.

La separazione dell’Ucraina dalla Russia era un vecchio obiettivo bellico dell’Impero tedesco nella Prima Guerra Mondiale, imposto con la forza nel trattato di pace di Brest-Litovsk. Il “Terzo Reich” riattivò questo obiettivo bellico e lo ampliò ulteriormente, cercando non solo di appropriarsi dell’Ucraina, ma anche di sterminare una parte considerevole di tutti i russi. La campagna di Hitler contro l’Unione Sovietica era infatti apertamente concepita come una guerra di sterminio razziale e ideologica. Nella vecchia Repubblica Federale e nella DDR, ma anche nella Germania riunificata sotto Kohl e Schröder, c’era ancora un consenso sul fatto che i vecchi obiettivi bellici tedeschi erano falliti e che quindi un futuro conflitto con la Russia per l’Ucraina doveva essere evitato a tutti i costi. Il fatto che questa convinzione abbia perso la sua validità incondizionata durante i mandati di Merkel e Scholz non è altro che una catastrofe intellettuale e morale per il nostro Paese e per l’Europa nel suo complesso.

Torniamo alla dichiarazione del Segretario Generale della NATO: Jens Stoltenberg ritiene che una vittoria russa sarebbe peggiore di una continua escalation che potrebbe portare a una vera e propria guerra mondiale con miliardi di morti. Che un simile azzardo possa essere davvero pianificato è indicato anche dalle dichiarazioni di numerosi politici e testimoni contemporanei citati all’inizio. Quale paura di fondo può aver portato Stoltenberg a chiedere un’escalation?

Forse teme che l’irrazionalità di 30 anni di politica estera occidentale possa venire alla luce, che i cittadini vengano illuminati su ciò che è stato realmente tentato negli ultimi tre decenni? Vale a dire, che i politici occidentali hanno cercato un ordine mondiale che, da un lato, porta necessariamente alla guerra? E dall’altro contraddice fondamentalmente l’ordine di valori occidentale.

Tuttavia, se questa rivelazione diventasse nota, potrebbe essere l’inizio di una rivalutazione che, man mano che procede, potrebbe trasformarsi in un secondo Illuminismo. Il primo Illuminismo ha messo in discussione il potere illegittimo della Chiesa e del clero, nonché della nobiltà e della società classista. Oggi viviamo di nuovo in un mondo in cui il potere è cresciuto enormemente – come nella Francia assolutista – ma sta perdendo sempre più la sua base di legittimità nel corso di questa espansione.

Un secondo Illuminismo oggi, sull’esempio della critica al clero, dovrebbe mettere in discussione il potere dei media e smascherare le loro sofisticate tecniche di manipolazione psicologica. E, sul modello della critica all’aristocrazia e alla grazia divina della monarchia, dovrebbe illuminare oggi sul potere dell’oligarchia e sull’economia mondiale sempre più dominata dai monopoli. Naturalmente, se questo secondo illuminismo dovesse iniziare, emergerebbe una dinamica che andrebbe ben oltre una semplice riforma del nostro sistema politico. È forse questo lo sviluppo che Stoltenberg definisce “il rischio più grande di tutti”, ossia il ritorno dell’Occidente ai suoi valori originari?


* multipolar-magazin.de

FONTE: https://multipolar-magazin.de/artikel/der-krieg-gegen-die-multipolare-welt


Traduzione di oval.media

Hauke Ritz. Ha conseguito un dottorato in filosofia e pubblica soprattutto su temi di geopolitica e storia delle idee. Libri: “Der Kampf um die Deutung der Neuzeit” (2013), “Endspiel Europa” (2022, insieme a Ulrike Guérot).

Fonte originale: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
Fonte traduzione: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
NOTE
(1) Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, Intervista al canale televisivo RTP, 29.01.2023
(2) Chalmers Johnson, Un impero in declino: quando finirà il secolo americano? Monaco 2001; Peter Scholl-Latour, Weltmacht im Treibsand – Bush gegen die Ayatollahs, Berlino 2004; Emmanuell Todd, Weltmacht USA – Ein Nachruf, Monaco 2003
(3) Cfr: Hauke Ritz, Geopolitischer Gezeitenwechsel, in: Carsten Gansel (a cura di), Deutschland Russland – Topographie einer literarischen Beziehungsgeschichte, Berlino 2020, pp. 427-442.
(4) Anche la Rivoluzione russa del 1917 rientra in questa serie, ma in un modo particolare, che non può essere discusso in modo esaustivo in questa sede.
(5) Cfr. Susan Buck-Morss, Hegel und Haiti – Für eine neue Universalgeschichte, Berlino 2011.
(6) “…e la marcia egemonica di un impero o di un altro verso il dominio unipolare del mondo. La prego di rassicurarci che questa non è la sua visione, perché non c’è alcun risultato positivo su quella strada. Quella strada porta solo al disastro, tutti su quella strada hanno un pulsante rosso nella loro valigetta e più andiamo avanti su quella strada più le dita pruriginose si avvicinano a quel pulsante rosso e più ci avviciniamo tutti all’Armageddon”. Roger Waters, Discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, New York, 08.02.2023
(7) Vedi: Ulrike Guerot, Hauke Ritz, Endspiel Europa – Warum das politische Projekt Europa gescheitert ist und wie wieder davon träumen können, Frankfurt a. Main 2022, p. 118ss.

Come ci vedono gli altri: “L’Occidente e la maggioranza del mondo: Repressione contro apertura”

Fin dall’inizio, i leader dei Paesi dell’ALBA hanno denunciato il brutale sfruttamento e dominio dell’imperialismo nordamericano ed europeo e la sua diplomazia da gangster: “Fate quello che vogliamo, altrimenti…”.

di Stephen Sefton

Immagine di Stephen Sefton – Fonte: Telesur

Nel 2004, il Comandante Fidel Castro e il Comandante Hugo Chávez hanno fondato quella che oggi è l’Alleanza Bolivariana dei Popoli della Nostra America, ALBA, che oggi comprende Bolivia, Cuba, Nicaragua, Venezuela e le nazioni insulari caraibiche di Saint Vincent e Grenadine, Dominica, Saint Kitts e Nevis, Grenada, Antigua e Barbuda e Santa Lucía. Un anno prima, nel 2003, è stata formalmente costituita l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che ora comprende Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, India, Pakistan e Iran. Entrambe le organizzazioni condividono praticamente gli stessi principi di solidarietà, uguaglianza tra i membri e rispetto reciproco per le diverse ideologie. Ciò suggerisce che, in quello stesso periodo, in diversi poli del mondo maggioritario, è sorta una decisione comune di costruire un mondo libero dallo strangolamento economico e dall’aggressione neocoloniale degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

Fin dalla sua nascita, i leader dei paesi dell’ALBA hanno denunciato il brutale sfruttamento e dominio dell’imperialismo nordamericano ed europeo e la sua diplomazia da gangster del “fate quello che vogliamo o altrimenti…”. Nel maggio di quest’anno, il Presidente Comandante Daniel Ortega ha dichiarato al 21° Vertice ALBA-TCP: “Non hanno smesso di praticare la Dottrina Monroe, non hanno rinunciato alla Dottrina Monroe. In nome della democrazia, impongono una politica internazionale tirannica, imperialista, terrorista… l’imperialismo non è cambiato, l’essenza dell’imperialismo è lì, un’essenza totalmente criminale”.

In quella stessa riunione, il presidente venezuelano Nicolás Maduro ha dichiarato: “Basta con i secoli di saccheggio, di invasioni, di minacce, di egemonismo imperiale, questo è il nostro secolo! Il XXI secolo… e il nostro cammino è quello dell’America Latina e dei Caraibi, dell’ALBA, della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, questo è il nostro cammino, il cammino degli uguali, il cammino del rispetto, il cammino dell’inclusione, il cammino della convocazione unitaria, questo è il nostro cammino”.

Nello stesso vertice, anche il presidente di Cuba Miguel Díaz Canel ha espresso l’impegno dei Paesi dell’ALBA per l’unità tra le diversità “Di fronte ai tentativi di esclusione e selettività, è urgente rafforzare gli autentici meccanismi dell’America Latina e dei Caraibi per integrarsi e agire di concerto. Insieme saremo in grado di difendere efficacemente la nostra sovranità e la nostra autodeterminazione senza interferenze o pressioni esterne….Chiamiamo a unire, non a dividere; a contribuire, non a sottrarre; a dialogare, non a confrontarci; a rispettare, non a imporre”.

Dopo decenni di provocazioni sempre più aggressive da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea, nel febbraio di quest’anno la Federazione Russa ha finalmente agito per difendersi. Nel suo storico discorso del 30 settembre, il Presidente Vladimir Putin ha elaborato la visione di un mondo multipolare, basato sugli stessi principi dell’ALBA e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai: cooperazione genuina, rispetto tra pari, unità nella diversità, impegno per il dialogo e il diritto internazionale. La somiglianza tra la visione dei leader dei Paesi dell’ALBA e quella espressa dal Presidente Putin nel suo discorso è molto evidente.

Egli ha parlato della fiducia dei popoli del mondo maggioritario in un mondo multipolare per “rafforzare la loro sovranità e, quindi, acquisire la vera libertà, la prospettiva storica, il diritto a uno sviluppo indipendente, creativo, autentico, a un processo armonioso”. Il Presidente Putin ha chiarito che si tratta anche di fiducia nella capacità umana di superare le differenze, collaborare per il bene comune e creare un mondo solidale. Ha dichiarato esplicitamente: “I nostri valori sono l’amore per il prossimo, la misericordia e la compassione”.

Il contrasto di queste visioni comuni dei Paesi dell’ALBA, della Russia, della Cina e dei loro alleati con la prassi dell’Occidente non potrebbe essere più forte. Come afferma il Presidente Putin, “i Paesi occidentali dicono da secoli di portare libertà e democrazia alle altre nazioni. Tutto è esattamente il contrario: la democrazia diventa repressione e sfruttamento; la libertà, schiavitù e violenza. L’intero ordine mondiale unipolare è intrinsecamente antidemocratico e privo di libertà. È mendace e ipocrita fino al midollo”.

La verità di questa condanna categorica degli Stati Uniti e dei suoi alleati è evidente nella storia coloniale dell’imperialismo, dalle sue origini alla sua evoluzione nell’ultimo secolo fino al neocolonialismo. Negli Stati Uniti e in Europa, da quando l’introduzione del suffragio universale nel secolo scorso ha permesso alle élite occidentali di spacciare le loro nazioni come democrazie, in pratica, in cambio della garanzia dello sviluppo socio-economico delle loro popolazioni, queste élite hanno potuto contare sui popoli dei loro Paesi per collaborare al saccheggio del mondo maggioritario. In questo modo, i popoli di Africa, Asia e America Latina hanno pagato i costi della prosperità e dello sviluppo delle nazioni occidentali e, in un modo o nell’altro, continuano a farlo.

Tuttavia, la portata del potere geopolitico e del controllo della maggioranza delle risorse mondiali da parte delle élite occidentali è ora più limitata. In parte, questa battuta d’arresto per l’Occidente deriva dalla crescente cooperazione e dal potere commerciale e finanziario delle nazioni dello spazio eurasiatico. A sua volta, la crescente attività economica e diplomatica di Cina, Russia e dei loro alleati ha favorito lo sviluppo delle loro relazioni con le nazioni dell’Africa, dell’America Latina e dei Caraibi, in particolare con i Paesi e i popoli impegnati nella difesa della propria sovranità.

La risposta disperata al relativo declino del loro potere globale da parte delle oligarchie americane ed europee assume tre forme principali. In primo luogo, nei loro Paesi aumentano lo sfruttamento della forza lavoro e la repressione del dissenso. In secondo luogo, agiscono con maggiore aggressività di ogni tipo contro la Russia e la Cina e i loro alleati regionali come Cuba, Venezuela e Nicaragua o Siria, Iran e Repubblica Democratica di Corea. E la terza forma di reazione occidentale al loro declino consiste nell’applicare maggiori intimidazioni e vessazioni contro i Paesi vulnerabili alle pressioni economiche per assicurarsi che rimangano obbedienti.

In Nord America e in Europa, le politiche neoliberiste attuate a partire dagli anni ’80 hanno normalizzato la repressione e lo sfruttamento economico. Negli Stati Uniti è in atto un’offensiva politica permanente contro il sistema di sicurezza sociale e gli investimenti nei servizi pubblici in generale. In Europa, i servizi pubblici vengono tagliati o privatizzati. Negli Stati Uniti e nell’Unione Europea ci sono stati enormi trasferimenti di ricchezza alle élite aziendali, sia durante la crisi finanziaria del 2008-2009, sia come parte delle misure finanziarie in risposta al collasso economico causato dalle misure di contrasto alla Covid-19. Allo stesso tempo, anche il FMI riconosce che la retribuzione del lavoro in Occidente è diminuita in termini reali. Allo stesso modo, le condizioni di lavoro delle persone in tutto l’Occidente stanno diventando sempre più precarie. Negli Stati Uniti solo il 10% della forza lavoro è organizzata in sindacati. Nei Paesi europei la media è del 23% e in genere molto più bassa.

È impossibile riassumere sinteticamente tutte le sfumature di questa realtà. Ma tra i principali effetti associati all’aumento della repressione economica interna nei Paesi occidentali e all’incremento dell’aggressione all’estero, ci sono la censura sui social network e la soppressione delle informazioni nei media, soprattutto sugli eventi internazionali. Queste pratiche rafforzano la vasta e intensa guerra psicologica dell’Occidente contro la maggioranza del mondo e facilitano l’aggressione economica e militare e il terrorismo degli Stati Uniti e dei loro alleati contro qualsiasi nazione che cerchi di difendere la propria sovranità e indipendenza.

Questo segna un profondo e irreparabile crollo dell’integrità morale e intellettuale da parte delle élite occidentali e dei loro popoli, segnalando una sconfitta spirituale completa e insidiosa. D’altro canto, un numero crescente di governi e popoli del mondo maggioritario insiste sul proprio diritto sovrano di gestire le relazioni internazionali a livello internazionale, in modo da aprire e promuovere nuove possibilità di sviluppo nazionale, regionale e internazionale. Forse l’espressione più importante di questa fiducia nel futuro è l’ampio sostegno al cosiddetto gruppo di Paesi BRICS+, originariamente organizzato da Cina, Russia, India, Brasile e Sudafrica, da parte di Paesi di tutto il mondo, tra cui Iran, Algeria, Turchia, Argentina, Egitto, Indonesia, Kazakistan, Nigeria, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Senegal, Thailandia e persino Nicaragua.

Molte nazioni della maggioranza del mondo sono chiaramente d’accordo con le opinioni del Primo Ministro Ralph Gonsalves di Saint Vincent e Grenadine, che quest’anno ha osservato il 19 luglio nella Plaza de la Revolución di Managua, in occasione del 43° anniversario della Rivoluzione Sandinista: “Vengo da un piccolo paese del nostro emisfero, ma questo piccolo paese crede e sottoscrive grandi principi: La difesa della sovranità e dell’indipendenza, la non interferenza e il non intervento nei nostri affari; in modo da poter guidare noi stessi e le nostre civiltà verso il futuro, e poter camminare insieme a tutti i popoli del mondo, in amicizia ma non in subordinazione. In questo senso, siamo amici di tutti e aspiriamo a un mondo migliore”.

Pubblicato su Telesur il 24 Novembre 2022

FONTE: https://www.telesurenglish.net/opinion/The-West-and-the-Majority-World—Repression-Versus-Openness-20221124-0016.html?utm_source=planisys&utm_medium=NewsletterIngles&utm_campaign=NewsletterIngles&utm_content=32

Traduzione: Campbiailmondo.org

Rapporto Oxfam 2023: per la prima volta negli ultimi 25 anni aumentano al contempo disuguaglianze, fame e povertà estrema

di Andrea Vento

L’annuale rapporto dell’organizzazione Oxfam sulla disuguaglianza globale viene regolarmente emesso in concomitanza del Word Economic Forum di Davos in Svizzera, allo scopo di indurre la leadership planetaria a riflettere sui nefasti effetti sociali e ambientali prodotti delle loro politiche, le quali continuano a portare esclusivo vantaggio ad una ristretta elite a discapito della maggioranza della popolazione mondiale.

Quest’anno, i 2.700 leader mondiali fra politici, amministratori delegati delle principali multinazionali e big della finanza presenti alla consueta passerella mondiale, ormai giunta alla 53esima edizione, hanno visto aleggiare sul loro summit l’immancabile ombra delle critiche dei movimenti e del rapporto Oxfam che non casualmente in italiano è stato tradotto in “La disuguaglianza non conosce crisi”.

La ratio del titolo è conseguente al fatto che nel biennio 2020-21, i più ricchi fra i ricchi del pianeta, vale a dire il top 1%, ha continuato come da trend consolidato ad accumulare ricchezza più di tutto il resto dell’umanità. Tale incremento ha, tuttavia, toccato livelli di crescita inediti, mentre, in contemporanea, per la prima volta, a livello mondiale negli ultimi 25 anni è aumentata anche la povertà e la fame.

Il dominante capitalismo liberista ha, dunque, impresso alla forbice della disuguaglianza un ampliamento mai registrato in precedenza. Ciò in conseguenza del sovrapporsi della crisi economica pandemica a quella ambientale, quest’ultima caratterizzata da fenomeni estremi, come siccità, cicloni e inondazioni, sempre più devastanti, i quali hanno inevitabilmente innescato una drammatica crisi sociale che ha spinto milioni di persone sotto la soglia della povertà estrema e nel baratro della fame, costringendone una massa crescente a migrare forzatamente. Tutto ciò mentre le grandi multinazionali, soprattutto quelle operanti in rete, hanno conseguito, al pari della grande finanza, profitti stratosferici, i quali hanno generato una concentrazione apicale della ricchezza mai registrata in precedenza.

Guardando alle cifre del rapporto rileviamo come nel biennio 2020-2021, l’1% più ricco della Terra si è accaparrato quasi 2/3 della nuova ricchezza generata, mentre le principali 95 multinazionali dell’energia e dell’agro-business hanno più che raddoppiato i profitti rispetto alla media del periodo 2018-2020. Con il drammatico paradosso che, nel 2022, mentre queste ultime si arricchivano col commercio di beni e prodotti alimentari e distribuivano, grazie agli extra-profitti, dividendi pari a 257 miliardi di dollari ai propri azionisti, al contempo 800 milioni di persone soffrivano la fame.

In sostanza, per ogni 100 dollari di nuova ricchezza prodotta, sempre nel biennio in questione, 63 dollari sono stati appannaggio dell’1% straricco e appena 10 dollari sono andati al 90% più povero, mentre i restanti 27 dollari ai restanti ricchi, pari al 9% della popolazione mondiale (grafico 1). In termini reali, in 2 anni, l’1% degli ultraricchi ha registrato un incremento dei propri patrimoni pari alla stratosferica cifra di 26.000 miliardi di dollari, poco più di una volta e mezzo il Pil della Cina (16.500 miliardi di dollari nel 2021), mentre il, redditualmente variegato, restante 99% dell’umanità si è fermato a 16.000 miliardi di dollari.

Gli effetti della crisi pandemica, secondo la Banca Mondiale, hanno prodotto sul 40% più povero dell’umanità, perdite di reddito doppie rispetto a quelle subite dal 40% più ricco, determinando inevitabilmente anche un aumento nella disparità globale di reddito, oltre a quelle di ricchezza.

L’eccezionale incremento della concentrazione di ricchezza risulta frutto, sia della compiacente azione dei governi, sia della politica monetaria non convenzionale adottata dalle Banche Centrali, il “Quantitavie Easing” (QE), tramite il quale le stesse hanno immesso una enorme massa di liquidità nei propri sistemi monetari1, ufficialmente per favorire la ripresa economica e far salire il tasso di inflazione intorno allo strategico obiettivo del 2%. Tali politiche monetarie espansive, attuate con tempistica ed entità differenziate dalle varie Banche Centrali occidentali2 nell’arco di tempo compreso fra la fase successiva alla crisi economico-finanziaria del 2008-2009 fino alla ripresa post-covid, hanno in realtà sortito principale effetto di incrementare i valori degli asset finanziari e, conseguentemente, i patrimoni dei miliardari.

Grafico 1: quote di nuova ricchezza acquisita dal 1% più ricco e dai restanti 99% e 90% , confronto 2012-2021 (colonna verde chiaro) e 2020-2021 (colonna verde scuro). Fonte: Oxfam su dati Credit Suisse

Sicuramente le misure di intervento dei governi a sostegno delle proprie economie e delle fasce sociali più deboli, durante la Grande crisi del 2008-2009, è stata una strategia appropriata; tuttavia, forti critiche hanno, invece, investito le politiche di austerità fiscale implementate nell’Area dell’euro nella successiva fase di ripresa, le quali hanno finito per innescare la crisi debitoria di inizio anni ’10 nei paesi marginali dell’Eurozona, denominati col dispregiativo appellativo di Piigs3. Infatti, mentre buona parte dell’area monetaria comune tornava in recessione, contemporaneamente negli Stati Uniti, grazie a tempestive politiche monetarie (QE) e fiscali espansive, la ripresa continuava ad apprezzabili tassi di crescita (grafico 2)

Grafico 2: variazione annua del Pil nell’Eurozona, negli Usa e in Giappone fra 2008 e 2015. Fonte: Ocse

La Bce a causa delle resistenze dei Paesi “falchi” dell’Austerity, Paesi Bassi, Finlandia e Germania in primis, il QE è stato introdotto dall’allora presidente della Bce, Mario Draghi, solo all’inizio del 2015, quando l’intera Eurozona si trovava sull’orlo del collasso. Tuttavia, gli effetti del QE sono risultati alquanto modesti sia in termini di ripresa economica, ad oggi il nostro Paese si trova ancora al di sotto del picco del 2007 (grafico 3), che di rialzo dell’inflazione, in quanto i governi e la Commissione Europea non si sono impegnati nel garantire che l’enorme liquidità immessa avesse concrete ricadute sull’economia reale o, quantomeno, che le cospicue plusvalenze ottenute dalla grande finanza venissero ridistribuite tramite la leva fiscale.

Grafico 3: andamento del Pil italiano su base trimestrale fra il 1996 e il 2022. Fonte: Istat

Conseguentemente le fortune dei miliardari, grazie anche al periodo pandemico, durante il quale alcune tipologie di imprese collegate alla rete hanno conseguito extraprofitti stratosferici, sono continuate ad aumentare, tant’è che l’1% più ricco della popolazione mondiale, a fine 2022, è arrivato a detenere il 45,6% della ricchezza globale, mentre la metà più povera dell’umanità appena lo 0,75%. Inoltre, il ghota degli 81 principali miliardari hanno accumulato più ricchezza di metà della popolazione mondiale.

Squilibri interni all’interno sistema economico-sociale globalizzato, non solo eticamente inaccettabili, ma addirittura nel medio periodo, forieri di destabilizzazione dello stesso.

Gli effetti della crisi economica, alimentare e ambientale

Contemporaneamente all’eccezionale aumento di ricchezza conseguito dal 1% più ricco a livello mondiale e agli extraprofitti delle grandi multinazionali di alcuni comparti, in questi primi anni del decennio ’20 a seguito della crisi pandemica, di inappropriate politiche governative e dell’impennata inflattiva, abbiamo registrato anche una crescita della povertà e della fame, oltre a una diminuzione dei posti di lavoro e dei salari che hanno pesantemente impattato sulle vite delle persone già in condizione di fragilità sociale.

Il consolidato trentennale trend globale di riduzione della povertà si è, infatti, bruscamente interrotto determinando la paradossale ed inedita situazione nella quale la ricchezza e la povertà, entrambe estreme, sono al contempo sensibilmente aumentate. Ben 70 milioni di persone sono, infatti, precipitate nel 2020 sotto la soglia di povertà, dei 2,15 dollari al giorno di reddito, corrispondenti ad un aumento dell’11%.

Nonostante nel 2021 tale tendenza abbia subito un’inversione, per l’anno appena concluso l’UNDP, il programma dell’Onu per lo sviluppo, stima che solo nel suo secondo trimestre 71 milioni di persone siano nuovamente scese in povertà a causa del rialzo dei prezzi delle materie prime (+ 18% beni alimentari e +59% energia). Le causa della fiammata inflattiva, peraltro iniziata già nell’autunno 2021, è riconducibile a difficoltà di approvvigionamento causati dalla ripresa della domanda nella fase post-pandemica e dalla guerra in Ucraina, alle spregiudicate attività della speculazione finanziaria ed alle ciniche strategie delle multinazionali, non che al crescente impatto dei cambiamenti climatici sulle produzioni agricole. Conseguentemente, sono state stimate dalla Banca Mondiale in 828 milioni le persone che nel 2021 hanno sofferto la fame, pari al 10% dell’umanità, il 60% delle quali donne e ragazze4.

Per quanto riguarda l’aspetto salariale, dall’analisi condotta in 96 Paesi da Oxfam sui valori delle retribuzioni, è emerso come 1,7 miliardi di lavoratori abbiano subito una crescita dell’inflazione superiore a quella dei salari. La contrazione dei salari reali, misurata in base all’effettivo potere d’acquisto, avrà come inevitabile riflesso sia un aumento dei lavoratori in condizione di povertà, i cosiddetti working poors, che delle disuguaglianze, queste ultime aggravate dalla crescita del lavoro informale che su scala globale sta superando addirittura quella dell’occupazione regolare.

Conclusioni

Il quadro appena dipinto caratterizzato da crescenti disuguaglianze e maggiori difficoltà sociali, rischia di aggravarsi nell’anno appena iniziato, anche alla luce delle dichiarazione della Presidente del Fmi Kristalina Georgieva, la quale, in una intervista di inizio gennaio alla Tv statunitense CBS, ha affermato che dal punto di vista economico il 2023 risulterà “più duro dell’anno che ci siamo lasciati alle spalle” e che l’istituzione di cui è a capo ritiene che “un terzo dell’economia mondiale sarà in recessione” a causa del rallentamento di Stati Uniti, Unione Europea e Cina.

Alla luce delle fosche previsioni della presidente del Fmi sull’andamento dell’economia mondiale, non vediamo altra strada possibile all’implementazione di politiche fiscali espansive (vale a dire aumentare la spesa pubblica) per far fronte all’aumento della povertà e della fame, ai cambiamenti climatici e all’impatto dell’inflazione sui ceti sociali più fragili. Ciò a causa del fatto che, ancora una volta, la maggioranza dei governi sono intenzionati a proseguire sulla fallimentare strada dell’austerità fiscale, riducendo la spesa pubblica, principalmente a causa delle imposizione delle istituzioni finanziarie sovranazionali. La stessa Oxfam prevede, infatti che, nel quinquennio 2023-27, attueranno politiche restrittive di bilancio a danno della spesa sociale, pari a ben 6.700 miliardi di dollari, circa 2/3 dei Paesi mondiali (148 per la precisione), e che nel 2023, il 54% degli Stati lo stanno già pianificando.

Le politiche economiche neoliberiste e restrittive di bilancio hanno già mostrato la loro inefficacia dal punto di vista economico, come nella crisi debitoria dei Paesi marginali dell’Eurozona, e i loro nefasti effetti a livello sociale. In considerazione di ciò, è assolutamente necessario un riposizionamento in senso diametralmente opposto introducendo misure straordinarie, come la tassazione aggiuntiva degli extraprofitti, e altre strutturali, come la reintroduzione di una fiscalità progressiva più incisiva sui redditi elevati e sul capital gain, l’utile da capitale.

Gli effetti socialmente disastrosi che abbiamo appena esposto, pur avendo radici profonde, risultano frutto anche delle politiche economiche attuate durante la crisi pandemica, nel cui contesto, non solo il 95% dei Paesi non ha aumentato la già discendente e blanda pressione fiscale in essere sui redditi più elevati (grafico 4), sulle grandi imprese e sul capital gain della speculazione finanziaria, ma, addirittura, in alcuni casi l’hanno anche diminuita, a beneficio dei “soliti noti”.

Grafico 4: l’andamento delle aliquote massime, quindi sui redditi più elevati, dell’imposta sul reddito delle persone fisiche fra il 1980 e il 2022 in Africa (linea verde chiaro), America Latina (grigio), Asia (nero) OECED in italiano OCSE (verde scuro). Fonte: calcoli Oxfam su dati OCSE

La riduzione della pressione fiscale sui redditi più elevati in corso ormai da 40 anni e gli sgravi fiscali a vantaggio dei ricchi e delle multinazionali, risultano la causa originaria dell’aumento delle disuguaglianze, col paradosso che in molti Paesi i ceti sociali subalterni e i lavoratori risultano soggetti ad una tassazione maggiore. Il proprietario di Tesla, Elon Musk primo miliardario mondiale nel 2022 secondo Forbes5, fra il 2014 e il 2018, ha pagato un’irrisoria “effettiva aliquota fiscale” di circa il 3%.

A livello mondiale solo il 4% dell’intero gettito fiscale proviene dalle imposte sui patrimoni posseduti, anche a causa del fatto che circa la metà dei miliardari mondiali ha la residenza fiscale in Paesi che non contemplano tasse di successione sui discendenti diretti, avendo così l’opportunità di trasferire ai loro eredi ricchezze complessive pari a 5.000 miliardi di dollari,una cifra maggiore del Pil annuo dell’intero continente africano.

Il reddito dei miliardari, in prevalenza frutto di rendite, risulta tassato mediamente al 18%, la metà dell’aliquota massima applicata su salari e stipendi. Un sistema fiscale, frutto della visione neoliberista del sistema capitalistico che sta portando l’umanità verso il collasso economico e sociale e che necessita di essere radicalmente riformato, reintroducendo una significativa progressività fiscale, come era in vigore fino agli inizi degli anni ’80. Negli Stati Uniti, infatti, l’aliquota massima federale sullo scaglione più elevato di reddito, si attestava su di una media dell’81% fra il 1944 e il 1981, all’alba della nefasta era Reagan. Anche in Italia, fino agli anni ’80, l’aliquota massima raggiungeva il 73% ed era inserita in un contesto fiscale progressivo il cui gettito, impiegato tramite appropriate politiche ha consentito di coniugare crescita economica e progresso sociale, grazie alla creazione di un ampio Welfare state a vantaggio soprattutto dei ceti inferiori.

Per reintrodurre un minimo principio di equità fiscale, secondo Oxfam basterebbe applicare una tassa annua del solo 5% sui più ricchi della Terra per ottenere un gettito fiscale di 1.700 miliardi di dollari all’anno, i quali sarebbero sufficienti ad estirpare la povertà e la fame a livello mondiale, a varare un piano di riduzione degli impatti dei cambiamenti climatici e a garantire assistenza sanitaria e protezione sociale a tutte le popolazioni dei Paesi a medio e a basso reddito6.

Le strade per rimediare a questa catastrofe sociale, umanitaria e ambientale esistono, ce lo insegna la storia economia, sono le volontà politiche che, invece, mancano.

Non è pensabile di combattere l’inarrestabile crescita delle disuguaglianze, l’aumento delle sofferenze sociali e le devastazioni ambientali procrastinando le stesse politiche che ne sono state causa; il cambio di paradigma potrà, tuttavia, avvenire solo tramite presa di coscienza della situazione da parte dei ceti sociali subalterni di ogni latitudine e imbastendo una lotta, duratura e coordinata a livello internazionale, contro la ristretta plutocrazia mondiale ed il ceto politico dominante ad essa subalterno.

Andrea Vento – 24 gennaio 2023

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Scarica il Rapporto Oxfam

NOTE:

1 Il QE realizzato dalla Fed dal 2009 al 2014 per un ammontare di oltre 3.500 miliardi di dollari  https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/saggi/1470-il-quantitative-easing-della-bce-unoperazione-necessaria-non-sufficiente

La Bce in 7 anni di QE (marzo 2015-luglio 22) ha acquistato titoli governativi e corporate per un totale di 4.900 miliardi di euro. https://www.ilsole24ore.com/art/liberarsi-titoli-stato-possibile-strategia-bce-e-sue-conseguenze-AElxiZKC

2 Fed, BoE, Bce e BoJ, rispettivamente Federal Reserve, Bank of England, Banca Centrale Europea e Bank of Japan.

3 Acronimo dispregiativo per indicare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna

4 https://www.worldbank.org/en/home

5 https://forbes.it/2022/04/05/elon-musk-e-per-la-prima-volta-al-comando-della-classifica-dei-piu-ricchi-del-mondo/

6 Fonte: Fight Inequality Alliance dell’Institute for Policy Studies di Oxfam e dei Patriotic Millionaires

OGGI SI FA VILE COMMERCIO DEI DIRITTI DEL POPOLO SAHAROUI, IERI IL PCI E LA SINISTRA ITALIANA SOSTENEVANO IL SUO DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE

di Agostino Spataro*

1… “Al centro del filone marocchino della scandalo che ha travolto il parlamento europeo, la questione del Sahara occidentale. Rabat ha puntato a corrompere parlamentari e funzionari per aggirare la sentenza della Corte di Giustizia Ue che salvaguardava il diritto ai profitti dei Saharawi per le risorse del loro territorio.”  (“Il Domani” 19 dicembre 2022)

Questo e altri articoli confermano il fondato sospetto che alla base delle operazioni corruttive verso taluni settori del parlamento europeo e/o personaggi contigui, in corso di accertamento da parte della magistratura, ci possono essere problemi relativi alla questione della indipendenza della Repubblica Saharoui democratica (Rasd), irrisolta dal 1976.

Come si potrà leggere nella sottostante nota, la questione dovrebbe essere risolta con un referendum, che l’Onu non riesce ad organizzare, per la sovranità su detti territori che, come sancito dal vigente diritto internazionale anticoloniale, in base al principio dell’autodeterminazione dei popoli colonizzati. Sulla situazione attuale del conflitto saharoui -marocchino e sulle implicazioni internazionali segnalo questo sito:  

https://www.atlanteguerre.it/conflict/sahara-occidentale/#:~:text=Situazione%20attuale%20E%20Ultimi%20Sviluppi           

Qui mi fermo, poiché desidero parlare di un’esperienza vissuta, nel 1981, nel deserto del Sahara Occidentale, da cui si può evincere che, fin dalla nascita della relativa questione (1976), il PCI e altre forze della sinistra italiana si schierarono per il diritto all’autodeterminazione del popolo saharoui.

Purtroppo,oggi, leggiamo di taluni personaggi, sedicenti di sinistra, che potrebbero trovarsi immischiati in questa turpe faccenda. La nostra fu una posizione coerente e leale,  poiché Il nostro sostegno alla giusta causa saharoui non ci impedì d’intrattenere buoni rapporti con i partiti della sinistra marocchina (Usfp, Pcm), con taluni membri de l’Istiqual presso i quali io stesso portai, nel corso di assisi congressuali, il messaggio chiaro del PCI anche su quel doloroso conflitto.                    

2…A conferma, riprendo alcuni passaggi di un mio articolo (pubblicato su “Agoravox.it”) dove si parla di un viaggio, del 1981, di una delegazione parlamentare unitaria italiana (PCI, PSI, PR) recatasi nei territori liberati dal Fronte Polisario. Il programma della nostra missione consisteva in visite ai campi profughi, dov’erano ammassati decine di migliaia di saharoui (soprattutto donne, bambini e vecchi), in colloqui con i principali dirigenti del Fronte e in un sopralluogo a Guelta Zammur, una collinetta fortificata al confine con il deserto mauritano considerata strategica poiché sovrastava una sorgente (guelta) d’acqua chiara, l’unica in quella desolata regione.                                              

Sapevamo che per il possesso di tale “guelta” si erano affrontati, un mese prima, le forze regolari marocchine che la presidiavano e reparti combattenti del Polisario che sostenevano di averla conquistata.                                                       

Una vittoria contestata, negata (dalle autorità marocchine) che la delegazione parlamentare andava a certificare mediante una constatazione de visu.                                    

Nella battaglia erano caduti, da entrambi le parti, centinaia di combattenti, a molti dei quali non fu data nemmeno una degna sepoltura. Vedemmo corpi, pezzi di corpi umani, affiorare, semisepolti, dal sottile strato di sabbia che li copriva.                           

Migliaia di morti per una conca d’acqua che, quasi per una beffa del destino, non era più potabile poiché avvelenata dai marocchini in ritirata. Noi stessi, per dissetarci, dovemmo raggiungere un pozzo posto a circa cento chilometri di distanza.                                            

Le jeep filavano dentro quel deserto piatto e brullo. A parte un paio di pastori, secchi e scuri come una carruba ragusana, non incontrammo in quel lungo cammino altre tracce d’umanità. La notte si dormiva all’addiaccio, sotto un tetto di vivide stelle, ognuno dentro un fosso ch’egli stesso si scavava nella calda sabbia per combattere gli effetti algidi dell’escursione termica.

3…Ogni tanto una sosta per sgranchirci le gambe. Intorno al pentolino del thè si fraternizzava con quei giovani guerriglieri che non si staccavano un attimo dal loro fucile d’ordinanza.                  

Ci parlarono, con un entusiasmo quasi sportivo, della recente battaglia, e del kalashnikov come del fucile più efficiente in circolazione: leggero, duttile e preciso, “riusciva a colpire – dissero – con micidiale precisione un bersaglio posto a 700 metri”.                                                           

Vista la nostra assoluta incompetenza in fatto di armi, i fedayn – per risultare più convincenti – ci proposero di provarlo. Quasi a dire: provare per credere. Anch’io tirai un colpo per curiosità, quasi per gioco. Tuttavia, per quanto nobili fossero le ragioni della loro lotta, quell’elogio un poco mi atterriva, specie dopo aver visto tutti quei corpi semisepolti. Immagini indelebili, ossessive che s’intrecciavano con quelle delle cataste di armi e di mine antiuomo e anticarro affastellate sul pianoro. Infatti, la zona tutt’intorno alla sorgente era minata. Gli sminatori avevano aperto un corridoio per consentire il nostro passaggio. Per tutto il tragitto di avvicinamento ci era stato caldamente sconsigliato di abbandonare lo stretto corridoio da poco sminato.                                                            

Tutti questi morti per una conca d’acqua? Interrogativi, pensieri nascosti, forse da tutti condivisi, ma inespressi. Non riuscivo a liberarmi di quel funesto assillo, di quella mortifera relazione fra il fucile e quei corpi, quegli arti inanimati. Sentivo, forte, una sensazione di repulsione, di sgomento per l’infamia delle armi verso le quali nutrivo un’innata avversità.                         

Contrarietà che diventerà rifiuto dopo aver percepito meglio, più distintamente, come membro della commissione difesa della Camera dei Deputati, gli intrecci perversi, spaventosi, e assai lucrosi, esistenti fra produzione, commercio e uso delle armi.

4…Storicamente, la sinistra italiana ed europea si è sempre ispirata alla pace, ha rifiutato la guerra e il metodo terroristico. Nel passato, talvolta, abbiamo sottostimato, perfino deriso, certe esperienze basate sulla non-violenza”. A mio parere, oggi, è tempo di ricredersi e di assumere quel metodo di lotta politica come uno dei valori fondanti della nuova sinistra che, prima o poi, rinascerà dalle ceneri della sedicente sinistra attuale.                                             

Ovviamente sappiamo che è difficile parlare di non-violenza a chi lotta contro un’occupazione stranierao contro una crudele dittatura per affermare i diritti all’indipendenza e alla libertà dei popoli. Tuttavia, secondo i casi, la non-violenza potrebbe essere la soluzione. La lotta dell’India di Gandhi è uno degli esempi di riferimento.                                    

D’altra parte, il conflitto del Sahara Occidentale dura da troppo tempo, insoluto e sempre più intriso di odio e propositi di vendetta. Dal 1976. Con i marocchini barricati dietro un lunghissimo muro di sabbia (un altro muro di cui non si parla!) che segna il confine del cosiddetto “triangolo utile” e i saharoui rimasti “padroni” della parte restante del Paese, ossia del vasto ed arido deserto nel quale hanno insediato la Rasd.                                               

Da oltre 30 anni, nessuno dei due contendenti riesce a prevalere militarmente sull’altro, mentre la “comunità internazionale” cincischia, rinvia, non riesce a imporre una soluzione politica secondo i principi della Carta dell’Onu.                                              

Un conflitto dimenticato che dilania un popolo, altrettanto dimenticato, nel quale si confrontano aspirazioni legittime e avide pretese sub imperialiste che stanno portando l’Africa alla deriva. (23/12/2022)

* https://it.wikipedia.org/wiki/Agostino_Spataro

Libia, migranti, navi: chi detiene la verità ?

Venerdì scorso 25 novembre, la penultima serata del XIV° Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli è stata interrotta da un gruppo di rappresentanti di alcune Ong italiane che hanno bloccato la proiezione di un documentario sulla Libia; “L’urlo”, questo il titolo del film, realizzato da Michelangelo Severgnini, sembra aver scosso e indignato parte della platea che ha protestato in modo scomposto e imposto al resto degli spettatori il blocco della proiezione al 20simo minuto.

Nei report che sono girati in rete si ascoltano accuse di antisemitismo e si definisce il documento una porcheria, una schifezza, ecc. ecc.

Tra coloro che intervengono a giustificare la sospensione (che altri vorrebbero continuare a seguire) troviamo Beppe Caccia e Valentina Brinis che dicono di parlare in rappresentanza rispettivamente di Mediterranea e Open Arms due delle navi che soccorrono da diversi anni i naufraghi provenienti prevalentemente dalla Libia.

Non si intendono, nell’alterco, i motivi specifici di questa indignazione che sembrerebbe essere derivata da alcune interviste a migranti africani in Libia che esprimono valutazioni non troppo conformi a quelle attese.

Il fatto è di una certa gravità; come previsto dal programma si poteva discutere del film alla sua conclusione; invece qualcuno si è sentito nella condizione di imporre con metodi sbrigativi e discutibili, degni di altra tradizione, l’interruzione della visione.

Noi non abbiamo visto il film perché a quanto pare la sua diffusione non è consentita da alcuni dei soggetti promotori e, da quanto sostiene il regista, l’unica possibilità di vederlo è quello di presentazioni limitate in sua presenza in quanto autore.

Non sappiamo quindi quali orridi contenuti o abissi morali contenga.

Una ragione in più per trovare un’occasione per vederlo.

Non ci accodiamo neanche alla polemica emersa nel fine settimana su alcuni blog. O almeno, riteniamo che il fatto che il film fosse stato proposto, fuori concorso, all’interno del Festival mostri l’interesse e l’imparzialità del team organizzatore al quale ciò va riconosciuto.

Quello che invece possiamo a ragione sostenere sulla base del materiale a disposizione è che sulla genesi, sulle condizioni e vicende dei migranti in generale e su quelli provenienti dalla Libia in particolare, non c’è Ong che abbia qualche sorta di primato interpretativo. E se c’è qualche occasione di ascoltare cosa pensano i migranti in prima persona della loro stessa condizione, dei loro paesi, dell’Europa, ecc. si tratta di un’occasione d’oro.

Le Ong dovrebbero fare al meglio il loro meritorio lavoro in mare e in terra. Sul resto, trattandosi di temi pubblici che riguardano tutti, tutti debbono potersi liberamente esprimere, soprattutto quando le vicende di cui si parla derivano da una guerra di aggressione dell’occidente in territorio africano che dura da oltre un decennio e che non accenna a concludersi. Cosa che sembra dimenticata da molti operatori.

In ogni caso, in attesa di vedere il film o leggere il libro-dossier che porta lo stesso titolo, proponiamo di seguito il racconto e le tesi dell’autore, che per dirla tutta, non ci sembrano lontane dalla verità, salvo le opportune verifiche su fatti e contesti specifici citati.

A dicembre del 2018 la FIEI organizzò un evento di una intera giornata a Roma assieme ad una Ong inglese, la Oxfam, in occasione del suo rapporto sull’Africa dell’anno precedente, con molti interventi dall’Italia e da diversi paesi africani. Si intitolava “I migranti, l’Africa, le nostre responsabilità”. Quanto sostiene Michelangelo Severgnini nel video che segue ci sembra confermare la sostanza di quanto ascoltammo in quell’occasione.

Rodolfo Ricci (FIEI)

Sul Convegno citato leggi anche: Africa, smettiamola di rapinarli a casa loro

Video integrale del Convegno FIEI: “I migranti, l’Africa, le nostre responsabilità”


Leggi anche:

Il docufilm “L’Urlo” fa saltare i nervi alle Ong. La destra ne approfitta

Voci dalla Libia – Speciale Fortezza Italia con Michelangelo Severgnini

Di seguito il trailer del film “L’urlo” e l’intervento di Michelangelo Severgnini alla presentazione del film (e del libro) al Goethe Institut di Palermo nell’ambito del Festival delle Letterature migranti, del 15 ottobre scorso.

Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni contro la Russia

di Andrea Vento (*)

Il 6 ottobre scorso l’Unione Europea ha varato l’ottavo pacchetto di misure sanzionatorie contro Mosca1 con il dichiarato fine di fiaccare l’economia russa e indurre Putin ad un accordo di pace da posizioni di debolezza o, addirittura, costringere le truppe impegnate nell’Operazione Militare Speciale alla sconfitta militare, grazie anche alle ingenti forniture militari di Usa e Ue ormai giunte ad oggi a 100 miliardi di dollari. Massiccio sostegno che, sommato al supporto di intelligence degli Usa e del Regno Unito, stanno mettendo in difficoltà sul campo le forze militari russe.

Rispetto alle previsioni dei governi occidentali che hanno accompagnato il varo del primo pacchetto di sanzioni introdotte dalla Ue e dagli Usa il 23 febbraio scorso, a seguito del riconoscimento delle Repubbliche Popolari del Donbass che ha preceduto di un giorno l’Operazione Militare Speciale, quale risulta l’effettiva entità dell’impatto delle sanzioni sull’economia russa e sulle sue relazioni internazionali?

La recessione che avrebbero causato alla Russia dalla previsione del Fmi ad aprile di un pesante -8,5% per il 2022, si è più che dimezzata a -3,5% nel World Economic Outlook di ottobre della stessa istituzione, passando per il -6,0 di luglio, a testimonianza della capacità di tenuta e di resilienza dell’economia russa (tab. 1). Mentre a livello internazionale, seppur oggetto di condanna da parte di una Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’Onu del 3 marzo per l’invasione dell’Ucraina votata da 141 Paesi su 193, la Russia, appare tutt’altro che isolata appurato che solo 37 Paesi (pari al 19% del totale) dopo 7 settimane dal 24 febbraio2, avevano aderito alle sanzioni promosse dagli Stati Uniti e imposte da questi ultimi anche all’Ue (carta 1). Anzi, la Russia, isolata verso occidente, ha ridisegnato la propria carta geopolitica approfondendo le relazioni economiche, commerciali e politiche non solo con le potenze emergenti (Cina e India) e regionali asiatiche (Pakistan e Turchia), ma anche con i Paesi africani e latinoamericani, contrari all’adozione delle sanzioni (carta 2).

Tabella 1: Previsioni economiche del Fmi per il 2022 degli World Economic Outllook di ottobre 2021 e gennaio, aprile, luglio, ottobre 2022


Previsioni economiche Fmi per il 2022

Ottobre 2021Gennaio 2022Aprile 2022Luglio 2022Ottobre 2022
Economia mondiale4,94,43,63,23,2
Italia
4,23,82,33,03,2
Russia
2,92,8-8.5-6,0-3,4

Come in occasione delle sanzioni introdotte nel 2014 contro la Russia a seguito dell’annessione della Crimea3, anche nel caso di quelle comminate durante l’anno in corso come Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati ci siamo interrogati su quali fossero gli effetti sulle economie dei Paesi dell’Unione Europea, “costretta” a seguire l’alleato statunitense sulla stessa strada in virtù della cieca fedeltà atlantista.

L’entità dei flussi commerciali Ue – Russia e Usa – Russia

L’interscambio commerciale annuo fra l’Ue e la Russia dai 439 miliardi di $ del 2012, pur riducendosi, in conseguenza della prima ondata di sanzioni del 2014, ad una media annua di 240 miliardi di $ nel periodo 2015-2019, resta tuttavia, nello stesso quinquennio, oltre 9 volte più elevato (25 miliardi di $) di quello fra Stati Uniti e Russia (tab. 2). Le economie dell’Ue e della Russia, pertanto, risultavano fino a febbraio 2022 ancora saldamente integrate, principalmente, in virtù degli investimenti delle imprese comunitarie in Russia e del considerevole interscambio commerciale e finanziario fra le parti. Alla luce di questi dati, risulta evidente come le ricadute sull’economia del soggetto proponente, gli Usa, non potevano non avere rilevanza nettamente inferiore rispetto a quelle sull’Unione Europea, soprattutto per quanto riguarda le forniture energetiche russe a costi contenuti dei quali ha beneficiato fino a pochi mesi fa.

Tabella 2: valore medio annuo dell’interscambio commerciale Ue-Russia, Usa-Russia, Ue-Cina, Usa-Cina del quinquennio 2015-19 in miliardi di $. Fonte: database Onu Comtrade


Interscambio commerciale di beni media 2015-2019
Ue – Russia
240
Usa – Russia
25
Ue – Cina
645
Usa – Cina
626

Le relazioni commerciali ed economiche fra Italia e Russia

Per quanto riguarda le relazioni commerciali fra l’Italia e la Russia, nel 2019, ultimo anno prima della crisi pandemica, registravano un valore di 22,2 miliardi di euro di interscambio di merci che, al cambio medio dell’anno in questione di 1,12 dollari per euro, corrisponde a 24,87 miliardi di $, praticamente la stessa entità di quello fra Washington e Mosca, ma con una incidenza sul totale nettamente diversa. Infatti, nel 2019, l’interscambio commerciale totale di beni degli Usa ammontava a ben 4.172,1 mld di dollari4, pari a 3.671 mld di euro5, mentre il nostro a 904 miliardi euro6, con un rapporto di 4 : 1 a favore dei primi.

L’interscambio fra Italia e Russia, oltre ad avere una rilevanza percentuale nettamente superiore rispetto a quelle fra Washington e Mosca, evidenzia una composizione merceologica tipica delle aree ad elevata integrazione geoeconomica: da un lato, infatti, si esportano materie prime energetiche e minerarie e semilavorati dell’industria pesante, mentre, dall’altro tecnologia e prodotti industriali di livello medio-alto. Le principali voci dell’import italiano nel primo semestre 2022 risultano, infatti, il gas naturale, il petrolio greggio, i prodotti della siderurgia e della raffinazione del petrolio e minerali ferrosi e non che coprono ben il 96,7 del totale delle merci provenienti da Mosca. Il nostro Paese esporta, invece, in Russia un paniere ben più ampio di merci, dai macchinari industriali ai prodotti manufatturieri all’ampia gamma del cosiddetto made in Italy7, tant’è che le principali sei voci coprono il solo 42,8 dell’export verso Mosca.

Anche gli investimenti diretti, vale a dire e scopo produttivo, totali (detti stock) fra i due Paesi risultavano, a fine 2021 di buon livello e nettamente a favore dell’Italia con 11,3 miliardi di euro, contro 0,85 miliardi di Mosca, secondo l’annuario Istat e l’Agenzia Ice8, e nel dettaglio riguardavano in base ai dati più aggiornati, quelli al 31 dicembre 2017, 660 imprese operanti principalmente nei settori energetico, automobilistico, agroalimentare e telecomunicazioni impiegando 39.233 addetti con un fatturato complessivo di 8,8 miliardi di euro, secondo i dati della Banca Dati Reprint9.

Gli effetti delle sanzioni sul mercato dell’energia dei Paesi Ue

Le sanzioni hanno dunque inferto colpi letali all’interconnessione fra l’economia russa e quella comunitaria che si era sviluppata negli ultimi 3 decenni dopo la caduta dell’Urss. In particolare, le forniture di gas via conduttura con contratti pluriennali a prezzi contenuti hanno consentito alle principali 2 manifatture europee, Germania e Italia, di mantenere un elevato grado di competitività sui mercati internazionali anche di fronte all’emergere di nuovi agguerriti concorrenti.

In considerazione di ciò, la decisione degli Stati europei di rinunciare al carbone, al petrolio, a seguito delle sanzioni e, soprattutto, al gas russo tramite il piano comunitario REPowerEu10 varato, dalla Commissione il 18 maggio scorso, con l’obiettivo di “ridurre rapidamente la nostra dipendenza dai combustibili fossili russi” sembra non aver tenuto conto di alcuni fondamentali elementi per il proprio approvvigionamento energetico.

Il primo, già patrimonio dell’opinione pubblica nazionale, risulta l’impennata del costo delle materie prime, soprattutto quelle energetiche, in corso ormai da circa un anno dal momento dell’approvazione, quindi ben prima di febbraio 2022. In particolare, sul mercato del gas olandese Ttf (Title Transfer Facility) dove la quotazione media mensile delle negoziazioni da 20,50 euro a megawattora di aprile 2021, era salito a 87,47 euro ad ottobre, per arrivare a 125,42 euro a marzo 2022 all’indomani delle prime tranche di sanzioni, causata soprattutto dagli effetti dell’attività speculativa tramite la finanza derivata, e del fatto che le stesse sanzioni, innescando una carenza di offerta sui mercati dei Paesi Ue, non potevano che alimentare ulteriormente la compravendita di contratti a termine (detti future) a fini speculativi.

Altro fondamentale elemento che non poteva sfuggire ai politici nazionali e comunitari riguarda la diversificazione degli approvvigionamenti, opera assai complessa e non realizzabile nel breve periodo, in quanto gli altri gasdotti europei di approvvigionamento non sono in grado di sostituire in toto le forniture russe e che il Gas Naturale Liquefatto (Gnl) trasportato via mare, necessita di una congrua dotazione di rigassificatori che, ahinoi, non abbiamo a disposizione. In particolare, il Gnl statunitense del quale l’amministrazione Biden ha fornito garanzie di approvvigionamento ai poco avveduti Paesi europei, presenta problematiche non indifferenti visto che l’estrazione avviene con la tecnica del fracking (fratturazione idraulica delle rocce), devastante dal punto di vista geologico e ambientale, non in grado di offrire garanzie di continuità di forniture per il rapido esaurimento dei giacimenti e con costi di complessivi per l’acquirente decisamente superiori rispetto a quello russo. Su quest’ultimo aspetto iniziano a serpeggiare sempre meno velati malumori in seno all’Ue rispetto al vantaggio di competitività, oltre che commerciale, per le aziende statunitensi, il cui costo del gas risulta nettamente inferiore rispetto a quelle europee, tanto da aver indotto il Ministro francese, Bruno Le Maire, a dichiarare il 12 ottobre scorso all’Assemblea Nazionale di Parigi che “non possiamo accettare che il nostro partner americano ci venda il suo Gnl ad un prezzo 4 volte superiore a quello al quale vende agli industriali suoi connazionali“. Aggiungendo amaramente che “la guerra in Ucraina non deve sfociare in una dominazione economica americana e in un indebolimento dell’Unione Europea“.

La transizione energetica, infine, benché ad essa il governo Draghi avesse dedicato apposito Dicastero, il ministro incaricato, Roberto Cingolani, oltre ad aver brillato per inerzia si è anche contraddistinto per alcune anacronistiche proposte come il nucleare, a suo dire “pulito”, e la riapertura delle centrali a carbone ormai dismesse.

L’impatto delle sanzioni sulla Russia e sui Paesi Ue

Nell’intento di valutare l’effettiva ricaduta delle sanzioni rispetto al fine di sfiancare l’economia russa da parte dei Paesi che le hanno introdotte, risulta fondamentale, fra le varie, confrontare la variazione dell’interscambio commerciale con Mosca del primo semestre 2021 con quello del corrispondente periodo del 2022, quest’ultimo influenzato dai provvedimenti restrittivi.

Per quanto riguarda il nostro Paese nel periodo gennaio-giugno 2021, in condizioni di ristabilita normalità economica dopo la crisi del 2020, abbiamo esportato merci in Russia per un controvalore di 4,4 miliardi di euro, mentre ne abbiamo importati 8,1 miliardi con un saldo per noi negativo di circa 3,7 miliardi di euro, sostanzialmente in linea con i dati del 2019 (tab. 3). Nel primo semestre dell’anno in corso, invece, a seguito delle sanzioni e il piano REPowerEU, tramite i quali ci siamo preclusi attività economiche significative con Mosca, il nostro export è diminuito del 21% sotto i 3,5 miliardi di euro, mentre il valore del nostro import ha subito un aumento del 136,9%, da 8,1 miliardi di euro a 19,1, che ha affossato in tal modo il saldo negativo a 15,7 miliardi di euro, con un aggravio del disavanzo di oltre 12 miliardi.

Tabella 3: valore in miliardi di euro dell’interscambio commerciale Italia-Russia fra 2019 e 2021 e confronto fra 1° semestre 2021 e 2022. Fonte: infomercati esteri su dati Istituto del Commercio Estero (Ice)11

Export italiano verso la Russia2019202020211° semestre 20211° semestre 2022
Totale (mld. €)7,8827,1017,6964,4203,490
Variazione periodo precedente (%)+4,2-9,9+8,8
-21,0

Import italiano dalla Russia
2019202020211° semestre 20211° semestre 2022
Totale (mld. €)14,3249,32913,9848,10119,190
Variazione (%)-4,3-34,9+54,5
+136,9
Totale interscambio (mld. €)22,20616,43021,68012,52122,680
Saldo commerciale Italia (mld. €)-6,442-2,228-6,288-3,681-15,700

Trend decisamente negativo del nostro Paese che, peraltro, ha continuato ad aggravarsi nel mese di agosto, durante il quale, secondo i dati dell’Istat, il valore del saldo commerciale complessivo è sceso a -9,5 miliardi di euro, rispetto a un surplus di 1 miliardo del corrispondente mese dello scorso anno. Un pesante disavanzo sul quale hanno inciso sia il passivo della bilancia energetica, salito addirittura di 12 miliardi, sia la diminuzione del 16,7% dell’export verso la Russia12. Il vertiginoso aumento dei costi del gas e dell’energia elettrica, secondo lo stesso report, hanno influito sul gravoso deficit commerciale totale e ulteriormente sospinto il rialzo dell’inflazione sia nel nostro Paese, arrivato ormai su base annua all’11,9% ad ottobre13, che nell’Eurozona. Concomitanti fattori che, sommati al rialzo dei tassi della Bce (ormai giunti al 2% con il terzo rialzo consecutivo del 27 ottobre14), stanno creando un sensibile rallentamento delle economie occidentali come ci conferma l’ultimo report del Fmi del 18 ottobre, nel cui contesto il responsabile del Dipartimento europeo dell’Istituto di Washington, Alfred Kammer, vi afferma che “questo inverno più della metà dei Paesi nell’area dell’euro sperimenterà una recessione tecnica, con almeno due trimestri consecutivi” di variazione negativa del Pil con situazione particolarmente critica di Germania e Italia. Queste ultime, non casualmente, due fra i Paesi maggiormente dipendenti dal gas russo15, per i quali il report indica tre trimestri consecutivi di contrazione, tant’è che erano già previsti in recessione nel 2023, nel già citato Outlook di ottobre dello stesso Istituto, rispettivamente a -0,3% e -0,2%, e la Russia -2,3%, mentre l’Eurozona subirà un sensibile rallentamento a +0,5% e gli Usa una crescita modesta dell’ +1%.

Tabella 4: previsioni variazione Pil per il 2023. Fonte: World Economic Outlook Fmi ottobre 2022


GermaniaItaliaRussiaEurozonaUsaCina
Previsioni variazione Pil 2023
-0,3%

-0,2%

-2,3%

+0,5%

+1,0%

+4,4%

Le decisioni assunte, su pressioni di Washington, dai Paesi europei e dall’Unione Europea verso Mosca, alla luce dei dati mostrano un impatto negativo, seppur dimezzato rispetto alle prime previsioni, sull’andamento dell’economia russa, sortendo, invece, un effetto opposto sul saldo delle partite correnti che, secondo Boomberg16, è più che triplicato sfiorando di 167 miliardi di dollari fra gennaio e giugno 2022, rispetto ai 50 del corrispondente periodo del 2021, a seguito dell’aumento dei ricavi dell’export dell’energia e delle materie prime, alla diminuzione delle importazioni a causa delle sanzioni e all’apertura di nuovi mercati di sbocco asiatici che hanno compensato l’impatto delle sanzioni.

Se i provvedimenti restrittivi occidentali sembrano aver raggiunto solo parzialmente gli obiettivi prefissati ai danni della Russia, di altra entità risultano, invece, gli impatti negativi causati alle proprie economie che stanno registrando pesanti effetti in termini di deficit commerciale, elevata inflazione, alti tassi di interesse non che rallentamento economico con serie prospettive di recessione tecnica, come indicato dal Fmi.

Le otto tranche di sanzioni comminate, sino a questo momento, dagli Stati europei sembrano, dunque, assumere, sulla scorta dei dati e delle previsioni economiche, connotato di boomerang ancor più clamoroso rispetto a quelle del 2014.

I vertici politici comunitari e nazionali, fra cui il neogoverno Meloni, non possono, a nostro avviso esimersi, dal rendere conto all’opinione pubblica sia della propria consapevolezza rispetto alla loro scarsa efficacia sulla destinataria, che dei costi sociali che saranno causati dal rallentamento economico e dalla probabile recessione che sta insabbiando la ripresa post-covid. Costi che inevitabilmente verranno a ricadere in maniera più gravosa sui ceti popolari e sui lavoratori a causa: della chiusura di aziende che non sosterranno l’aumento dei costi energetici, dell’aumento della disoccupazione e della perdita di potere d’acquisto dei salari e degli stipendi innescata dell’impennata inflazionistica con conseguente, inevitabile, aumento della povertà, che nel nostro Paese già opprime 5,6 milioni di persone.

Come uscire dalla spirale guerra – sanzioni – crisi economica e sociale?

Nella complessità e nella gravità della situazione che si sta, giorno dopo giorno, delineando, riteniamo che solo una massiccia mobilitazione popolare possa indurre, il nostro e gli altri governi europei, ad una seria riflessione sui nefasti effetti interni delle proprie politiche internazionali e a prendere atto che la strada della totale subalternità agli interessi Washington sta spingendo l’economia comunitaria nel baratro e non sta generando alcun effetto fra quelli preventivati rispetto alla risoluzione del conflitto in corso.

E’ necessario che il grande assente di questi di primi 8 mesi di guerra, il movimento internazionale per la pace, prenda coscienza, si organizzi ed apra un fronte di lotta duraturo che spinga i soggetti, direttamente e indirettamente, coinvolti al cessate il fuoco, all’apertura di un concreto negoziato sotto l’egida dell’Onu, riprendendo la piattaforma degli accordi di Minsk I e II (che se fossero stati rispettati non avrebbe portato al disastro in corso) che porti ad un pace equa che consideri i diritti e le necessità di tutti gli attori coinvolti, al fine di evitare un’ulteriore pericolosa escalation del conflitto e una nuova grave crisi economica e sociale a soli due anni da quella pandemica.

Andrea Vento – 3 novembre 2022 – (*) Gruppo insegnanti di Geografia Autorganizzati

Carta 1: votazione dell’Assemblea Generale dell’Onu di condanna dell’invasione russa del 3 marzo 2022

Carta 2: gli stati applicano (in rosso) e che non applicano (in celeste) le sanzioni alla Russia

NOTE:

1 Per una panoramica dettagliata delle 8 tranche di sanzioni dell’Ue alla Russia consultare: https://www.confindustria.it/home/crisi-ucraina/sanzioni

2 https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/tutti-i-buchi-delle-sanzioni-alla-russia-34533

3 “Crisi ucraina: il boomerang delle sanzioni europee” di Andrea Vento – Giga autoproduzioni 2014

4 https://www.infomercatiesteri.it/highlights_dettagli.php?id_highlights=16608

5 Calcolo effettuato allo stesso tasso di cambio medio annuo del 2019 che fra Usd/Eur era pari a 0,88

6 https://www.infomercatiesteri.it/public/osservatorio/interscambio-commerciale-mondo/Tabella%201%20-%20Interscambio%20commerciale%20dell’Italia_1666092101.pdf

7Principali prodotti del Made in Italy esportati in Russia: abbigliamento 244 mld (8,2%), mobili 122,7 mld (4,1%), calzature 99,7 mld (3,3%)

8 https://www.infomercatiesteri.it/public/osservatorio/schede-sintesi/federazione-russa_88.pdf

9 https://www.infomercatiesteri.it/public/osservatorio/schede-sintesi/federazione-russa_88.pdf

10 https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2022%3A230%3AFIN&qid=1653033742483

11 https://www.infomercatiesteri.it/scambi_commerciali.php?id_paesi=88#

12 https://www.istat.it/it/archivio/276078

13 https://www.istat.it/it/archivio/276683

14 https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2022/html/ecb.mp221027~df1d778b84.it.html

15 Secondo i dati dell’Agenzia dell’Ue per la cooperazione tra i regolatori dell’energia, al 24 febbraio, la Germania importava il 49% del gas dalla Russia e l’Italia il 46%.

16 https://www.bloomberg.com/news/articles/2022-08-09/russia-more-than-triples-current-account-surplus-to-167-billion

La situazione in Libia: destabilizzazione permanente delle forze unipolariste

La situazione in Libia, ennesimo tassello di destabilizzazione permanente delle forze unipolariste, legata alla crisi ucraina, ….e Saif al Islam Gheddafi

A cura di Enrico Vigna (25 agosto 2022)

Forse è ora che l’Europa e l’Italia in particolare, presti sensatamente attenzione alla situazione in Libia

Le continue e crescenti tensioni minacciano di rigettare il paese in una guerra civile dispiegata e avranno conseguenze per l’Europa, oltre alla comunità internazionale. Ma soprattutto per l’Italia, stante la posizione geografica e la storia che ci ha legato, una storia che rappresenta anche, per l’Italia, un debito storico, visti gli orrori, le atrocità e devastazioni compiute dal colonialismo prima e dal fascismo poi. I problemi della Libia non sono solo locali. L’Italia e l’Europa, con la Libia condividono il Mar Mediterraneo: Alessandro Magno, i Greci, i Romani e anche i Normanni hanno tutti scambiato beni, cultura e archetipi con la Libia. Ma questa prossimità ha anche significato che i problemi lì, si riversano quasi sempre sulle coste europee. 

Da febbraio, gli occhi del mondo sono ovviamente rivolti sugli avvenimenti Ucraina. Ma mentre l’attenzione è sul fianco orientale europeo, i problemi che stanno deflagrando su quello meridionale in Libia sono molto trascurati o sottovalutati. Le crescenti tensioni politiche e le quotidiane esplosioni di violenza, stanno riportando il paese verso la guerra civile, con conseguenze a domino che investiranno sia gli equilibri dell’Africa del nord, ma anche avranno un impatto sull’Italia e sull’Europa. E’ decifrabile che la crisi in Libia, si inserisce nel quadro delle crisi mondiali, dove i poteri legati al mantenimento di un mondo multipolare stanno supportando logiche di innescamento e scatenamenti di crisi politiche e militari che possono portare il mondo verso catastrofi devastanti in cui nessuno sarà escluso.

Oggi, quella che, fino al colpo di stato USA/Francia del 2011, con l’assassinio di Muammar Gheddafi e la distruzione della Jamahirija, era la nazione più ricca di petrolio dell’Africa, si trova in uno stato di totale annichilimento sociale e politico, e viene ormai indicato nelle sedi internazionali come uno stato fallito. Una guerra civile che non è mai finita da quel 2011, e che ha composto uno scenario che vede un governo riconosciuto a livello internazionale dai paesi occidentali, con sede a Tripoli e la Cirenaica nell’est del paese con il Governo di Tobruk, guidato dal generale Haftar sostenuto da Russia, Egitto, Algeria e altri paesi come EAU.

Due problemi basilari e strategici dovrebbero far riflettere gli italiani: da un lato il dato di fatto che la costa libica è il cuore del problema, il punto di partenza dei disperati che hanno l’obiettivo di raggiungere l’Europa, ma che hanno la sponda italiana come primo punto d’arrivo con ciò che ne consegue per l’Italia. Il secondo dato su cui riflettere, altrettanto basilare e strategico è quello delle conseguenze delle sanzioni alla Russia della UE e poiché ora i paesi europei hanno necessità di fonti energetiche alternative, mentre cercano di svincolarsi dai combustibili russi, la Libia è la fonte di approvvigionamento alternativo più vicina. L’UE è già logorata al suo interno nel tentativo di tenere ferma la posizione dell’unità sulle sanzioni russe e, di settimana in settimana la ricerca frenetica per trovare nuovi abbondanti rifornimenti di gas, fa emergere le divisioni e la prospettiva di una possibile revoca dell’embargo petrolifero a Mosca. Ma la perdurante instabilità della Libia, dietro cui non è esclusa la mano statunitense, rende le sue forniture in gran parte inaccessibili o non sufficienti, poiché la stragrande maggioranza delle sue riserve è sotto il controllo dell’Esercito Nazionale libico (LNA) di Khalifa Haftar. Questi sono solo due dei tanti motivi per cui la Comunità internazionale e l’Italia in primis, dovrebbero cominciare a preoccuparsi seriamente per il caos in Libia e cominciare politiche indipendenti dagli interessi di Washington, più legate all’interesse nazionale e a letture geopolitiche multipolariste.

Continui scontri armati e violenze tra le bande di miliziani rivali, proteste di strada della popolazione sfinita da violenze, soprusi, vessazioni, continui aumenti del costo della vita, lunghi tagli all’elettricità, l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, l’assurdità in un paese che naviga nel petrolio è quella delle carenze e code per il carburante, caos e assenza statale, un paese fratturato in due parti, colloqui politici sistematicamente fallimentari e altro ancora. Nel frattempo in tutti questi anni le varie milizie armate terroriste si sono spartite le città, dove operano come banditi e predoni senza nessun freno di alcuna autorità di Tripoli.

Questa è la realtà della Libia degli ultimi anni.

Dalla designazione di Fathi Bashagha a primo ministro a febbraio dalla Camera dei rappresentanti (HoR) con sede a Tobruk e dal fallimento dei colloqui sia al Cairo che a Ginevra sugli accordi costituzionali per le elezioni, continua un sempre più insostenibile caos politico nel paese.

Nel frattempo c’è stato un costante peggioramento delle condizioni economiche e sociali, anche a causa della chiusura dei terminal petroliferi e delle strade principali e dalla sempre più probabile prospettiva di un nuovo scontro militare. Anche perché a metà luglio Bashagha ha annunciato che a breve entrerà nuovamente a Tripoli, roccaforte del governo riconosciuto dalla comunità internazionale occidentale, per insediarsi nella capitale. Quando era arrivato a Tripoli nel maggio scorso e aveva tentato di assumere il suo incarico, si sono scatenati scontri tra le forze armate che lo sostenevano e le milizie fedeli ad Abdulhamid Dbeibah che era salito al potere nel 2020 a seguito di un cessate il fuoco che aveva posto fine alla battaglia durata un anno per conquistare Tripoli, da parte dell’Esercito Nazionale Libico (LNA).

Secondo l’analista arabo Harchaoui, la maggior parte dei gruppi armati più forti delle tribù di Sabratha, Zawiyah, Ajeelat, Jumail, Warshefana e Zintan sono anti-Dbeibah. Inoltre, anche la Brigata Nawassi all’interno di Tripoli è chiaramente anti-Dbeibah, e questo dà al governo di Tobruk forza per ritenere possibile la presa di Tripoli, ma certamente con pesanti spargimenti di sangue, dando per scontato che la parte di Dbeibah è determinata a reagire a qualsiasi ipotesi di perdere il potere e questo è facilmente immaginabile, provocherà una ennesima violenta collisione. 

Bisogna tenere presente che diverse tribù della Libia nord-occidentale sono profondamente filo-Bashagha e anti-Dbeibah, oltrechè “gheddafiane”. Anche altre regioni del paese sono pronte a ridiscendere in campo militarmente come a Sirte, Jufrah, Shwayref e parti del Fezzan, dove la coalizione armata guidata dal governo di Tobruk sta piano piano assumendo un carattere sempre più conflittuale e aggressivo.

Il governo di transizione aveva il mandato di tenere le elezioni lo scorso dicembre sotto l’egida ONU, ma poi non si sono svolte a causa di divisioni interne e sabotaggi esterni. Dbeibah ha dichiarato che cederà il potere solo a un’autorità eletta, mentre Bashagha ribadisce che il suo governo è “illegittimo”.

I libici sono ormai frustrati da questa conflittualità permanente che dura ormai da 11 anni e secondo una stima accreditata da Al Arabiya, una delle più accreditate agenzie mediorientali, i sostenitori nostalgici di Gheddafi e della Jamhirya sarebbero tuttora il 50-70% dei libici.

Dall’altra parte la presenza massiccia della Turchia a Tripoli, ha creato un equilibrio militare che finora ha protetto il governo “tripolino” e impedito alle forze dell’ELN di dispiegare un offensiva finale e la presa di Tripoli, quindi della Libia, e qui decisiva sarà la capacità della diplomazia russa e di Lavrov, nel trovare all’interno dello scacchiere geopolitico e del confronto ormai a tutto campo tra Russia e Turchia, una forma per indurre la Turchia ad abbandonare la difesa di Tripoli e del governo di Dbeibah, evitando una nuova guerra. Ma molti esperti internazionali ritengono che il caos politico e nuove escalation militari siano il futuro del paese.

Saif al Islam Gheddafi nello scenario presente e futuro della Libia

Questa situazione è la dimostrazione materiale che la strategia di riconciliazione nazionale, sotto l’egida internazionale è solo una progettualità virtuale e da uffici delle cancellerie diplomatiche, ma che non ha alcun supporto nella realtà e nelle dinamiche sul campo. E probabilmente non è nei programmi reali di alcuna parte.

In questo scenario Saif al Islam Gheddafi, ormai riconosciuto come uno degli attori politici principali, se non fondamentale per le prospettive del paese, ha rovesciato il dibattito politico interno, proponendoun’iniziativa che può essere paragonata a un scossa scompaginante che, comunque si sviluppi, avrà conseguenze politiche.

La proposta prevede il ritiro di tutte le controverse figure politiche che hanno causato la sospensione delle elezioni parlamentari e presidenziali, e lui sarà il primo a ritirarsi. L’obiettivo sarebbe di aprire la strada alle elezioni legislative, a una nuova Costituzione e a un successivo consenso sulla presidenza.

Con questa mossa Saif Gheddafi ha messo in un angolo tutte le forze politiche che controllano le sorti del Paese e del popolo libico, e soprattutto degli sponsor stranieri, guidate dal principale attore del fascicolo libico, il consigliereOnuStephanie Williams, che ha lavorato per impedire le elezioni generali per un motivo arcinoto e proclamato: quello di impedire la partecipazione proprio diSaif al-Islam alle elezioni presidenziali, dopo che i sondaggi d’opinione gli avevano dato un netto vantaggio sul resto dei candidati e una popolarità nelle più grandi tribù libiche, senza rivali.

Saif al-Islam, nel processo di legittimazione della sua presenza politica nell’ultimo anno, ha ottenuto ciò che voleva e ora può manovrare ampiamente come personalità politica di primo piano in una scena politica che ha raggiunto il punto di decadenza economica e sociale e presa di potere.

Dopo aver attraversato tutti gli stadi legali che gli hanno ridato lo status giuridico di cittadino libico senza precedenti giudiziari e penali a suo carico, si è poi proposto come candidato alla presidenza del paese, nonostante tutti i tentativi fatti dai suoi oppositori, compresi attentati alla sua vita, per impedirgli questa battaglia. Ora il mandato del Tribunale internazionale cade, dopo che il candidato alla presidenza ha attraversato tutte le fasi dei tribunali nazionali libici.

Saifè stato molto abile nel scegliere la tempistica dell’iniziativa, questo è molto importante, in quanto si fonde con le proteste di piazza in tutte le città, che chiedono l’esclusione di ogni ceto politico di questi anni, elezioni libere ed eque e il ritiro di tutte le forze straniere dal Paese. L’iniziativa ha dato anche supporto e slancio, al movimento popolare di difesa degli immiseriti, dei disoccupati ed emarginati. Ora che le loro richieste e la loro rabbia, hanno trovato un esponente politico ufficiale, possono trovare una prospettiva realistica e realizzabile.

A Sebha nel sud della Libia, regione che in questi 11 anni non è mai stata domata dalle milizie terroriste di Tripoli, il 1° agosto la popolazione ha impedito ad una delegazione del governo di Tripoli di sbarcare all’aeroporto locale.

Nella città di Ubari, l’1 agosto, dopo che un camion che trasportava benzina è esploso nel comune di Bint Baya, a sud della Libia, uccidendo otto persone e ferendone altre 70,manifestazioni di massa hanno condannato l’esplosione di Bint Baya.. e scadito slogan che chiedevano a Saif Al-Islam Gheddafi di assumere la guida del Paese.

Ubari, 1 agosto 2022

Già le prime reazioni dopo l’iniziativa, indicano che il movimento intorno a Saif al-Islamè ormai diventato una forza importante che va oltre le variegate contese soggettivistiche o dei signori della guerra fondamentalisti. Oggi, la corrente di Saif Gheddafi è diventata un processo di unificazione del nazionalismo patriottico libico, che trascende la polarizzazione rovinosa che ha distrutto il Paese e la dignità del suo popolo.

Il progetto sta ora procedendo al prossimo passo, costruire un ampio movimento nazionale con uno specifico programma politico, sociale ed economico, e il più ampio dialogo con tutte le componenti giovanili, politiche, civili e tribali che convergono attorno all’idea della salvezza e della dignità nazionali.

Saif al-Islam, con un tale peso politico, sociale e tribale, può oggi proporre un nuovo obiettivo nell’interessi di tutti, avviando un programma di riconciliazioni nazionali interne, su basi solide, sentite e riconosciute dal popolo libico. Unire il popolo libico e sollevarlo a battersi per un nuovo contratto sociale è la più grande protezione per fermare i tentativi di sabotare, procrastinare e interrompere le influenze esterne e i loro conflitti sul suolo libico.


Enrico Vigna, 25 agosto 2022

L’Ucraina è un trojan per la dipendenza della Germania (e Europa) dagli Stati Uniti

Intervista a Michael Hudson

Il mondo viene diviso in due parti. Il conflitto non è solo nazionale, Occidente contro Oriente, ma è un conflitto di sistemi economici: capitalismo finanziario predatorio contro socialismo industriale che mira all’autosufficienza per l’Eurasia e l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO). I paesi non allineati non sono stati in grado di “fare da soli” negli anni ’70 perché mancavano di una massa critica per produrre il proprio cibo, energia e materie prime. Ma ora che gli Stati Uniti hanno deindustrializzato la propria economia ed esternalizzato la produzione in Asia, questi paesi hanno la possibilità di non rimanere dipendenti dalla diplomazia del dollaro USA

* * * *

Prof. Hudson, il tuo nuovo libro “The Destiny of Civilization” è uscito ora. Questa serie di conferenze sul capitalismo finanziario e la Nuova Guerra Fredda presenta una panoramica unica della tua prospettiva geopolitica.
 Parli di un conflitto ideologico e materiale in corso tra paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. Di cosa tratta questo conflitto e perché il mondo in questo momento si trova a un “punto di frattura” unico come afferma il tuo libro?

M. Hudson. L’odierna frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: negli Stati Uniti/NATO occidentali, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato la produzione alla leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri paesi asiatici insieme alla Russia fornendo materie prime e armi.

Questi paesi sono un’estensione fondamentale del capitalismo industriale che si evolve nel socialismo, cioè in un’economia mista con forti investimenti in infrastrutture governative per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altri bisogni di base trattandoli come servizi pubblici con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità. Nell’Occidente neoliberista USA/NATO, al contrario, questa infrastruttura di base viene privatizzata come monopolio naturale per l’estrazione di rendite. Il risultato è che l’Occidente USA/NATO resta un’economia ad alto costo, con le sue spese per l’alloggio, l’istruzione e le cure mediche sempre più finanziate con debiti, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione di capitale) . Ciò pone un problema esistenziale per il capitalismo finanziario occidentale: come può mantenere il tenore di vita di fronte alla deindustrializzazione, alla deflazione del debito e alla ricerca di una rendita finanziarizzata che impoverisce il 99% per arricchire l’uno per cento?

Il primo obiettivo degli Stati Uniti è dissuadere l’Europa e il Giappone dal cercare un futuro più prospero in legami commerciali e di investimento più stretti con l’Eurasia e l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO, un modo più utile di pensare alla frattura globale dei BRICS). Per mantenere l’Europa e il Giappone come economie satellite, i diplomatici statunitensi insistono su un nuovo muro economico di sanzioni di Berlino per bloccare il commercio tra Est e Ovest.

Per molti decenni la diplomazia statunitense si è immischiata nella politica interna europea e giapponese, sponsorizzando funzionari filo-neoliberisti alla guida del governo. Questi funzionari sentono che il loro destino (e anche le loro fortune politiche personali) è strettamente alleato con la leadership statunitense. Nel frattempo, la politica europea è ora diventata sostanzialmente una politica della NATO gestita dagli Stati Uniti.

Il problema è come mantenere il Sud del mondo – America Latina, Africa e molti paesi asiatici – nell’orbita USA/NATO. Le sanzioni contro la Russia hanno l’effetto di danneggiare la bilancia commerciale di questi paesi aumentando drasticamente i prezzi di petrolio, gas e generi alimentari (oltre ai prezzi di molti metalli) che devono importare. Nel frattempo, l’aumento dei tassi di interesse statunitensi sta attirando risparmi finanziari e credito bancario in titoli denominati in dollari USA.

Ciò ha aumentato il tasso di cambio del dollaro, rendendo molto più difficile per i paesi SCO e del Sud del mondo pagare il servizio del debito in dollari in scadenza quest’anno.
Ciò costringe questi paesi a scegliere: o rinunciare a energia e cibo per pagare i creditori esteri – mettendo così gli interessi finanziari internazionali prima della loro sopravvivenza economica interna – o inadempiere ai loro debiti, come accadde negli anni ’80 dopo che il Messico annunciò nel 1982 di non poteva pagare obbligazionisti stranieri.

Come vede la guerra/operazione militare speciale in corso in Ucraina? Quali conseguenze economiche prevede?

La Russia si è assicurata l’Ucraina orientale di lingua russa e la sua costa meridionale del Mar Nero. La NATO continuerà a “colpire l’orso” con sabotaggi e nuovi attacchi in corso, in particolare da parte di combattenti polacchi.

I paesi della NATO hanno scaricato le loro armi vecchie e obsolete in Ucraina e ora devono spendere ingenti somme per modernizzare il loro equipaggiamento militare. Il deflusso dei pagamenti al complesso militare-industriale degli Stati Uniti eserciterà pressioni al ribasso sull’euro e sulla sterlina britannica, il tutto in aggiunta al loro crescente deficit energetico e alimentare. Quindi l’euro e la sterlina si stanno dirigendo verso la parità con il dollaro USA. L’euro è quasi arrivato ora (circa $ 1,07). Ciò significa un forte aumento dell’inflazione dei prezzi per l’Europa.

Ho letto e sentito informazioni contrastanti sulle nuove sanzioni. Alcuni esperti in Oriente e in Occidente ritengono che ciò danneggerà enormemente l’economia nazionale della Federazione Russa. Altri esperti tendono a credere che ciò si ritorcerà contro o avrà davvero un enorme effetto boomerang sui paesi occidentali.

La politica prevalente degli Stati Uniti è combattere contro la Cina, sperando di rompere le regioni degli uiguri occidentali e dividere la Cina in stati più piccoli. Per fare ciò, è necessario spezzare il supporto militare russo e delle materie prime alla Cina e, a tempo debito, suddividerlo in una serie di stati più piccoli (le grandi città occidentali, la Siberia settentrionale, un fianco meridionale, ecc.) .

Le sanzioni sono state imposte nella speranza di rendere le condizioni di vita così sgradevoli per i russi che avrebbero fatto pressioni per un cambio di regime. L’attacco della NATO in Ucraina è stato progettato per prosciugare la Russia militarmente, facendo in modo che i corpi degli ucraini esauriscano la scorta russa di proiettili e bombe dando la vita semplicemente per assorbire le armi russe.

L’effetto è stato quello di aumentare il sostegno del popolo russo a Putin, esattamente l’opposto di quanto previsto. C’è una crescente disillusione nei confronti dell’Occidente, dopo aver visto cosa hanno fatto gli Harvard Boys alla Russia quando gli Stati Uniti hanno appoggiato Eltsin per creare una classe cleptocratica domestica che ha cercato di “incassare” le sue privatizzazioni vendendo azioni di petrolio, nichel e servizi pubblici a l’Occidente, e poi spronando gli attacchi militari dalla Georgia e dalla Cecenia. C’è un accordo generale sul fatto che la Russia stia compiendo una svolta a lungo termine verso est invece che verso ovest.

Quindi l’effetto delle sanzioni statunitensi e dell’opposizione militare alla Russia è stato quello di imporre una cortina di ferro politica ed economica che blocca l’Europa alla dipendenza dagli Stati Uniti, mentre spinge la Russia verso la Cina invece di separarle. Nel frattempo, il costo delle sanzioni europee contro il petrolio e il cibo russi, a grande vantaggio dei fornitori di gas GNL e degli esportatori agricoli statunitensi, minaccia di creare un’opposizione europea a lungo termine alla strategia globale unipolare degli Stati Uniti. È probabile che si sviluppi un nuovo movimento “Ami go home”.

Ma per l’Europa il danno è già stato fatto, e né la Russia né la Cina dovrebbero credere che i funzionari del governo europeo possano resistere alla corruzione e alle pressioni personali provocate dall’interferenza degli Stati Uniti.

Qui in Germania ascolto il nuovo ministro dell’Economia, Robert Habeck dei Verdi, che parla di attivare il “gas di emergenza” federale e chiede risorse agli Emirati (questo “accordo” sembra già fallito). Vediamo la fine del North Stream II e l’enorme dipendenza di Berlino e Bruxelles dalle risorse russe. Come si riassumerà tutto questo?

In effetti, i funzionari statunitensi hanno chiesto alla Germania di suicidarsi economicamente e di provocare una depressione, prezzi al consumo più alti e standard di vita più bassi. Le aziende chimiche tedesche hanno già iniziato a chiudere la loro produzione di fertilizzanti, vista l’accettazione da parte della Germania delle sanzioni finanziarie che le impediscono di acquistare gas russo (la materia prima per la maggior parte dei fertilizzanti). E le case automobilistiche tedesche stanno soffrendo per i tagli all’offerta.

Queste carenze economiche europee sono un enorme vantaggio per gli Stati Uniti, che stanno realizzando enormi profitti sul petrolio più costoso (che è controllato in gran parte da società statunitensi, seguite da compagnie petrolifere britanniche e francesi). Il rifornimento di armi da parte dell’Europa che ha donato all’Ucraina è anche un vantaggio per il complesso militare-industriale degli Stati Uniti, i cui profitti sono alle stelle.

Ma gli Stati Uniti non stanno riciclando questi guadagni economici per l’Europa, che sembra il grande perdente.

I produttori arabi di petrolio hanno già respinto le richieste degli Stati Uniti di addebitare meno per il loro petrolio. Sembrano essere guadagni inaspettati dall’attacco della NATO sul campo di battaglia per procura dell’Ucraina.

Sembra improbabile che la Germania possa semplicemente restituire alla Russia il Nord Stream 2 e le affiliate di Gazprom che hanno condotto scambi commerciali con la Germania. La fiducia è stata infranta. E la Russia ha paura di accettare pagamenti dalle banche europee a causa del furto di 300 miliardi di dollari delle sue riserve estere. L’Europa non è più economicamente sicura per la Russia.

La domanda è quando la Russia smetterà semplicemente di rifornire l’Europa.

Sembra che l’Europa stia diventando un’appendice dell’economia statunitense, sopportando in effetti l’onere fiscale della Guerra Fredda 2.0 americana, senza alcuna rappresentanza politica negli Stati Uniti. La soluzione logica è che l’Europa si unisca politicamente agli Stati Uniti, rinunciando ai suoi governi ma almeno portando alcuni europei al Senato e alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti.

Quale ruolo giocano la a) Nuova Guerra Fredda e b) il capitalismo finanziario neoliberista nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina? Secondo la tua recente ricerca.

La guerra USA/NATO in Ucraina è la prima battaglia di quello che sembra un tentativo ventennale di isolare l’area del dollaro occidentale dall’Eurasia e dal sud del mondo. I politici statunitensi promettono di continuare la guerra in Ucraina a tempo indeterminato, sperando che questo possa diventare il “nuovo Afghanistan” della Russia. Ma questa tattica ora sembra che possa minacciare di essere l’Afghanistan dell’America. È una guerra per procura, il cui effetto è quello di bloccare la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti e con l’euro come valuta satellite del dollaro.

La diplomazia statunitense ha cercato di disabilitare la Russia in tre modi principali. In primo luogo, isolandola finanziariamente bloccandola dal sistema di compensazione bancaria SWIFT. La Russia ha risposto passando senza intoppi al sistema di compensazione bancaria cinese. La seconda tattica consisteva nel sequestrare i depositi russi nelle banche statunitensi e le disponibilità di titoli finanziari statunitensi. La Russia ha risposto raccogliendo gli investimenti statunitensi ed europei in Russia a buon mercato mentre l’Occidente li ha scaricati. La terza tattica era impedire ai membri della NATO di commerciare con la Russia. L’effetto è stato che le importazioni russe dall’Occidente sono diminuite, mentre le sue esportazioni di petrolio, gas e cibo sono in aumento. Ciò ha alzato il tasso di cambio del rublo invece di danneggiarlo. E poiché le sanzioni bloccano le importazioni russe dall’Occidente, il presidente Putin ha annunciato che il suo governo investirà molto nella sostituzione delle importazioni. L’effetto sarà una perdita permanente dei mercati russi per i fornitori e gli esportatori europei.

Nel frattempo, le tariffe Trump contro le esportazioni europee verso gli Stati Uniti rimangono in vigore, lasciando all’industria europea opportunità commerciali in diminuzione. La Banca Centrale Europea potrebbe continuare ad acquistare azioni e obbligazioni europee per proteggere la ricchezza dell’1%, ma semmai taglierà la spesa sociale interna per rispettare il limite del 3% di deficit di bilancio che l’Eurozona si è imposta.
Nel medio e lungo periodo, quindi, le sanzioni USA/NATO sono rivolte principalmente all’Europa. E gli europei non sembrano nemmeno rendersi conto di essere le prime vittime di questa nuova guerra economica degli Stati Uniti per il predominio egoistico di energia, cibo e finanza.

In Germania il progetto Nord Stream II è ancora un grosso problema politico. Nel tuo recente articolo online “Il dollaro divora l’euro” hai scritto: “Ora è chiaro che l’odierna escalation della Nuova Guerra Fredda era pianificata più di un anno fa. Il piano americano di bloccare il Nord Stream 2 faceva davvero parte della sua strategia per impedire all’Europa occidentale (“NATO”) di cercare prosperità attraverso scambi e investimenti reciproci con Cina e Russia”. Potresti spiegarlo ai nostri lettori?

Ciò che definisci “blocco del Nord Stream 2” è in realtà una politica Buy-American. Gli Stati Uniti hanno convinto l’Europa a non acquistare gas al prezzo più basso, ma a pagare fino a sette volte di più per il suo gas dai fornitori statunitensi di GNL e a spendere 5 miliardi di dollari per espandere la capacità portuale, che non sarà nemmeno disponibile subito ma nei prossimi anni.

Ciò minaccia un interregno molto scomodo per la Germania e altri paesi europei che seguono i dettami degli Stati Uniti. Fondamentalmente, i parlamenti nazionali sono ora sottomessi alla NATO, le cui politiche sono gestite da Washington.

Un prezzo che l’Europa pagherà, come notato sopra, è il calo del tasso di cambio rispetto al dollaro USA. È probabile che gli investitori europei trasferiscano i loro risparmi e investimenti dall’Europa agli Stati Uniti per massimizzare i loro guadagni in conto capitale ed evitare semplicemente cali di prezzo per le loro azioni e obbligazioni misurate in dollari.

Prof. Hudson, diamo un’occhiata agli ulteriori sviluppi in Germania. A maggio il parlamento tedesco – Bundestag – ha approvato un nuovo disegno di legge: i legislatori tedeschi hanno approvato un possibile esproprio delle società energetiche. Ciò potrebbe consentire al governo di Berlino di mettere le società energetiche sotto amministrazione fiduciaria se non possono più svolgere i loro compiti e se la sicurezza dell’approvvigionamento è a rischio. Secondo REUTERS, la legge rinnovata – che deve ancora passare alla camera alta del parlamento – potrebbe essere applicata per la prima volta se non si trova una soluzione sulla proprietà della raffineria di petrolio PCK Refinery a Schwedt/Oder (Germania dell’Est), che ha come azionista di maggioranza la Rosneft, di proprietà statale russa.

Sembra che l’Europa e l’America confischeranno gli investimenti russi nei loro paesi e venderanno (o faranno confiscare alla Russia) gli investimenti dei paesi NATO in Russia. Ciò significa uno svincolo dell’economia russa dall’Occidente e un legame più stretto con la Cina, che sembra la prossima economia ad essere sanzionata dalla NATO poiché diventa un’Organizzazione del Trattato del Pacifico orientale che coinvolge l’Europa in questo confronto nel Mar Cinese.

Sarei sorpreso se la Russia riprendesse a vendere petrolio e gas all’Europa senza essere rimborsata per ciò che l’Europa (e anche gli Stati Uniti) ha sequestrato. Questa richiesta aiuterebbe a esercitare pressioni europee sugli Stati Uniti affinché restituiscano i 300 miliardi di dollari di riserve estere che hanno sequestrato.

Ma anche dopo un simile accordo di restituzione e riparazione, sembra improbabile che il commercio riprenda. Si è verificato un cambiamento di fase, un cambiamento nella consapevolezza di come il mondo si stia dividendo sotto gli attacchi diplomatici degli Stati Uniti contro alleati e avversari allo stesso modo.

La mia domanda sarebbe: il socialismo è un argomento importante nel tuo nuovo libro. Qual è la tua opinione su quelle misure “socialiste” prese ora da un paese capitalista come la Germania?

Un secolo fa, ci si aspettava che la “fase finale” del capitalismo industriale fosse il socialismo. C’erano molti diversi tipi di socialismo: socialismo di stato, socialismo marxista, socialismo cristiano, socialismo anarchico, socialismo libertario. Ma ciò che accadde dopo la prima guerra mondiale fu l’antitesi del socialismo. Era il capitalismo finanziario e un capitalismo finanziario militarizzato.

Il denominatore comune di tutti i movimenti socialisti, da destra a sinistra dello spettro politico, era una maggiore spesa per le infrastrutture del governo. La transizione al socialismo è stata guidata (negli Stati Uniti e in Germania) dallo stesso capitalismo industriale, che cercava di ridurre al minimo il costo della vita (e quindi il salario di sussistenza di base) e il costo delle attività economiche mediante investimenti del governo in infrastrutture di base, i cui servizi dovevano essere forniti gratuitamente, o almeno a prezzi agevolati.

Tale obiettivo eviterebbe che i servizi di base diventino opportunità di affitto monopolistico. L’antitesi era la dottrina Thatcher-neoliberista della privatizzazione. I governi hanno consegnato servizi di pubblica utilità a investitori privati. Le società sono state acquistate a credito, aggiungendo interessi e altri oneri finanziari ai profitti e pagamenti alla direzione. Il risultato è stato quello di trasformare l’Europa e l’America neoliberali in economie ad alto costo incapaci di competere nei prezzi di produzione con paesi che perseguono politiche socialiste invece del neoliberismo finanziarizzato.

Questa opposizione nei sistemi economici è la chiave per comprendere la frattura globale del mondo di oggi.

In questo momento sono al centro dell’attenzione soprattutto petrolio e gas russi. Mosca richiede pagamenti solo in rublo e sta ampliando il proprio campo di acquirenti riempiendolo di Cina, India o Arabia Saudita. Ma sembra che gli acquirenti occidentali possano ancora pagare in Euro o Dollaro USA. Qual è la tua opinione su questa guerra in corso sulle risorse? Il Rublo sembra essere un vincitore.

Il rublo è certamente in aumento. Ma questo non rende la Russia un “vincitore” se la sua economia viene sconvolta dalle sanzioni che bloccano le proprie importazioni necessarie per il corretto funzionamento delle sue catene di approvvigionamento.

La Russia finirà per vincere se riuscirà a organizzare un programma di sostituzione delle importazioni industriali e a ricreare infrastrutture pubbliche per sostituire ciò che è stato privatizzato sotto la direzione degli Stati Uniti dagli Harvard Boys negli anni ’90.

Vediamo la fine del petrodollaro e l’ascesa di una nuova architettura finanziaria in Oriente accompagnata da un rafforzamento dei BRICS e dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO)?

Ci saranno ancora petrodollari, ma anche una varietà di blocchi dell’area valutaria mentre il mondo de-dollarizza i suoi accordi internazionali di commercio e investimento. Alla fine di maggio, il ministro degli Esteri Lavrov ha affermato che l’Arabia Saudita e l’Argentina vogliono unirsi ai BRICS. Come ha recentemente osservato Pepe Escobar, BRICS+ potrebbe espandersi per includere il MERCOSUR e la Comunità di sviluppo sudafricana (SADC).

Questi accordi probabilmente richiederanno un’alternativa non statunitense al FMI per creare credito e fornire un veicolo per le riserve ufficiali in valuta estera per i paesi non NATO. Il FMI sopravviverà ancora per imporre l’austerità ai paesi satelliti degli Stati Uniti, sovvenzionando la fuga di capitali dai paesi del Sud del mondo e creando DSP per finanziare le spese militari statunitensi all’estero.

L’estate 2022 sarà un banco di prova poiché i paesi del Sud del mondo subiranno una crisi della bilancia dei pagamenti a causa dell’aumento del deficit petrolifero e alimentare insieme ai maggiori costi in valuta nazionale per sostenere i loro debiti in dollari esteri. Il FMI potrebbe offrire loro nuovi DSP per pagare gli obbligazionisti in dollari USA per mantenere viva l’illusione della solvibilità. Ma i paesi SCO possono offrire petrolio e cibo – i paesi IF danno garanzie di ripagare il credito ripudiando i loro debiti in dollari con l’Occidente.

Questa diplomazia finanziaria promette di introdurre “tempi interessanti”.

Nella tua recente intervista a Michael Welch ( “Crisi accidentale?” ) fai un’analisi specifica sull’attualità della guerra Ucraina/Russia: “La guerra non è contro la Russia. La guerra non è contro l’Ucraina. La guerra è contro l’Europa e la Germania”. Potresti per favore approfondire?

Come ho spiegato sopra, le sanzioni commerciali e finanziarie degli Stati Uniti stanno bloccando in Germania la dipendenza dalle esportazioni statunitensi di GNL e dall’acquisto di armi militari statunitensi per potenziare la NATO nell’autorità di governo europea de facto.

L’effetto è quello di distruggere ogni speranza europea di guadagni reciproci di scambi e investimenti con la Russia. Si sta trasformando nel partner junior (molto junior) nelle sue nuove relazioni commerciali e di investimento con gli Stati Uniti sempre più protezionisti e nazionalisti.

Il vero problema per gli Stati Uniti sembra essere questo: “L’unico modo per mantenere la prosperità se non puoi crearla in casa è ottenerla dall’estero”. Qual è la strategia di Washington?

Il mio libro Super Imperialismo ha spiegato come, negli ultimi 50 anni, da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l’oro nell’agosto 1971, lo standard del Treasury Bill ha dato agli Stati Uniti un passaggio gratuito a spese estere. Le banche centrali estere hanno riciclato il loro afflusso di dollari derivante dal disavanzo della bilancia dei pagamenti statunitense in prestiti al Tesoro statunitense, ovvero per acquistare titoli del Tesoro USA per detenere i propri risparmi. Questo accordo ha consentito agli Stati Uniti di intraprendere spese militari straniere per le sue quasi 800 basi militari intorno all’Eurasia senza dover svalutare il dollaro o tassare i propri cittadini. Il costo è stato sostenuto dai paesi le cui banche centrali hanno accumulato prestiti in dollari al Tesoro degli Stati Uniti.

Ma ora che è diventato pericoloso per i paesi detenere depositi bancari statunitensi o titoli di stato o investimenti denominati in dollari se “minacciano” di difendere i propri interessi economici o se le loro politiche divergono da quelle dettate dai diplomatici statunitensi, come può l’America continuare a fare “un giro” gratis?

In effetti, come può importare materiali di base dalla Russia per riempire parti della sua catena di approvvigionamento industriale ed economica che è stata scomposta dalle sanzioni?

Questa è la sfida per la politica estera degli Stati Uniti. In un modo o nell’altro, mira a tassare l’Europa e trasformare altri paesi in satelliti economici. Lo sfruttamento potrebbe non essere così palese come l’accaparramento da parte degli Stati Uniti delle riserve ufficiali venezuelane, afghane e russe. È probabile che implichi la riduzione dell’autosufficienza straniera per costringere altri paesi alla dipendenza economica dagli Stati Uniti, in modo che gli Stati Uniti possano minacciare questi paesi con sanzioni dirompenti se cercano di porre i propri interessi nazionali su ciò che i diplomatici statunitensi vogliono che facciano .

In che modo tutto ciò influenzerà la bilancia dei pagamenti dell’Europa occidentale (Germania / Francia / Italia) e quindi il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro? E perché pensi che l’Unione Europea sia sulla buona strada per diventare il nuovo “Panama, Porto Rico e Liberia”?

L’euro è già una valuta satellite degli Stati Uniti. I suoi paesi membri non possono gestire deficit di bilancio interno per far fronte alla prossima depressione inflazionistica derivante dalle sanzioni sponsorizzate dagli Stati Uniti e dalla conseguente frattura globale.

La chiave si sta rivelando una dipendenza militare. Questa è la “condivisione dei costi” per la Guerra Fredda 2.0 sponsorizzata dagli Stati Uniti. Questa condivisione dei costi è ciò che ha portato i diplomatici statunitensi a rendersi conto che devono controllare la politica interna europea per impedire alle popolazioni e alle imprese di agire nel proprio interesse. La loro stretta economica è un “danno collaterale” alla Nuova Guerra Fredda di oggi.

Un filosofo svizzero ha scritto un saggio critico a metà marzo per il quotidiano socialista tedesco “Neues Deutschland”, ex testata giornalistica del governo della RDT. La signora Tove Soiland ha criticato la sinistra internazionale per i comportamenti attuali riguardo alla crisi ucraina e alla gestione del covid. La sinistra, dice, è troppo pro-governo/stato autoritario – e quindi copia i metodi dei tradizionali partiti di destra. Condividi questo punto di vista? O è troppo duro?

Come risponderesti a questa domanda , esp. per quanto riguarda la tesi del tuo nuovo libro: “… la via alternativa è in larga misura il capitalismo industriale a economia mista che porta al socialismo…”.

Il Dipartimento di Stato e il “potente Wurlitzer” della CIA si sono concentrati sull’acquisizione del controllo dei partiti socialdemocratici e laburisti europei, anticipando che la grande minaccia per il capitalismo finanziario incentrato sugli Stati Uniti sarà il socialismo. Ciò ha incluso le parti “verdi”, al punto che la loro pretesa di opporsi al riscaldamento globale si è rivelata ipocrita alla luce della vasta impronta di carbonio e dell’inquinamento della guerra militare della NATO in Ucraina e delle relative esercitazioni aeree e navali. Non puoi essere favorevole all’ambiente e alla guerra allo stesso tempo!

Ciò ha lasciato i partiti nazionalisti di destra meno influenzati dalle ingerenze politiche statunitensi. È da lì che viene l’opposizione alla NATO, come in Francia e in Ungheria.

E negli stessi Stati Uniti, gli unici voti contrari al nuovo contributo di 30 miliardi di dollari alla spesa militare contro la Russia sono arrivati ​​dai repubblicani. L’intera “squadra” del Partito Democratico di “sinistra” ha votato per la spesa bellica.

I partiti socialdemocratici sono fondamentalmente partiti borghesi i cui sostenitori sperano di salire nella classe rentier, o almeno di diventare investitori azionari e obbligazionari in miniatura. Il risultato è che il neoliberismo è stato guidato da Tony Blair in Gran Bretagna e dai suoi omologhi in altri paesi. Discuto di questo allineamento politico in The Destiny of Civilization.

I propagandisti statunitensi chiamano “autocratici” i governi che mantengono i monopoli naturali come servizi di pubblica utilità. Essere “democratici” significa lasciare che le aziende statunitensi abbiano il controllo di queste vette, essendo “libere” dalla regolamentazione del governo e dalla tassazione del capitale finanziario. Quindi “sinistra” e “destra”, “democrazia” e “autocrazia” sono diventati un vocabolario orwelliano sponsorizzato dall’oligarchia americana (che eufemizza come “democrazia”).

La guerra in Ucraina potrebbe essere un punto di riferimento per mostrare una nuova mappa geopolitica nel mondo? O il neoliberista Nuovo Ordine Mondiale è in ascesa? Come lo vedi?

Come ho risposto alla tua prima domanda, il mondo viene diviso in due parti. Il conflitto non è solo nazionale dell’Occidente contro l’Oriente, ma è un conflitto di sistemi economici: capitalismo finanziario predatorio contro il socialismo industriale che mira all’autosufficienza per l’Eurasia e la SCO.

I paesi non allineati non sono stati in grado di “fare da soli” negli anni ’70 perché mancavano di una massa critica per produrre il proprio cibo, energia e materie prime. Ma ora che gli Stati Uniti hanno deindustrializzato la propria economia e esternalizzato la produzione in Asia, questi paesi hanno la possibilità di non rimanere dipendenti dalla diplomazia del dollaro USA.

FONTE: https://www.acro-polis.it/2022/07/09/lucraina-e-un-trojan-per-la-dipendenza-della-germania-dagli-stati-uniti/

su Michael Hudson: https://www.acro-polis.it/author/michael-hudson/

L’imminente frattura globale causata dallo scontro tra diversi ordini economici

Intervista a Michael Hudson

Il post che segue è la traduzione di un’intervista al prof. Michael Hudson pubblicata su The Unz Review. Un’altra analisi essenziale per comprendere gli avvenimenti epocali che stiamo vivendo e orientarci in un mondo che si fa sempre più complesso, oltre che “grande e terribile”. L’originale lo puoi trovare qui.

Prof. Hudson, è uscito il suo nuovo libro “Il destino della civiltà”. Questo ciclo di conferenze sul capitalismo finanziario e la nuova guerra fredda presenta una panoramica della sua particolare prospettiva geopolitica.

Lei parla di un conflitto ideologico e materiale in corso tra Paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. In che cosa consiste questo conflitto e perché il mondo si trova in questo momento in un “punto di frattura” particolare, come afferma il suo libro?

L’attuale frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: Nell’Occidente USA/NATO, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato l’industria manifatturiera verso la leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri Paesi asiatici, insieme alla Russia che fornisce materie prime di base e armi.

Questi Paesi sono un’estensione di base del capitalismo industriale che si sta evolvendo verso il socialismo, cioè verso un’economia mista con forti investimenti governativi nelle infrastrutture per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altre necessità di base, trattandole come servizi di pubblica utilità con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità.

Nell’Occidente neoliberale degli Stati Uniti e della NATO, invece, questa infrastruttura di base viene privatizzata come un monopolio naturale che estrae rendite.

Il risultato è che l’Occidente USA/NATO è rimasto un’economia ad alto costo, con le spese per la casa, l’istruzione e la sanità sempre più finanziate dal debito, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione del capitale).

Ciò pone un problema esistenziale al capitalismo finanziario occidentale: come può mantenere il tenore di vita di fronte alla deindustrializzazione, alla deflazione del debito e alla ricerca di rendite finanziarizzate che impoveriscono il 99% per arricchire l’1%?

Il primo obiettivo degli Stati Uniti è dissuadere l’Europa e il Giappone dal cercare un futuro più prospero in legami commerciali e di investimento più stretti con l’Eurasia e l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO). Per mantenere l’Europa e il Giappone come economie satelliti, i diplomatici statunitensi insistono su un nuovo muro di Berlino economico fatto di sanzioni per bloccare il commercio tra Est e Ovest.

Per molti decenni la diplomazia statunitense si è intromessa nella politica interna europea e giapponese, sponsorizzando funzionari filo-neoliberali alla guida dei governi. Questi funzionari sentono che il loro destino (e anche la loro fortuna politica personale) è strettamente legato alla leadership statunitense. Nel frattempo, la politica europea è diventata fondamentalmente una politica della NATO gestita dagli Stati Uniti.

Il problema è come tenere il Sud globale – America Latina, Africa e molti Paesi asiatici – nell’orbita USA/NATO. Le sanzioni contro la Russia hanno l’effetto di danneggiare la bilancia commerciale di questi Paesi, aumentando drasticamente i prezzi del petrolio, del gas e dei prodotti alimentari (nonché di molti metalli) che devono importare. Nel frattempo, l’aumento dei tassi di interesse statunitensi sta attirando i risparmi finanziari e il credito bancario verso i titoli denominati in dollari. Questo ha fatto aumentare il tasso di cambio del dollaro, rendendo molto più difficile per i Paesi della SCO e del Sud globale pagare il servizio del debito in dollari in scadenza quest’anno.

Ciò impone a questi paesi una scelta: o rimanere senza energia e cibo per pagare i creditori stranieri – anteponendo così gli interessi finanziari internazionali alla loro sopravvivenza economica interna – o andare in default sul debito, come è successo negli anni ’80 dopo che il Messico ha annunciato nel 1982 di non essere in grado di pagare gli obbligazionisti stranieri.

Come vede l’attuale guerra/operazione militare speciale in Ucraina? Quali conseguenze economiche prevede?

La Russia ha messo in sicurezza l’Ucraina orientale russofona e la costa meridionale del Mar Nero. La NATO continuerà a “punzecchiare l’orso” con sabotaggi e nuovi attacchi in corso, soprattutto da parte di combattenti polacchi.

I Paesi della NATO hanno scaricato in Ucraina le loro armi vecchie e obsolete e ora devono spendere somme immense per modernizzare il loro hardware militare. Il deflusso dei pagamenti al complesso militare-industriale statunitense eserciterà una pressione al ribasso sull’euro e sulla sterlina britannica – il tutto in aggiunta ai loro deficit energetici e alimentari in aumento. Pertanto, l’euro e la sterlina si dirigono verso la parità con il dollaro statunitense. L’euro ci è quasi arrivato (circa 1,07 dollari). Ciò significa un forte aumento dell’inflazione dei prezzi in Europa.

Ho letto e sentito informazioni contrastanti sulle nuove sanzioni. Alcuni esperti, sia a Est che a Ovest, ritengono che questo danneggerà enormemente l’economia nazionale della Federazione Russa. Altri esperti tendono a credere che si ritorceranno contro o avranno un enorme effetto boomerang sui Paesi occidentali.

La politica degli Stati Uniti è quella di lottare contro la Cina, sperando di separare le regioni occidentali degli Uiguri e di dividere la Cina in Stati più piccoli. A tal fine, è necessario eliminare il sostegno militare e di materie prime della Russia alla Cina – e, a tempo debito, suddividerla in una serie di Stati più piccoli (le grandi città occidentali, la Siberia settentrionale, un fianco meridionale, ecc.)

Le sanzioni sono state imposte nella speranza di rendere le condizioni di vita dei russi così sgradevoli da spingerli a cambiare regime. L’attacco della NATO in Ucraina è stato progettato per prosciugare militarmente la Russia – facendo sì che i corpi degli ucraini esaurissero le scorte di proiettili e bombe della Russia, dando le loro vite semplicemente per assorbire le armi russe.

L’effetto è stato quello di aumentare il sostegno russo a Putin, proprio il contrario di ciò che si voleva ottenere. C’è una crescente disillusione nei confronti dell’Occidente, dopo aver visto ciò che gli Harvard Boys hanno fatto alla Russia quando gli Stati Uniti hanno appoggiato Eltsin per creare una classe cleptocratica interna che ha cercato di “incassare” le sue privatizzazioni vendendo all’Occidente azioni del petrolio, del nichel e dei servizi pubblici, per poi stimolare gli attacchi militari dalla Georgia e dalla Cecenia. È opinione comune che la Russia stia compiendo una svolta a lungo termine verso est anziché verso ovest.

L’effetto delle sanzioni e dell’opposizione militare degli Stati Uniti alla Russia è stato quindi quello di imporre una cortina di ferro politica ed economica che ha costretto l’Europa a dipendere dagli Stati Uniti, mentre ha spinto la Russia a unirsi alla Cina invece di separarle. Nel frattempo, il costo delle sanzioni europee contro il petrolio e i prodotti alimentari russi – a tutto vantaggio dei fornitori di gas LNG e degli esportatori agricoli statunitensi – minaccia di creare un’opposizione europea a lungo termine alla strategia globale unipolare degli Stati Uniti. È probabile che si sviluppi un nuovo movimento “Ami go home”.

Per l’Europa, però, il danno è già stato fatto e né la Russia né la Cina probabilmente confidano che i funzionari governativi europei possano resistere alla corruzione e alle pressioni personali esercitate dall’interferenza statunitense.

Qui in Germania sto ascoltando il nuovo ministro dell’Economia, Robert Habeck del partito dei Verdi, che parla di attivare l’”emergenza gas” federale e chiede risorse agli Emirati (questo “accordo” sembra già fallito, dicono le notizie). Vediamo la fine del North Stream II e l’enorme dipendenza di Berlino e Bruxelles dalle risorse russe. Come si concluderà tutto questo?

In effetti, i funzionari statunitensi hanno chiesto alla Germania di commettere un suicidio economico e di provocare una depressione, un aumento dei prezzi al consumo e un abbassamento del tenore di vita. Le aziende chimiche tedesche hanno già iniziato a chiudere la produzione di fertilizzanti, dato che la Germania ha accettato le sanzioni commerciali e finanziarie che le impediscono di acquistare il gas russo (la materia prima per la maggior parte dei fertilizzanti). E le aziende automobilistiche tedesche stanno soffrendo per i tagli alle forniture.

Queste carenze economiche europee sono un enorme vantaggio per gli Stati Uniti, che stanno realizzando enormi profitti grazie al petrolio più costoso (che è controllato in gran parte da compagnie statunitensi, seguite da compagnie petrolifere britanniche e francesi). Il rifornimento di armi che l’Europa ha donato all’Ucraina è anche una manna per il complesso militare-industriale statunitense, i cui profitti sono in aumento.

Ma gli Stati Uniti non stanno riciclando questi guadagni economici verso l’Europa, che sembra la grande perdente.

I produttori di petrolio arabi hanno già respinto le richieste degli Stati Uniti di far pagare meno il loro petrolio. Si prevede che saranno i primi a guadagnare dall’attacco della NATO sul campo di battaglia per procura dell’Ucraina.

Sembra improbabile che la Germania possa semplicemente restituire alla Russia il Nord Stream 2 e le affiliate di Gazprom che hanno condotto scambi commerciali con la Germania. La fiducia è venuta meno. E la Russia ha paura di accettare pagamenti dalle banche europee dopo il furto di 300 miliardi di dollari delle sue riserve estere. L’Europa non è più economicamente sicura per la Russia.

La domanda è quanto presto la Russia smetterà di rifornire l’Europa.

Sembra che l’Europa stia diventando un’appendice dell’economia statunitense, sopportando di fatto il peso fiscale della Guerra Fredda 2.0 americana, senza alcuna rappresentanza politica negli Stati Uniti. La soluzione logica è che l’Europa si unisca agli Stati Uniti dal punto di vista politico, rinunciando ai propri governi ma ottenendo almeno qualche europeo nel Senato e nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti.

Quale ruolo giocano a) la nuova guerra fredda e b) il capitalismo finanziario neoliberale nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina? Secondo la vostra recente ricerca.

La guerra USA/NATO in Ucraina è la prima battaglia di quello che sembra un tentativo ventennale di isolare l’Occidente dell’area del dollaro dall’Eurasia e dal Sud globale. I politici statunitensi promettono di mantenere la guerra in Ucraina a tempo indeterminato, sperando che questa possa diventare il “nuovo Afghanistan” della Russia. Ma questa tattica sembra ora minacciare di diventare l’Afghanistan dell’America. È una guerra per procura, il cui effetto è quello di bloccare la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti come oligarchia cliente, con l’euro come valuta satellite del dollaro.

La diplomazia statunitense ha cercato di mettere fuori gioco la Russia in tre modi principali. In primo luogo, isolandola finanziariamente escludendola dal sistema di compensazione bancaria SWIFT. La Russia ha risposto passando senza problemi al sistema di compensazione bancaria della Cina.

La seconda tattica è consistita nel sequestrare i depositi russi nelle banche statunitensi e i titoli finanziari americani. La Russia ha risposto raccogliendo gli investimenti statunitensi ed europei in Russia a basso costo, mentre l’Occidente li scaricava.

La terza tattica è stata quella di impedire ai membri della NATO di commerciare con la Russia. L’effetto è stato che le importazioni russe dall’Occidente sono diminuite, mentre le esportazioni di petrolio, gas e cibo sono aumentate. Questo ha fatto aumentare il tasso di cambio del rublo, invece di danneggiarlo. Mentre le sanzioni bloccano le importazioni russe dall’Occidente, il Presidente Putin ha annunciato che il suo governo investirà pesantemente nella sostituzione delle importazioni. L’effetto sarà una perdita permanente dei mercati russi per i fornitori e gli esportatori europei.

Nel frattempo, i dazi di Trump contro le esportazioni europee negli Stati Uniti rimangono in vigore, lasciando all’industria europea opportunità commerciali sempre più ridotte. La Banca Centrale Europea potrebbe continuare a comprare azioni e obbligazioni europee per proteggere la ricchezza dell’1%, ma soprattutto taglierà la spesa sociale interna per rispettare il limite del 3% di deficit di bilancio che l’eurozona si è imposta.

Nel medio e lungo periodo, le sanzioni USA/NATO sono quindi rivolte principalmente contro l’Europa. E gli europei non sembrano nemmeno rendersi conto di essere le prime vittime di questa nuova guerra economica degli Stati Uniti per il dominio energetico, alimentare e finanziario.

In Germania lo stop al progetto energetico Nord Stream II è ancora una grande questione politica. Nel suo recente articolo online “Il dollaro divora l’euro” lei ha scritto: “È ormai chiaro che l’odierna escalation della nuova guerra fredda è stata pianificata più di un anno fa. Il piano dell’America di bloccare il Nord Stream 2 era in realtà parte della sua strategia per impedire all’Europa occidentale (“NATO”) di cercare la prosperità attraverso il commercio e gli investimenti reciproci con la Cina e la Russia”. Può spiegare questo ai nostri lettori?

Quello che lei definisce “blocco del Nord Stream 2” è in realtà una politica tesa a favorire i prodotti americani. Gli Stati Uniti hanno convinto l’Europa a non acquistare sul mercato al prezzo più basso, ma a pagare fino a sette volte di più per il gas proveniente dai fornitori statunitensi di LGN e a spendere 5 miliardi di dollari per l’espansione della capacità portuale, che non sarà disponibile prima di un anno.

Questo minaccia un interregno molto scomodo per la Germania e gli altri Paesi europei che seguono i dettami degli Stati Uniti. In sostanza, i parlamenti nazionali sono ora asserviti alla NATO, le cui politiche sono gestite da Washington.

Un prezzo che l’Europa pagherà, come già detto, è il calo del tasso di cambio rispetto al dollaro americano. È probabile che gli investitori europei spostino i loro risparmi e investimenti dall’Europa agli Stati Uniti per massimizzare i guadagni in conto capitale ed evitare semplicemente il calo dei prezzi delle loro azioni e obbligazioni misurati in dollari.

Prof. Hudson, diamo un’occhiata agli ulteriori sviluppi in Germania. A maggio il Parlamento tedesco – Bundestag – ha approvato una nuova legge: I legislatori tedeschi hanno approvato la possibilità di espropriare le aziende energetiche. Ciò potrebbe consentire al governo di Berlino di mettere le aziende energetiche sotto amministrazione fiduciaria se non sono più in grado di svolgere i loro compiti e se la sicurezza dell’approvvigionamento è a rischio. Secondo REUTERS, la legge rinnovata – che deve ancora passare la Camera alta del Parlamento – potrebbe essere applicata per la prima volta se non si trova una soluzione sulla proprietà della raffineria di petrolio PCK Refinery a Schwedt/Oder (Germania dell’Est), che è di proprietà della società statale russa Rosneft.

Sembra che l’Europa e l’America confischeranno gli investimenti russi nei loro Paesi e venderanno (o faranno confiscare dalla Russia) gli investimenti dei Paesi NATO in Russia. Ciò significa un distacco dell’economia russa dall’Occidente e un legame più stretto con la Cina, che sembra essere la prossima economia a essere sanzionata dalla NATO, in quanto quest’ultima diventerà un’Organizzazione del Trattato del Pacifico Orientale che coinvolgerà l’Europa nel confronto nel Mar Cinese.

Sarei sorpreso se la Russia riprendesse a vendere petrolio e gas all’Europa senza essere rimborsata per ciò che l’Europa (e anche gli Stati Uniti) hanno sequestrato. Questa richiesta aiuterebbe l’Europa a fare pressione sugli Stati Uniti affinché restituiscano i 300 miliardi di dollari di riserve estere di cui si sono impossessati.

Ma anche dopo tale accordo di restituzione e risarcimento, è improbabile che il commercio riprenda. Si è verificato un cambiamento di fase, un cambiamento di coscienza su come il mondo si stia dividendo sotto gli attacchi diplomatici degli Stati Uniti sia agli alleati che agli avversari.

La mia domanda sarebbe: Il socialismo è un tema importante nel suo nuovo libro. Qual è la sua opinione sulle misure “socialiste” adottate ora da un Paese capitalista come la Germania?

Un secolo fa si pensava che lo “stadio finale” del capitalismo industriale fosse il socialismo. Esistevano diversi tipi di socialismo: Socialismo di Stato, socialismo marxiano, socialismo cristiano, socialismo anarchico, socialismo libertario. Ma ciò che si verificò dopo la Prima Guerra Mondiale fu l’antitesi del socialismo. Era il capitalismo finanziario e un capitalismo finanziario militarizzato.

Il denominatore comune di tutti i movimenti socialisti, da destra a sinistra dello spettro politico, era il rafforzamento della spesa pubblica per le infrastrutture. La transizione verso il socialismo era guidata (negli Stati Uniti e in Germania) dallo stesso capitalismo industriale, che cercava di ridurre al minimo il costo della vita (e quindi il salario di base) e il costo dell’attività economica attraverso investimenti statali nelle infrastrutture di base, i cui servizi dovevano essere forniti gratuitamente, o almeno a prezzi sovvenzionati.

Questo obiettivo avrebbe impedito ai servizi di base di diventare opportunità di rendita monopolistica. L’antitesi era la dottrina Thatcher-neoliberista della privatizzazione. I governi cedettero i servizi pubblici agli investitori privati. Le aziende sono state acquistate a credito, aggiungendo interessi e altri oneri finanziari ai profitti e ai pagamenti al management. Il risultato è stato quello di trasformare l’Europa e l’America neoliberiste in economie ad alto costo, incapaci di competere nei prezzi di produzione con i Paesi che perseguono politiche socialiste invece del neoliberismo finanziarizzato.

Questa contrapposizione tra sistemi economici è la chiave per comprendere l’attuale frattura mondiale.

Soprattutto il petrolio e il gas russi sono al centro dell’attenzione in questo momento. Mosca richiede pagamenti solo in rubli e sta ampliando il suo campo di acquirenti con Cina, India o Arabia Saudita. Ma sembra che gli acquirenti occidentali possano ancora pagare in euro o in dollari. Qual è la sua opinione su questa guerra delle risorse in corso? Il rublo sembra essere il vincitore.

Il rublo sta certamente salendo. Ma questo non fa della Russia un “vincitore” se la sua economia viene sconvolta dalle sanzioni che bloccano le importazioni necessarie al buon funzionamento delle sue catene di approvvigionamento.

La Russia risulterà vincente se sarà in grado di organizzare un programma di sostituzione delle importazioni industriali e di ricreare infrastrutture pubbliche per sostituire quelle che sono state privatizzate sotto la direzione degli Stati Uniti dagli Harvard Boys negli anni Novanta.

Vediamo la fine del petrodollaro e l’ascesa di una nuova architettura finanziaria a est, accompagnata dal rafforzamento dei BRICS e della Shanghai Cooperation Organization (SCO)?

Ci saranno ancora i petrodollari, ma anche una serie di blocchi di aree valutarie, man mano che il mondo de-dollarizza i suoi accordi di commercio e investimento internazionale. A fine maggio, il ministro degli Esteri Lavrov ha dichiarato che l’Arabia Saudita e l’Argentina vogliono unirsi ai BRICS. Come ha recentemente osservato Pepe Escobar, il BRICS+ potrebbe espandersi fino a includere il MERCOSUR e la Comunità di sviluppo del Sudafrica (SADC).

Questi accordi probabilmente richiederanno un’alternativa non statunitense al FMI per creare credito e fornire un veicolo per le riserve ufficiali di valuta estera per i Paesi non appartenenti alla NATO. Il FMI sopravviverà ancora per imporre l’austerità ai Paesi satellite degli Stati Uniti, sovvenzionando al contempo la fuga di capitali dai Paesi del Sud globale e creando DSP per finanziare le spese militari statunitensi all’estero.

L’estate del 2022 sarà un banco di prova, poiché i Paesi del Sud globale subiranno una crisi della bilancia dei pagamenti a causa dell’aumento dei deficit petroliferi e alimentari e dei maggiori costi in valuta nazionale per il mantenimento del debito in dollari. Il FMI potrebbe offrire loro nuovi DSP per pagare gli obbligazionisti in dollari per mantenere l’illusione della solvibilità. Ma i Paesi della SCO possono offrire petrolio e cibo – SE i Paesi garantiscono di ripagare il credito ripudiando i loro debiti in dollari con l’Occidente.

Questa diplomazia finanziaria promette di introdurre “tempi interessanti”.

Nella sua recente intervista con Michael Welch (“Accidental Crisis?“) lei ha un’analisi specifica sugli attuali eventi in Ucraina/Russia: “La guerra non è contro la Russia. La guerra non è contro l’Ucraina. La guerra è contro l’Europa e la Germania”. Potrebbe approfondire questo punto?

Come ho spiegato in precedenza, le sanzioni commerciali e finanziarie degli Stati Uniti stanno costringendo la Germania a dipendere dalle esportazioni statunitensi di GNL e dall’acquisto di armi militari statunitensi per trasformare la NATO in un’autorità di governo europea de facto.

L’effetto è quello di distruggere ogni speranza europea di guadagni reciproci in termini di commercio e investimenti con la Russia. L’Europa si sta trasformando in un junior partner (molto junior) nelle sue nuove relazioni commerciali e di investimento con gli Stati Uniti, sempre più protezionisti e nazionalisti.

Il vero problema degli Stati Uniti sembra essere questo: “L’unico modo per mantenere la prosperità se non si riesce a crearla in patria è ottenerla dall’estero”. Qual è la strategia di Washington?

Il mio libro Super Imperialismo ha spiegato come, negli ultimi 50 anni, da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l’oro nell’agosto del 1971, lo standard dei Buoni del Tesoro americano abbia dato agli Stati Uniti un giro gratuito a spese dell’estero. Le banche centrali straniere hanno riciclato l’afflusso di dollari derivante dal deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti in prestiti al Tesoro americano, cioè nell’acquisto di titoli del Tesoro americano per custodire i propri risparmi. Questo accordo ha permesso agli Stati Uniti di intraprendere spese militari all’estero per le loro quasi 800 basi militari in Eurasia senza dover deprezzare il dollaro o tassare i propri cittadini. Il costo è stato sostenuto dai Paesi le cui banche centrali hanno accumulato prestiti in dollari al Tesoro americano.

Ma ora che è diventato pericoloso per i Paesi detenere depositi bancari o titoli di Stato o investimenti statunitensi denominati in dollari se “minacciano” di difendere i propri interessi economici o se le loro politiche divergono da quelle dettate dai diplomatici statunitensi, come può l’America continuare ad avere un giro gratis?

Infatti, come può importare materiali di base dalla Russia per riempire parti della sua catena di approvvigionamento industriale ed economico che è stata interrotta dalle sanzioni?

Questa è la sfida per la politica estera degli Stati Uniti. In un modo o nell’altro, essa mira a tassare l’Europa e a trasformare altri Paesi in satelliti economici. Lo sfruttamento potrebbe non essere così palese come l’accaparramento da parte degli Stati Uniti delle riserve ufficiali venezuelane, afghane e russe. È probabile che si tratti di ridurre l’autosufficienza estera per costringere altri Paesi a dipendere economicamente dagli Stati Uniti, in modo che questi ultimi possano minacciare sanzioni dirompenti se cercano di anteporre i propri interessi nazionali a ciò che i diplomatici statunitensi vogliono che facciano.

Come influirà tutto questo sulla bilancia dei pagamenti dell’Europa occidentale (Germania / Francia / Italia) e quindi sul tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro? E perché pensa che l’Unione Europea si stia avviando a diventare una nuova “Panama, Porto Rico e Liberia”?

L’euro è già una moneta satellite degli Stati Uniti. I suoi paesi membri non sono in grado di gestire i deficit di bilancio interni per far fronte all’imminente depressione inflazionistica derivante dalle sanzioni sponsorizzate dagli Stati Uniti e dalla conseguente frattura globale.

La chiave si sta rivelando la dipendenza militare. Si tratta di una “condivisione dei costi” per la Guerra Fredda 2.0 sponsorizzata dagli Stati Uniti. Questa condivisione dei costi è ciò che ha portato i diplomatici statunitensi a rendersi conto di dover controllare la politica interna europea per impedire alle popolazioni e alle imprese di agire nel proprio interesse. La loro compressione economica è un “danno collaterale” dell’attuale Nuova Guerra Fredda.

Una filosofa svizzera ha scritto a metà marzo un saggio critico per il giornale socialista tedesco “Neues Deutschland”, ex organo di informazione del governo della DDR. Tove Soiland ha criticato la sinistra internazionale per l’attuale comportamento in merito alla crisi ucraina e alla gestione del Covid. La sinistra, a suo dire, è troppo favorevole a governi/stati autoritari, copiando così i metodi dei tradizionali partiti di destra. Condividete questo punto di vista? O è troppo severa?

Come risponderebbe a questa domanda, soprattutto per quanto riguarda la tesi del suo nuovo libro: “… il percorso alternativo è un capitalismo industriale a economia mista che porta al socialismo…”.

Il Dipartimento di Stato e il “potente altoparlante” della CIA si sono concentrati sull’acquisizione del controllo dei partiti socialdemocratici e laburisti europei, prevedendo che la grande minaccia al capitalismo finanziario incentrato sugli Stati Uniti sarebbe stato il socialismo. Questo ha incluso i partiti “verdi”, al punto che la loro pretesa di opporsi al riscaldamento globale si è dimostrata ipocrita alla luce della vasta impronta di carbonio e dell’inquinamento della guerra militare della NATO in Ucraina e delle relative esercitazioni aeree e navali. Non si può essere a favore dell’ambiente e della guerra allo stesso tempo!

Questo ha lasciato i partiti nazionalisti di destra meno influenzati dall’ingerenza politica degli Stati Uniti. È da qui che proviene l’opposizione alla NATO, come in Francia e in Ungheria.

E negli stessi Stati Uniti, gli unici voti contrari al nuovo contributo di 30 miliardi di dollari alle spese militari contro la Russia sono arrivati dai repubblicani. L’intera “squadra di sinistra” del Partito Democratico ha votato a favore della spesa bellica.

I partiti socialdemocratici sono fondamentalmente partiti borghesi i cui sostenitori sperano di entrare nella classe dei rentier, o almeno di diventare investitori in azioni e obbligazioni in miniatura. Il risultato è che il neoliberismo è stato guidato da Tony Blair in Gran Bretagna e dai suoi omologhi in altri Paesi. Discuto di questo allineamento politico in Il destino della civiltà.

I propagandisti statunitensi definiscono “autocratici” i governi che mantengono i monopoli naturali come servizi pubblici. Essere “democratici” significa lasciare che le imprese statunitensi controllino queste altezze di comando, essendo “libere” dalla regolamentazione governativa e dalla tassazione del capitale finanziario. Così “sinistra” e “destra”, “democrazia” e “autocrazia” sono diventati un vocabolario orwelliano in doppia lingua sponsorizzato dall’oligarchia americana (che eufemizza come “democrazia”).

La guerra in Ucraina potrebbe essere un punto di riferimento per mostrare una nuova mappa geopolitica del mondo? Oppure il Nuovo Ordine Mondiale neoliberista è in ascesa? Come lo vede?

Come ho spiegato nella domanda n. 1, il mondo si sta dividendo in due parti. Il conflitto non è solo nazionale, Occidente contro Oriente, ma è un conflitto di sistemi economici: il capitalismo finanziario predatorio contro il socialismo industriale che mira all’autosufficienza dell’Eurasia e della SCO.

I Paesi non allineati non erano in grado di “andare avanti da soli” negli anni ’70 perché non avevano una massa critica per produrre autonomamente cibo, energia e materie prime. Ma ora che gli Stati Uniti hanno deindustrializzato la propria economia ed esternalizzato la produzione in Asia, questi Paesi hanno la possibilità di non rimanere dipendenti dalla diplomazia del dollaro statunitense.

FONTE: https://pensieriprovinciali.wordpress.com/

L’UMANITÀ CONTRO LA NATO! COMUNICAZIONE ALL’OPINIONE PUBBLICA

In vista del vertice NATO di giugno che si terrà a Madrid il 29 e 30 giugno 2022 e dell’espansione di questa organizzazione criminale in Svezia e Finlandia, è urgente coordinare e progettare azioni di protesta durante il vertice in tutti i paesi e preparare il terreno con dibattiti, manifestazioni, “agit prop” e altre azioni. Molto importanti i dibattiti e le interviste con vari attivisti, relatori, per denunciare la NATO come braccio armato del capitale. Occorre promuovere la lotta alla presenza di basi militari straniere sul territorio spagnolo, italiano, tedesco, francese, nonché la lotta per l’uscita dalla NATO prima e il suo scioglimento poi. Non ci può essere una politica di sicurezza comune finché esiste la NATO.

Intellettuali, personalità, pacifisti, politici e leader di diversi paesi denunciano l’espansione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e si uniscono al clamore globale per la pace di fronte agli eventi nell’Europa orientale e chiedono la democratizzazione dell’ONU al fine di metterlo nell’interesse dell’umanità.

Il “Communiqué à la public opinion”, firmato da cittadini di decine di paesi, descrive la NATO come l’ala armata del capitalismo neoliberista e respinge anche le misure coercitive unilaterali imposte dalle grandi potenze mondiali.

Infine, è stato evidenziato che il suddetto comunicato, che già sta circolando nei diversi continenti del pianeta, è il preambolo di una serie di azioni che verranno attuate per rivelare il carattere genocida di questa Organizzazione, per ripudiare la proliferazione delle sue basi militari, oltre a chiederne lo smantellamento per preservare l’autodeterminazione dei popoli e la pace nel mondo.

Cronica Digitale
Santiago del Cile, 15 marzo 2022

COMUNICAZIONE ALL’OPINIONE PUBBLICA

CONSIDERANDO:

PRIMO . Che lo scontro militare nell’Europa orientale rappresenti un doloroso dramma umano che piange molte famiglie, così come la perdita di alloggi e notevoli danni economici per la popolazione dell’Ucraina e della Federazione Russa.

SECONDO. Che l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), convertita nel braccio militare del capitalismo neoliberista, estenda le sue armi di distruzione di massa in tutta Europa e nei territori di altri continenti, una questione che genera una minaccia per la vita, la sovranità dei popoli e la pace nel mondo . Indubbiamente, questo fatto contribuisce a spiegare la grave situazione politico-militare che il mondo sta vivendo oggi.

IN TERZO LUOGO. Che le misure coercitive unilaterali attuate dalle potenze occidentali costituiscono una flagrante violazione dei diritti umani. Allo stesso modo, tali misure costituiscono un attacco ai principi dell’autodeterminazione dei popoli, dell’uguaglianza tra gli Stati e della composizione pacifica delle controversie internazionali. Principi contenuti nel diritto internazionale pubblico e tutelati dalla Carta delle Nazioni Unite (ONU).

CONDIVIDIAMO QUANTO SEGUE:

PRIMO . Esprimiamo le nostre sentite parole di solidarietà alle famiglie che hanno perso i loro cari negli scontri armati nell’Europa orientale. Ci uniamo, come cittadini del mondo, al clamore dell’umanità che chiede il rispetto degli “Accordi di Minsk” sulla base di una soluzione pacifica e negoziata del conflitto tra NATO e Federazione Russa.

SECONDO. Condanna l’espansionismo della NATO, la proliferazione delle sue basi militari nel mondo e, soprattutto, unisciti alle nostre voci nel respingere il dispiegamento di armi nucleari. Deplorare inoltre con la massima fermezza l’uso di mercenari in guerra da parte delle grandi potenze e ripudiare la fornitura di materiale bellico alle parti coinvolte, poiché ciò contribuisce a un’escalation del conflitto.

TERZO. Chiedere l’immediata cessazione delle misure coercitive unilaterali contro i popoli del mondo, poiché si tratta di azioni neocoloniali che violano l’ordinamento giuridico internazionale che colpiscono ciecamente la popolazione e minano i diritti umani.

QUARTO. Proporre di ripensare l’ONU per farne un’istituzione veramente democratica e rispondente ai sacri interessi dell’umanità. In questo senso, va notato che la libertà di espressione e il diritto alla vita sono beni giuridici protetti dal diritto internazionale pubblico e sono parte integrante della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Chiediamo che l’ONU richieda il rispetto della vita e la fine della censura dei media da parte delle maggiori potenze.

Sottoscrizioni al 15 marzo 2022:

Frei Betto (Brasil), Enrique Dussel (Argentina), Dip. Diosdado Cabello Rondón (1 Vice-Presidente del PSUV), Ignacio Ramonet (Francia), Atilio Borón (Argentina), Fernando Buen Abad (México), Stella Calloni (Argentina), Nestor Kohan (Argentina), Dip. Julio Chávez (Venezuela), Ángeles Maestro Martín (España), Dip. Tania Díaz (Venezuela), Iñaky Gil De San Vicente (Euskal Herria), Gobernador Freddy Bernal (Venezuela), Ramón Grosfoguel (Puerto Rico), Dip. Jesús Faría (Venezuela), Héctor Díaz Polanco (México), Dip. Francisco Torrealba (Venezuela), Senadora Piedad Córdoba (Colombia), Fernando Rivero (Venezuela), Hernando Calvo Ospina (Colombia), Narciso Isa Conde (República Dominicana), Gobernador Gerardo Márquez (Venezuela), Pablo Sepulveda Allende (Chile), Dip. Blanca Eekhout (Venezuela), Rafael Bautista Segales (Bolivia), Gobernador Miguel Rodríguez (Venezuela), Carlos Aznarez (Argentina), Carlos Casanueva (Chile), Ingrid Carmona (Venezuela), Tatiana Pérez (Periodista TeleSUR-Colombia), Dip. Giuseppe Alessandrello (Venezuela), Fernando Bossi (Argentina), Dip. Fernando Soto Rojas (Venezuela), Fernando Casado (España), Dip. María León (Venezuela), René Ortiz (Mexico-Morena), Hugo Moldiz (Bolivia), Rommel Díaz (México), Dip. Carolina Cestari (Venezuela), Txema Sánchez (España), Danny Shaw (Estados Unidos), Padre Numa Molina (Venezuela), Gloria Gaitán (Colombia), Dip. Ángel Rodríguez (Presidente del Parlatino-Capítulo Venezuela), Issam Khawaja (VicePresidente del Partido Unidad Popular Democrático-Jordania), Dip. Desiree Santos Amaral (Venezuela), Dip. Macos Choque (Secretario General JMAS-IPSP), Dip. Gustavo Villapol (Venezuela), Constituyente Hugo Gutiérrez (Chile), Gabriela Cultelli (Uruguay), Alcalde Donald Donaire (Venezuela), Mark Burton (Estados Unidos), Dip. Renán Cabeza (MAS-Bolivia), Alcalde Ramón Piñango (Venezuela), Carlos Morais (Galiza), Pedro Carvajalino (Venezuela), Leonard Fores (Estados Unidos), Lourdes Contreras (República Dominicana), Benjamín Prado (Estados Unidos), Martín Guerra (Partido Izquierda Socialista-Perú), Dip. Yasneidy Guarnieri (Venezuela), Kassim Saleh (Libano), Osly Hernández (Venezuela), Juan Carlos Tanus (Colombia), Ermelinda Malcotte (Bégica), Dick Emanuelson (Suecia), Concejal Roswill Guacaran (Venezuela), Manuel Zarate (Panamá), Edson Carneiro Índio (Inter-Sindical-Brasil), Dip. Pedro Lander (Venezuela), Xadeni Méndez (México), Dip. Ricardo González (Venezuela), Daniela Genovez (El Salvador), Geraldine Colotti (Italia), Iván Mcgregor (Venezuela), Miguel Sandoval (Guatemala), Eduardo Idrovo (Ecuador), Cesar Quiróz (Chile), Irene León (Ecuador), Fatima Rallo Gutierrez (Paraguay), Nayor López (México), Dip. Ismael Morales (Venezuela), Katú Arconada (Euska Herria), Melania Ferreira (MDP República Dominicana), Adrian Sotelo Valencia (CELA-México), Yosman Colina (Venezuela), José Amesty (Costa Rica), Jorge Kreines (Secretario Relaciones Internacionales de Partido Comunista de Argentina), Maribel Nuñez Valdez (República Dominicana), Malick Gueye (España), Omar Cid (Chile), William Capó (Veneuzuela), Virtudes De La Rosa (Directora del Centro de Genero UASD-RD), Alejandro Rusconi (Movimiento Evita), Héctor Tajan (Venezuela), Yoselin Mateo (República Dominicana), Cristian Cuevas (Chile), Rosa Rodríguez (República Dominicana), Tajan Cabrera (Uruguay), Desiree Sequera (Venezuela), Isis Amador Campusano (República Dominicana), Roberto Muñoz (Centro de Estudios Francisco Bilbao Chile), Alfredo Pierre (RD), Alina Duarte (México), Ángel Prieto (Venezuela), Esteban Silva (Chile), Eliecer Jimenez Julio (Suiza), Anabel Díaz (Venezuela), Necxy De León (República Dominicana), Luis Carvajal (RD), Fernando Figueredo Sánchez (RD), María Fernanda Cautivo (Chile), Francisca Peguero (República Dominicana), Fermin Santxez (Euska Herria), Luis González (RD), Ishak Khoury (Palestina), Litbell Díaz Aché (Venezuela), Xiomara Peralta (República Dominicana), Ildefonso Finol (Venezuela), Kenia Ferreras (República Dominicana), Gilberto López (México), Xavier Sarabia (Venezuela), Elsa Sánchez (RD), José Félix (RD), Julio Ortega (RD), Roberto Bermudez Pellegrin (Chile), Alí Rojas (Venezuela), Lilian Oviedo (RD), Raynelda Rodríguez (RD), Luis Atenas Baeza (Chile), Alba Granada North Africa ( Túnez)

Per aderire a questa iniziativa scrivere a :

Ciudadanosdelmundo200@gmail.com

FONTE: https://albagranadanorthafrica.wordpress.com/2022/05/19/communication-a-lopinion-publique-lhumanite-contre-lotan/


En vue du sommet de l ‘OTAN juin qui se tiendra à Madrid le 29 et 30 Juin 2022 et de l’elargissement de cette organisation criminelle à la Suède et à la Finlande, il est urgent de coordonner et concevoir des actions de protestation pendant le sommet dans tous les pays, et préparer, le terrain avec des débats, des manifestations, des «agit prop» et d’autres actions. Les débats et les entretiens avec différents militants, intervenants , pour dénoncer l’OTAN comme le bras armé du capital sont tres importants. Il est nécessaire de promouvoir la lutte contre la présence de bases militaires étrangères sur le territoire Espagnol, Italien , Allemand, Français.. ainsi que la lutte pour la sortie de l’OTAN d’abord et sa dissolution ensuite. Il ne peut y avoir de politique de sécurité commune tant que l’OTAN existe.

Des intellectuels, des personnalités, des pacifistes, des responsables politiques et des dirigeants de différents pays dénoncent l’élargissement de l’Organisation du traité de l’Atlantique Nord (OTAN), et se joignent à la clameur mondiale pour la paix face aux événements en Europe de l’Est et exigent la démocratisation de l’ONU afin de la mettre aux intérêts de l’humanité.

Le «Communiqué à l’opinion publique», signé par les citoyens de dizaines de pays, qualifie l’OTAN de bras armé du capitalisme néolibéral et rejette également les mesures coercitives unilatérales imposées par les grandes puissances du monde.

Enfin, il a été signalé que le communiqué susmentionné, qui circule déjà dans les différents continents de la planète, est le préambule d’un ensemble d’actions qui seront menées pour révéler le caractère génocidaire de cette Organisation, répudier la prolifération de ses effectifs militaires bases, ainsi que demander son démantèlement pour préserver l’autodétermination des peuples et la paix dans le monde.

Crónica Digital
Santiago du Chili, 15 mars 2022

COMMUNICATION A L’OPINION PUBLIQUE

CONSIDÉRANT

PREMIEREMENT . Que la confrontation militaire en Europe de l’Est représente un drame humain douloureux qui endeuille de nombreuses familles, ainsi que la perte de logements et des dommages économiques importants à la population de l’Ukraine et de la Fédération de Russie.

DEUXIÈMEMENT . Que l’Organisation du Traité de l’Atlantique Nord (OTAN), convertie en bras militaire du capitalisme néolibéral, étende ses armes de destruction massive à travers l’Europe et les territoires des autres continents, une question qui génère une menace pour la vie, la souveraineté des peuples et le monde paix. Sans aucun doute, ce fait contribue à expliquer la grave situation politico-militaire que connaît le monde aujourd’hui.

TROISIÈMEMENT. Que les mesures coercitives unilatérales mises en œuvre par les puissances occidentales constituent une violation flagrante des droits de l’homme. De même, de telles mesures constituent une atteinte aux principes d’autodétermination des peuples, d’égalité entre les États et de règlement pacifique des différends internationaux. Principes contenus dans le droit international public et protégés par la Charte de l’Organisation des Nations Unies (ONU).

NOUS CONCORDONS QUE

PREMIEREMENT . Exprimons nos paroles de solidarité les plus sincères aux familles qui ont perdu des êtres chers lors des affrontements armés en Europe de l’Est. Nous nous joignons, en tant que citoyens du monde, à la clameur de l’humanité qui exige le respect des «Accords de Minsk» sur la base d’une solution pacifique et négociée au conflit entre l’OTAN et la Fédération de Russie.

DEUXIÈMEMENT. Condamner l’expansionnisme de l’OTAN, la prolifération de ses bases militaires dans le monde et surtout, joindre nos voix au rejet du déploiement des armes nucléaires. De plus, déplorer dans les termes les plus vifs l’utilisation de mercenaires dans la guerre par les grandes puissances et répudier la fourniture de matériel de guerre aux parties en présence, car cela contribue à une escalade du conflit.

TROISIÈMEMENT . Exigez la cessation immédiate des mesures coercitives unilatérales contre les peuples du monde, car ce sont des actions néocoloniales qui violent l’ordre juridique international qui affectent aveuglément la population et portent atteinte aux droits de l’homme.

QUATRIÈMEMENT. Proposer de repenser l’ONU afin d’en faire une institution véritablement démocratique et en correspondance avec les intérêts sacrés de l’humanité. En ce sens, il convient de noter que la liberté d’expression et le droit à la vie sont des biens juridiques protégés par le droit international public et font partie intégrante de la Déclaration universelle des droits de l’homme. Nous exigeons que l’ONU exige des grandes puissances le respect de la vie et la fin de la censure des médias.

Le quinzième (15) mars 2022, à l’appui de la convention, signent :

Frei Betto (Brasil), Enrique Dussel (Argentina), Dip. Diosdado Cabello Rondón (1 Vice-Presidente del PSUV), Ignacio Ramonet (Francia), Atilio Borón (Argentina), Fernando Buen Abad (México), Stella Calloni (Argentina), Nestor Kohan (Argentina), Dip. Julio Chávez (Venezuela), Ángeles Maestro Martín (España), Dip. Tania Díaz (Venezuela), Iñaky Gil De San Vicente (Euskal Herria), Gobernador Freddy Bernal (Venezuela), Ramón Grosfoguel (Puerto Rico), Dip. Jesús Faría (Venezuela), Héctor Díaz Polanco (México), Dip. Francisco Torrealba (Venezuela), Senadora Piedad Córdoba (Colombia), Fernando Rivero (Venezuela), Hernando Calvo Ospina (Colombia), Narciso Isa Conde (República Dominicana), Gobernador Gerardo Márquez (Venezuela), Pablo Sepulveda Allende (Chile), Dip. Blanca Eekhout (Venezuela), Rafael Bautista Segales (Bolivia), Gobernador Miguel Rodríguez (Venezuela), Carlos Aznarez (Argentina), Carlos Casanueva (Chile), Ingrid Carmona (Venezuela), Tatiana Pérez (Periodista TeleSUR-Colombia), Dip. Giuseppe Alessandrello (Venezuela), Fernando Bossi (Argentina), Dip. Fernando Soto Rojas (Venezuela), Fernando Casado (España), Dip. María León (Venezuela), René Ortiz (Mexico-Morena), Hugo Moldiz (Bolivia), Rommel Díaz (México), Dip. Carolina Cestari (Venezuela), Txema Sánchez (España), Danny Shaw (Estados Unidos), Padre Numa Molina (Venezuela), Gloria Gaitán (Colombia), Dip. Ángel Rodríguez (Presidente del Parlatino-Capítulo Venezuela), Issam Khawaja (VicePresidente del Partido Unidad Popular Democrático-Jordania), Dip. Desiree Santos Amaral (Venezuela), Dip. Macos Choque (Secretario General JMAS-IPSP), Dip. Gustavo Villapol (Venezuela), Constituyente Hugo Gutiérrez (Chile), Gabriela Cultelli (Uruguay), Alcalde Donald Donaire (Venezuela), Mark Burton (Estados Unidos), Dip. Renán Cabeza (MAS-Bolivia), Alcalde Ramón Piñango (Venezuela), Carlos Morais (Galiza), Pedro Carvajalino (Venezuela), Leonard Fores (Estados Unidos), Lourdes Contreras (República Dominicana), Benjamín Prado (Estados Unidos), Martín Guerra (Partido Izquierda Socialista-Perú), Dip. Yasneidy Guarnieri (Venezuela), Kassim Saleh (Libano), Osly Hernández (Venezuela), Juan Carlos Tanus (Colombia), Ermelinda Malcotte (Bégica), Dick Emanuelson (Suecia), Concejal Roswill Guacaran (Venezuela), Manuel Zarate (Panamá), Edson Carneiro Índio (Inter-Sindical-Brasil), Dip. Pedro Lander (Venezuela), Xadeni Méndez (México), Dip. Ricardo González (Venezuela), Daniela Genovez (El Salvador), Geraldine Colotti (Italia), Iván Mcgregor (Venezuela), Miguel Sandoval (Guatemala), Eduardo Idrovo (Ecuador), Cesar Quiróz (Chile), Irene León (Ecuador), Fatima Rallo Gutierrez (Paraguay), Nayor López (México), Dip. Ismael Morales (Venezuela), Katú Arconada (Euska Herria), Melania Ferreira (MDP República Dominicana), Adrian Sotelo Valencia (CELA-México), Yosman Colina (Venezuela), José Amesty (Costa Rica), Jorge Kreines (Secretario Relaciones Internacionales de Partido Comunista de Argentina), Maribel Nuñez Valdez (República Dominicana), Malick Gueye (España), Omar Cid (Chile), William Capó (Veneuzuela), Virtudes De La Rosa (Directora del Centro de Genero UASD-RD), Alejandro Rusconi (Movimiento Evita), Héctor Tajan (Venezuela), Yoselin Mateo (República Dominicana), Cristian Cuevas (Chile), Rosa Rodríguez (República Dominicana), Tajan Cabrera (Uruguay), Desiree Sequera (Venezuela), Isis Amador Campusano (República Dominicana), Roberto Muñoz (Centro de Estudios Francisco Bilbao Chile), Alfredo Pierre (RD), Alina Duarte (México), Ángel Prieto (Venezuela), Esteban Silva (Chile), Eliecer Jimenez Julio (Suiza), Anabel Díaz (Venezuela), Necxy De León (República Dominicana), Luis Carvajal (RD), Fernando Figueredo Sánchez (RD), María Fernanda Cautivo (Chile), Francisca Peguero (República Dominicana), Fermin Santxez (Euska Herria), Luis González (RD), Ishak Khoury (Palestina), Litbell Díaz Aché (Venezuela), Xiomara Peralta (República Dominicana), Ildefonso Finol (Venezuela), Kenia Ferreras (República Dominicana), Gilberto López (México), Xavier Sarabia (Venezuela), Elsa Sánchez (RD), José Félix (RD), Julio Ortega (RD), Roberto Bermudez Pellegrin (Chile), Alí Rojas (Venezuela), Lilian Oviedo (RD), Raynelda Rodríguez (RD), Luis Atenas Baeza (Chile), Alba Granada North Africa ( Túnez)

Pour adhérer à cette initiative écrire à :

Ciudadanosdelmundo200@gmail.com

Guerra in Ucraina. Cannonate sull’Africa

di Francesco Gesualdi

( da Avvenire, venerdì 6 maggio 2022)

Lo sconquasso economico provocato dall’aggressione russa all’Ucraina, sta riscrivendo la geopolitica del gas facendo salire d’importanza alcune nazioni africane che fino a ieri giocavano ruoli minori sullo scacchiere energetico e dunque sulla scena del mondo.

Fra essi l’Angola, il Congo, il Mozambico, che molti Paesi europei, anche l’Italia, stanno aggiungendo alla lista dei propri fornitori, per ridurre la propria dipendenza dal gas russo. Qualcuno ha definito i prodotti minerari ed energetici ‘sterco del diavolo’, per fare intendere che dietro queste risorse spesso si celano trame corruttive e di latrocinio che arricchiscono solo piccole élite senza fare arrivare benefici alle popolazioni locali. Ma questo genere di informazioni non trova accoglienza negli indicatori di contabilità nazionale e chi pretendesse di valutare lo stato di salute delle economie basandosi solo sui numeri del Pil e delle esportazioni, potrebbe concludere che certi paesi africani hanno ottenuto vantaggi dalla crisi bellica in cui è piombata l’Europa.
Invece no.
In un articolo pubblicato sul suo blog, il Fondo Monetario Internazionale sostiene che tutta l’Africa subsahariana sta subendo pesanti effetti negativi a causa della guerra scoppiata in Europa. Tesi basata su tre elementi: il prezzo del cibo, il prezzo dei prodotti petroliferi, il peggioramento del debito.
I lettori di Avvenire sono già infornati su questo, ma è bene ricapitolare.
In quest’area del mondo l’85% del grano consumato è d’importazione, non di rado principalmente dalla Russia e dall’Ucraina. In Kenya, ad esempio, il 33% del grano importato proviene da questi due Paesi, mentre nel caso della Tanzania sale al 70%. La guerra ha bloccato le esportazioni dall’Ucraina e ridotto quelle dalla Russia e, immediatamente, il prezzo del grano ha subìto un’impennata globale. Nel mese di marzo l’aumento è stato del 19,7% sul mese di febbraio, con conseguenze gravissime per tutte le famiglie africane che destinano al cibo il 40% delle proprie entrate. Col progredire della guerra la situazione è destinata solo a peggiorare perché in Ucraina molti raccolti di quest’anno sembrano destinati ad andare persi, mentre molte terre potrebbero non ricevere la semina per il raccolto del 2023. E quei paesi che volessero trovare rimedio aumentando la produzione interna, dovrebbero fare i conti sia con l’aumento dei fertilizzanti, di cui Russia e Ucraina sono fra i maggiori produttori, sia con l’aumento dei carburanti per i macchinari. Un insieme di elementi che riducono sin d’ora, e considerevolmente, il livello di sicurezza alimentare dei Paesi africani, minacciando in particolare i poveri delle aree urbane.

Come anche i non addetti ai lavori ormai sanno, la Russia oltre che di gas è anche grande produttore ed esportatore di petrolio, il cui prezzo è inevitabilmente aumentato con lo scoppio della guerra.
Il Fmi ha calcolato che ai Paesi africani importatori di petrolio l’aumento della bolletta energetica comporterà nel 2022 un maggiore esborso collettivo stimato in 19 miliardi di dollari.E sebbene sia vero che i produttori di petrolio esistenti nell’area subsahariana beneficeranno degli aumenti, l’effetto sarà solo parziale perché per assurdo molti di loro pur producendo petrolio debbono importare benzina a causa del fatto che non dispongono di impianti di raffinazione. Valga come esempio la Nigeria che pur essendo il primo produttore africano di petrolio, importa tutta la benzina che le serve. L’Opec certifica che nel 2020 la Nigeria ha speso 71,2 miliardi di dollari per l’importazione di prodotti petroliferi raffinati, mentre dalla vendita di petrolio grezzo ha incassato 27,7 miliardi di dollari. Un saldo negativo di oltre 43 miliardi di dollari. L’aumento del prezzo del cibo, dei fertilizzanti, dei prodotti energetici, non farà altro che peggiorare il debito commerciale dei Paesi africani contribuendo alla lievitazione del loro indebitamente. Gli ultimi dati disponibili riferiti al 2020 dicono che Il debito estero complessivo dell’Africa subsahariana ammonta a 702 miliardi di dollari, per il 65% a carico dei governi.

E considerato che il biennio 2020-2021 è stato un periodo orribile per tutti a causa del Covid, il Fmi teme che gli choc provocati dalla guerra all’Ucraina possano mettere definitivamente al tappeto molti governi africani che durante il Covid hanno visto accrescere i propri deficit a causa di una riduzione del gettito fiscale e un aumento delle spese pubbliche, soprattutto di carattere sanitario. Metà dei Paesi a basso reddito dell’area subsahariana sono già ad alto rischio di bancarotta. E ora il rischio si fa più concreto, visto e considerato che il mancato rilancio economico dovuto all’aumento dei prezzi mondiali limiterà ulteriormente i gettiti fiscali, mentre le spese pubbliche sono destinate a crescere ancora per due ragioni principali. Da una parte per sostenere i cittadini alle prese con l’aumento dei prezzi di beni di prima necessità; dall’altra per tamponare la spesa per interessi che i tassi in salita stani facendo correre.

Sullo sfondo di tutto questo, c’è il rischio che la corsa al riarmo faccia ridurre il flusso di denaro, già scarso, che i Paesi ricchi destinano alla cooperazione internazionale e che hanno promesso a quelli poveri per aiutarli superare sia le criticità create da cinque secoli di colonialismo sia quelle dovute al dissesto climatico e ambientale. La prova concreta di come la spesa in armamenti sia una dichiarazione permanente di guerra ai più poveri anche quando cannoni e missili sembrano far danno solo altrove.

FONTE: Avvenire 6-5-22

RETE SAHARAWI: SOLIDARIETÀ ITALIANA CON IL POPOLO SAHARAWI ODV

Dopo un lungo percorso di collaborazione tra le associazioni italiane che promuovono la solidarietà e la cooperazione con il popolo saharawi, in stretto rapporto con la Rappresentanza del Fronte Polisario in Italia, la “Rete Saharawi – Solidarietà Italiana con il popolo saharawi ODV” si è costituita ufficialmente nel gennaio 2020.

La Rete Saharawi rappresenta l’Italia al Coordinamento Europeo di Solidarietà con il popolo saharawi (EUCOCO) e opera coordinando in Italia i progetti di solidarietà e cooperazione internazionale di molte associazioni impegnate a supporto della popolazione saharawi, alcune con esperienza pluridecennale. Gli obiettivi della Rete ruotano attorno al diritto all’autodeterminazione dei popoli (basato sulla Risoluzione Onu n. 1514 del 1960), all’applicazione del diritto internazionale, al rispetto dei diritti umani.

Le azioni della Rete si sviluppano a partire dalle condizioni reali in cui la popolazione saharawi vive in quattro diversi scenari: nell’area del Sahara Occidentale occupato dal Marocco; nei territori del Sahara Occidentale liberati dal Fronte Polisario; nei campi profughi saharawi ospitati in Algeria; nei vari luoghi della diaspora saharawi.

In collaborazione con le istituzioni della Repubblica Araba Saharawi Democratica (Rasd), la Rete promuove all’estero interventi nei vari settori della cooperazione allo sviluppo e dell’emergenza. In Italia promuove l’accoglienza di minori saharawi, con il programma estivo “Piccoli ambasciatori di Pace”; favorisce cure mediche necessarie e corsi di studio di vario indirizzo; l’educazione alla mondialità, alla promozione dei diritti umani e alla pace, coinvolgendo enti locali, scuole e università; promuove la commercializzazione di prodotti equi e solidali; i viaggi di conoscenza nei campi profughi, permettendo un rapporto diretto con le famiglie e l’amministrazione delle diverse wilaye; le ricerche e le pubblicazioni sulla storia e la cultura saharawi; organizza eventi pubblici di informazione e aggiornamento della lotta per l’autodeterminazione del Sahara Occidentale, nel quadro della diplomazia regionale, nazionale e internazionale.

Coordinando e facendo interagire le esperienze di solidarietà e cooperazione organizzate dalle associazioni, dalle ong e dagli enti italiani impegnati a sostenere il popolo saharawi, la Rete si propone di ampliare l’efficacia di ogni singola azione, fornendo linee guida, manuali, codici di comportamento, consulenza e formazione sui vari settori di intervento. In collaborazione con la Rappresentanza del Fronte Polisario in Italia, il movimento solidale rappresentato dalla Rete punta a far conoscere e avvicinare il maggior numero di persone, istituzioni e associazioni al popolo del Sahara Occidentale, alle sue tradizioni, ai suoi diritti e alla sua battaglia di libertà, rispettando e collaborando attivamente con le diverse realtà in cui interviene. A questo scopo l’Ufficio Stampa redige e diffonde comunicati interni ed esterni alla Rete, utilizzando tutti i possibili canali mediatici. Gestisce il sito web della Rete e cura la redazione di comunicati e lettere.

La Rete in questi due anni si è occupata della raccolta fondi per il progetto di “Accoglienza Alternativa” nei campi dell’esilio saharawi.

Ha sollecitato comuni e organizzazione politiche ad esprimersi con ordini del giorno e mozioni sulla grave violazione del cessate il fuoco da parte delle forze armate del Marocco nella zona del varco illegale di Guerguerat, e ha ottenuto il sostegno di molti artisti italiani alla lotta per la decolonizzazione della terra saharawi, le loro parole sono raccolte nel video “Voci per il Sahara” (visibile all’indirizzo FaceBook della Rete). Anche importanti fotografi italiani hanno donato i loro scatti per il progetto “Cartoline”.

Ha sollecitato comuni e regioni a scrivere al presidente Usa Joe Biden invitandolo a dissociarsi dalla decisione unilaterale di Donald Trump, al termine del suo mandato, di riconoscere la sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale.

Collabora costantemente con il gruppo interparlamentare “Amici del popolo saharawi”.

Ha istituito una serie di gruppi di lavoro per meglio garantire alcune azioni e progetti in ambiti essenziali:

Gruppo Enti Locali. Lavora al coinvolgimento dei comuni, delle province e della regione alle iniziative e ai progetti. Sta proponendo la creazione della “Giornata Nazionale Italiana dei gemellaggi e dei Patti d’Amicizia con il popolo saharawi”.

Gruppo Archivio e Documentazione. Raccoglie tutto il materiale edito sulla questione saharawi, ordina l’ampia documentazione della RS e riversa progressivamente i file in un unico drive allo scopo di facilitare la loro catalogazione, la ricerca e la divulgazione.

Gruppo Rete solidale diversamente abili e sanitario. Raccoglie le conoscenze e le esperienze delle associazioni italiane che si occupano di disabili e dei casi sanitari di cittadini saharawi in Italia e nei campi profughi, in vista di una potenziale accoglienza in strutture adeguate.

Gruppo Diritti Umani. Si occupa dei prigionieri politici saharawi nelle carceri del Marocco e del Sahara Occidentale, in stretta collaborazione con la rappresentanza saharawi in Italia e con la “Lega dei prigionieri politici” attiva nel Sahara occupato. Sollecita l’adesione alle campagne di sostegno ai prigionieri, rivolgendosi a personalità e gruppi della società civile oltre che alle diverse realtà della politica italiana e internazionale. In questa ottica, ha ideato la campagna “Ora liberi” per individuare e responsabilizzare 62 custodi dei prigionieri e per redarre “La lettera del venerdì”, un messaggio da inviare a ciascun dissidente e da divulgare, attraverso i social media, per aggirare la censura che vieta le comunicazioni da e per il carcere.

Gruppo Accoglienza Piccoli Ambasciatori di Pace. È il gruppo che si rapporta con le autorità competenti nazionali, regionali e internazionali per l’organizzazione del soggiorno per ogni aspetto organizzativo e logistico del soggiorno.

Gruppo Viaggi Solidali. Lavora alla condivisione delle esperienze dei viaggi di conoscenza tra giovani e altre persone interessate a conoscere la causa saharawi, soprattutto in concomitanza di ricorrenze o importanti manifestazioni culturali e politiche.

Gruppo Comunicazione. Raccoglie informazioni corrette sulla causa saharawi e collabora con l’Ufficio Stampa della Rete Saharawi.

Gruppo Internazionale e Risorse Naturali. Ha la responsabilità di facilitare la diffusione della documentazione prodotta all’estero sul tema (traducendo in italiano, e viceversa, le comunicazioni). Partecipa ad eventi in ambito europeo ed internazionale e promuove iniziative su proposta della Rete. Documenta le attività commerciali illecite del Marocco e studia le azioni di contrasto allo sfruttamento delle risorse naturali nel Sahara Occidentale occupato.

Gruppo Ambiente. È impegnato in una attività di analisi e valutazione ambientale delle risorse idriche, monitora la qualità dell’acqua e le possibili ricadute, in ambito sanitario, sulla popolazione saharawi nei campi profughi e nei territori liberati. Effettua considerazioni preliminari per la gestione dei rifiuti nei campi e nei territori liberati.

Gruppo Formazione. Prepara gli operatori, gli accompagnatori e le figure istituzionali saharawi che seguiranno i vari progetti delle associazioni nei campi profughi e nell’accoglienza dei bambini in Italia.

Gruppo Sport e benessere. È impegnato a garantire l’accesso alle attività sportive, di giovani e adulti, in tutte le wilaya dei campi profughi. Lavora alla formazione di operatori e operatrici di varie discipline.

Gruppo Territori Liberati e Rete Tifariti. Si occupa di garantire la scolarizzazione e una corretta alimentazione ai bambini/e e alle famiglie che praticano il nomadismo nei territori liberati. Da poco ha rimodulato il progetto per avviare attività nelle scuole dei campi profughi.

Gruppo sull’Etica per coniugare i principi e i valori di etica con la pratica quotidiana nei suoi multipli aspetti: organizzativi, progettuali, operativi.

RETE SAHARAWI – Solidarietà Italiana con il popolo saharawi ODV

via Stazione 80, Sasso Marconi 40037 Bologna

Codice fiscale: 91424060373 – IBAN Banca Etica IT45I0501812800000

Un freddo inverno, anzi freddissimo

di Tonino D’Orazio

Non si può non partire dai cambiamenti energetico-geopolitici mondiali. Mettiamo tra parentesi per un momento le questioni ecologiche. Rimaniamo in una panoramica dei modelli di transizione energetica, volti ad accelerare la quarta rivoluzione industriale (4RI) o impedire ad alcuni paesi di accedervi, (il 6G), l’intelligenza artificiale (AI), la robotica e l’Internet degli oggetti.

E’ essenziale reperire il materiale necessario per questa quarta rivoluzione. Da un punto di vista geopolitico, il modello energetico globale e la transizione dipendono dai materiali necessari per realizzare turbine eoliche, pannelli solari e batterie. Così come altri materiali essenziali per lo sviluppo dei settori geo-strategici: aerospaziale, sicurezza informatica, industria farmaceutica e alimentare. Futuri settori ad alto consumo di energia. Prodotti attuali e futuri tutti a alto consumo di energia.

Di fronte a questa realtà, nessuno può essere sicuro della fine dell’era dell’approvvigionamento di petrolio, gas e carbone e confermare la sua sostituzione con nuove fonti di energia, compresa l’energia atomica, in 10-20 o addirittura 30 anni, nel 2050. Lo scenario del cambiamento energetico rimane estremamente complesso e soprattutto politico.

Un primo scenario geopolitico di cambiamento energetico è il rigido inverno annunciato in Europa, che tra l’altro sembra contraddire il discorso sul riscaldamento globale. Il ritornnelo del carbone in Europa mostra che il fotovoltaico e l’eolico sono insufficienti a soddisfare la ripresa industriale post-pandemia e la domanda interna è sempre in crescita. Esaminiamo lo scenario energetico europeo. Le tariffe dei consumi interni nell’Unione Europea sono esplose a causa della strategia (sbagliata) di migrare rapidamente verso l’energia pulita senza un forte supporto ma allo stesso tempo di interrompere il contratto ventennale con la Russia con Nord Stream 2.

Trump si era vantato di rifornire l’Europa con la sua produzione e di sostituire il gas di Putin; ha cercato di chiudere il gasdotto Nord Stream 2, ma quando era già finito. L’Algeria e il Marocco sono sul piede di guerra; l’Algeria ha deciso di chiudere il transito del gas verso Spagna e Portogallo che attraversa il Marocco.

Biden in una controffensiva all’accordo di libero scambio UE-Cina, (il cambiamento geopolitico europeo più importante dalla seconda guerra mondiale), interrompe temporaneamente l’accordo, dicendo che è in competizione con Xi Jinping per l’egemonia mondiale. Quindi veto. L’UE ubbidisce e congela il trattato di investimento con la Cina, cioè il proprio (e nostro) futuro.

Mentre l’Europa non riesce a definire il suo spazio geopolitico, l’inverno sta arrivando. I meteorologi prevedono un inverno freddo e il prezzo del gas naturale in Europa ha iniziato a salire il mese scorso e questa settimana nel continente si è visto un aumento senza precedenti del 60% dei prezzi.

Si presenta uno scenario inimmaginabile parallelamente alla mobilitazione ambientale contro i gas serra: il ritorno della domanda di carbone russo, che è stato respinto dall’Europa solo pochi mesi fa e diventa ora vitale. Le compagnie elettriche europee hanno un disperato bisogno di più carbone, carbone bituminoso, antracite (carbon fossile) e lignite. Ma la Russia, il terzo esportatore mondiale di questi carburanti, rivolge principalmente le vendite ai principali acquirenti in Asia. La Russia ha tagliato da anni le esportazioni di carbone verso l’Europa visto che l’Unione Europea andava chiudendo le centrali elettriche a carbone. Stati membri dell’UE come Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria stanno costruendo nuove centrali nucleari.

Storicamente paesi che bruciano carbone, sostengono che il nucleare li renderà più verdi e puliti. Circa 87 eurodeputati sono d’accordo. In una lettera di recente, hanno detto alla Commissione che vogliono più nucleare e che l’energia nucleare debba essere considerata “sostenibile” nel sistema di etichettatura degli investimenti verdi europei. Una decisione è attesa entro la fine dell’anno. Poi “ce lo chiederà l’Europa”. Per “salvaguardare la transizione ecologica”, l’Italia punta al gas (TAP), la Francia al nucleare, la Germania al carbone, (beh sì, il loro sistema rinnovabile copre solo il 20% della produzione elettrica).

Il secondo scenario è la Cina, la fabbrica del mondo. Il presidente Xi Jinping sta riducendo il consumo di energia, innescato dalla forte domanda post-pandemia, mentre la catena di approvvigionamento globale sta facendo pressioni affinché metta da parte gli impegni di decarbonizzazione, di ridurre la propria produzione di aut-put strategici e di fornire prodotti tecnologici di base. Scenario energetico cinese che ha dunque forti impatti sugli approvvigionamenti strategici.

La strategia di Xi Jinping è quella di imporre alle grandi aziende occidentali che operano in Cina quote di approvvigionamento energetico. La domanda occidentale di forniture e materiali strategici viene quindi regolata in base alla pianificazione del consumo energetico. L’obiettivo è garantire che la Cina non si autoinquini rispondendo alla domanda di Europa e Stati Uniti. L’approvvigionamento energetico della Cina è garantito per decenni dagli accordi commerciali di Russia e Iran.

Come terzo scenario possiamo prendere l’esempio del Libano. La carenza di carburante e benzina ha comportato l’interruzione della produzione di elettricità. Il disastro in Medio Oriente è causato dalla prolungata azione militare statunitense, con la partecipazione di Israele e dei suoi alleati europei. Il modello di dominio energetico che ha dominato il XX secolo è finito. Il petrolio adesso è un input, se non un’arma, geostrategico-politica, quindi non più soltanto una merce. Il blackout in Libano deriva dal sostegno dell’Iran a Hezbollah proibito dalle sanzioni Usa-Nato-Israele. Se non hanno capito la bomba sul porto di Beiruth se lo ricorderanno, e anche gli affossamenti di tankers (che passa sotto silenzio stampa) in atto e rappresaglie nel Mediterraneo orientale da quasi due anni. Il supporto per diesel e benzina è la strategia (anche cinese) per operare sulla rotta Iran-Iraq-Siria-Libano.

Emarginato dai gasdotti Israele fa sapere, sempre a modo suo, che non ci sta. Ma in quell’area si tratta solo di petrolio mentre l’atomica prosegue la sua strada in Iran per la stupidità di Trump, ma anche dei vassalli europei. L’Africa, dove c’è il petrolio e anche altrove, dove ci sono le necessarie terre rare, è già domata e asservita.

In questo terzo scenario di guerra di accaparramento e furto si trova anche tutta l’America latina orientale, dove il dannato petrolio continua ad essere “ambito” con qualsiasi mezzo. E sappiamo tutti cosa vuol dire nel “cortile” degli yankees, come altrove.

12 ore intorno al mondo per la Festa della Repubblica

12 ORE DI DIRETTA  – Evento webradiostreaming
di Radio MIR domani 2 Giugno 2021

 

Un giro del mondo virtuale, seguendo i fusi orari, cominciando alle 6 del mattino con l’Arabia Saudita per concludersi con l’Australia alle 17.30, passando per l’Europa, Nord e Sud America e Asia.

Ci collegheremo con italiani residenti all’estero e con persone che sono immigrate in Italia, mettendone a confronto le esperienze migratorie, le storie di integrazione, come vedono l’Italia dal loro punto di osservazione, nel giorno della Festa della Repubblica.

Circa 50 interventi da più di 25 paesi del mondo:  storie, reti di soggetti e  comunità, iniziative, interventi istituzionali, focus su temi importanti per le nostre comunità  per stimolare l’intreccio di nuove relazioni, incuriosire chi non conosce il mondo degli italiani all’estero. E anche un tentativo di “auto – inchiesta” per provare a riportare il grande tema delle migrazioni all’ordine del giorno dell’agenda politica italiana.

Ricostruiremo attraverso i collegamenti, una comunità con una propria identità non solo linguistica ma riconducibile al tratto comune di “Cittadini del mondo”.

E da “cittadini del mondo” non si smette di essere italiani quando si varca il proprio confine, semmai è il contrario. E’ l’Italia come Paese che purtroppo dimentica i suoi cittadini all’estero. Quale contributo reale danno possono dare gli italiani all’estero per fare in modo che l’Italia diventi un paese del mondo e non come diceva Metternich ”una mera espressione geografica”?
 

La diretta si svolgerà sulla pagina facebook di Radio MIR e sul canale Youtube e avrà inizio alle ore 6 del 2 Giugno 2021 con la conduzione principale di Fabio Sebastiani e Pietro Lunetto.

REGISTRAZIONE INTEGRALE DELL’EVENTO WEB

FONTE: Radio MIR, radio degli italiani mondo: www.radiomir.space

PARLAMENTO MONDIALE : UN NUOVO INIZIO. SE NON ORA QUANDO ?

Pubblichiamo due interventi, il primo di Luciano Neri e il secondo di  Mario Capanna, a sostegno della campagna per l’ istituzione del Parlamento Mondiale, lanciato dal Laboratorio istituito in collaborazione dalle Università della Calabria (Rende-Cosenza) e dall’Università dell’Insubria (Varese) .

“Il Laboratorio per l’istituzione del Parlamento Mondiale nasce dalla collaborazione tra il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria e il Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate dell’Università dell’Insubria di Varese, e vede impegnati studiosi di diversa formazione (filosofi, storici, scienziati della politica, sociologi, analisti internazionali, economisti, diplomatici, educatori…), non esclusivamente accademici. Inoltre si avvale della collaborazione decisiva di studenti universitari e medi-superiori, attivisti e persone interessate alle possibili risposte politiche, istituzionali e di pensiero che siamo oggi obbligati a ricercare e promuovere di fronte alle criticità che investono l’intero pianeta, alla crisi delle democrazie e al venir meno dell’Onu, dell’impianto istituzionale e di diritto internazionale costruito nella fase immediatamente successiva alla Seconda guerra mondiale.

Il Laboratorio è al tempo stesso il proseguimento del lavoro svolto per un decennio in seno all’Università della Calabria e portato avanti, tra gli altri, con un questionario che è stato inviato a studenti universitari di 41 Paesi di ogni continente.

Il progetto ha come obbiettivo quello di costituire entro il 2021 il Centro Interuniversitario per l’Istituzione del Parlamento Mondiale del quale possono entrare a far parte a pieno titolo altre sedi universitarie, istituzioni internazionali, associazioni e Centri Studi culturali e politici, oltre a singoli soggetti studiosi e/o attivisti interessati alla costituzione di un Consesso planetario e alla elaborazione di un nuovo pensiero che lo sorregga.

La crisi ambientale su scala planetaria, le sperequazioni sociali ed economiche, la finanza transazionale che divora le istituzioni e la politica, l’indigenza, i conflitti bellici, la corsa agli armamenti convenzionali e nucleari, le migrazioni, il rispetto e la tutela dei diritti in conformità alle Dichiarazioni universali, l’istruzione, lo sviluppo tecnologico etc., sono temi che evidenziano la crisi irreversibile dei modelli e delle istituzioni internazionali precedenti, la crisi delle stesse democrazie, il collasso di un mondo che muore mentre quello nuovo stenta a nascere. L’umanità di oggi si trova in questo interregno nel quale possono concretizzarsi pericoli enormi: dalle guerre su larga scala a degenerazioni climatiche e ambientali irreversibili. Non può esistere, né resistere nel tempo, un potere che mantiene e aumenta la forza coercitiva dopo aver perso legittimità e consenso.

È questo orizzonte dei problemi (abbiamo bisogno di “mondiologhi” diceva lo scrittore Ernesto Sabàto), queste criticità e queste urgenze che motivano la costituzione del Laboratorio per il Parlamento Mondiale, che spingono all’analisi, alla riflessione, allo studio, alla ricerca, alla relazione per far emergere su scala globale istituzioni nuove (come il Parlamento Mondiale), sorrette da un nuovo pensiero. Una proposta che parte dal dato di fatto che nessuna potenza oggi è in grado di costruire e rappresentare il nuovo centro dell’ordine mondiale. Una proposta che vuole avere il rigore e il coraggio di cimentarsi con la complessità di un mondo che, se vogliamo affrontare le sfide che abbiamo di fronte, inevitabilmente potrà essere solo multilaterale e policentrico.

Da gennaio a maggio 2021 il Laboratorio realizzerà un nuovo sondaggio in sedi universitarie di almeno 100 Paesi del pianeta, ricorrendo alla disponibilità e alla collaborazione di istituzioni pubbliche e private di varia natura: dai Ministeri degli Esteri alle Ambasciate, dai Consolati agli Istituti di Cultura, dalle Università ad Associazioni educative, culturali, sociali e politiche.”

Prof. Romolo Perrotta


 

Per partecipare all’iniziativa sono stati predisposti dei questionari on line in diverse lingue che possono essere compilati ai seguenti indirizzi:

ITALIANO:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScPi34g7mz4n7EUby6p3KVbTJEJqeGuDhElKUTS3fOqa7VRbw/viewform?usp=sf_link

SPAGNOLO:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSc1htERhbF01rUELuUHj7yajy4cIFP9W4wDunoWIlMbpEO6JA/viewform?usp=sf_link

INGLESE:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSefvIqBiK4ZAtr3hq8CqPgdqEjVMLKK-A0R0b3VLOcEGQlUnw/viewform?usp=sf_link

FRANCESE:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScZ-2SeJIXFuWlMho1XBXXJ94gXXqqh7SnLIxwv4AbJxxVlMg/viewform?usp=sf_link

TEDESCO:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeYkccfHyIOFR7qoudEOiOKxyo9q6U-sb6ugOaeOK5Mii02CA/viewform?usp=sf_link

Per contatti:

Luciano Neri, presidente@cenri.it – Romolo Perrotta, perrottaromolo@gmail.com


 

PARLAMENTO MONDIALE : UN NUOVO INIZIO. SE NON ORA QUANDO ?

Abbiamo bisogno dei mondiologhi

Ernesto Sabato

Da anni oramai, nei diversi continenti e a tutti i livelli, si è sviluppato un dibattito sul tema dell’evaporazione del diritto internazionale e degli organismi deputati a farlo rispettare. Alcuni hanno avanzato la proposta dii un Parlamento Mondiale come risposta possibile ai pericoli che minacciano la Terra. Le emergenze climatiche e ambientali, le guerre in corso e quelle che rischiano di esplodere, il rischio nucleare, la crisi delle democrazie, il collasso dell’Onu, le violazioni sistematiche delle norme del diritto internazionale, il potere incontrollato delle grandi trasnazionali, rendono oggi quella proposta non solo necessaria ma anche più urgente. Una proposta che, comunque la si pensi, è all’altezza della sfida imposta dalle trasformazioni profonde, regressive, con tratti neofeudali, introdotte in questi decenni nel sistema politico, istituzionale, economico e giuridico internazionale. Decenni nei quali sono deflagrati, o maturati nelle loro forme più tragiche e impunite, conflitti devastanti e guerre in quasi tutti i continenti, dalla Libia all’Iraq, dall’Ucraina alla Siria, dallo Yemen alla Somalia, dalla Nigeria all’intero centro Africa. Non ci sono state transizioni democratiche ma decine di colpi di stato, o di tentati: dall’Egitto alla Bolivia, dall’Honduras alla Thailandia, dal Paraguay alla Turchia, dall’Ucraina alla Birmania. Oltre 20 nel solo continente africano. Tutte le crisi, economica, sociale, climatica, sanitaria, migratoria, alimentare, della democrazia e belliche si stanno sommando rischiando di portare la condizione esistenziali degli umani ad un inedito livello di criticità. Gli Stati Uniti si sono ritirati dal Trattato INF (Intermedie – Range Nuclear Forces) con la Russia firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov per mettere al bando i missili a raggio intermedio. Così come si sono ritirati dall’accordo sul nucleare iraniano, firmato nel 2015 dai Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania. Come risposta Teheran ha aumentato al 20% l’arricchimento dell’uranio dichiarando contestualmente di essere in condizione di raggiungere “facilmente” il 90% di arricchimento, soglia che consente la produzione dell’atomica. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna soprattutto, e per reazione anche le altre potenze, hanno approvato miliardari piani di potenziamento delle armi atomiche. Il Comitato per le minacce ad alto rischio dell’Onu, assieme ai più qualificati studiosi di strategie nucleari, come ad esempio l’ex segretario della Difesa degli Stati Uniti, William Perry, considerano “la probabilità di una catastrofe nucleare più elevata oggi che non negli anni della guerra fredda”, quando la catastrofe fu più volte sfiorata ed evitata per un nulla.

La proposta del Parlamento Mondiale è importante perché impone una riflessione sui cambiamenti strutturali a livello globale intervenuti negli ultimi trenta anni. Viviamo in un tempo nel quale, come diceva Gramsci, il passato non c’è più e il nuovo stenta a nascere. Un limbo nel quale possono prendere corpo gli accadimenti più pericolosi. Il vecchio sistema capitalistico, fondato sulla produzione di beni da parte di lavoratori compensata con un salario da parte dei padroni delle imprese, si è in questi ultimi decenni involuto in un neoliberismo finanziario incontrollato e incontrollabile, fondato sulla speculazione a discapito della produzione, per poi degenerare nel sistema neofeudale – liberista nel quale siamo immersi oggi. Un sistema nel quale, assieme all’uso degli strumenti di controllo e di comando più sofisticati, emergono diffusamente pratiche e figure di feudatari e di servi della gleba, nella società e nella rete, ambito nel quale sono più evidenti i processi di feudalizzazione in corso, con pochi sovrani (ricchissimi) e tanti servi della gleba (sempre più poveri, di pane, di lavoro, di diritti, di conoscenza). Il dominio dei pochi che hanno tutto viene esercitato esclusivamente attraverso la forza, usata o minacciata contro nemici o per riallineare amici dubbiosi. Lo storico equilibrio tra apparato produttivo, apparato finanziario e politica è saltato. L’apparato finanziario è cresciuto a dismisura, si è ipertrofizzato ed ha mangiato sia l’apparato produttivo che la politica. Oggi sono le multinazionali, le grandi trasnazionali bancarie e finanziarie a dettare le priorità alla politica, a nominare i governi, ad eleggere i Parlamenti, i Presidenti dello Stato e dei consigli di amministrazione. Mai come oggi, per usare una frase di John Dewey, la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici. Gli effetti perversi determinati dal neofeudalesimo – liberista sono in tutta evidenza rappresentati dal dato delle borse che, nella prima fase, in piena pandemia, sono cresciute mediamente del 9 – 12%, mentre il Pil europeo precipitava dell’8 – 10%. La traduzione è che con la crisi economica, con la disoccupazione, con la sofferenza sociale e umana, il sistema neofeudale, le multinazionali, i grandi gruppi bancari transazionali e le società del settore finanziario speculativo ci guadagnano. La sofferenza delle persone e il crollo dell’economia reale costituiscono per questi settori un investimento, la principale fonte di arricchimento. Delle migliaia di miliardi di dollari movimentati in tempo reale ogni giorno per via telematica, il 95% – (il 95%) – è finalizzato alla speculazione, nel perverso gioco degli arbitraggi e dei differenti tassi di interesse. Solo il 5% – (il 5%) – è il prodotto di transazioni economiche reali per l’acquisto, ad esempio, di materie prime, derrate alimentari, medicinali, macchinari agricoli ecc. (fonte Onu). Nel loro insieme Amazon, Facebook, Apple, Google, Microsoft, valgono (esclusi Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone) più di tutti i Paesi del mondo messi insieme. Una condizione, quella dell’epoca contemporanea, del tutto simile a quella descritta da Marx con la metafora sul ruolo del mulino nel passaggio all’era industriale. I contadini erano costretti a macinare il grano nel mulino del loro signore, servizio per il quale dovevano pagare. Non solo dunque lavoravano terre che non possedevano, ma vivevano in condizioni nelle quali il feudatario era, come afferma Marx, “signore e padrone del processo di produzione e dell’intera vita sociale”. Nel neofeudalesimo contemporaneo le piattaforme digitali sono i nuovi mulini, i loro proprietari miliardari sono i nuovi signori feudali, le migliaia di lavoratori e i miliardi di utenti i nuovi servi della gleba. E’ questa la grande differenza tra il capitalista, il cui profitto è il risultato del valore aggiunto generato dai lavoratori salariati con la produzione di beni, dal signore feudale che trae profitto dal monopolio, dalla coercizione e dalle concessioni. Una nuova articolazione del potere a livello globale caratterizzata dalla sudditanza totale dei governi a queste poche e immense aziende alle quali tutto viene concesso, persino il diritto di non pagare le tasse. Un livello inedito di concentrazione di poteri e di ricchezze tali minare alla radice le regole, i principi ed i valori dei sistemi liberaldemocratici. Il neofeudalesimo liberista è oggi il nemico principale della democrazia liberale.

La proposta del Parlamento Mondiale trova naturale legittimazione anche nella crisi strutturale dell’Onu e del sistema di norme internazionali costruito nel periodo post bellico dalle potenze vincitrici. Crisi che è conseguenza di un processo di cannibalizzazione, di delegittimazione e di smantellamento del “sistema Onu” da parte dei propri creatori. Una costante degli ultimi decenni, una pratica indispensabile per un sistema di potere che si nutre di forza, non di diritto. Ormai è un coro quasi unanime a ripetere che l’Onu non è più lo strumento adeguato per garantire la sua stessa mission fondativa: mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Se mai lo è stato. Le finalità che ispirarono la fondazione dell’Onu non erano quelle di costruire pace e sicurezza attraverso un sistema di norme e di leggi giuste e organismi preposti a farle rispettare. La vera e comprensibile finalità, esplicitata nel preambolo della Carta stessa, era quella di tenere il mondo lontano dalla guerra che i firmatari avevano conosciuto con i due conflitti precedenti. Ma lo fecero con un impianto organizzativo esclusivamente funzionale al potere delle Nazioni vincitrici, e con un impianto normativo finalizzato ad impedire qualsiasi ruolo decisionale a tutte le altre Nazioni aderenti. L’Assemblea Generale dell’Onu come organismo autorevole e decisionale non è mai esistito. I suoi poteri sono nulli. Le uniche funzioni attribuite si limitano allo studio, alla raccomandazione e al suggerimento (Cap. IV, art.li 9/22 della Carta). Tutti i poteri sono attribuiti ai cinque membri del Consiglio di Sicurezza (art. 24 della Carta) che tutto possono decidere e su tutto possono mettere il veto. E d’altra parte, come potrebbero i cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza essere i soggetti che salvaguardano la pace e la sicurezza di un mondo nel quale non c’è guerra della quale essi stessi non siano responsabili o nella quale non siano coinvolti ? Come può il Consiglio di Sicurezza dell’Onu tutelare la pace e la sicurezza se i suoi stessi componenti sono i principali fabbricanti e venditori di armi del mondo? A certificare l’inconsistenza dell’Onu, ormai, sono gli stessi protagonisti, senza neppure nasconderlo. “ Le Nazioni Unite non esistono – afferma l’ex ambasciatore all’Onu di Bush ed ex Consigliere per la Sicurezza di Trump, John Bolton – gli Stati Uniti decidono e le Nazioni Unite devono seguire; se agire secondo gli indirizzi dell’Onu risponde ai nostri interessi, lo faremo, altrimenti no”.

La proposta del Parlamento Mondiale ci costringe ad abbandonare il pensiero menomato e antropocentrico occidentale, il mito della conquista della natura e quello dello sviluppo umano da realizzare attraverso lo sfruttamento del pianeta e delle persone. Il progetto del Parlamento Mondiale non è solo una necessaria proposta di istituzione globale, è anche una rivoluzione del pensiero. Ci costringe a fare i conti con le illusioni, con la nostra idea sottosviluppata di sviluppo, con quel falso infinito nel quale ci siamo buttati chiamandolo progresso, ignorando che è il sottosviluppo etico e intellettuale degli sviluppati, il nostro, a produrre lo sviluppo dei sottosviluppati. Cosa c’è di progressista, di logico, di intelligente nel pensare e praticare un progetto infinito in un pianeta finito? E’ il nostro pensiero menomato, la nostra razionalità illusoria che ci porta all’arroganza di non considerare i mondi “altri”, ad ignorare le virtù, i saperi e le ricchezze di popoli e culture millenarie che hanno inscritto nel loro sviluppo antropologico e nelle loro filosofie naturalistiche e panteiste i codici più civilizzati, fondati sulla considerazione della Madre Terra come comunità indivisibile e vitale di esseri interdipendenti e uniti in un destino comune. Un pensiero menomato e delirante che pensa possibile la continuità di un mondo nel quale l’1% possiede il 99% della ricchezza. A tal punto menomato da arrivare a riconoscere scientificamente solo qualche anno fa ciò che nel pensiero e nelle pratiche di tanti popoli è codificato e applicato da migliaia di anni. Come noto, in occidente il termine “antropocene”, come definizione dell’era geologica caratterizzata dal riconoscimento che le criticità del pianeta sono determinate dal comportamento umano, è entrato ufficialmente nel dibattito scientifico solo nel 2000, grazie al chimico premio nobel Paul Crutzen. Una teoria che per le indagini dalle quali parte e per le conclusioni alle quali arriva mette in discussione il nostro modo di pensare, di produrre e di consumare. Il nostro modo di vivere con e nella Madre Terra. Ma la riflessione sui movimenti tellurici che venivano prodotti dal comportamento umano sull’ambiente in realtà si era sviluppato molto prima, per tutta la seconda metà dell’800, ma quel termine, “antropocene”, non era mai stato riconosciuto e utilizzato, era stato cancellato per lasciare il posto al termine anestetizzato, del tutto inefficace, di Olocene. Ultima era del quaternario. Perché avvenne questa menomazione concettuale e scientifica? Perche l’Ordine Internazionale dei Geologi e i tecnici del tempo erano già al servizio della nascente industria estrattiva del petrolio e del carbone. L’asservimento ai poteri, lo stravolgimento dei saperi e il mercenariato delle cosiddette èlite tecnoscientifiche non è una caratteristica esclusiva dell’oggi. I processi di analfabetizzazione pianificata in questi trenta anni dal neoliberismo feudale stanno costringendo le popolazioni zombie dei Paesi occidentali a guardare la realtà dal buco della serratura, con un riduzionismo cognitivo e analitico fondato sulla cancellazione del resto del mondo. Del quale nulla sappiamo. E del quale non ci occupiamo né ci preoccupiamo. Non vediamo che una rivoluzione antropologica del pensiero su questi temi, un cambio di paradigma e un impegno conseguente lo stanno portando avanti in molti, risultato di consapevolezza e responsabilità. I popoli indigeni originari innanzitutto. E’ la Pachamama dei popoli indigeni dell’America Latina, è lo Shan dei nativi europei, è lo spiritualismo panteista dei nativi americani. Cambiano i nomi ma il significato resta lo stesso: la Madre Terra come essere vivente, che ha generato tutto ciò che esiste nel pianeta, che se ne prende cura e del quale noi umani a nostra volta dovremmo prenderci cura. So bene che questo concetto, apparentemente così semplice, è impossibile da comprendere se si concepisce il mondo sulla base del patologismo antropocentrico che pone l’uomo al centro del’universo, in un rapporto conflittuale con il pianeta e con il diritto di sfruttare tutto ciò che ha intorno, dalle risorse naturali agli animali. Ma il concetto di pianeta vivente, di Terra Madre della cosmologia indigena, di corpo vivo e complementare a tutti gli esseri, non è forse lo stesso che, magari partendo da punti di osservazione diversi e con articolazioni analitiche complementari, è stato sviluppato oggi da alcuni degli scienziati, degli economisti e degli intellettuali contemporanei più prestigiosi dell’occidente? Da Fritjof Capra a Ilya Prigogine, da Edgar Morin a Stéphane Hessel, da Zygmunt Bauman a Noam Chomsky, da Thomas Piketty a Joseph Stiglitz. Fino a leader religiosi come Papa Francesco e il Dalay Lama. Non è forse la filosofia indigena della Madre Terra quella che ritroviamo nell’eretica e meravigliosa enciclica “laudato si” di papa Francesco? Una riflessione talmente radicale e necessaria che interroga tutti, laici e religiosi, chiamandoli alla riflessione e, soprattutto, alla lotta. Partendo dal Cantico delle Creature, Bergoglio arriva alla Madre Terra, entità viva, titolare di diritti, riconoscendola come “…sorella con la quale condividiamo l’esistenza, madre bella che ci accoglie tra le sue braccia” (n. 1 – Laudato si). Partendo dal principio che tutto è connesso (n.138), Francesco condanna “l’antropocentrismo dispotico che non si interessa delle altre creature” (n.68). Un documento positivamente contaminato dalle culture indigeniste latinoamericane, rappresentate da leader nativi che Bergoglio, nell’indignazione dei settori confessionalmente arcaici e dogmaticamente clericali, ha voluto con sé in Vaticano in occasione del sinodo sull’Amazzonia. “Querida Amazzonia” rappresenta l’attualizzazione di un pensiero e il superamento, attraverso il rapporto con la laicità e con il naturalismo indigenista, dell’arcaicità antistorica della Genesi (“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili” – Genesi 26). E ancora, quale è la differenza tra la millenaria filosofia indigena della Madre Terra viva, indivisibile e autoregolata con la analoga teoria di Gaia, che lo scienziato britannico James Lovelock elaborò e diffuse nel 1979 ? La teoria di Gaia, così la battezzò Lovelock, dandole lo stesso nome che i Greci avevano dato alla “Madre Terra”. Una teoria che considera il pianeta Terra un organismo biologico, un essere vivente capace di autoregolarsi e di mantenere le condizioni materiali necessarie per la vita sua e degli esseri che la abitano.

Se quello occidentale resta un modello di pensiero e di potere ristretto, nazionalistico, patriarcale e “patriottico”, quello indigenista ha un carattere universale (in quanto rivolto a tutto il pianeta e a tutti gli esseri) è “matriottico”, al femminile, consapevole della propria origine e rispettoso della Madre Terra genitrice, generosa e saggia. Un pensiero che non è rimasto confinato al filosofico o, come erroneamente pensano molti occidentali, al livello testimoniale di popoli marginali e in via di estinzione. Quel pensiero è stato ed è protagonista dei cambiamenti politici, culturali, istituzionali e costituzionali più innovativi degli ultimi decenni. Specialmente in America Latina. Le comunità indigene, che sono maggioranza o rappresentano larghe minoranze in molti Paesi, hanno recuperato la loro storia millenaria e sono diventati protagonisti di lotte, di governi e di un altro mondo possibile dopo il fallimento dei partiti progressisti e sviluppisti, a partire dal Pt di Lula in Brasile e dal Partito Socialista in Cile. Particolarmente significativa in questo senso è l’esperienza indigenista in Bolivia, un Paese storicamente segnato dai colpi di stato della minoranza (15%) bianca, ricca ed europea contro la maggioranza indigena (60%) rappresentata dalle 32 nazionalità originarie, tra le quali le due maggioritarie, Aymara e Quechua. Milioni di persone per 500 anni sono state tenute in condizioni di schiavitù e private dei diritti basici, dello stesso diritto di esistere come esseri umani. Fino a quando, nel 2006, dopo mesi di lotte i movimenti sociali e indigeni non hanno sconfitto i militari, imposto libere elezioni e conquistato il Parlamento e il governo. Evo Morales, Aymara della provincia del Chaparè, è stato il primo presidente indigeno boliviano ad essere eletto capo di stato in quell’area geografica a oltre 500 anni dalla conquista. E’ da quel momento che inizia l’altra storia, la primavera dei diritti e dell’emancipazione degli umili nel paese più militarizzato e povero dell’America latina. I saperi ancestrali non recuperano solo una storia identitaria che si riconosce con le lotte per l’indipendenza del XVIII° secolo e con icone rivoluzionarie anticoloniali come Tupak Katari e Tupak Amaru. Quei saperi, la filosofia della Pachamama, del “vivir bien” diventano la base politica e culturale delle conquiste civili, sociali, economiche e costituzionali che seguiranno. Negli anni successivi la Bolivia nazionalizza le risorse naturali ed energetiche, promuove programmi di sviluppo per i settori più umili fino ad allora esclusi, sconfigge la povertà estrema e l’analfabetismo, diventando il Paese dell’America Latina con la crescita annuale più alta e con il più alto indice di redistribuzione della ricchezza prodotta. Distribuisce le terre, bandisce gli organismi geneticamente modificati in agricoltura e avvia la realizzazione di banche del germoplasma per salvaguardare i semi originari. Ma il riconoscimento più forte dei diritti delle nazioni indigene arriva nel 2009 con l’approvazione della nuova Costituzione che consacra e istituisce lo “Stato Plurinazionale di Bolivia”, ampliando la nozione del diritto di cittadinanza con il riconoscimento delle “nazioni e popoli indigeni originari e contadini”. Viene ufficializzata la doppia bandiera, quella storica e la Whipala, la bandiera multicolore delle nazionalità indigene. Un processo che chiede allo Stato di adattarsi alla pluralità dei soggetti e delle esperienze storiche della sua gente. E’ stato un processo originale certamente difficile, non privo di difficoltà e contraddizioni, come comprensibile in un Paese nel quale non era mai esistita alcuna forma di organizzazione o rappresentanza politica effettiva, nessuna istituzione democratica, storicamente segnato da una oppressione brutale e da una povertà estrema. Ma la piccola Bolivia è diventata un esempio per tutta l’America Latina, e non solo. Nel 2010 Evo Morales ha presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra. Una sfida culturale coraggiosa che partendo dal riconoscimento della Terra come comunità indivisibile e vitale di esseri interdipendenti e correlati, ne riconosce i diritti e ne raccomanda il rispetto e la tutela. E se la Dichiarazione è ancora in discussione all’Onu, qualche effetto è riuscita a produrlo. E’ stata approvata da diverse città in America Latina e nel mondo, sta suscitando riflessioni, stimolando dibattito e creando coscienza. L’esempio della piccola Bolivia ci dice che immaginare e costruire realtà nuove è possibile anche nei contesti più difficili, e che pensare diversamente è una condizione vitale che accompagna i cambiamenti irrimandabili. Una rivoluzione paradigmatica e mentale più importante della rivoluzione copernicana. Se vogliamo uscire dall’età del ferro planetario nel quale siamo ancora immersi. Se vogliamo costruire una nuova umanità solidale che condivide un destino comune con la Terra e con tutti gli esseri che la abitano.

Luciano Neri


 

L’ASSISE DEI POPOLI

I problemi non possono essere risolti allo stesso

livello di pensiero che li ha generati.

(A. Einstein)

“Da millenni l’umanità non è esistita in quanto tale”, rifletteva tristemente l’uomo, e domandò: “Che pensi, potrà sopravvivere?”

La donna rispose: “Sì, se acquisirà quella coscienza di specie, per cui si riconosce come famiglia umana”…

“Altrimenti?”, chiese l’uomo.

“In caso contrario si estinguerà, e la natura ne sarà felice, risorgendo dopo le interminabili ferite subite”.

Attesa invano una replica, la donna proseguì: “Che iattura sarebbe, dato che noi siamo, fino a prova contraria, l’unica coscienza dell’universo!”

E aggiunse, prendendo per mano l’uomo: “Mettiamoci al lavoro!… Adesso, perché il tempo stringe”…

Un’Assise mondiale rappresentativa di tutti i popoli della Terra: è ciò che l’umanità non si è mai data nella sua travagliata storia millenaria. E i risultati sono di un’evidenza dirompente.

Il mondo sta bruciando.

Per i mutamenti climatici, per la ripresa compulsiva della corsa agli armamenti sia convenzionali che nucleari, per le guerre in atto – “la terza guerra mondiale a pezzi”, che è in corso, secondo le pertinenti parole di Papa Francesco – per le guerre commerciali quasi devastanti come quelle degli eserciti, per il predominio del profitto capitalistico che ci ha portato alla società dell’1 per cento: l’1 per cento dell’umanità possiede ricchezze e beni che superano quello del 99 per cento! Mai si era visto un accaparramento di risorse così concentrato.

Per l’insieme di questi fattori gli scienziati e i premi Nobel, che sovrintendono al Doomsday Clock – “l’Orologio dell’Apocalisse” – all’inizio del 2020, prima della pandemia del Coronavirus, hanno spostato le lancette a 100 secondi dalla mezzanotte, che simboleggia la fine del mondo.

Si tratta dell’orario più vicino al “giorno del giudizio” dal 1953 (anno dello sviluppo della bomba all’idrogeno da parte di Usa e Urss).

L’uomo contemporaneo è portato a non pensare a questo preoccupante orizzonte, imprigionato com’è in quel materialismo quotidiano da cui si lascia pervadere, alimentato da una sapiente (insipiente?) propaganda parcellizzata, che spezza, e frantuma di continuo, il quadro d’insieme del mondo.

Così i 7 miliardi e mezzo di donne e uomini, che compongono oggi l’umanità, sono indotti a non rendersi conto che, per continuare a vivere ai ritmi attuali, avrebbero bisogno di due pianeti, anziché dell’unico che abbiamo.

Si è giunti a questo punto – vicini al non ritorno – per lontane ragioni storiche e culturali.

Dalla fondazione delle prime città, all’incirca 5 mila anni fa, dapprima con le città-stato, poi con le nazioni e quindi con gli imperi, l’umanità si è concepita basata principalmente sulla divisione: divisione-separazione per etnie, per localismi, per interessi economici, per visioni religiose.

Una continua lotta per l’egemonia sfociata quasi sempre nella guerra, fino a quelle mondiali.

Non si pone sufficiente attenzione sul fatto che è con le prime città che nascono gli eserciti, le burocrazie, la guerra. Ma 5 mila anni sono un battito di ciglia nella storia.

E’ consolante rilevare che, per più del 90 per cento del tempo in cui l’uomo ha camminato eretto, il concetto di guerra era sconosciuto, come mostrano gli studi di etnologia comparata.

Dunque le attuali condizioni del mondo non sono il risultato di una presunta natura umana votata irreversibilmente all’autodistruzione.

Quella che definiamo “natura umana” è il risultato di una costruzione storica, che dunque può essere superata da un’altra costruzione storica, basata su una diversa visione del mondo.

Perciò Einstein ha scritto a buon diritto: “L’umanità avrà la sorte che saprà meritarsi”.

Il punto è proprio questo: saremo in grado di costruire una “sorte” diversa da quella che ci si sta profilando?

I mutamenti climatici sono il nuovo paradigma che sta mettendo a repentaglio il mondo.

L’avvelenamento dell’atmosfera, prodotto dalle attività umane subordinate al profitto capitalistico, ha raggiunto traguardi crescenti di allarme.

Nell’ultimo secolo abbiamo bruciato immense quantità di carbone e petrolio, al ritmo di 70 milioni di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera ogni 24 ore.

La conseguenza è stata che le concentrazioni di anidride carbonica – che in più di un milione di anni non erano mai giunte a 300 parti per milione – all’inizio del terzo millennio sono salite a 338 ppm.

La Conferenza di Parigi sul clima (dicembre 2015), presentata come un accordo storico fra i 195 paesi firmatari, prevedeva di contenere al di sotto dei 2 gradi il riscaldamento globale entro il 2020: proposito che si è rivelato di gran lunga insufficiente.

Infatti: alla fine del 2016 l’agenzia meteorologica dell’Onu informava il mondo che, nel 2015, la concentrazione di anidride carbonica aveva superato le 400 ppm, infrangendo quella che era considerata la soglia-simbolo.

Non solo: l’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, la più antica stazione di rilevamento di CO2 al mondo, registrava, il 18 aprile 2017, il superamento della soglia di 410 ppm.

Lo stesso osservatorio ha registrato, il 2 giugno 2020, ben 417,9 ppm.

Continuando così, avvertono i climatologi, rischiamo di avere causato, in meno di 50 anni, un cambiamento climatico mai verificatosi in 50 milioni di anni.

Con il termine “antropocene” – coniato dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen – viene indicata l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è fortemente condizionato su scala locale e globale dagli effetti dell’azione umana.

Per avere un’idea concreta dell’impatto delle attività umane sul – nel – mondo basti considerare che abbiamo reso artificiale la Terra, nel senso preciso per cui ci sono ormai più oggetti che esseri viventi.

Secondo lo studio dell’istituto israeliano Weizman, pubblicato su Nature, solo la plastica, con i suoi 8 miliardi di tonnellate, sovrasta del doppio il peso degli animali, fermi a 4 miliardi di tonnellate.

Se a ciò aggiungiamo il peso delle metropoli, delle città, delle strade , delle automobili ecc., raggiungiamo cifre stratosferiche.

Lo studio afferma che l’umanità, che in termini di peso rappresenta lo 0,01 per cento degli esseri viventi, grava il pianeta, ogni settimana, del peso di se stessa.

Il risultato è che le nostre fabbriche riversano sulla Terra 30 miliardi di tonnellate ogni anno.

A questo ritmo la nostra bulimia tecnologica potrebbe portarci, nel 2040, a produrre 30 mila miliardi di tonnellate di massa artificiale.

Non è folle pensare di andare avanti così? Fino a quando il mondo potrà reggere gli effetti di questa crescente invasione antropica?

L’impetuoso sviluppo delle conoscenze scientifico-tecnologiche, usate così come oggi avviene – per aumentare il potere di quell’1 per cento che domina la società umana- dà all’uomo contemporaneo un potere mai conosciuto prima.

La questione, per più di un aspetto drammatica, che si pone è: o l’apparato scientifico-tecnologico viene ricondotto sotto il controllo umano e finalizzato a soddisfare i bisogni reali – non quelli indotti – dell’umanità, in equilibrio con l’ecosistema, oppure diventerà il nodo scorsoio destinato a stringersi sempre più intorno al collo degli esseri umani, come già sta avvenendo (i mutamenti climatici ne sono l’avvisaglia più evidente e minacciosa).

Non bisogna essere tecnofobici. Ma si tratta di capire che niente al mondo è neutro, nemmeno il concetto che afferma che niente è neutro, e tantomeno lo sono le scienze e le tecniche.

Se non le indirizziamo a costruire il bene comune – degli uomini e della Terra – esse finiranno con l’assoggettare a se stesse sia gli uomini sia la Terra, in un crescendo destinato a divenire incontrollabile.

In presenza di uno stato di cose così preoccupante, il mondo è “governato” dall’unica entità sovranazionale esistente: l’Onu.

Le Nazioni Unite, come il nome stesso indica, rappresenta l’insieme delle entità nazionali e degli stati cui esse hanno dato vita.

Sotto questo profilo esse sono l’evoluzione e la proiezione moderna delle… città-stato: l’umanità non viene rappresentata in quanto tale, come specie e dunque come entità globale, bensì nel suo essere frazionata nelle diverse particolarità nazionali e statuali, che hanno interessi differenti e, spesso, contrastanti, quando non antagonistici.

Di conseguenza i rapporti in seno all’Onu non sono bilanciati in vista dell’interesse umano comune, ma fondati sugli stati di serie A, di serie B e C…

La governance dell’Onu risiede nel Consiglio di Sicurezza, dominato dagli stati di serie A, ovvero i suoi cinque membri permanenti: Usa, Cina, Russi, Francia, Inghilterra (non a caso tutte potenze nucleari).

Ognuno dei cinque, come è noto, si è arrogato il diritto di veto: sicché qualsiasi decisione, che non vada a genio ai cinque stati – o anche a uno solo di loro – è bloccata e resa vana dal veto.

L’Assemblea generale può prendere sì decisioni, ma le sue deliberazioni non hanno valore vincolante per le nazioni del mondo.

Ecco le ragioni di fondo per cui l’Onu, nata in un preciso momento storico dopo la seconda guerra mondiale, si rivela sempre più obsoleta e del tutto incapace di regolare i destini della Terra: ad attestarlo è il marasma attuale del mondo.

E’ evidente che il Consiglio di Sicurezza è il ferro vecchio più arrugginito. Più che decidere, per i meccanismi che lo regolano, il suo scopo è permettere di non decidere.

I cinque membri permanenti rappresentano, insieme, poco più di 2 miliardi di persone: una netta minoranza della popolazione mondiale. Perché gli altri quasi 6 miliardi di cittadini dovrebbero sottostare alle loro decisioni (e non-decisioni)? Tanto più che non li ha eletti nessuno, si sono… autoeletti…

Da che l’Onu esiste, si è sviluppato, soprattutto negli ultimi tempi, un dibattito a intermittenza circa la necessità-possibilità della sua riforma.

Inutile dire che il dibattito non ha mai portato a nulla, sia perché manca la sede decisionale su cui il dibattito stesso possa poggiarsi sia perché i cinque membri permanenti non vogliono saperne di allargare il cerchio e, poi, perché i candidati (autocandidati?) a entrare nel giro sarebbero molti, per di più in lizza fra di loro

Sicché la situazione risulta bloccata ed è destinata a restare tale. Controprova: chi dovrebbe diventare paese di serie A? L’India, con la sua popolazione di 1 miliardo e 370 milioni di abitanti? L’Indonesia (269 milioni)? Il Pakistan (220 milioni)? Il Brasile (212 milioni)? Il Giappone (125 milioni)? La Germania (82 milioni)? E devono essere potenze nucleari, come l’India e il Pakistan, oppure no? Chi lo decide?

In questo aggrovigliato contesto è Papa Francesco a mettere in rilievo (v. Enciclica Fratelli tutti) la necessità di “prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”. Senza tuttavia spingersi a indicare quali dovrebbero essere quelle organizzazioni.

Una organizzazione mondiale più efficace, “dotata di autorità per assicurare il bene comune mondiale”, può sorgere solo se l’umanità nel suo insieme, comprendendosi come specie – ovvero come grande famiglia di persone coinvolta(e) in un unico destino su un pianeta ridotto allo stremo – deciderà di costruirla.

Costituire l’Assise dei popoli del mondo, per l’autogestione dell’umanità: ecco ciò che è necessario e urgente.

IL Parlamento Mondiale (d’ora in poi PM), eletto da tutti i popoli secondo il criterio della democrazia rappresentativa – una testa, un voto – può e deve diventare la sede tramite la quale l’umanità, per la prima volta nella sua storia, si autodetermina, uscendo finalmente da quello stato di minorità su cui si è finora schiacciata, frazionandosi per particolarismi nazionali.

Significa che l’umanità matura e assume la coscienza di sé come specie, nessuna frazione esclusa, e decide lo sviluppo (la sopravvivenza?) del suo presente e del suo futuro, in rapporto a tutti gli altri esseri, con cui è in relazione ineliminabile.

Significa elevare al massimo grado la propria intelligenza collettiva, divenendo capace di inter-legere e intus-legere (“leggere fra” e “leggere dentro”) nella complessa realtà dell’esistenza comune del mondo.

Il PM può essere composto da mille membri – un eletto ogni 7 milioni e mezzo di abitanti della Terra (poco più dei deputati attuali del Parlamento europeo).

Un’assemblea perfettamente gestibile e operativa, dove tutti i popoli vengono rappresentati con pari dignità, senza che ci siano quelli di serie A, B, C…

Oltre le riunioni plenarie, dove si prendono le decisioni fondamentali riguardanti tutto il mondo, si struttura per commissioni di lavoro sui temi di maggiore importanza.

Il PM dura in carica 5 anni ed elegge il suo presidente, che diviene il Presidente del Mondo. Si può immaginare la sua autorevolezza se paragonata a quella del segretario dell’Onu…

Lasciando agli stati la gestione dei problemi interni di ogni singola nazione, il PM delibera sulle questioni basilari dell’umanità: la pace – la guerra deve diventare un tabù – il disarmo a partire da quello nucleare, la salvaguardia dell’ecosistema terrestre, i diritti e i doveri fondamentali, lo sradicamento della fame, le produzioni eque e solidali e l’introduzione dell’onesto guadagno – al posto del profitto onnivoro – la giusta distribuzione delle risorse, le migrazioni, la difesa e l’incremento di tutti i beni comuni.

Dal punto di vista tecnico, l’elezione del PM non presenta affatto ostacoli insormontabili: seguendo i fusi orari, in un giorno di vota dappertutto e l’indomani si conoscono i risultati.

E’ evidente che il problema è prettamente culturale e politico: lasciare la vecchia strada per la nuova.

E però ormai vediamo che proseguire sulla vecchia e non imboccare la nuova può comportare conseguenze irreparabili.

Ho avuto la fortuna di sperimentare, insieme a milioni di altri, la democrazia diretta e, poi, quella rappresentativa, sia nel Parlamento europeo sia in quello italiano, e dunque ho avuto modo di conoscere direttamente i limiti della democrazia delegata.

Se dico che la democrazia rappresentativa, pur con tutti i suoi difetti, è tuttavia migliore dell’attuale oligarchia che pesa sul mondo, credo di indicare una conclusione accettabile.

Oggi gli stati sono troppo grandi per i problemi piccoli (e infatti decentrano taluni poteri agli enti locali) e troppo piccoli per affrontare le questioni grandi.

In più prevale generalmente, al loro interno, un processo di verticalizzazione delle decisioni, con governi che tendono in misura crescente all’autocrazia, esautorando spesso, progressivamente, i rispettivi parlamenti.

Così la stessa democrazia rappresentativa va restringendosi, fino a rattrappirsi in mera “democrazia formale”.

L’eclissi della democrazia, provocata e insieme utilizzata dal capitalismo finanziario globale, riduce sempre più la politica al predominio dei rapporti di forza e la prepotenza diviene la sua stella polare.

L’assalto al Campidoglio di Washington, il 6 gennaio 2021, da parte di manipoli del presidente Trump sconfitto alle elezioni, da lui apertamente e direttamente istigati, codifica, sebbene debellato, l’alto grado di disfacimento della democrazia istituzionale in quanto piegata a privatizzazione di scopi e interessi.

La politica, di fatto, non c’è più: è sostituita dalla propaganda – di chi ha il potere di farla – e viene a coincidere con la finzione e la simulazione. La propaganda è a sua volta una merce:viene fabbricata – venduta e… comprata – alla stessa stregua delle armi, dei telefoni cellulari, delle auto e dei computer.

Ecco perché la “politica”, oggi prevalente, è ridotta ad un ruolo ancillare: segue ed e-segue i diktat dei poteri dominanti.

In questo contesto l’elezione del PM ridà linfa alla democrazia, inverando il principio “ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti”.

Le persone e i popoli vengono a parlare in prima persona e l’umanità si erge a determinare il proprio destino e quello della Terra. Una netta, e salutare, inversione di tendenza, rispetto ai silenzi e alla passività delle moltitudini.

I 2500 scienziati, che hanno elaborato nel 2007, per conto dell’Onu, il rapporto sui mutamenti climatici, in modo unanime consegnavano all’umanità un messaggio inequivocabile: rilevato che “il 90 per cento dei mutamenti atmosferici è causato dall’uomo”, essi ammonivano: “Si avvicina il giorno in cui il riscaldamento del clima sfuggirà a ogni controllo. Siamo alle soglie dell’irreversibile”.

Per scongiurare il superamento del punto di non ritorno, gli scienziati ci raccomandavano di tenere presente che “non è più il tempo delle mezze misure” (come quelle adottate nella Conferenza di Parigi) e ci affidavano tre indicazioni imperative: “E’ il tempo della rivoluzione delle coscienze, della rivoluzione dell’economia, della rivoluzione dell’azione politica” (corsivi miei).

Il PM è sia la conseguenza – il risultato – di quelle tre rivoluzioni sia il mezzo per realizzarle compiutamente.

E’ la sede attraverso cui possiamo e dobbiamo gestire in comune il bene comune più prezioso che abbiamo: la nostra vita – e quella di tutti gli altri esseri.

L’umanità e il mondo sono inscindibilmente interdipendenti: a dircelo è la stessa fisica quantistica, secondo cui ogni cosa non è realmente comprensibile se non vista in relazione con tutte le altre. Separata da quei nessi, non esiste se non come astrazione.

Comprendere appieno questo è l’obiettivo più alto che l’umanità può e deve raggiungere.

La coscienza di specie si dilata fino a divenire coscienza globale: la comprensione che la parte è collegata al tutto e il tutto è più delle singole parti che lo compongono.

La pandemia di Covid 19, che dal 2020 ha colpito l’umanità ovunque, ci ha fatto toccare con mano, in modo bruciante, questa interconnessione fra le persone – e fra loro e la natura. Ci ha mostrato come nessuno può salvarsi da solo, e che la salvezza richiede necessariamente una solidarietà, individuale e collettiva, di autoprotezione, per ridurre la contagiosità del virus, anche a costo di rinunciare ad alcune libertà fondamentali. Una lezione drammatica alla hybris antropocentrica.

Va da sé che non si arriverà al PM senza quella rivoluzione delle coscienze che gli scienziati, non a caso, hanno indicato per prima – e come condizione necessaria per realizzare la rivoluzione dell’economia e quella dell’azione politica.

E’ necessario costruire – entro ciascuno di noi e in noi tutti – quella che i greci chiamavano metànoia: “correzione di pensiero”, “mutamento di parere”.

(In altre parti del libro viene indicato il lavoro incominciato verso questo percorso).

Il PM sarà il risultato del mutamento di pensiero necessario e, insieme, il volano di sviluppo per realizzarlo compiutamente.

Costituisce il passaggio dell’umanità dal confine all’orizzonte.

Per salvarsi. E per salvare il mondo.

Mario Capanna

Londra e Ankara: un’intesa commerciale e strategica

di Maurizio Vezzosi

Tra i numerosi accordi bilaterali e multilaterali sottoscritti dal Regno Unito sulla scorta dell’uscita dall’Unione Europea spicca quello firmato con la Turchia: un accordo di libero scambio tra le cui maglie traspare il rafforzamento della strategia antirussa, anti-iraniana e anticinese post-Brexit di Londra.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha descritto l’accordo come il «il più importante accordo commerciale» dopo quello firmato tra la Turchia e l’Unione Europea nel 1995. Dalla prospettiva turca esso incentiverà l’esportazione di prodotti alimentari, meccanici – specie per l’indotto automobilistico – chimici e tessili verso la Gran Bretagna. Per la Turchia Londra rappresenta infatti il secondo principale sbocco commerciale per le proprie esportazioni dopo la Germania. Stando alle stime inglesi, il volume d’affari tra Gran Bretagna e Turchia del 2019 ha superato il valore di 25 miliardi di sterline. Alcuni mesi fa, inoltre, Gran Bretagna e Turchia hanno svolto le prime esercitazioni aeree congiunte della loro storia e a distanza di poche settimane hanno reso operativa un’unione doganale.

Le pulsioni della Gran Bretagna post-Brexit sembrano ambire al rinnovamento del proprio protagonismo nello scenario internazionale e militare: così suggerisce, del resto, il cospicuo aumento della spesa militare voluto dal primo ministro Boris Johnson, pari a circa 20 miliardi di euro. Oltre a ciò, dalle prime mosse britanniche traspare chiaramente l’intento di realizzare un riposizionamento strategico a fianco di Washington. Certamente le turbolenze che stanno attraversando gli Stati Uniti potrebbero complicare la realizzazione di questo processo, ma paradossalmente potrebbero anche favorirlo.

Se l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca potrà avere un effetto ‒ almeno formale ‒ sui rapporti tra Stati Uniti e Turchia, la costruzione di un’intesa strategica tra Londra e Ankara crea i presupposti per surrogare il ‒ parziale ‒ ripiegamento strategico di Washington dal Vicino Oriente. Nella pratica, eventuali sanzioni ‒ simboliche – mosse dagli Stati Uniti nei confronti di Ankara o – altrettanto simboliche – sospensioni di forniture militari provenienti da Washington sarebbero ampiamente compensate dalle forniture britanniche, esistenti o futuribili.

Le sanzioni verso Turchia formalmente paventate dalla Gran Bretagna per le trivellazioni di Ankara in acque territoriali cipriote, d’altro canto, consistono per il momento in un pacato invito ad abbassare i toni. In questo quadro, dove sono almeno 3.500 i militari nelle basi militari britanniche di Akrotiri e Dhekelia (Cipro), la Turchia diviene uno degli assi portanti della strategia britannica nel Vicino Oriente: una strategia che in ogni caso dovrà avere cura di non compromettere l’asse con Atene.

Quello che l’atteggiamento della Gran Bretagna lascia per il momento presumere è l’embrione di una strategia volta a rinnovare il ruolo britannico nel Mediterraneo orientale e nel Vicino Oriente basata sulla mediazione dei contrasti di alcuni attori fondamentali dell’area ‒ come quelli greco-turchi e turco-egiziani – e sul contenimento di Teheran.

Londra ed Ankara hanno già in programma una “fase due” che prevede “un’area di libero scambio più comprensiva ed ambiziosa”. A chiarire il risvolto strategico dell’accordo di libero scambio tra Gran Bretagna e Turchia è stato lo stesso l’ambasciatore britannico ad Ankara Dominick Chilcott, il quale ha anche confermato la valenza anticinese dell’intesa turco-britannica: «Uno dei grandi problemi strategici dei nostri tempi riguarda la necessità di calibrare le relazioni con la Cina. La pandemia, nei suoi primi mesi, ha fatto emergere la vulnerabilità di essere dipendenti dalla manifattura cinese per alcuni prodotti chiave, come i dispositivi di protezione. La Gran Bretagna, come molti altri Paesi, ha bisogno di individuare altri Paesi da cui approvvigionarsi, e questo, insieme alla nuova area di libero scambio [con la Turchia] crea un’opportunità per la Turchia e per il commercio turco-britannico. Spero anche che nel settore della difesa la collaborazione tra aziende britanniche e turche possa crescere: si tratterebbe di un fatto naturale per due Paesi NATO, ed ovviamente con un significato strategico». A questo l’ambasciatore britannico ha aggiunto di considerare quella di Ankara «l’unica democrazia stabile del Vicino Oriente».

Dalla prospettiva britannica l’area di libero scambio con la Turchia permetterà di contenere la dipendenza di Londra dalle merci cinesi, che attualmente corrispondono a circa il 10% dell’intero valore annuale delle importazioni britanniche ‒ circa 60 miliardi di euro su un totale di quasi 600 – con un interscambio complessivo che nel 2020 ha superato gli 85 miliardi di euro ed una bilancia commerciale nettamente favorevole a Pechino. Pur risultando evidentemente incompatibile con la strategia anticinese adottata da Londra, nel passato recente l’idea di un’area di libero scambio commerciale tra Londra e Pechino godeva in Gran Bretagna di una certa attenzione. Nel 2018 era stato lo stesso ministro degli Esteri cinese Wang Yi a proporre al suo omologo britannico Jeremy Hunt l’idea di un’area di libero scambio tra Londra e Pechino: malgrado ciò, l’atteggiamento britannico del presente sembra non tollerare una Cina prospera e in forze.

Oltre che nel Vicino Oriente, l’intesa strategica tra Gran Bretagna e Turchia non mancherà di avere importanti risvolti anche in Africa, dove la tradizionale presenza britannica si trova a fare i conti con il protagonismo russo e cinese: un protagonismo che Londra punta evidentemente a contrastare facendo leva sulla presenza turca nel continente africano.

Rispetto a Mosca, infine, la “scommessa turca” della Gran Bretagna sembra volersi ispirare alla larga coalizione che affrontò l’Impero zarista nella guerra di Crimea combattuta tra il 1853 ed il 1856. Nel presente, del resto, Ankara e Londra si trovano spalla a spalla anche in Ucraina, fornendo da sette anni assistenza ‒ istruttori, mercenari, armi e droni ‒ all’esercito di Kiev contro gli insorti del Donbass sostenuti da Mosca. Malgrado tutte le azioni messe in campo e le ambizioni di Lord Johnson, la gloria di Lord Palmerston potrebbe di per sé non garantire i fasti del passato alla nuova Gran Bretagna post-Brexit.

FONTE: https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Londra_e_Ankara.html

Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The great reset”

Il prof Schwab è un ingegnere che ha anche un dottorato in economia alla famosa Università di Friburgo, in pratica la patria dell’ordoliberalesimo, con un master in Public Administration ad Harvard, fondatore del Word Economic Forum[1] ed autore di un libro di grande successo come “The Fourth Industrial Revolution” nel 2016. Si tratta, insomma, di una persona con un curriculum accademico indiscutibile, apprezzabilmente interdisciplinare, e di certissima derivazione ideologica-culturale. Uno dei papi del capitalismo contemporaneo, insomma.

Thierri Malleret è più giovane, sulle sue spalle sarà caduta la redazione di gran parte del libro. Si occupa di analisi predittiva (una remunerante specializzazione) e di Global Risk al Forum. Educato alla Sorbona in scienze sociali e specializzato ad Oxford in storia dell’economia (master) ed economia (dottorato). Si è mosso tra banche d’affari, think thank, impegni accademici e servizio presso il primo ministro francese.

Questo libro fa parte di una proliferante letteratura. Un tipo di letteratura divulgativa ed esortativa, molto generica e contemporaneamente molto larga nella visione, fatta per tradursi in presentazioni da convegno attraenti e stimolanti, dirette ad un pubblico di manager e imprenditori che hanno bisogno di sentirsi consapevoli, aggiornati e progressisti con poco sforzo. Una lettura da weekend sul bordo della piscina. Continua a leggere

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