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Complesso Militare Industriale, Cyber Diplomacy e Democrazia

di Giorgio Gallo

Nel 1961, alla fine del suo secondo mandato, nel discorso di addio, il presidente Dwight D. Eisenhower mise in guardia il popolo americano sul “complesso militare-industriale”, sempre più potente, e sulla minaccia che esso rappresentava per la democrazia. Quell’espressione, coniata originariamente dal sociologo americano Wright Mills, è diventata, dopo il discorso di Eisenhower, di uso comune per denotare un convergere di interessi diversi (economici, ideologici, politici) che rischia di distruggere la stessa democrazia. Molto forte negli USA, il complesso militare-industriale è presente in realtà in molti altri paesi. Ad esempio, in Italia, dove, grazie soprattutto all’acquisizione di nuovi sistemi d’arma, la spesa militare si attesta a 24,97 miliardi di euro nel 2021. Un aumento dell’8,1% rispetto al 2020 e del 15,7% rispetto al 2019. E questo in una fase caratterizzata dalla pandemia Covid che ha evidenziato l’inadeguatezza delle somme stanziate nel bilancio nazionale per la sanità e la scuola.

Particolarmente rilevante è il ruolo del complesso militare-industriale in Israele. In un articolo (1) del 1985, Alex Mintz, scienziato politico israeliano, riporta che, mentre negli USA il bilancio della difesa raggiungeva (dati del 1982) il 6,5% del PIL, con 9 lavoratori su 1000 impiegati nel settore della difesa, in Israele si arrivava al 28% del PIL, con un quarto della forza lavoro del paese impiegata nell’esercito, nelle industrie delle armi e nel ministero della difesa. Questi dati sono in accordo con il fatto che il settore difesa in Israele va ben al di là delle strette competenze militari: gestisce una stazione radio e una casa editrice, è fortemente presente nelle scuole, costruisce strade e ponti, e, nei territori occupati è responsabile delle attività che riguardano gli insediamenti e l’amministrazione. Mentre negli USA il complesso militare industriale trovava la sua giustificazione ideologica nella guerra fredda, qui la motivazione, almeno quella che viene usualmente fornita, è piuttosto legata all’essere Israele un piccolo paese circondato da paesi molto più popolosi ed ostili. Si tratterebbe di una necessità di sopravvivenza. Una motivazione forse con un qualche fondamento negli anni immediatamente successivi alla nascita dello stato, ma ormai poco credibile, essendo Israele, anche non tenendo conto del suo armamento nucleare, enormemente più forte di tutti gli altri stati della regione. Come osserva Alex Mintz, è ormai sempre più “difficile determinare se le dinamiche degli investimenti nell’industria della difesa derivino da considerazioni di tipo ideologico, securitario o economico”. Certamente, fra le
motivazioni più plausibili oggi appaiono, da un lato, il fatto che Israele si trovi a tenere sotto occupazione militare un territorio abitato da una popolazione dello stesso ordine di grandezza della sua, e, dall’altro, l’importante ruolo che la sviluppatissima e tecnologicamente avanzata industria militare israeliana svolge, sia in termini economici che di politica internazionale. E in effetti, Israele
è oggi tra i primi 10 esportatori di armi al mondo e, nonostante la pandemia di coronavirus, le esportazioni della sua industria della difesa sono aumentate del 15% nel 2020. (2) Un rapporto di
Amnesty International del 2019 critica duramente le politiche di Israele sulle esportazioni di armi. (3)
Secondo il rapporto, le aziende israeliane del settore della difesa esportano armi in paesi che violano sistematicamente i diritti umani.

Fra i destinatari delle esportazioni militari israeliane, il rapporto cita in particolare otto paesi: Sud Sudan, Myanmar, Filippine, Camerun, Azerbaijan, Sri Lanka, Messico ed Emirati Arabi Uniti. Sono paesi che danno limitatissime garanzie dal punto di vista della democrazia interna e del rispetto dei diritti umani. Va detto che le esportazioni di armi israeliane verso paesi dittatoriali non sono una cosa recente. È noto come il Cile ai tempi di Pinochet o il Sudafrica durante gli anni dell’apartheid fossero nella lista dei partner commerciali di Israele.
Nel discorso di Eisenhower citato veniva evidenziato il rischio per la stessa democrazia del complesso militare-industriale. Questo è certamente vero per Israele, come sostiene un recente articolo (4) del giornalista israeliano Yossi Melman dal titolo “Un selvaggio e pericoloso complesso militare-securitario ha preso il potere in Israele”. Secondo Melman, “la mano libera per la vendita di armi e tecnologia (da pistole e munizioni a missili, aerei, navi, carri armati e tecnologia di intelligence), data dai governi che si sono succeduti nel tempo, ha trasformato l’establishment della difesa in uno stato dentro lo stato”. In particolare, l’articolo si concentra sul ruolo della azienda informatica NSO e del suo software Pegasus. Si tratta di uno spyware (software spia) che può essere installato da remoto su uno smartphone senza che il suo proprietario lo sappia, né faccia nulla. Una volta installato, permette di prendere il controllo completo del dispositivo e di accedere a tutto ciò che esso contiene: e-mail, corrispondenza WhatsApp, uso dei social media, foto e video, dati di localizzazione, documenti, note e metadati.
NSO vende da diversi anni il suo software Pegasus, e spesso fra i suoi clienti ci sono governi non democratici e repressivi. In prima linea nella denuncia di NSO, a livello internazionale, si trova, dal 2016, un piccolo istituto interdisciplinare dell’Università di Toronto, il Citizen Lab, la cui attività di ricerca si colloca all’intersezione fra le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, i diritti umani e la sicurezza globale. Tra il 2016 e il 2018, il Citizen Lab ha analizzato i telefoni di centinaia di giornalisti, scienziati, dissidenti e ricercatori che indagano su casi di corruzione, in non meno di 45 paesi.

Il software Pegasus è stato trovato in tutti i dispositivi. Questa indagine ha, tra gli altri, evidenziato il collegamento fra due assassinii che hanno avuto una vasta eco a livello internazionale e l’uso di Pegasus. Il primo è quello del giornalista messicano Javier Valdez ucciso nel maggio 2017, mentre investigava sui cartelli della droga e sul crimine organizzato in Messico. Il secondo è l’uccisione del giornalista saudita dissidente Jamal Khashoggi all’interno dell’ambasciata saudita a Istanbul nel 2018. Le denunce del Citizen Lab sono all’origine della decisione di Washington, lo scorso autunno, di inserire NSO nella lista nera delle aziende la cui attività è considerata dannosa per l’interesse nazionale degli Stati Uniti.
Il sempre più diffuso e invasivo uso degli strumenti software per il controllo della nostra vita (pensieri, spostamenti, amicizie, telefonate, messaggi, …) è oggetto di un recente e inquietante libro (5) di Ronald J. Deibert, fondatore di Citizen Lab. In particolare, il tema è trattato in dettaglio nel terzo capitolo (“Un grande balzo in avanti … per l’abuso di potere”), dove si analizza la diffusione e pervasività degli strumenti di controllo elettronico. Strumenti sempre più efficaci, anche grazie alla loro capacità di sfruttare l’enorme quantità di dati accessibile in rete a chi dispone di tecnologie di ricerca e raccolta sufficientemente sofisticate, anche se non sempre del tutto legali. Pensiamo alla diffusione di telecamere(6) , spesso collegate fra loro e accessibili via rete, all’enorme quantità di informazioni che vengono raccolte come sottoprodotto dei nostri acquisti via internet, a ciò che noi stessi mettiamo in rete attraverso i diversi social media, e, naturalmente, a tutte le informazioni ottenibili dall’uso che facciamo dei nostri smartphone. Questo da un lato comporta notevoli rischi per chi vive in paesi con regimi autoritari e repressivi, e dall’altro, anche in paesi democratici, crea incentivi verso forme crescenti e diffuse di controllo illegale.

Interessante da questo punto di vista ciò che ha scritto sul sito di The Israel Democracy Institute (7) , il 20 gennaio scorso, la politologa Tehilla Shwartz Altshuler a proposito delle rivelazioni emerse sulla stampa circa l’uso dello spyware Pegasus in Israele: “Non è che non sapessimo che il sistema Pegasus è diventato un dono amichevole elargito dallo Stato d’Israele alle dittature e semi-dittature di tutto il mondo, ed eravamo persino consapevoli che viene usato contro i palestinesi in Cisgiordania.

Ma queste nuove rivelazioni ci hanno mostrato chiaramente il pendio scivoloso in azione: Quando si rende disponibile una tecnologia di raccolta delle informazioni intrusiva, è solo una questione di tempo prima che venga usata contro di noi, i cittadini d’Israele. Inoltre, quando la tecnologia viene usata illegalmente per “combattere il crimine grave”, alla fine verrà usata anche contro i manifestanti e i rivali politici.” Curioso che sullo stesso tema, lo stesso giorno, compaia su Haaretz un articolo in cui il problema viene visto da un’angolazione diversa, anche se, in qualche modo, complementare. La giornalista che scrive è Hanin Majadli, israeliana, ma appartenente alla comunità araba. la differenza emerge già dal titolo, sottilmente ironico: “Gli ebrei sono allarmati, ma gli arabi possono solo sognare che la polizia usi Pegasus contro di loro” (8) . La giornalista osserva infatti come per controllare i cittadini ebrei, la polizia usi metodi tecnologici, silenziosi, discreti, che non disturbino troppo. Non sarebbe carino usare metodi più violenti, “dopo tutto, sono ebrei”.
Invece nei riguardi dei cittadini arabi, che abbiano partecipato a dimostrazioni o solamente che abbiano scritto post che non sono di gradimento della polizia, si preferisce usare i metodi, ben collaudati, che la polizia conosce bene dai tempi del governo militare (9) : irruzioni nel cuore della notte, minacce contro i membri della famiglia, detenzione amministrativa e minacce di revoca della cittadinanza.
Siamo partiti in questa analisi dal complesso militare-industriale e dai rischi che la sua crescita comporta per la democrazia. Abbiamo visto come quello israeliano sia particolarmente sviluppato, uno stato dentro lo stato, e come contenga un settore ad altissimo contenuto tecnologico, centrato sul controllo e sullo spionaggio. Le tecnologie sviluppate da questo settore costituiscono anche un importante strumento di politica estera, e vengono vendute e fornite a molti paesi, spesso oppressivi e dittatoriali, senza alcun controllo. Si è parlato a questo proposito di «cyber diplomacy» (10) . Quella che spesso viene presentata come l’unica democrazia del Medioriente, non si fa scrupolo di fornire a governi non democratici strumenti per controllare le proprie popolazioni e per eliminare, spesso anche fisicamente, gli oppositori interni. Ma ancora una volta si constata come democrazia e diritti umani siano indivisibili. Non si può aiutare a violare questi ultimi fuori dai propri confini e allo stesso tempo garantirli all’interno, ai propri cittadini. Proprio oggi, mentre scrivo, è stata pubblicata su The Times of Israel la notizia che la stessa polizia israeliana avrebbe finalmente ammesso l’uso, senza autorizzazione da parte della magistratura, del software spia di NSO per controllare i propri cittadini. (11)

E neppure è possibile garantire diritti e democrazia solo a una parte della popolazione sotto il proprio controllo senza mettere in discussione la stessa natura dello stato. E proprio in questi giorni è stato reso pubblico un dettagliato rapporto di Amnesty International in cui Israele viene accusato di essere un sistema di apartheid, in cui una parte della popolazione viene trattata come un gruppo razziale inferiore, che si tratti di cittadini israeliani di origine araba, o di palestinesi che vivono nei territori occupati della Cisgiordania e di Gaza. (12-13)

  1. ) Alex Mintz, “The Military-Industrial Complex”, Journal of Conflit Resolution, December 1985.
  2. ) Yoav ZItun, “Israel one of world’s top 10 arms exporters”, Ynetnews, 06.01.21.
  3. ) Amos Harel, “Arming Dictators, Equipping Pariahs: Alarming Picture of Israel’s Arms Sales”, Haaretz, May 19, 2019.

4.) Yossi Melman, “A wild, dangerous military-security complex has seized power in Israel”, Haaretz, Jan. 20, 2022
5.) Ronald J. Deibert, RESET. Reclaiming the Internet for Civil Society, September Publishing, 2020.
6.) In Cina si parla di una telecamera ogni 7 abitanti.

7.) https://en.idi.org.il/articles/38153
8.) Hanin Majadli, “Jews are alarmed, but Arabs can only dream of police using Pegasus against them”, Haaretz, Jan. 20, 2022.
9.) Dopo la nascita dello stato di Israele nel 1948, gli arabi rimasti all’interno dei confini, pur avendo ottenuto la cittadinanza, sono stati tenuti sotto amministrazione militare fino al 1966.
10.) Amos Harel, “Analysis | Police Using Pegasus Spyware Against Israelis Shows: NSO Is an Arm of the State”, Haaretz, Jan. 18, 2022.

11.) Amy Spiro, “In about-face, police admit misuse of NSO phone hacking tech”, The Times of Israel, Feb. 1, 2022.
12.) Lazar Berman, “Amnesty: Israel practices apartheid against Palestinians in West Bank, Gaza, Israel”, The Times of Israel, Feb. 02, 2022.
13.) https://www.amnesty.org/en/latest/campaigns/2022/02/israels-system-of-apartheid/

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