di Maurizio Brotini
In questo scorcio di anno si leggono notizie interessanti e significative nel quotidiano di Confindustria e financo sul giornale-partito di Repubblica. Notizie a volte confinate nelle pagine economiche del lunedì, dove si lanciano allarmi per l’arresto del Paese anche nelle sue presunte aree forti del Nord, a volte sparate in prima pagina come l’intervista al ministro Gualtieri che rilancia il ruolo dello Stato in economia, seppur sotto la voce “fallimenti del mercato”.
Ma, con sottile presa per il culo, è sul sole24Ore che si leggono delle vere perle, come l’articolo del 22 dicembre sul paradosso dei numeri italiani: povertà, evasione e ricchezza. Già il titolo è indicativo: come può darsi povertà dove c’è ricchezza? E noi nemmeno balbettando che proviamo a ribadire che c’è ricchezza perché c’è povertà. Ma riportiamo le cifre: a fronte di 5 milioni di indigenti (si, cinquemilioni), il risparmio gestito cresce a 2.280 miliardi (si, duemiladuecentoottantamiliardi), i depositi bancari a 1.700 miliardi (si, milleesettecentomiliardi), la ricchezza sommersa 210 miliardi e udite udite la ricchezza delle famiglie 8,4 volte il reddito medio. Il risparmio gestito è aumentato nel 2019 del 13,9% rispetto all’anno precedente e soprattutto è quasi l’importo dell’intero debito pubblico, ammontante nello stesso mese della rilevazione a 2.447 miliardi. Interessante anche il dato dei depositi bancari che è pari al Prodotto Interno Lordo. L’articolista prosegue sui dati del reddito complessivo: 1.200 miliardi, composto da stipendi e pensioni. Ma, e qui l’altra verità che la balbettante sinistra non riesce quasi a nominare, citando testualmente: “La vera sorpresa è nel dato della ricchezza che è composta da immobili, strumenti finanziari, depositi e cash. Un Paese da record con 10.000 miliardi, 8,4 volte il reddito medio, un multiplo che in Europa non ha eguali: la Germania è a 6,5 e Francia e Gran Bretagna sono al 7,9”. Questa mole di ricchezza è concentrata per il 50% nel possesso di immobili. Riprendendo il Rapporto Oxfam ci viene ricordato come le 10 persone più ricche d’Italia posseggano da sole 100 miliardi di ricchezza, e di come il 10% più ricco abbia aumentato negli ultimi trent’anni la quota di reddito totale al 29% contro il 50% più povero che l’ha vista diminuire al 24%.
Al netto delle contorsioni dell’articolista alla ricerca del mitico e stabilizzante ceto medio, l’onestà intellettuale individua nell’impoverimento dei lavoratori e delle lavoratrici l’origine di tali fenomeni: i lavoratori poveri sono almeno il 12% della forza lavoro complessiva e guadagnano meno di 8.200 euro l’anno. Per chi voglia approfondire in maniera coerente, sistematica e militante questi dati il rimando obbligato è evidentemente all’ultimo lavoro di Marta e Simone Fana, Basta salari da fame! (ed. Laterza). Ed è proprio il lavoro il buco nero del nostro Paese, come ci ricorda il Bilancio equo e sostenibile del 2019 presentato dall’Istat: il lavoro che manca, il lavoro povero, precario, atomizzato, in competizione in basso, sommerso, misconosciuto nel suo valore e nella sua rappresentanza e centralità politica e sociale. E’ questa la base materiale di un Paese incattivito e tendente alla solitudine ed al rancore, come ben tratteggia la ricerca del Cantiere delle idee che ha dato vita alla pubblicazione di Popolo chi? Classi popolari, periferie e politica in Italia, (a cura di N. Bertuzzi, C. Caciagli e L. Caruso con prefazione di Nadia Urbinati per i tipi della Ediesse, la casa editrice della Cgil). Un Paese, anche per il quotidiano di Confindustria, non più composto da un popolo di faticatori ma di rentier, ricordando quanto la sinistra sindacale e politica ha sostenuto a partire dai primi anni Novanta: negli ultimi 10 anni 10 punti di Pil sono transitati dalla remunerazione del Lavoro a quella del Capitale.
Un quadro purtroppo coerente con la distruzione dell’apparato produttivo del nostro Paese ridotto di quasi il 25%, senza uno straccio di politiche industriali e di strumenti e presenza pubblica nell’economia per poterle realizzare, sostanzialmente subcommittente per il sistema manifatturiero tedesco. Un paese putrescente che si polarizza sulla rendita, sfruttando brutalmente il fattore lavoro, immigrato e autoctono, e vivacchiante sulla gestione privatizzata dei monopoli naturali, siano essi autostrade, ciclo idrico integrato e insieme dei beni comuni, dove la sanità privatizzata diviene uno dei settori di remunerazione preferiti sia per Confindustria che per la criminalità organizzata, assieme al ciclo dei rifiuti.
Ma è il mattone che la fa da padrone nell’alimentare la rendita. Se queste dinamiche e processi valgono per il Paese, ancor più e specificatamente agiscono in Toscana. Quella Toscana che aveva visto nello Statuto del Centro studi della Cgil, l’Ires, fondato anch’esso negli anni Ottanta, riaffermare la necessità del punto di vista del lavoro dipendente nel disegnare le scelte di governo della nuova Regione. Una scelta di classe nelle logiche di governo, sancita dal Partito Comunista con l’elezione a primo Presidente Regionale, dopo gli esponenti socialisti che avevano caratterizzato le legislature precedenti, di Gianfranco Bartolini, Segretario Regionale del sindacato rosso. A quella stagione occorre ritornare.
Una realtà, quella toscana, che vede una sostanziale continuità nei possessori dei grandi patrimoni terrieri e soprattutto immobiliari addirittura con le famiglie censite nel Catasto fiorentino istituito nel lontano 1427. Una tassazione o estimo al Comune si trova già ricordato a Firenze negli ultimi decenni del sec. XIII. Nel 1378 un tentativo di promulgare una tavola o estimo pubblico, più capillare e più preciso, incontrò l’efficace opposizione delle famiglie cittadine più potenti. Però, in seguito alla guerra contro Filippo Maria Visconti la Repubblica valutò il costo del conflitto in tre milioni e mezzo di fiorini e previde settantamila fiorini al mese come spesa corrente per sostenere le milizie. Pertanto non fu possibile evitare una nuova tassazione, da imporre non ad arbitrio, ma proporzionalmente e con apposita legge. Il decreto fu promulgato il 22 maggio 1427. Nel proemio si dichiarava tra l’altro di voler seguire la voce e il desiderio del popolo di Firenze e di voler porre un rimedio all’ineguaglianza delle imposizioni. Si ordinava pertanto che ogni cittadino dovesse dichiarare sotto il suo Gonfalone il proprio nome e quello delle persone componenti la famiglia, l’età, il lavoro e il mestiere di ciascuno, i beni immobili e mobili posseduti dentro o fuori il dominio fiorentino e anche altrove, le somme di denaro, i crediti, i traffici, le mercanzie, gli schiavi, i buoi, i cavalli, gli armenti e i greggi. Chiunque avesse occultato i propri beni sarebbe stato soggetto alla confisca degli stessi. Fu stabilito un ammontare netto da tassare di 10 soldi per ogni 100 fiorini. In seguito l’imposta si fece progressiva: da 100 fiorini in giù si pagava a ragione del tre per cento; da 100 a 1000 il cinque per cento. Oggi a fronte di tali necessarie misure si griderebbe da parte dei nostrani rentier allo Stato di polizia ed all’esproprio proletario, tant’è. Se il 50% della rendita che distrugge il lavoro, sia quello vivo che il profitto derivante da attività manifatturiere, è la media nazionale, a quanto assomma in Toscana? E se piattaforme come Airbnb moltiplicano turismo smodato e lavoro povero, aumentando il valore della rendita immobiliare, non è questo un tema centrale nelle traiettorie di sviluppo della nostra Regione fatta di città d’arte di grande prestigio internazionale?
Rendita immobiliare e sviluppo manifatturiero di qualità non vanno di pari passo, anzi. La remunerazione della rendita, esente sostanzialmente da rischi, e con un tasso ben maggiore del 3/5% di molte attività manifatturiere, distoglie capitali dagli investimenti produttivi e contribuisce oggettivamente alla desertificazione industriale. Per fare politiche industriali che non siano dichiarazioni volontaristiche o mozioni degli affetti bisogna colpire la rendita, punto. Con la tassazione patrimoniale a livello nazionale e del sistema delle autonomie locali, come fece la Repubblica fiorentina nel Quattrocento, con il rilancio dell’edilizia residenziale pubblica, come strumento sia di giustizia sociale che di abbassamento dei canoni di affitto, con la regolamentazione degli affitti turistici, con paletti stringenti su emersione del nero, rispetti contrattuali, tassazione degli operatori. Agli antichi e ricorrenti proprietari della Toscana, di gran parte delle aree di pregio, si uniscono fondi di investimento internazionali. Le città si svuotano di chi vive del proprio lavoro, gli studenti fuorisede stessi subiscono un processo di allontanamento, fatto salvo per i ricchi rampolli della borghesia internazionale: chi vota per eleggere l’amministrazione cittadina non vi risiede pur avendo la residenza, e se vi risiede è parte ed espressione del blocco di potere della rendita. L’amministrazione ritorna al notabilato nobiliare di primo Novecento, al voto per censo e per nascita: proprio a quella fase della vita politica e sociale che la Cgil volle rompere anche a livello simbolico acquistando palazzo Peruzzi, nobile famiglia di banchieri fiorentini. Ubaldino Peruzzi, già Ministro nel nascente Regno d’Italia, fu infatti nel Consiglio provinciale toscano nel 1865 e vi rimase senza interruzioni fino alla morte. Presidente della Provincia fiorentina dal 1865 al 1870, partecipò attivamente alla vita del Consiglio provinciale come membro di molte Commissioni. Fu Sindaco di Firenze dal 1870 al 1878. E proprio per questo il Movimento Operaio volle acquisirla, destando scandalo tra i nobili ed i conservatori del tempo. Da ricordare che nella casa dei Peruzzi acquistata dalla Cgil, sita in Borgo dei Greci per iniziativa della moglie, la «Signora Emilia» Toscanelli, ebbe vita il più importante salotto culturale del tempo conosciuto come il «salotto rosso» che fu frequentato assiduamente da personaggi come Edmondo de Amicis, Ruggiero Bonghi, Giovan Battista Giorgini, Marco Tabarrini, Leopoldo Galeotti, Isidoro del Lungo, Renato Fucini, Cesare Alfieri e tanti altri intellettuali del tempo. Il popolo, i lavoratori e le lavoratrici, potevano e dovevano governare, come ci rammenta lo splendido ricordo di Pablo Neruda del Sindaco comunista del dopoguerra Mario Fabiani:”E quando in Palazzo / Vecchio, bello come un’agave di pietra, / salii i gradini consunti, / attraversai le antiche stanze, / e uscì a ricevermi / un operaio, / capo della città, del vecchio fiume, / delle case tagliate come in pietra di luna, / io non me ne sorpresi: / la maestà del popolo governava”.
Invece nelle città dove domina la rendita l’Amministrazione funziona e viene eletta come un consiglio d’amministrazione, come anticipato profeticamente nel primo film della serie di Robocop. E per di più abbiamo enti Territoriali di rilevanza costituzionale come Province e Città Metropolitane che sono sottratte al voto diretto di residenti-elettori. E’ la frattura tra Economia e Democrazia, è il capitalismo postdemocratico della governance. Ma il blocco della rendita fa ben oltre: ridisegna l’intero assetto infrastrutturale, logistico e di mobilità in funzione dei suoi interessi. L’ampliamento dell’aeroporto di Peretola in modo da raddoppiare l’afflusso di turisti è il massimo emblema di questa inaccettabile stortura. Bisogna ribadirlo: tale scelta contrasta strutturalmente con il rilancio di un sistema manifatturiero di qualità diffuso, socialmente e ambientalmente sostenibile perché attrae capitali nella rendita parassitaria, alimentando lavoro povero e dequalificato e costruendo le condizioni per evasione ed elusione fiscale e contributiva. Le forzature per l’ampliamento di Peretola sono incredibili. In Toscana abbiamo l’aeroporto di Pisa a meno di 100 chilometri collegato con la ferrovia: invece di potenziare la linea da Empoli a Pisa raddoppiando i binari si sono tolti i binari da Pisa all’aeroporto sostituendoli con una navetta su rotaia senza guidatore lungo lo stesso tragitto della precedente tratta ferroviaria: qualunque ingegnere trasportista vi dirà che le rotture di carico sono da evitare come la peste. Non solo: abbiamo l’aeroporto di Bologna a mezz’ora di treno da Firenze con il collegamento alta velocità. Il blocco della rendita condiziona gran parte del dibattito pubblico, e Toscana Aeroporti emette editti a mezzo stampa cercando di delegittimare ed intimidire chiunque sia portatore di una posizione diversa dall’acritica accettazione della necessità divina dell’ampliamento, siano essi pubblici amministratori legittimati dal voto popolare, comitati di cittadini, sindacalisti ed intellettuali: comportamenti in verità mi parrebbe leggermente sopiti dall’inchiesta sulla Fondazione Open, ma forse è solo una fortuita coincidenza.
La stessa Stazione di santa Maria Novella collassa per l’approdo di Alta Velocità di Trenitalia e di Italo: se non si esclude l’accesso dell’Alta Velocità a Santa Maria Novella sarà impossibile costruire un sistema ferroviario regionale basato sui bisogni di chi si muove per motivi di lavoro e di studio: le città toscane si svuotano di chi lavora e studia in Toscana, i residenti vengono sostituiti dai turisti, i bisogni di mobilità esplodono ed il sistema collassa. Collassa, ma non ancora per tutti: collassa per chi tutte la mattine impiega tempi biblici per raggiungere il proprio posto di lavoro o di studio dalla propria residenza. Tutto questo tacendo dei collegamenti ferroviari lungo la dorsale tirrenica o le tratte verso Siena o Lucca. La scelta politica deve essere netta: niente Alta Velocità a Firenze Santa Maria Novella, esclusivo accesso per treni regionali e finalmente veramente metropolitani. Parliamone, ne va della qualità dello sviluppo e della vita della nostra Regione.
FONTE: https://www.senso-comune.it/
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