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Argentina: LA SCONFITTA DI MACRI E LO SPETTRO DELLA CRISI GENERALE DEL CAPITALISMO

di Marco Nieli (da albainformazione.com)

Diceva Albert Einstein che se si vogliono cambiare i risultati delle proprie azioni, bisogna cambiare le proprie azioni. Non pare abbia seguito questo criterio di elementare logica dialettica la maggioranza degli elettori argentini che, nell’ormai lontano dicembre 2015 decise di ritornare al modello neo-liberista – questa volta impersonato dall’ex-governatore della provincia di Buenos Aires Mauricio Macri, ingegnere civile e imprenditore, appartenente all’élite porteña e fondatore delle coalizioni di destra PRO e Cambiemos – che aveva già portato il paese al default economico nell’anno 2001.

In questi 4 ultimi anni alla guida del paese, Macri e la sua “scuola” politica hanno avuto la costanza (qualcuno potrebbe dire la “faccia tosta”) di riesumare e applicare in maniera dogmaticamente sconcertante le ricette tradizionali del neo-liberismo dell’epoca di Menem ed epigoni (anni ’90), come se, nel  frattempo, nel paese e nel mondo “reale” non fosse successo nulla.  Uno dei capisaldi di questa politica di riconquista della “credibilità internazionale” del paese  è consistita  nella ripresa dei pagamenti integrali all’FMI e ai cosiddetti fondi-avvoltoio (fundos-buitre), dopo la parentesi del canje de deuda(rinegoziazione del debito) e della strenua resistenza contro le aggressioni dei rapaci speculatori della “comunità internazionale”, intrapresa dai coniugi Kirchner, alternatisi alla Presidenza dal 2003 al 2015. Con l’F.M.I. l’Argentina di Macri ha stipulato, tra l’altro, un nuovo patto-capestro per la cifra non del tutto irrisoria di 57 miliardi di dollari, uno dei prestiti più elevati concessi dall’organismo di strozzinaggio internazionale a un paese (ri)-“emergente” o del sud del mondo. I fenomeni corollari della fuga di capitali e dell’aumento esponenziale degli interessi sul debito, che hanno sottratto linfa vitale a un tessuto economico-industriale appena in fase di rivitalizzazione, sono stati solo in minima parte compensati da discutibili ripetute misure di blanqueo de dinero (lavaggio di capitali), per un totale di circa 100 milioni di dollari.

Come risultato di questo approccio di accondiscendenza estrema verso le richieste della “comunità internazionale” (leggi: dell’imperialismo U.S.A.-U.E.), simbolicamente riappacificata col mondo (vedi:  il G20 della cumbre tenuta a Buenos Aires nel 2018), l’Argentina di Macri si è tornata ad avvolgere nella spirale dell’austerity, ormai ampiamente sconfessata da gran parte dei governi dell’area U.E., con le ben note conseguenze disastrose già sperimentate alle nostre latitudini, a partire dalla crisi del 2008: un debito estero in salita vertiginosa ed esponenziale (107.525 milioni di dollari nel 2018), un aumento sensibile della disoccupazione e della sotto-occupazione (tra il 12,8 di Rosario e Mar del Plata e il 4 circa del Nord-est e altre zone della “periferia”, dove, però, è più radicata la pratica dell’economia informale), un’ascesa costante dell’inflazione reale, che ormai galoppa verso il 40% (con la corrispondente svalutazione del peso, arrivato sul mercato parallelo a un rapporto col dollaro a doppia cifra) e, ovviamenteun ritorno della povertà e dell’esclusione sociale agli indici dell’epoca della dittatura, vale a dire circa il 35% della popolazione (su circa 40 milioni di abitanti).

Con i risultati delle recenti elezioni primarie (PASO) per i candidati alle presidenziali (del prossimo 27 ottobre), che hanno assegnato a Macri il 33,27% e il 48,86% al Frente de Todos capeggiato da Alberto Fernández come candidato a Presidente e da Cristina Kirchner come vice e il conseguente crollo dell’indice della Borsa di Buenos Aires (il Merval) di 30 punti, con subitanea ascesa del dollaro a circa 56 pesos, si apre una nuova inquietante pagina nelle fluttuazioni dell’economia argentina, che rischia una nuova drastica regressione. Non si sa ancora se questa assumerà i termini della recessione seguita dalla stagnazione o un brusco collasso come quello del 2001, ma sicuramente il trionfalismo della prima ora ha subito un brusco ridimensionamento alla prova dei fatti. Al di là di tutte le congiunture e i fallimenti di circostanza, quello che torna ad agitarsi anche alle latitudini australi è lo spettro di una crisi strutturale e definitiva del sistema del capitalismo globalizzato nella sua fase imperialistica e finanziarizzata.

In effetti, il caso dell’Argentina di Macri riveste senza dubbio un interesse emblematico, almeno nell’ambito del contesto latino-americano, perché, a suo tempo, fece parlare di una “svolta a destra” del continente, in netta controtendenza rispetto alle politiche d’integrazione d’area, promosse dal genio politico del Comandante Supremo Hugo Chávez Frias, e prontamente condivise da Nestor e Cristina Kirchner in Argentina e dai Presidenti Lula e Rousseff in Brasile. Le stesse che, sulla base di una piattaforma politica ed economica paritetica, basata sui progetti dell’ALBA e della CELAC, configuravano una vera apertura “orizzontale” al mondo del multipolarismo emergente (i paesi del blocco BRICS, tra cui le potenze russa e cinese) e al gruppo dei paesi non allineati e, in termini di cooperazione equitativa, ai paesi in via di sviluppo dell’Africa e, in generale, del sud del mondo. Nel rigetto condiviso delle politiche di integrazione libero-scambista, cavallo di battaglia dell’imperialismo a matrice U.S.A.-Canada, che già avevano messo in ginocchio l’emergente economia  messicana (chi si ricorda dell’AL-CA…RAJO decretato alla proposta di Bush figlio proprio a Mar del Plata neel 2005 dal Comandante della Repubblica Bolviariana, insieme ai coniugi Kirchner e a Lula?).

Il macrismo si è, in effetti, decisamente orientato, in campo di interscambio economico come anche di proiezione geopolitica, verso l’asse nord-sud, recuperando una stretta relazione con gli U.S.A. e l’U.E. (ha iniziato le trattative per un’area di libero scambio con l’Europa, a tutto detrimento del Mercosur, dal quale ha tra l’altro cercato di far espellere il Venezuela di Maduro) e con l’area di libero commercio del Pacifico (U.S.A., Giappone, Cile, Peru; l’Argentina di Macri è stata anche una delle maggiori promotrici del gruppo di Lima, ancora una volta in funzione anti-Maduro). Ha ridimensionato enormemente lo scambio economico con la Cina di Xi Jinping e con la Russia, preferendo ritornare a indebitarsi con il F.M.I., nonostante le disastrose esperienze del passato.

Alla luce della recente sconfitta del macrismo alle primarie presidenziali in Argentina, tuttavia, sembrano più adeguate le linee interpretative di un Nestor Francia, che parla di vittorie “circostanziali”, legate al momento più che all’epoca, dal momento che l’inizio del XXI secolo ha segnato l’avanzamento continentale di politiche e governi “progressisti”, se non apertamente rivoluzionari e che la politica di piazza è sempre rimasta, anche nell’Argentina e nel Brasile “svoltate” a destra, in mano ai movimenti di resistenza ed opposizione sociale, sindacale e politica. Anche politologi di chiara fama internazionale, come Atilio Borón, ci hanno messo in guardia contro le facili interpretazioni trionfaliste dei media, generalmente inclini in questi paesi ad avallare una narrazione dei fatti più in linea con le tradizionali concentrazioni di potere, risalenti spesso all’epoca delle dittature (si pensi ai grandi gruppi monopolistici Clarín in Argentina e al gruppo Globo in Brasile, in larga misura corresponsabili dei suddetti cambi di regime), magari ammantate in salsa post-ideologica e stile “post-verità”. Il che non significa che regimi parzialmente o populisticamente “cesaristi di destra” (come anche quello di Jair Bolsonaro in Brasile), per usare una categoria gramsciana ripresa anche da Borón, non possano causare lacrime e sangue con le loro misure anti-popolari, per quanto passeggeri.

La crescente resistenza/opposizione sociale, sindacale e politica nel paese reale a quest’ostinata reiterazione di schemi, che ormai si pensava potessero essere considerati sepolti nelle cloache della storia, è stata dal governo Macri trattata con un’abile combinazione di brutale repressione (come nei casi di Milagros Sala in Jujuy e di Santiago Maldonado in Chubut) e manipolazione mediatica, in pieno stile contro-rivoluzione preventiva. In un paese dove l’Esercito si è reso responsabile, con Videla & co. della tortura ed eliminazione fisica di circa 30.000 persone, appare quanto meno ambigua la riforma per decreto dell’anno passato sulle funzioni dello stesso, chiamato a intervenire, oltre che in difesa da eventuali aggressioni esterne, anche all’interno, contro gli attacchi portati da “organizzazioni transazionali e terroristiche” contro “obiettivi strategici”.  Troppo evidente appare il progetto di colpire repressivamente l’opposizione di piazza (basta pensare ai movimenti di resistenza Mapuche al confine in Chubut e Patagonia contro le trivellazioni o l’alienazione di terre a favore dei vari Benetton di turno), perché non desti preoccupazione.

Va ricordato che uno dei (tutto sommato pochi, a parte il sostegno reciproco con il Venezuela chavista e la nazionalizzazione di Aerolineas Argentinas, dell’industria petrolifera YPF e la decisa politica a sostegno dei giudizi contro i genocidi della dittatura) meriti storici del governo di Cristina era stata l’approvazione della Ley de medios (Legge sui media), che avrebbe dovuto contribuire a smembrare l’oligopolio del gruppo Clarín nella prospettiva di un’effettiva democratizzazione del sistema delle concessioni pubbliche e dell’informazione (legge poi sospesa per sospensiva in seguito a ricorso giudiziario) e che oggi il governo Macri ha, di fatto, annullato, in nome della libertà di espressione, della concorrenza (???) e del libero (???) mercato. Principi tutti, ovviamente, contraddetti dalla persecuzione in sede giudiziaria delle reti comunitarie.

 

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