di Alexander Damiano Ricci
Cause legali per un valore complessivo di 623 miliardi di dollari americani.
È il volume di denaro colossale “chiamato in causa” da multinazionali e investitori internazionali, a livello globale, nel quadro dei procedimenti presso i tribunali di Risoluzione delle controversie tra investitori e Stati (ISDS: Investor-state dispute settlement).
A rivelare i nuovi numeri del fenomeno ISDS dalla sua nascita ad oggi, è il rapporto Red Carpet Courts – 10 stories of how the rich and powerful hijacked justice, pubblicato lunedì 24 giugno e siglato da quattro organizzazioni non-governative interanzionali: Friends of the Earth Europe (FoEE), Friends of the Earth Europe International (FoEI), the Transnational Institute (TNI) e Corporate Europe Observatory (CEO).
Ciliegina sulla torta: i 623 miliardi fanno riferimento “soltanto” al 70 per cento delle cause per cui è possibile accedere agli atti. I procedimenti ISDS sono infatti – almeno durante il loro svolgimento – tutelati da segretezza assoluta.
Ma cosa sono questi tribunali di Risoluzione?
Gli ISDS nascono verso la fine degli anni ‘50 – in piena fase di “decolonizzazione” – come strumento di garanzia per gli investitori internazionali nei confronti di misure protezionistiche ed espropriazioni attuate da governi di Paesi in via di sviluppo.
Da allora, però, sono diventati parte integrante della maggior parte degli accordi commerciali tra Stati, i così detti International trade and investment agreements. Secondo il rapporto Red Carpet Courts, oggi possono essere contati ben 2,650 trattati di questo tpo. Si tratta a tutti gli effeti della cifra che identifica meglio l’espansione del commercio globale.
“I risarcimenti effettivi accordati a multinazionali sono arrivati a un valore monstre di 88 miliardi”
Ecco allora, che, in funzione degli accordi di scambio, nel corso degli ultimi decenni (soprattutto a partire dagli anni ‘90), gli ISDS si sono trasformati in un vero e proprio sistema di arbitraggio internazionale privato,a tutela degli interessi di multinazionali e investitori.
Già, perché i procedimenti presso questi tribunali sono attivabili soltanto dai privati. In altri temini, gli Stati stanno a guardare; o meglio: si difendono come possono. Anche in questo caso, i numeri parlano chiaro. Nel 61 per cento dei procedimenti, sono le multinazionali a ottenere un arbitraggio a loro favore. Inoltre, ben 1 “litigio” su 4 si conclude con il patteggiamento. Del resto, i costi legali sono esorbitanti: in media, gli Stati spendono 4,9 milioni di dollari per gestire una causa.
Terrorismo dell’arbitraggio
Sarebbe però errato pensare che gli effetti di questo sistema di regolazione dei contenziosi si facciano sentire soltanto tramite i processi veri e propri. Joseph Stiglitz, permio Nobel all’economia, ha infatti definito il modello ISDS come un “terrorismo dell’arbitraggio” (“Litigation terrorism” in inglese). In che senso?
Spesso gli Stati sono talmente “terrorizzati” dalle potenziali conseguenze delle loro azioni che si auto-censurano nel legiferare in settori sensibili per le multinazionali. Il tutto magari a danno di interessi pubblici attinenti a settori quali ambiente e salute.
“Gli ISDS dovrebbero facilitare investimenti in Paesi in via di sviluppo perché garantiscono un terreno di confronto neutro fra Stati e multinazionali. Peccato che si tratti, appunto, di mera teoria”
Altre volte, invece, si arriva appunto allo scontro frontale. Nel 1995 i contenziosi portati in tribunale erano soltanto 6, mentre, dal 2015 in poi, sono stati ben 70 ogni anno. Più in generale, dalla nascita degli ISDS, sono state identificate 942 cause contro 117 Stati.
Se il volume “d’affari” totale di queste cause sale oltre il mezzo trillione di dollari, i risarcimenti effettivi accordati a multinazionali arrivano a un valore inferiore, ma comunque monstre di 88 miliardi.
Per dare sostanza ai numeri da capogiro dell’ISDS, il report Red Carpet Courts porta all’attenzione del pubblico 10 storie di conflitti legali tra multinazionali e Stati. Si passa dal Zimbabwe, all’Ecuador, dall Romania alla Colombia, passando per Croazia, Tailandia, Vietnam, Francia e … Italia.
Il caso Rockhopper
Il caso italiano è quello legato agli interessi di Rockhopper, una multinazionale britannica attiva nell’estrazione di gas e petrolio e che nel 2017ha fatto causa al Belpaese per il rifiuto di elargire una concessione per il trivellamento nell’Adriatico. Ad oggi, secondo il rapporto, la compensazione richiesta ammonta a 350 milioni di dollari.
Nel 2014, Rockhopper ha acquistato la piattaforma di estrazione Ombrina Mare localizzata pochi chilometri di distanza dalla costa abbruzzese. L’acquisizione arriva dopo che, già nel corso del 2013, i rischi legati alla sicurezza dell’impianto avevano fatto scattare numerose protesteda parte delle comunitàlocali.
La pressione politica sale e, nel dicembre del 2015, arrivail “colpo di scena”: un provvedimento dell’Esecutivo, approvato anche dal Parlamento, nega la possibilità di effettuare estrazioni nella fascia entro le 12 miglia nautiche. La conseguenza? Ombrina Mare non ottiene la concessione governativa per le attività.
“Il CEO di Rockhopper, Sam Moody, in una presentazione delle attività della multinazionale alla Oil Capital Conference, ha affermato che il processo non costerà nulla”
A questo punto Rockhopperfa causa allo Stato italiano dichiarando che agisce nella prospettiva di “recuperare significativi danni monetari” sulla base di profitti perduti. Insomma, oltre ai 40-50 milioni di dollari di investimenti del passato, la multinazionale chiede altri 200-300 milioni di dollari per guadagni ipotetici. Secondo gli autori di Red Carpet Courts “poche costituzioni (o giurisprudenze, nda.) nazionali considerano i profitti futuri alla stregua di proprietà privata” da tutelare. Ma è qui che entra in azione, nuovamente, la logica ISDS.
Il caso Rockhopper, per il quale si attende ancora l’arbitraggio finale, si basa infatti sul Energy Charter Treaty (ECT, in italiano “Trattato sulla sarta dell’energia”), un trattato internazionale siglato originariamente nel 1994 (in vigore dal 1998) da 55 Paesi, e volto a favorire investimenti attraverso i confini nel settore. E, in quanto tale, prevede l’accesso al meccanismo ISDS.
In realtà, l’Italia si era defilata dal Trattato già prima dell’inizio della causa (gennaio 2016). Peccato che il testo dell’ECT preveda che, per gli investimenti precedenti all’uscita di un Paese dall’accordo, i procedimenti legali presso i tribunali di risoluzione internazionali possono essere attivati fino a 20 anni dalla sortita dello Stato in questione. Inomma, l’Italia, dovrà stare con le antenne ben dritte fino al 2036.
Ciliegina sulla torta? A sostenere le spese legali di Rockhopper ci pensa Harbour Litigation Funding, il più grande finanziatore di azioni legali del Regno Unito. Ed è proprio per questo motivo che il CEO della multinazionale, Sam Moody, in una presentazione delle attività della multinazionale alla Oil Capital Conference, ha affermato che “il processo non ci costerà nulla”. Ovviamente, Moody è anche “fiducioso che l’arbitraggio si concluderà a loro favore”, entro la fine del 2019.
Chi difende il modello ISDS?
Da un punto di vista teorico, gli ISDS dovrebbero facilitare investimenti in Paesi in via di sviluppo perché garantiscono un terreno di confronto neutro fra Stati e multinazionali. Peccato che si tratti, appunto, di mera teoria.
Secondo Red Carpet Courts, alcune “ricerche qualitative hanno dimostrato che per la maggioranza degli investitori, i trattati di libero scambio – e, dunque, gli ISDS correlati – non siano un fattore decisivo per decidere se mobilitare capitale in un determinato Stato”.
Per fare un esempio concreto, “il Brasile riceve la quantità più consistente di investimenti diretti tra i Paesi dell’America Latina, senza aver mai siglato un accordo internazionale che preveda ricorsi a un ISDS”.
“Tra i tanti attori coinvolti nel consolidamento del modello c’è anche l’Unione europea, la quale, in forte contrasto con l’opinione pubblica sul tema, è uno dei principali difensori dell’ISDS”
Del resto, persino intellettuali legati a un think-tank legato alla destra americana come Cato Institute si sono espressi così in merito al fenomeno: “L’approccio ISDS […] che prevede protezione soltanto per gli investitori stranieri […] equivale quasi a dire, a livello costituzionale, che gli unici diritti che difenderemo sono quelli dei più ricchi”.
Insoma, sembrerebbe esserci una sorta di understanding bi-partisan sul tema. Eppure, tutto ciò non impedisce agli ISDS di proliferare nel quadro di nuovi accordi di scambio internazionali, come i vari AfCFTA, RCEP, CPTPP, che coinvolgono, a vario titolo, le regioni continentali di Africa, Asia, nonché Nord e Sud America.
Ma tra i tanti attori coinvolti nel consolidamento del modello c’è anche l’Unione europea, la quale, secondo Red Carpet Courts, “in forte contrasto con l’opinione pubblica sul tema, […] è uno dei principali difensori dell’ISDS”.
Le responsabilità dell’Ue
L’Unione ha finalizzato, o sta negoziando, numerosi accordi di scambio che includono ampi privilegi legali per gli investori internzionali, sebbene abbia dato un nuovo nome a tutto ciò: dall’ISDS si è infatti passati all’appellativo, Investment Court System” (“Sistema di Corti per gli investimenti”, tdr). Al di là questo cambio di approccio/nome nelle negoziazioni che l’Ue porta avanti con i propri partner, a livello globale, l’Investment Court System è diventato la testa di ponte per la creazione di una Multilateral Investment Court, un Tribunale multilaterale per gli investimenti.
Secondo gli autori del report, questa proposta dell’Ue porta con sé anche delle innovazioni positive – garanzie di maggiore trasparenza degli atti ed equità procedurale nella slezione dei giudici -, ma non cambia la “sostanza” di un meccanismo che prevede soltanto “diritti e non doveri” per gli investitori: “[Il Tribunale mulilaterale] permettere ancora a migliaia di multinazionali di evitare le corti nazionali e fare causa agli Stati tramite un sistema di giustizia parallela”.
In particolare, sono 6 le criticità elencate dal report delle quattro ONG in merito al nuovo modello delTribunale multilaterale:
- Incentiva ancora cause legali che vanno contro le decisioni legislative che difendono l’interesse pubblico;
- crea sistemi di giustizia parallela che sviliscono le corti nazionali;
- prevede che le multinazionali possano chiedere compensazioni in funzione di mancati profitti futuri;
- non arresta la “speculazione sull’ingiustizia” (ad oggi le multinazionali fanno affidamento su investitori speculativi per coprire i costi legali, come nel caso Rockhopper);
- non prevede meccanismi altrettanto forti per proteggere i diritti umani e gli interessi delle comunità locali colpite dagli investimenti.
Come dire, il lupo, cambia il pelo ma non il vizio.
FONTE: https://www.ilsalto.net/
Discussione
Non c'è ancora nessun commento.