di Tonino D’Orazio (1 maggio 2019)
E’ un documento. Mayday, mayday: i leader del movimento sindacale europeo mettono in guardia contro la minaccia dei populisti nelle prossime elezioni del Parlamento europeo. La Confederazione Europea dei Sindacati, (Ces), è un organismo non istituzionale perché la sua funzione non è contemplata nel Trattato di Lisbona (cioè non ha un tavolo di contrattazione). I politici del Partito Popolare e quelli del Partito Socialista Europeo non l’hanno voluta tra i piedi. E’ la controprova di quello che avrebbero combinato poi sul lavoro e il sociale. Sapevano già cosa fare. La CES rappresenta più di 60 milioni di lavoratori e si compone di 82 organizzazioni (di vario orientamento politico-sindacale), di 36 paesi europei, oltre che di 12 Federazioni sindacali industriali europee. Il cuore del mondo del lavoro in Europa, idealmente unitario. Sicuramente rappresenta il triplo di quelli iscritti ai partiti politici. Però può soltanto essere consultata in un non meno determinato “dialogo sociale” con alti e bassi.
Il Protocollo sociale del Trattato sull’Unione europea (firmato a Maastricht nel 1992) ha esteso i poteri della Comunità in termini di politica sociale. Senza i Sindacati che, ovviamente divisi, devono vedersela Stato per Stato. Il Protocollo è stato adottato da 11 Stati membri della CE. Il governo del Regno Unito l’ha firmato solo nel 1997, all’arrivo di Blair.
La Carta Sociale Europea riveduta a Strasburgo, 3 Maggio 1996 (L’altra era: Torino 1961, ma mai entrato in vigore non avendo ottenuto il numero minimo di ratifiche necessario), entra in vigore nel 1999, alla vigilia dell’adozione dell’Euro. Ovviamente la Carta Sociale europea è stata largamente ignorata nei più recenti sviluppi in materia di protezione dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico dell’UE. Nulla da stupirsi, non è l’Europa dei lavoratori e la Ces è all’angolo giuridicamente e istituzionalmente.
Nel 1989, il Presidente della Commissione europea Jacques Delors, nell’insistere affinché la CEE s’impegnasse a dotare il mercato interno di una forte dimensione sociale, incoraggiava l’adozione di una Carta comunitaria dei Diritti sociali fondamentali dei lavoratori. La Carta comunitaria veniva proclamata al Vertice europeo di Strasburgo del 9-10 dicembre 1989, però solo sotto forma di dichiarazione politica. Il messaggio era chiaro: la Carta comunitaria era il frutto di una scelta deliberata, quella di adottare un catalogo generale di diritti sociali specifici per la Comunità economica europea. Così, mentre l'”Europa sociale” stava emergendo come parte dell’obiettivo di completare il mercato interno, la Carta Sociale europea, più impegnativa, veniva sempre più marginalizzata.
Nel 1992, il Trattato sull’Unione europea (TUE) assegnava alla Comunità europea, tra gli altri, l’obiettivo di raggiungere un “elevato livello di occupazione e di protezione sociale” e, col protocollo sulla politica sociale, undici Stati membri pattuivano di basarsi sulle istituzioni, le procedure e i meccanismi del trattato CE per attuare un accordo sulla politica sociale (il Regno Unito, governo Thatcher, anche questa volta rifiutava di partecipare). Tuttavia, a conferma della separazione tra la costruzione di un'”Europa sociale” all’interno dell’UE e il Consiglio d’Europa, il TUE non richiama la Carta Sociale europea, bensì la Carta comunitaria dei Diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, e la proclama a Nizza nel 2001, malgrado una manifestazione memorabile e imponente della CES quel giorno.
Nel Trattato di Lisbona, “l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, (solo 7 anni dopo!), che avrà lo stesso valore legale dei Trattati”. Non la Carta Sociale. E’ l’inizio del conflitto ideologico e la spinta ulteriore all’orientamento neoliberista e anti-sociale programmato, visto che la crisi è solo del 2008.
Il riferimento alla Carta Sociale del Consiglio d’Europa intendeva costituire una fonte di ispirazione per il legislatore europeo nel campo della politica sociale. Non era, tuttavia, un riferimento vincolante né dava istruzione alla Corte di Giustizia di far valere le norme della Carta Sociale europea nell’applicazione del diritto dell’UE. La relativa invisibilità della Carta Sociale europea in questo periodo era in netto contrasto con l’attenzione prestata alla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo, nel mentre sottolineava il “significato particolare” della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo come fonte d’ispirazione per l’elaborazione dei principi generali del diritto comunitario. Questa posizione fu avallata dal Trattato di Maastricht, infatti la Corte di Giustizia rifiutava di elevare allo stesso rango la Carta Sociale europea. Per esempio, le valutazioni d’impatto che accompagnano le proposte legislative della Commissione europea, sebbene dal 2005 facciano riferimento alla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea, non contengono riferimenti diretti alla Carta Sociale europea. La Corte di Giustizia dell’Unione europea non ha compensato questa situazione: pur facendo occasionali riferimenti alla Carta Sociale europea quale fonte di orientamento per l’interpretazione del diritto dell’UE, essa ha finora rifiutato di porla allo stesso livello della Convenzione europea dei Diritti dell’uomo come fonte d’ispirazione per lo sviluppo dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto dei quali essa garantisce il rispetto. Il Sociale è un peso ideologico e giuridico per l’Unione.
Esempio lampante il parere dell’avvocato generale G. Jacobs nella causa Albany International (sentenza del 21 settembre 1999): “Per quanto riguarda il diritto di contrattazione collettiva, […] soltanto l’art. 6 della Carta Sociale europea pare riconoscerne espressamente l’esistenza. Tuttavia, il semplice fatto che un diritto sia contemplato dalla Carta non significa che esso venga generalmente annoverato tra i diritti fondamentali. La struttura della Carta è tale che i diritti in essa previsti rappresentano obiettivi politici più che diritti azionabili, e gli Stati firmatari devono semplicemente scegliere quali dei diritti menzionati nella Carta si impegnano a tutelare“. (Sic).
In generale, tuttavia, la Carta dei Diritti fondamentali dell’UE presenta lacune significative per quanto riguarda la protezione dei diritti sociali rispetto alle versioni successive della Carta Sociale europea. Alcune di queste differenze risultano dal fatto che all’UE non sono state attribuite competenze nei settori in questione. La regola predominante è: “l’Unione riconosce e rispetta il diritto X, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali“. Cioè tutto e niente.
Per esempio: se da una parte l’articolo 1 della Carta Sociale europea dispone l’impegno, da parte degli Stati alla realizzazione e al mantenimento “del livello più elevato e più stabile possibile dell’impiego in vista della realizzazione del pieno impiego“, la disposizione equivalente nella Carta dei Diritti fondamentali dell’UE si riferisce unicamente alla libertà per tutti di lavorare senza farne derivare un dovere da parte dello Stato di impegnarsi a creare impieghi per tutti.
Con l’approvazione del Trattato di Lisbona nel 2007, si è deciso di integrare la Carta dei Diritti fondamentali nei trattati. Ma comunque le garanzie sociali non avrebbero potuto essere invocate come “diritti soggettivi” autonomi e azionabili individualmente facendo diventare I diritti sociali solo “principi”.
In fondo i diritti che derivano dalle disposizioni del Trattato CE relative alla libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali prevalgono su quelli previsti dalla Carta Sociale. Sta tutto qui.
L’adozione della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea può essere considerata quindi come un’occasione persa. Essa avrebbe potuto contribuire a rafforzare le relazioni tra l’UE e la Carta Sociale europea e a superare la tendenza a dare priorità alla tutela dei diritti civili e politici (caro ai Radicali) su quelli sociali nell’ambito dell’integrazione dell’Unione europea: al contrario, questa implicita gerarchia tra le due classi di diritti è stata ampiamente confermata e continua ad essere un tallone di Achille per le organizzazioni dalla preminenza inclusiva del sociale, cioè dei sindacati.
Certamente il ruolo della CES, con il “dialogo sociale”, ha ottenuto risultati, congedo parentale (1996); lavoro a tempo parziale (1997); contratto a tempo determinato (1999); accordi tramite relazioni industriali, telelavoro (2002); stress legato al lavoro (2004); molestie e violenze sul luogo di lavoro (2007). Molto meno nell’applicazione generale della Carta Sociale, e alcune sconfitte pesanti come la Bolkestein (2006) e l’aumento anti-storico del lavoro settimanale (2003) in una fase in cui la robotica porrebbe altri problemi di produttività.
C’è qualcosa di vagamente situazionista nella proclamazione inter-istituzionale del «Pilastro europeo dei diritti sociali» da parte di Commissione, Consiglio e Parlamento dell’Unione solennemente riuniti al vertice di Göteborg nel novembre 2017. Dopo aver distrutto non poco nel sociale si rilanciano solennemente buoni propositi, visto l’approssimarsi delle elezioni europee. Surreale perché la natura giuridica del pilastro si appunta sulla scelta di affidarlo a un atto di soft law, (privo di valore normativo), per quanto solennemente adottato, con l’ambiziosa pretesa di una sorta di rifondazione politico-costituzionale dei diritti sociali nell’Unione europea, mai più veramente credibile per un orientamento ormai così fortemente neoliberista del sistema. Infatti il pilastro è stato ideato – segnatamente per la zona euro (ancorché con apertura a tutti gli Stati membri) – solo con l’obiettivo (politico) di «fungere da guida per realizzare risultati sociali e occupazionali efficaci in risposta alle sfide attuali e future così da soddisfare i bisogni essenziali della popolazione e per garantire una migliore attuazione e applicazione dei diritti sociali». Un altro dialogo tra sordi. Forse a tempo scaduto.
Allora eccoci alle elezioni europee con il sentimento generale, popolare, che la UE non ha mantenuto effettivamente nessuna promessa di una vita migliore per tutti in questi ultimi 20 anni, snobbando il sociale e i sindacati. Anzi il suo autoritarismo si è palesato ai popoli, in tutta la sua crudeltà, nella situazione greca. Dalla crisi del 2008, abbiamo un’Unione europea che ha promesso progressi sociali mentre ha incoraggiato invece misure severe di austerità che hanno ampliato le disuguaglianze, minando allo stesso tempo il tenore di vita e la capacità dei sindacati di contrattare e intraprendere azioni collettive per accordi più equi. Non ha generato solo diffuso scetticismo ma anche rabbia sull’ingiustizia sociale programmata. Difficile fare appelli alla democrazia per questo tipo di Europa che ha arricchito pochi e impoverito molti, anzi moltissimi. Moltissimi sono proprio i più deboli (di cui si occupano in genere i sindacati) dello stato sociale distrutto: lavoratori, disoccupati, giovani, donne, immigrati, come sempre, in una continuità storica disarmante.
Da qui il difficile appello di Luca Visentini, Segretario Generale della CES: “Chiediamo ai cittadini dell’UE di votare per la democrazia e la giustizia sociale, per un’Europa più giusta per i lavoratori e contro l’estremismo, l’intolleranza e l’odio”. “Possiamo votare per i candidati che sostengono la democrazia, la libertà e il progresso sociale”. E’ quasi un atto di fede in tempi burrascosi.
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