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Sentenza Aemilia, la mafia al nord c’è e ora si vede.

di Stefano Morselli

Centoventicinque condanne. Oltre milleduecento anni complessivi di carcere. Decine e decine di beni mobili e immobili confiscati (aziende, quote societarie, terreni,, mezzi agricoli e industriali, automobili e moto, appartamenti e garage, conti correnti e polizze assicurative). Risarcimenti per parecchi milioni di euro alle parti civili (Stato, Regione Emilia Romagna, Province di Reggio Emilia, Modena e Parma, una quindicina di Comuni, sindacati Cgil, Cisl e Uil, associazione artigiani Cna, Confindustria, associazione antimafia Libera, associazione anti-usura, Ordine dei giornalisti e Aser).

Dopo due anni e mezzo di udienze (195) e due settimane di camera di consiglio, ai giudici del Tribunale reggiano sono servite due ore piene per la sola lettura della sentenza che ha scritto la parola fine in primo grado al troncone più grande del mega-processo Aemilia. Per leggere le motivazioni complete bisognerà aspettare altri tre mesi, ma intanto la sentenza conferma l’impianto accusatorio sostenuto dai pubblici ministeri Mario Mescolini e Beatrice Ronchi per conto della Direzione distrettuale anti-mafia di Bologna: tra l’Emilia e la bassa Lombardia esiste e opera una agguerrita cosca di ‘ndrangheta, figliata dalla casa madre di Cutro con a capo il boss Nicolino Grande Aracri, ma dotata di autonomo radicamento territoriale e propria capacità organizzativa. Da molti anni più impegnata negli affari sporchi e silenziosi che nelle sparatorie, ma pur sempre dedita alle intimidazioni, alle minacce, alle vessazioni usuraie, agli attentati incendiari.

Non che ci fossero molti dubbi, dopo la raffica di arresti, il lungo processo, le rivelazioni dei pentiti. E dopo la cinquantina di condanne già comminate in primo e secondo grado nell’altro troncone del processo, quello con rito abbreviato a Bologna, che proprio pochi giorni fa sono state quasi tutte confermate in via definitiva dalla Corte di Cassazione (solo per pochi imputati, tra i quali Giuseppe Pagliani, ex consigliere comunale di Forza Italia, la Cassazione ha disposto la ripetizione del processo). Su alcuni dei più importanti capi della cosca erano già piovuti decenni di carcere, con la conferma del capo d’accusa più grave, appunto l’associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetista. Per gli altri, condanne altrettanto o anche più pesanti sono arrivate a Reggio. Quelli che, a seguito di nuove imputazioni formulate dai pubblici ministeri durante il processo, avevano scelto una ripartizione dei capi di accusa tra il rito ordinario iniziale e un recupero del rito abbreviato (che in caso di condanna consente uno sconto di pena) hanno finito per accumulare la somma di venti, trenta e anche più anni. A ruota, con condanne via via meno pesanti, una lunga fila di comprimari, gregari, soci in affari, prestanome, portatori d’acqua con responsabilità di vario ordine e grado. Se l’è cavata, per assoluzione con formula piena o per prescrizione del reato, soltanto una minoranza di imputati minori.

La sentenza reggiana segna dunque una ulteriore tappa nel percorso di disvelamento delle dimensioni e della gravità della penetrazione ‘ndranghetista. Non solo per il gran numero di condannati, tra i quali non mancano gli emiliani doc, ma anche per il riconoscimento del danno subito dal tessuto sociale ed economico locale. Da qui l’ammissione a parti civili delle amministrazioni pubbliche e dei sindacati. Questi ultimi, in particolare, hanno visto riconosciuta la lesione ai diritti dei lavoratori prodotta dalle connivenze tra noti imprenditori reggiani e modenesi e la criminalità organizzata. Non per caso, soprattutto la Cgil reggiana – anche ieri in presidio con striscioni e bandiere davanti al Tribunale – in questi anni ha dedicato molto impegno, anche sul piano della informazione, all’intera vicenda.

Il coinvolgimento volontario di imprenditori, professionisti, faccendieri emiliani – erano loro a cercare i mafiosi, non viceversa, dicono i pubblici ministeri – è uno degli aspetti più inquietanti che indagini e processo hanno portato alla luce. Anche innescando altri filoni di indagine, attualmente in corso, su un ricco repertorio di evasioni e frodi fiscali, false fatturazioni, riciclaggi, truffe ai danni dello Stato, bancarotte fraudolente. Ancora ieri, al termine della lettura della sentenza fiume, i giudici hanno reso nota la decisione di trasmettere nuove “notizie di reato” emerse nel corso del processo alla Procura della Repubblica per le valutazioni e gli eventuali procedimenti che riterrà di avviare. Tra questi nuovi filoni, uno riguarda i testimoni in odore di reticenza o false dichiarazioni: addirittura una cinquantina. Numeri che ricordano da vicino le paure e le omertà nei territori di antica tradizione e alta intensità mafiosa. Ennesima prova del fatto che la battaglia contro la ‘ndrangheta è una emergenza che riguarda tutto il Paese.

 

FONTEhttps://cambiailmondo.wordpress.com/wp-admin/post-new.php

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