di Tonino D’Orazio
Ci risiamo, si annuncia un’altra pioggerella elettorale. E’ stato approvato dal governo, in Italia, il Reddito di Inclusione (ReI), che parte da gennaio 2018, come assegno universale contro la povertà. Il richiamo fasullo è per circa 1,8 milioni di famiglie povere, dichiarate dall’Istat, ma in realtà si rivolgerà solo a circa 20.000. Poiché, per ottenerlo, le barriere sono tali da ridurre drasticamente il numero degli aventi diritto. Il beneficio economico può arrivare fino a 485 euro, secondo il numero dei componenti del nucleo familiare richiedente, e occorre essere in possesso di determinati requisiti di reddito ISEE (Indicatore della Situazione Economica) e ISRE (la somma del patrimonio disponibile di tutta la famiglia), rispettivamente, al massimo di 6.000 e 3.000 euro.
Infatti, sono proprio i requisiti che preoccupano perché riducono enormemente la platea. Sarà data la priorità ai nuclei familiari, che abbiano al loro interno figli minori o inabili (o disabili, che probabilmente già percepiscono un minimo di assegno sociale), donne in gravidanza, disoccupati di età maggiore ai 55 anni (quindi niente giovani ultra diciottenni senza lavoro, loro hanno già quello quasi gratuito del famigerato jobs act a favore). Oltre a possedere i requisiti, il beneficiario, è tenuto a sottoscrivere e a seguire minuziosamente quanto stipulato con il cosiddetto “progetto personalizzato di attivazione sociale e lavorativa”, un piano messo a punto dal Comune e nello specifico dal centro per l’impiego, servizi sanitari, scuole e soggetti privati attivi nel settore del contrasto alla povertà, gli enti no profit e la chiesa cattolica, finalizzato al superamento della situazione di povertà ed esclusione sociale dell’intera famiglia.
Altrimenti, il bonus è immediatamente sospeso ed occorre poi aspettare un bel po’ prima di poterlo richiedere di nuovo, se non addirittura di doverlo rimborsare. Inoltre il bonus si riduce se sono già presenti trattamenti assistenziali percepiti dalla famiglia nel periodo di fruizione del ReI, o il possesso di altri redditi, fatta eccezione di redditi come l’indennità di accompagnamento.
Le condizioni sono: avere un reddito Isee fino a 6.000 euro; avere un ISR sotto i 3.000 euro; avere un patrimonio immobiliare, diverso dalla casa di abitazione, non superiore a 20mila euro; un valore del patrimonio mobiliare (depositi, conti correnti) non superiore a 10mila euro. Tale soglia, scende a 8 mila euro in caso di coppia e a 6 mila euro per la persona sola). E che nessun componente del nucleo debba: percepire la Naspi o altro ammortizzatore sociale di sostegno al reddito in caso di disoccupazione involontaria; possedere autoveicoli e/o motoveicoli immatricolati nei 24 mesi prima la domanda. (In caso di lavoretti, si va in bicicletta!). Dalla suddetta condizione, sono esclusi gli autoveicoli e i motoveicoli acquistati con la legge 104; possedere navi e imbarcazioni da diporto (questo è giusto, tenuto conto di quanti casi di squisiti possessori “nullatenenti” sono attivi in questa area).
Il ReI sostituisce a tutti gli effetti (ecco la grande riforma delle tre carte) sia l’ASDI (Assegno di Disoccupazione) che il SIA (Sostegno Inclusione Attiva).
La trafila? La domanda va fatta al comune, il quale, una volta accettata, consegnerà una carta di credito sulla quale l’Inps (Istituto pensionistico che ormai serve a tutto) verserà l’accredito, (ancora le banche! si deve avere un conto corrente ovviamente) all’avente diritto, ma per i documenti obbligatori e necessari (Isee) bisogna andare al Caaf. Per l’ISRE, se si è capaci, si può fare da soli. (Non consigliato).
Sembrerebbe a prima vista che io sia contro questo provvedimento, in realtà sono contro i pannicelli caldi su ferite mostruose e quindi contro le roboanti prese in giro. Comunque, se può aiutare qualche povero tra i poveri, ci mancherebbe! Tra l’altro sul reddito di cittadinanza l’Italia è l’unico paese, sempre insieme alla Grecia, (e all’Ungheria), a non prevedere forme di sostegno di questo tipo. Mi viene anche un altro dubbio, e cioè che questo provvedimento così selettivo. ma senza controllo, come succede spesso in Italia, vada semplicemente ad alimentare situazioni di reddito o di lavoro al nero di sopravvivenza già preesistente.
Da noi, in Italia, il costo di un reddito minimo universale di cittadinanza è stato quantificato in 15-17 miliardi, (M5S, e Misto-Sel), cifra alta ma non impossibile se si considera che per lo sgravio Irpef da 80 euro sono serviti circa 10 miliardi, gran parte gravanti sull’Inps.
Anche altri paesi con tradizioni molto più civili del nostro, e anche in Europa, seguendo dai diktat della troika di Bruxelles, balbettano e fanno marcia indietro sul “sociale”; a guardare bene, vi sono alcuni argomenti sottili e percorsi da decifrare che sembrano avere un filo rosso di congiunzione: Stato sempre più leggero e fai da te.
Ad esempio il Canada. Ontario: Reddito di Base garantito a tutti i cittadini. L’idea è di consegnare un assegno mensile che sostituisca il complesso sistema di sussidi statali in vigore. L’assegno dovrebbe essere in grado di coprire il reperimento di tutti i beni di prima necessità: il cibo, i trasporti, le bollette e l’abbigliamento, ma allo stesso tempo permettere allo stato di ottenere risparmi nella spesa pubblica in aeree anche come quelle dell’assistenza medica e dei sussidi immobiliari.
La Finlandia ha già proposto una simile iniziativa e dovrebbe lanciarla quest’anno, mentre la città olandese di Utrecht ha avviato un esperimento del genere a gennaio. Il Consiglio comunale di Zurigo ha appena approvato il Reddito di Base incondizionato e, a breve, tutti gli abitanti della città avranno a disposizione un “salario di Stato garantito” di 2.500 franchi mensili, ossia circa 2.200 euro, più 625 franchi, ossia circa 550 euro per ogni minore.
Secondo gli esperti il reddito di base incondizionato non dovrebbe portare problemi allo Stato, perché andrebbe a sostituirsi a quasi tutte le diverse prestazioni sociali già in vigore e in più a rilanciare il “consumo”, altro argomento da filo rosso pensato sempre come salvifica soluzione che magari comporta un effettivo “rientro” fiscale.
L’altro argomento nuovo è quello di una specie di salario, anche se non si lavora. Se è vero che vi sarà sempre meno lavoro nel futuro è bene che l’idea cominci a diventare realtà e che sia programmata, come stanno facendo le società avanzate e meno feudali. Visti i risultati ottenuti con la “flessibilità”, il precariato e la povertà indotta, il lavoro non è più sinonimo di reddito. Forse è l’unico modo per cui lo stato può tornare a svolgere il suo ruolo di ridistributore democratico della ricchezza prodotta, prendendola magari, direttamente, dove è.
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