Il Cile alle sbarre

di Rodrigo Rivas


Questo lavoro è diviso in due parti. In questa prima parte racconto, per sommi capi, la storia cilena dal 1970 al 1990. Nella seconda, i 30 anni del dopo dittatura, soffermandomi soprattutto sulla ribellione sociale del 2019, sul governo di Gabriel Boric e sulla posta in gioco delle elezioni del 14 dicembre prossimo.

Il Paese è in procinto di concludere il giro politico del mondo in 53 anni.

Domenica 14 dicembre il Cile andrà al ballottaggio per eleggere il suo nuovo presidente o, mi auguro, la sua nuova presidente.

Al primo turno, svoltosi il 16 novembre, ha partecipato l’85% degli elettori.

Ha vinto la candidata unica del centrosinistra, Jeannette Jara, col 27% dei suffragi.

Il secondo arrivato, José Manuel Kast, rappresentante della ultradestra, ha ottenuto il 24%, ma i 3 candidati di destra presenti al primo turno hanno totalizzato il 49%. Quindi, per evitare che Kast arrivi al 50% più uno, forse ci vorrebbe padre Pio.

Com’è stato possibile che il Paese di Salvador Allende sia arrivato a questo?

Per cercare di spiegare i giri di valzer di questo giro del mondo – senza Jules Vernes, Passepartout e/o la NASA – si deve fare qualche passo indietro.

Quella primavera australe in cui il vento della notte soffiava nel cielo cantando.

Il 4 settembre 1970, col 36,3% dei voti Salvador Allende, candidato della sinistra, otteneva la maggioranza relativa nelle elezioni presidenziali. Secondo arrivava il conservatore Jorge Alessandri col 34,9% dei voti. Terzo, col 27,8%, il democristiano Radomiro Tomic.

Il Paese era diviso in tre blocchi quasi equivalenti e, non essendo previsto il ballottaggio, a dover scegliere tra i primi due doveva essere il Parlamento.

Malgrado enormi pressioni la DC, “per rispetto della volontà degli elettori”, decise di votare per il primo arrivato. I parlamentari DC erano 75, quindi i lorovoti furono decisivi.Allende diventò presidente con 153 voti, Alessandri ne ebbe 35.

Allende assunse l’incarico il 4 novembre 1970 ma, in quei 2 mesi d’interregno, successe l’anticipo di tutto.

Ogni epoca passata non è stata migliore e Trump non è il primo bullo che diventa presidente degli USA.

Con la sua consueta e raffinata eleganza il presidente Richard Nixon tuonò: “Faremo tutto ciò che è necessario per rovesciare questo figlio di puttana”.

Il suo Segretario di Stato, Henry Kissinger, aggiunse: “Non c’é ragione alcuna per cui si debba accettare che un popolo d’imbecilli scelga di diventare comunista”.

L’ambasciatore statunitense a Santiago, Edward Korry, precisò ulteriormente: “Mettetevelo in testa: d’ora in avanti non permetteremo che vi arrivi nemmeno un bullone, nemmeno un chiodo”.

Simultaneamente, sui muri comparivano i disegni della svastica con la scritta “Giacarta”.
Fatti con lo stampino e l’inchiostro azzurro, firmati “Patria y libertad” (Patria e Libertà) i riferimenti erano ovvi. Quello politico, il nazismo, sarà riproposto fino ad oggi nella storia cilena. Quello geografico, Giacarta, era altrettanto chiaro ma ora richiede una spiegazione.

“Il settembre nero indonesiano”


Nella notte tra il 30 settembre e il 1° ottobre del 1965 un gruppo di ufficiali di basso rango, autodefinitosi “Movimento del 30 Settembre”, rapì e uccise sei generali indonesiani. L’esercito, guidato dal generale Suharto, ne attribuì la responsabilità al Partito Comunista Indonesiano (PKI), allora una forza politica importante e molto vicina al presidente Sukarno.

Quindi, dall’ottobre 1965 al marzo 1966, in tutto l’arcipelago indonesiano la repressione raggiunse livelli parossistici.

Le stime sul numero di morti variano ma tutte concordano che ci furono almeno 500.000 uccisi e oltre un milione di persone finite in carcere.

Il presidente Sukarno era – con l’egiziano Nasser, l’indiano Nehru e lo jugoslavo Tito – uno dei leader del movimento dei “Paesi Non Allineati” ma, per motivi forse spiegabili sul piano personale, accettò di trasformarsi in un soprammobile. Continuò a fregiarsi del titolo di presidente fino alla sua deposizione definitiva, nel marzo 1967, quando il generale Suharto decise di prescinderne, di prenderne il posto e di spedirlo a casa per manifesta inutilità.

La crudeltà come strumento politico.

Nel Cile, il ragnetto nazista assunse un significato nitido, identificando la comparsa e consolidamento della crudeltà come strumento politico, non per risolvere qualcosa ma per introiettare la paura.

Da quel momento in avanti la crudeltà è uno strumento sempre pronto nel cassetto degli attrezzi dei politicanti intenti a tratteggiare finte risposte a crisi vere o immaginarie.

Pur se il Cile non ne ha né l’imprimatur né l’esclusiva, “Crudeltà e Paura” sono il cacciavite e il trapano (forse anche la sega) di Kast.

Ci ritornerò nella seconda parte. Per ora, mi limito a ribadire che i nazisti non scherzano mai, neppure quelli dell’Illinois evocati da John Belushi e Dan Aykroyd in “The Blues Brothers” (1980) ma sembra che questa esperienza non sia trasmissibile e l’esperienza deve avvenire sulla propria carne.


Comunque: il 25 ottobre 1970, due giorni prima del voto parlamentare concluso con l’elezione di Salvador Allende, un commando locale  del sentiero dei ragni nazisti, uccideva il comandante in capo dell’esercito, generale René Schneider, reo di non  impedire la libera espressione degli elettori.


L’assassinio, pensato per intimidire il parlamento, fu  ispirato da un generale golpista, Roberto Viaux, mai disturbato per questa minuzia, e perpetrato con le armi, l’intelligence ed i soldi statunitensi. Piccoli delinquenti, pure loro impuniti, realizzarono ciò che allora sembrava inimmaginabile e poi diventò un fenomeno continentale con il “Plan Cóndor” (Piano Condor): l’assassinio non conosce limiti morali e/o confini geografici.

Pur conscio del pericolo, il Cile non si arrese e Salvador Allende diventò “il compagno presidente”.
Negli USA ci vollero alcuni anni perché il bullo Nixon fosse costretto alle dimissioni in seguito allo scandalo Watergate.

Ma le sue dimissioni, 1974, non possono spiegarsi solo con lo spionaggio politico (Bush e Obama, ad esempio, fecero spiare persino Angela Merkel), e/o con la tenacia di due grandi giornalisti.


Si svilupparono in un contesto segnato dall’acuta crisi politica e sociale presente da anni negli Stati Uniti acutizzata – soprattutto – dalla guerra del Vietnam. Henry Kissinger, un Jack lo squartatore all’ingrosso, è stato invece riverito fino alla sua scomparsa – qualche svergognato lo fa ancora – tanto da ricevere il Nobel per la pace nel 1975.

Da allora, possono aspirare legittimamente al Nobel per la pace la Nato, Paperino l’immobiliarista (al secolo Trump), il secondino salvadoregno Bukele, il cerbero FMI e persino Macron, il Napo senza leone in via di disoccupazione. Eccetera.


Socialismo e democrazia


Essendo ancora sostanzialmente incompreso e/o ignoto, spiegare il progetto di Salvador Allende e della Unidad Popular richiederebbe molto spazio. Ne riassumo solo alcuni tratti fondamentali: il socialismo era inteso come sinonimo della democrazia senza fine, il pane e le rose, la terra a chi la lavora, il recupero della sovranità da trasformare in risorse per rendere fattibile la ricerca della felicità.
Quindi, la parola d’ordine era più diritti per tutti, da quelli di base – salari, pensioni, salute, scuola, informazione – a quelli ascrivibili alla dignità personale – uguaglianza di generi e di scelte; da quelli legati alla sicurezza personale e collettiva a quelli legati alle rivendicazioni dei popoli originari.


Il progetto prevedeva la proposta simultanea di tutto e tutti questi diritti fondamentali e le relative politiche, senza ambiguità, in un contesto di assoluta libertà persino – ahimè – per organizzare la sedizione.


E, infatti, nei 1.000 giorni di Allende furono assassinati molti dei nostri ma nessun oppositore. Victor Jara scrisse nel 1973 “El Alma llena de banderas” (L’anima pien di bandiere), per il funerale di uno dei nostri ragazzi: “Qui, fratello, qui sulla terra, l’anima ci si riempie di bandiere che avanzano, contro la paura, avanzano”.

La paura di Washington e delle piazze finanziarie non aveva alcun rapporto col collettivismo forzato o con l’estremismo della sinistra cilena. Derivava dall’esempio che il processo cileno poteva offrire perché, come la paura, pure l’esempio è contagioso.


La fine del sogno

Sono stati 1.000 giorni difficili e straordinari.

Il recupero delle risorse del Paese, tramite la nazionalizzazione delle miniere, la riforma agraria e la costruzione di un’area di proprietà sociale in grado d’indirizzare l’economia – con regolari indennizzi – furono utilizzati per isolare internazionalmente il Cile.

Mentre gli USA facevano requisire i prodotti esportati e disegnavano un blocco economico globale, l’Europa osservava placidamente, il campo socialista ci propinava qualche applauso e qualche zolla (vendendoci trattori e macchinari agricoli inadeguati, ad esempio), e  buona parte della sinistra, per dirlo con la Rossanda, assisteva perplessa ad “un sperimento socialdemocratico” che, senza insurrezione, prese di palazzi d’inverno né armi, intendeva costruire il  socialismo adoperando quali strumenti la libertà e la democrazia.

Più pratici e sensati, nel frattempo la destra interna ed i servizi  organizzavano il golpe, i trasportatori uno sciopero lungo un mese pagato dalla CIA, i commercianti l’imboscamento delle merci e il mercato nero, i bulloni e chiodi non arrivati si traducevano nel fermo di  macchinari e fabbriche …


Ma nulla fu sufficiente e, malgrado le interminabili file per la benzina o l’acquisto di un pollo, nell’elezioni parlamentarie del maggio 1973 l’Unidad Popular alle legislative prese il 44% dei voti, l’8% in più di quanto aveva preso Allende.

Era la dimostrazione pratica che il progetto acquistava forza, che quella “battaglia di Santiago” – raccontata da Patricio Guzman – era stata vinta dai poveracci e che Neruda sembrava avere ragione: “… non soffrire perché vinceremo, vinceremo noi, i più semplici, vinceremo, anche se tu non lo credi, vinceremo” (“Ode all’uomo semplice”).

A quel punto, la congrega degli orchi arrivò alla conclusione che solo un golpe militare poteva risolvere il problema.


Viscidi traditori


Alle 8 di sera del lunedì 10 settembre 1973 Salvador Allende comunicò ai dirigenti della coalizione di sinistra convocati alla Moneda:

La Marina e l’Aeronautica vogliono il golpe.

Siamo sull’orlo della guerra civile e/o del golpe.


Bisogna evitare che una di queste ipotesi si concretizzi.

Quindi domattina, 11 settembre, convocherò i cileni ad un referendum da realizzare entro questo mese.


Ci sarà una sola domanda: Volete che l’attuale governo continui a svolgere le sue funzioni o volete nuove elezioni presidenziali immediatamente?

Perderemo il referendum ma saremo vicini al 50%.

Il giorno dopo, mi dimetterò. Sarà la prova provata del nostro incondizionata rispetto per la democrazia.


Poi, il nostro candidato potrebbe persino vincere ma, se perdiamo, saremo la prima forza politica del Cile e ricominceremo da condizioni molto migliori …

Ora, compagni, dovete scusarmi, ma vi devo lasciare. Mi hanno appena comunicato che è arrivato l’amico e comandante in capo dell’esercito, Augusto Pinochet.

L’ho convocato per comunicargli il piano che vi ho appena illustrato.

Sono andato a dormire a casa, non accadeva sempre in quel periodo, con un misto di sollievo e di tristezza.


Mi svegliai con le cannonate verso le 6,30 del mattino.

Accessi la radio. Quasi tutte trasmettevano inni militari ma da Radio Magallanes seppi che Allende era in arrivo al palazzo di governo.

Feci le cose ovvie e concordate, bruciai ogni agendina e uscimmo di casa con mia moglie. Arrivati al primo posto di blocco ci separammo e ognuno partì verso le rispettive strutture organizzative.


Non ho mai più visto quella casa ma, poco prima di mezzogiorno, vidi da molto vicino il bombardamento della Moneda.

A partire delle 14,00, ero coinvolto nel coprifuoco totale in ottemperanza al proclama militare: “Chiunque sarà trovato per strada senza esserne autorizzato, verrà fucilato sul posto”.


Poi, arrivarono clandestinità, tante morti e l’esilio.

Se i pirla volassero, sarebbe sempre nuvolo.

Ma, se a volare fossero solo gli “ingenui”, riuscirebbero a rabbuiare il cielo?

A pensarci oggi, eravamo proprio degli ingenui perché le nostre riflessioni non incorporarono mai l’idea che la vita e la morte fossero delle bazzecole per alcuni governi e politicanti, e perché pensavamo che una sinistra democratica e rivoluzionaria potesse essere accettata dai padroni del vapore.


Ingenui e illusi, ergo perdenti, abbiamo avuto bisogno di tempo per capire che l’orrore esiste e non è solo un ricorso letterario di Joseph Conrad o di Primo Levi.

Ebbero inizio così oltre 17 anni di una dittatura feroce e rapinatrice, protagonista di un progetto, il neoliberismo, sorto da teorici austriaci, diffuso da università statunitensi, sperimentato nel pollaio indifeso dell’America Latina sottomessa agli stivali militari proprio per condurre tale sperimentazione.


L’allievo sacrificale fu proprio il Cile, da dove il sistema venne presto esportato in Europa e negli USA per rispondere alla crisi sistemica derivata dal calo del tasso di profitto.

Forse, quando la signora Thatcher diffuse la “Sindrome TINA” (“There Is Not Alternative”), e affermò che “non esistono le società ma solo gli individui”, pensava al Cile di Pinochet e ai “Chicago boys”.

E, forse, quando Pinochet disse, sogghignando, “ci sono tante fosse comuni perché, da ecologisti, abbiamo voluto risparmiare territorio”, pensava a qualche governante del Nord globale.

Comunque, Pinochet se ne dovette andare, sconfitto democraticamente il 5 ottobre 1988 quando, ormai convinto di dominare il Paese come un Francisco Franco qualsiasi, indisse un referendum per approvare una costituzione che l’avrebbe consacrato presidente, eletto, per un’altra decina d’anni.


Ne era talmente certo che autorizzò persino l’ingresso per qualche settimana di quasi tutti gli esuli ed osservatori internazionali.

Solo di giornalisti ne arrivarono 5.000, tra cui io.

Avevamo la speranza che si potesse sconfiggere la dittatura pur se l’analisi e alcune forze della sinistra cilena lo contraddicevano.

Pinochet perse, 54 a 44% e quella sera stessa, mentre trasmettevo in diretta ad una manifestazione milanese, Pinochet ricomparve “in alta uniforme”. Intentò un nuovo golpe, ma era ormai fuori tempo poiché a Washington era passato il tempo dei golpe duri. Quindi, rimase isolato tra i generali e una parte della destra politica lo abbandonò pubblicamente.

Seguirono giorni di esacerbata repressione ma, alla fine, dovette cedere concedendo la tenuta delle elezioni presidenziali per la fine del 1989.

Nel marzo 1990 giurò come presidente il democristiano Patricio Alwyn, che aveva vinto alla testa di un’alleanza di centrosinistra, la Concertación de partidos por la democracia (Concertazione dei partiti per la democrazia).

Nel suo ultimo discorso Allende aveva predetto che “le grandi strade si sarebbero riaperte presto al passaggio di uomini e donne liberi”.

Alwyn disse invece che i cambiamenti sarebbero avvenuti “nella misura del possibile”.

La differenza non era trascurabile ma, quasi 18 anni dopo, i giorni tornarono gradualmente ad essere amichevoli e le notti spesso amorevoli e, col ritorno della vita, malgrado tutto il Cile ricominciò il lungo viaggio di ricostruzione della sua democrazia.




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