“Rispondiamo all’oligarchia e all’autoritarismo con la forza che temono. Se c’è un modo per terrorizzare un despota è smantellare le condizioni che gli hanno consentito di accumulare potere”. Con queste parole Zohran Mamdani ha festeggiato nella notte italiana la sua elezione a sindaco di New York. Il secondo più giovane della storia, il primo mussulmano, e secondo alcuni persino “socialista”…
Ma andiamoci piano. La vittoria di Mamdani è netta. 50 per cento dei voti con un’affluenza record: hanno votato oltre due milioni di newyorkesi come non succedeva dal 1969. Assiste invece incredula la coalizione di gruppi e interessi – dai repubblicani ai democratici più moderati, ai ricchi e potenti di New York – che hanno fatto di tutto per appoggiare il principale rivale, Andrew Cuomo, il politico della potentissima vecchia guardia democratica, che si è fermato al 41,6 per cento dei voti. Al palo sono rimaste anche diverse diverse lobby ebraiche che hanno fatto di tutto per ostacolare Mamdani date le sue posizioni pro-palestina.
Tutto bello… ma è inutile farsi troppe illusioni: non può essere certo un Mamdani qualunque a cambiare le strutture del capitalismo e dell’imperialismo americano. Da abitanti della periferia dell’Impero la domanda che dovrebbe veramente interessarci è quanto il successo di figure del genere rallentino o accelerino il declino dell’Impero stesso.
Oppure, nel breve periodo, è giusto chiedersi se Mamdani diventerà come già successo in passato il volto friendly e Woke dell’ultraimperialista e capitalista Partito Democratico o potrà magari convincere il partito a virare su posizioni un po’ meno antipopolari e militariste di quelle passate (Clinton, Obama, Biden, Harris etc). Per avere quindi delle risposte che andassero oltre la superficie entusiasta del mainstream “progressista”, abbiamo chiesto un commento al prof Alessandro Volpi e a Marco D’eramo.
FONTE: https://www.youtube.com/@OttolinaTV
Mamdani sindaco di New York, i Democratici vincono anche in Virginia e New Jersey
A nove mesi dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, i Democratici conquistano un triplice successo che ribalta il quadro politico statunitense e restituisce al partito fiducia e slancio in vista delle legislative del 2026. Le consultazioni di martedì, le prime di rilievo nazionale dall’insediamento del presidente repubblicano, hanno visto il trionfo di tre figure diverse per provenienza e profilo ma unite da un messaggio comune: riprendere in mano la guida del Paese puntando su equità economica e stabilità sociale.
A New York, la vittoria più simbolica: Zohran Mamdani, 34 anni, democratico socialista, è diventato il nuovo sindaco della metropoli, segnando una svolta storica. Nato come deputato locale semisconosciuto, Mamdani ha condotto una campagna virale e militante, conquistando un elettorato stanco delle élite tradizionali e determinato a riaffermare i valori progressisti della sinistra americana. Davanti a una folla entusiasta ha lanciato un messaggio diretto al presidente: “Se c’è un modo per spaventare un despota è smantellare le condizioni che gli hanno permesso di accumulare potere. Donald Trump, so che ci stai ascoltando, ho tre parole per te: alza il volume”.
In Virginia e nel New Jersey, due stati tendenzialmente moderati, hanno prevalso invece le centriste Abigail Spanberger, 46 anni, e Mikie Sherrill, 53. Entrambe hanno ottenuto risultati netti, sconfiggendo i candidati repubblicani e restituendo ai Democratici la guida di due governatorati chiave. Spanberger ha battuto la vicegovernatrice repubblicana Winsome Earle-Sears e ha dedicato la vittoria “al pragmatismo contro il caos”, mentre Sherrill ha superato Jack Ciattarelli, successore designato dell’uscente Phil Murphy.
I risultati rappresentano un segnale chiaro del malcontento verso la gestione trumpiana, segnata da un lungo shutdown federale e da politiche divisive in materia di immigrazione e commercio. In Virginia, stato con un’ampia presenza di dipendenti pubblici, la minaccia di licenziamenti di massa annunciata dalla Casa Bianca ha pesato sulla campagna repubblicana. In New Jersey, la decisione del presidente di bloccare i fondi per la costruzione del tunnel ferroviario sotto l’Hudson ha alienato migliaia di pendolari.
Il voto è stato anche un banco di prova per le strategie interne al partito democratico: da un lato l’ala progressista di Mamdani, che propone tasse più alte per grandi patrimoni e imprese, blocco degli affitti, trasporti gratuiti e servizi sociali universali; dall’altro quella centrista di Spanberger e Sherrill, più attenta alla sostenibilità economica e al voto indipendente. La coesistenza tra queste due anime, per una notte, ha funzionato.
Con oltre il 60% di affluenza, la più alta a New York dal 1969, il voto di martedì ha segnato una partecipazione eccezionale di giovani e lavoratori urbani. Mamdani, primo sindaco musulmano nella storia della città, ha sconfitto l’ex governatore Andrew Cuomo, rientrato in corsa come indipendente dopo la perdita della nomination democratica. Cuomo aveva definito il rivale “un radicale pericoloso”, ma il risultato mostra quanto sia cambiato l’umore dell’elettorato.
Sul piano nazionale, i Democratici ottengono anche un vantaggio tecnico: in California gli elettori hanno approvato la revisione della mappa elettorale, ridisegnando i distretti in modo favorevole al partito. Una mossa che potrebbe incidere sull’esito della futura corsa alla Camera dei Rappresentanti.
Trump, dal canto suo, ha reagito accusando la stampa e il Congresso dello stallo politico, lamentando di non essere personalmente in lista e scaricando le responsabilità sulle conseguenze dello shutdown. Ma i risultati di New York, Virginia e New Jersey dimostrano che la base trumpiana fatica a mobilitarsi senza la presenza diretta del suo leader e che la promessa di “ordine e prosperità” fatica a tradursi in risultati concreti.
Per i Democratici, il triplice successo non è solo un dato elettorale ma un segnale di rinascita. Dopo mesi di sconfitte e di smarrimento, il partito sembra aver ritrovato voce e direzione. Resta da capire se l’entusiasmo potrà trasformarsi in un progetto politico stabile, capace di contendere al presidente il controllo del Congresso nel 2026. Per ora, però, la notte del 4 novembre 2025 segna la prima vera crepa nel secondo mandato di Donald Trump.














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