di Marco Consolo – (da: MC-Blog)
Queste note sono dedicate alla comprensione geo-politica della fase e di un possibile prossimo futuro nel quadrante compreso tra il Medio Oriente e l’Asia, dopo l’attacco di Israele contro la Repubblica islamica dell’Iran del 13 giugno scorso, la risposta iraniana ed il successivo bombardamento statunitense. Attacchi che hanno ridato fiato agli sfegatati tifosi dell’Occidente ed alla loro speranza che finalmente l’odiato regime degli Ayatollah possa cadere, aprendo le porte alla meravigliosa democrazia occidentale.
Il giudizio politico sul regime iraniano è netto, viste le sue caratteristiche di una teocrazia dittatoriale, con elezioni e una pluralità di candidati, purché approvati dal Consiglio supremo degli Ayatollah. Con un predominante integralismo religioso che calpesta libertà e diritti (a partire da quelli delle donne), ed una violenta repressione delle più elementari libertà democratiche. Come si ricorderà, così come le altre formazioni di sinistra e marxiste, i comunisti iraniani sono stati sanguinosamente repressi sin dai tempi dell’ayatollah Khomeini, dopo aver condotto la lotta contro il regime dello Shah Reza Pahlavi, sostenuto da Stati Uniti e Gran Bretagna.
Ma qualunque ipotesi di liberazione nazionale deve nascere all’interno delle società oppresse e non da pretestuosi interventi esterni, sempre interessati e strumentali. Da parte nostra, non si può rimanere indifferenti a una guerra imperialista contro una nazione periferica che si batte per il suo inalienabile diritto alla difesa della sovranità nazionale.
La richiesta di una soluzione pacifica deve essere l’asse portante della solidarietà con il popolo iraniano, visto che si tratta di un conflitto che purtroppo non è terminato, ma solo sospeso.
La guerra di un Occidente in declino
La guerra contro l’Iran è parte della battaglia degli Stati Uniti per non perdere il controllo unipolare del mondo, mantenere l’egemonia del dollaro e, allo stesso tempo, frenare l’integrazione euro-asiatica con la Cina e la Russia. Gli Stati Uniti sembrano pronti a difendersi con estrema violenza per mantenere il loro ruolo egemonico e, nel sistema internazionale, non c’è mai stata una transizione pacifica per la supremazia. Il rischio concreto è che, con una egemonia agonizzante, facciano esplodere una Terza Guerra Mondiale con caratteristiche inedite e imprevedibili per l’umanità.
In quest’ultima occasione, in una sola operazione criminale, l’impero del caos (in compagnia dell’alleato Israele) ha violato per l’ennesima volta la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale, il Trattato di non Proliferazione nucleare (TNP), la Costituzione statunitense che delega al Congresso la dichiarazione di guerra, e ha ingannato la cosiddetta “comunità internazionale”, nonché la propria base elettorale.
E’ chiaro che questa guerra manda in frantumi l’immagine proiettata in campagna elettorale di Trump come “pacificatore”. Un’immagine che oggi è messa in discussione anche dalle mobilitazioni sociali negli Stati Uniti, a partire da quelle degli immigrati che hanno portato in piazza almeno 5 milioni di persone in decine di città statunitensi.
Arrogante e grottesco, Trump si vanta della potenza ed efficacia del suo esercito, nonché di aver battuto un colpo sullo scenario internazionale, ma non sembra tener conto del fatto che “Gli Stati Uniti hanno aperto la scatola di Pandora… e nessuno è in grado di dire che nuove catastrofi e sofferenze provocherà” [i].
La Repubblica islamica dell’Iran affronta da decenni sanzioni, embarghi e guerra asimmetrica. Finora, lo scontro con Israele era stato caratterizzato da una specie di “guerra nell’ombra”, con sabotaggi, attacchi informatici e omicidi mirati. Ma l’aggressione israeliana del 13 giugno alle infrastrutture militari e nucleari iraniane ha segnato una nuova fase della decennale strategia occidentale. Una strategia volta a smantellare e “balcanizzare” i Paesi a guida musulmana che avevano resistito al dominio coloniale, a partire da Iraq, Siria e Libia.
In un’intervista del 2011 a Channel 2, il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu lo affermava senza mezzi termini: “Questi regimi radicali… rappresentano una minaccia significativa”, sottolineando la necessità di impedire loro di acquisire una capacità nucleare.
L’importante strategia aggressiva del 2001 [ii], ideata dagli Stati Uniti e seguita dai loro alleati europei e da Israele, è entrata in una nuova fase, per ora prendendo di mira l’Iran, con l’attenzione posta sulla Cina, ma anche sul Pakistan.
Il regime islamico iraniano è il principale ostacolo al pieno dominio occidentale in Medio Oriente. Ciò è chiaro fin dal 1953, quando il Regno Unito e gli Stati Uniti appoggiarono un colpo di Stato militare che rovesciò il governo di Mohammad Mossadeq, colpevole di voler nazionalizzare la compagnia petrolifera Anglo-Persian Oil Company, con l’attivo sostegno del clero sciita militante. Dal 1953, Usa e GB sostennero la dittatura mascherata da monarchia dello Scià Reza Pahlavi, fino alla vittoria della rivoluzione popolare guidata dal clero sciita nel 1979: una grave battuta d’arresto per quella strategia di dominio.
A costo di un genocidio senza precedenti in questo secolo, Israele ha indebolito militarmente Hamas, ma questo non ha significato l’annientamento della resistenza palestinese. In Libano, Israele ha colpito la prima linea di Hezbollah, ma la neutralizzazione delle milizie libanesi è stata relativa. In Yemen gli Houthi sono stati bombardati, ma mantengono le loro posizioni. Nonostante queste innegabili vittorie militari, il governo del criminale di guerra Netanyahu ha sperimentato un isolamento internazionale mai vissuto prima da Israele, e destinato probabilmente ad aumentare.
Oggi, Israele e gli Stati Uniti cercano anche di approfittare della caduta di Assad in Siria per imporre una sconfitta storica all’Iran. La potenza delle armi può sembrare il fattore decisivo in una guerra, ma non è sufficiente. L’Iran è una società relativamente più articolata. Un governo può essere sconfitto, ma la sottomissione di una nazione è cosa molto più complessa. Una lezione che gli Stati Uniti avrebbero dovuto imparare dal Vietnam, dall’Iraq e dall’Afghanistan.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA)
In questo frangente, un grave errore degli Stati Uniti è stato permettere a Israele di attaccare l’Iran mentre stava negoziando con Washington. Con il suo intervento e con le giustificazioni addotte, Israele ha totalmente delegittimato l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), contrapponendosi radicalmente ai risultati dei suoi controlli. Un comportamento che caratterizza le politiche dello Stato sionista sin dalla sua nascita, negando ogni principio del diritto internazionale e ogni deliberazione dei suoi organismi e facendo sempre carta straccia di tutte le risoluzioni dell’ONU.
Dalla sua creazione, Israele conta sull’impunità garantita dalla “comunità internazionale”, ma bombardando aree civili e assassinando figure civili, militari e scientifiche di alto livello, Israele ha oltrepassato la khatte qermez (linea rossa) dottrinale iraniana. Ciò ha giustificato la legittima difesa dell’Iran, in conformità con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Il bottino iraniano
L’Iran è il 4° produttore di petrolio al mondo, 3° in quanto a riserve petrolifere e 2° per riserve di gas naturale (rispettivamente 13,3% e 16.2% delle riserve globali, in base ai dati forniti dall’OPEC nel 2022) [iii].
Il ripristino delle “sanzioni” USA ha frenato da tempo gli investimenti per l’ammodernamento degli impianti e per costruire nuove infrastrutture, oltre alla contrazione dell’esportazione di greggio.
Successivamente alla diminuzione delle esportazioni durante il periodo pandemico, l’Iran ha incrementato l’export di petrolio e gas grazie ad un accordo commerciale con la Cina. Si stima che per la combinazione di “sanzioni” internazionali e l’accordo con il gigante asiatico, più dell’80% dell’export di petrolio e gas iraniano sia diretto in Cina.
Geopolitica dell’Iran
Già nel 2003, il generale statunitense Wesley Clark segnalava l’Iran come la pietra angolare dei 7 Paesi che Washington doveva controllare per dominare il Medio Oriente, iniziando in Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e terminando con il Paese persa.
L’importante posizione geografica dell’Iran gli permette di controllare lo Stretto di Hormuz. Se Teheran decidesse di chiuderlo, provocherebbe un’onda d’urto inflazionistica sull’economia mondiale, con una vertiginosa riduzione di almeno il 20% dell’offerta di petrolio e gas e i prezzi alle stelle. Decine di Paesi non sarebbero in grado di acquistarlo e ciò avrebbe anche un alto costo politico ed economico per l’Iran.
Ma l’Iran non è solo la pietra angolare del controllo del Medio Oriente, del suo petrolio e delle sue riserve in dollari. L’Iran è un attore chiave del programma cinese “Belt and Road” per una nuova via della seta ferroviaria verso l’occidente che, collegandosi via terra, evita le sfere di influenza degli Stati Uniti. Se gli Stati Uniti riuscissero ad abbattere il governo iraniano, si interromperebbe il lungo corridoio di trasporti che la Cina ha costruito e spera di ingrandire ancor di più verso ovest.
L’Iran è altrettanto essenziale per bloccare il commercio e lo sviluppo della Russia attraverso il Mar Caspio e l’accesso al Sud, evitando il Canale di Suez. E, in caso di controllo degli USA, un regime fantoccio iraniano potrebbe minacciare la Russia dal fianco sud.
L’inizio del conflitto USA-Iran
Una possibile data di inizio dell’ennesimo conflitto scatenato dagli Stati Uniti contro l’Iran potrebbe essere l’8 maggio 2018, quando nel suo primo mandato come presidente, Donald Trump firmò il ritiro unilaterale degli Stati Uniti dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA). Un accordo firmato nel 2015 dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Cina e Francia, oltre all’Unione Europea, che regolava di fatto il programma nucleare iraniano.
Con il suo ritiro unilaterale, Trump ha messo da parte i meccanismi concordati che delimitavano la sfera nucleare iraniana. Una decisione che esplicita, sin dal 2018, la volontà di Trump di cancellare il percorso tracciato da Obama.
Tra i “motivi” alla base di questa ennesima aggressione in spregio al diritto internazionale, mi pare si possano evidenziare i seguenti.
Il “regime change” e la mappa politica della regione.
L’imperialismo statunitense, tramite il sub-imperialismo (riottoso) di Israele, punta a ridisegnare la mappa politica dell’intera regione. Dopo Iraq, Libia, Siria, Palestina, si tratta di rovesciare il governo della Repubblica Islamica. Uno Stato indipendente con un grado di coesione sociale interna che sarebbe un errore sottovalutare, ancor di più dopo una aggressione esterna che può ricompattarne la società. In un gioco delle parti, Benjamin Netanyahu ha “trascinato” Donald Trump in una improvvisa svolta politica che ha provocato dissenso persino tra l’estrema destra (Maga e America First) che lo sostiene.
Non c’è dubbio che il “cambio di regime” è l’obiettivo minimo sia di Israele, che della Casabianca.
Dalla rivoluzione islamica del 1979, il governo e il popolo iraniano sono stati tra i maggiori sostenitori della lotta di liberazione nazionale palestinese. Dal 1979, la posizione di principio assunta dall’Iran è stata la rottura di tutte le relazioni economiche e diplomatiche sia con il Sudafrica, che con Israele dell’apartheid. Da allora, l’Iran ha sostenuto politicamente, finanziariamente e militarmente diversi movimenti di liberazione palestinesi. Questo è uno dei motivi non secondari della guerra di Israele contro l’Iran.
Il programma nucleare iraniano.
Nel 2003 gli Stati Uniti hanno invaso e occupato l’Iraq. Come è noto, il presunto motivo della guerra era che l’Iraq sarebbe stato in possesso di armi di distruzione di massa ed era sul punto di produrre armi nucleari. Una guerra terribile che, secondo la rivista medica Lancet, ha causato la morte di circa 600.000 arabi musulmani in Iraq e ha generato 3,9 milioni di rifugiati iracheni, la guerra civile e la distruzione totale dell’infrastruttura del Paese.
E dopo quella tragedia, oggi la storia si ripete come farsa, seppur tragica. Ovvero, se credete a Babbo Natale, di certo crederete a Trump, a Netanyahu e ai pretesti israeliani. Sono 30 anni (dal 1995) che Netanyahu racconta al mondo che l’Iran è pronto a realizzare un’arma nucleare, questione di settimane, massimo di mesi…… Peccato che sono passati 30 anni e della bomba non c’è ancora traccia.
Sarebbe davvero ingenuo pensare che il piano di Tel Aviv sia solo quello di impedire all’Iran di dotarsi di una arma nucleare.
Da sempre, l’Iran sostiene che il suo programma nucleare sia esclusivamente per uso civile. L’Iran ha rispettato i termini del Piano d’azione congiunto globale (JCPOA), firmato nel 2015. In base all’accordo, gli ispettori dell’AIEA avevano accesso illimitato a tutti gli impianti nucleari iraniani e vi era trasparenza nel programma nucleare. Peccato che, come visto sopra, sono stati gli Stati Uniti di Trump a rompere unilateralmente l’accordo di cui erano firmatari.
Secondo le parole della direttrice dell’intelligence nazionale statunitense, Tulsi Gabbard, alla commissione intelligence del Senato nel marzo del 2025, la comunità di intelligence “continua a ritenere che l’Iran non sta costruendo un’arma nucleare e che il leader supremo Ayatollah Ali Khamenei non ha autorizzato il programma di armi nucleari che ha sospeso nel 2003”. Infatti, per chi non lo sapesse, nella Repubblica islamica vige un decreto religioso ufficiale dell’ayatollah Ali Khamenei che le vieta. Da anni, la “Guida della Rivoluzione islamica” ha dichiarato che produrre un’arma nucleare è immorale, illegale e anti-islamico.
Come si ricorderà, l’Iran è firmatario del Trattato di non proliferazione (TNP), monitorato dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA) delle Nazioni Unite di cui deve subire stringenti controlli periodici, anche senza nessun preavviso. Negli ultimi anni, su pressione di Washington, l’Agenzia ha anche intensificato gli interventi, preoccupata di possibili inadempienze dello Stato islamico in merito all’arricchimento dell’uranio.
Nei giorni scorsi, il parlamento iraniano ha votato la sospensione della cooperazione con l’AIEA e l’interdizione a entrare nel Paese al suo direttore generale, l’argentino Rafael Grossi. Secondo Grossi “la cooperazione dell’Iran con noi non è un favore, è un obbligo legale, finché l’Iran rimarrà un firmatario del Trattato di non proliferazione (TNP)”.
Da parte sua, l’Iran accusa l’AIEA di aver facilitato l’attacco militare con il suo rapporto reso pubblico qualche ora prima dei bombardamenti israeliani. Nonché di aver passato ad Israele informazioni su possibili obiettivi per i suoi attacchi sia contro gli scienziati, che contro le istallazioni nucleari iraniane. “Abbiamo lavorato per molti anni per dimostrare al mondo che siamo impegnati nel TNP e disposti a lavorare nel quadro di questo trattato, ma purtroppo non è stato in grado di proteggere noi o il nostro programma nucleare“, ha aggiunto il Ministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi.
Secondo fonti diplomatiche europee, gli Stati Uniti avevano già deciso l’attacco lo scorso 19 giugno, giorno in cui Trump aveva annunciato che avrebbe concesso a Teheran due settimane per tornare al tavolo delle trattative. Lo stesso giorno in cui, a Ginevra, i vertici diplomatici di Regno Unito, Francia e Germania (il cosiddetto E3), assieme all’alto rappresentante UE per la Politica Estera, Kaja Kallas, incontravano il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, che al momento dell’attacco statunitense si trovava in Turchia. “La settimana scorsa eravamo nel pieno dei negoziati con gli Stati Uniti quando Israele ha deciso di far saltare la diplomazia” ha detto Araghchi. “L’altro ieri abbiamo avuto colloqui con i Paesi dell’E3 e con l’Unione Europea, quando gli Stati Uniti hanno deciso di far saltare la diplomazia. Qual è quindi la conclusione? Per la Gran Bretagna e l’UE è l’Iran che deve “tornare” al tavolo. Ma come possiamo tornare a un tavolo che non abbiamo mai lasciato e che non siamo stati noi a ribaltare?” [iv].
L’Unione Europea, un nano politico totalmente marginale, è ancora una volta alla finestra. Come già accaduto più volte negli ultimi anni, un tempo protagonisti nei negoziati nucleari con Teheran, gli europei sono oggi marginalizzati, costretti a subire le conseguenze di decisioni prese da Washington, con scarso margine di manovra della loro diplomazia da vassalli per influenzarne l’esito. Al contrario. L’azione più significativa dei molti Paesi europei che appartengono alla NATO è stata la recente decisione di aumentare al 5% le spese della difesa, su gentile suggerimento di Trump.
Pulcinella e le bombe di Israele
Mentre lo Stato ebraico attacca le strutture iraniane con il pretesto di impedire a Teheran di dotarsi di una bomba nucleare, viceversa le sue capacità in questo campo rimangono ufficialmente un segreto. Un segreto di Pulcinella, denunciato già dagli anni ’80 dal tecnico nucleare israeliano Mordechai Vanunu, poi rapito a Roma dal Mossad nel 1986 e imprigionato nelle carceri israeliane per 18 lunghi anni.
L’unico dubbio è sulla quantità di ordigni nucleari in possesso di Israele (secondo gli esperti tra 100 e 200), mai dichiarati e mai sottoposti ad alcun tipo di controllo, poiché il Paese non ha mai sottoscritto il TNP (il Trattato di non Proliferazione Nucleare) e non è pertanto sottoposto alla supervisione della AIEA.
Sul piano interno
Sono diversi i motivi interni a Israele per la tempistica di questo attacco.
Il tempo di Netanyahu sta per scadere e la fine della sua carriera politica è più vicina. Netanyahu ha appena rinnovato la richiesta di rinvio del suo processo per frode e corruzione, iniziato nel maggio 2020. La richiesta di rinvio si aggiunge a una serie di tattiche dilatorie che hanno caratterizzato la fase giudiziaria nei tribunali.
È lampante il fatto che l’attacco serva anche a distrarre l’attenzione del mondo dal genocidio in atto a Gaza e nel resto della Palestina occupata, nascondendosi dietro il pretesto della difesa nazionale. Oltre ad accreditarsi agli occhi del mondo (in particolare dell’amato e odiato padrino statunitense) come potenza nello scacchiere mediorientale.
Per decenni, Israele ha operato con impunità quasi totale e con una percezione di invulnerabilità, sostenuta da una tecnologia avanzata e dall’immancabile protezione degli Stati Uniti. Questa percezione è finita con i missili che hanno bucato la protezione antiaerea della “cupola di ferro”, rompendo il paradigma della supremazia militare israeliana e dell’inviolabilità del suo territorio. Il vento della paura ha cambiato direzione e Israele ha ricevuto qualche pillola della stessa medicina che da anni propina al popolo palestinese e ai popoli vicini.
Basi e truppe a stelle e strisce
Da parte sua, il Pentagono ha più di 53.000 ufficiali e soldati dislocati in 21 basi militari, navali e aeree in 10 Paesi dell’Asia occidentale (Turchia, Kuwait, Siria, Iraq, Qatar, Arabia Saudita, Oman, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Giordania), molti dei quali accompagnati dalle loro famiglie, oltre a un forte contingente di civili che forniscono servizi alle basi militari. La base più lontana è in Giordania, a 1575 km di distanza, mentre le più vicine sono in Kuwait, Bahrein, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, situate sulla sponda occidentale del Golfo Persico a soli 200 km dalle basi missilistiche iraniane. Una di queste ospita la 5a Flotta della Marina statunitense, di stanza in Bahrein, con 7.000 militari.
Da non dimenticare, l’appoggio quotidiano all’apparato militare di Washington garantito dalle basi statunitensi in Italia (a partire da Sigonella e dal MUOS), con il beneplacito ed il pieno supporto del governo Meloni.
L’Iran vieta Starlink in risposta al terrorismo tecnologico occidentale.
Il contesto del divieto dell’uso di Starlink rimanda alla dimensione geopolitica del conflitto. Durante il bombardamento israeliano del territorio iraniano del 13 giugno, i sistemi Starlink di Elon Musk sono stati strategicamente utilizzati per interrompere deliberatamente la rete internet nazionale durante gli attacchi militari. La conferma è arrivata dallo stesso Musk, che ha postato su X il messaggio “I raggi sono accesi” appena 24 ore dopo l’inizio dell’offensiva israeliana. Un messaggio che conferma il coordinamento tra le aziende tecnologiche occidentali e le operazioni militari contro l’Iran [v].
Guerra contro i BRICS ?
Oggi i BRICS contribuiscono al PIL mondiale più del G7, il polo che sostiene apertamente Israele. L’Iran è entrata a far parte del gruppo di Paesi BRICS dal 1° gennaio 2024, mentre dal 2023 è membro della Shanghai Cooperation Organization (Sco), l’istituzione asiatica di cooperazione e sicurezza che comprende anche Cina, Russia, India, Pakistan e Bielorussia.
L’apertura di Pechino all’Iran si basa sulla sicurezza energetica e sulla profondità strategica del rapporto tra i due Paesi. La Cina riconosce l’Iran come un fornitore cruciale per il suo fabbisogno energetico e le sue operazioni commerciali. L’ambiziosa iniziativa Belt and Road (BRI) per collegare il continente eurasiatico dipende dalla stabilità di Teheran e Islamabad, con i porti di Chabahar (Iran) e Gwadar (Pakistan) come snodi fondamentali per l’espansione cinese verso ovest.
L’attacco serve anche a mettere alla prova e valutare la reazione di Mosca, Pechino e degli altri membri dei BRICS all’ostentazione della superiorità militare statunitense.
Uno dei temi caldi nel dibattito internazionale è la “de-dollarizzazione” degli scambi internazionali. Nel 1970, più del 90% del commercio mondiale era in dollari, oggi questa cifra è inferiore al 47%. Il paradosso è che sono gli stessi Stati Uniti ad aiutare questo processo dato che sanzionano circa 3 miliardi di cittadini (circa il 40% della popolazione mondiale) e impediscono loro di usare il dollaro.
Sebbene l’Occidente sia uscito trionfante dalla “Guerra fredda” e l’Unione Sovietica sia scomparsa, non è riuscito a “gestire” la sua vittoria. Le istituzioni create (prima fra tutte l’ONU) sono state silurate dagli stessi Stati Uniti che si sono ritirati da molte di queste, indebolendo l’Occidente come centro del potere mondiale.
Iran, Cina e Israele
Dal punto di vista degli strateghi statunitensi, l’ascesa della Cina suppone un pericolo esistenziale per il controllo unipolare di Washington, visto il dominio industriale e commerciale del gigante asiatico che supera l’economia statunitense e minaccia i suoi mercati ed il sistema finanziario globale dollarizzato.
Lo scorso 14 marzo Cina, Iran e Russia si erano riunite a Pechino proprio per discutere del programma nucleare iraniano. Al margine della riunione, il viceministro degli esteri cinese, Ma Zhaoxu, aveva dichiarato che «le parti interessate dovrebbero impegnarsi a eliminare le cause profonde della situazione attuale e ad abbandonare le sanzioni, le pressioni e le minacce di forza» [vi]. Un consiglio caduto nel vuoto.
Dopo gli attacchi di Netanyahu all’Iran, la reazione ufficiale cinese non si è fatta attendere. L’ambasciatore di Pechino all’ONU, Fu Cong, ha condannato l’aggressione, esortando Israele a «cessare immediatamente ogni avventurismo militare». Il giorno dopo, il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, al telefono con il suo omologo israeliano Gideon Saar, ha ribadito che «tali azioni sono particolarmente inaccettabili mentre la comunità internazionale sta ancora cercando una soluzione politica alla questione nucleare iraniana».
Wang Yi si era anche detto disponibile ad attivare la mediazione di Pechino. Ma il successivo intervento militare di Trump contro Teheran e il rafforzamento della presenza militare statunitense nella regione hanno tolto spazio ai tentativi di mediazione di Pechino.
Sia nella regione mediorientale, che in Asia occidentale, Pechino oggi deve quindi giocare su due fronti. Da una parte, è interessata a mantenere la stabilità, in una regione che da tempo fornisce alla Cina la maggior parte del greggio di cui ha bisogno. Una regione in cui sono aumentati fortemente il commercio bilaterale e gli investimenti, sia in entrata che in uscita, e che ha fatto parlare di “Pivot to Asia”. In questo quadro, la Cina non ha nessuna intenzione di perdere l’Iran, un Paese che si è rivelato una potenza regionale dopo il rovesciamento di Saddam Hussein in Iraq nel 2003.
D’altra parte, parallelamente alla difesa dei suoi interessi nell’area, Pechino deve anche tener conto dei rapporti bilaterali prioritari con gli Stati Uniti, in una fase di duro scontro commerciale e di tensioni esplicite.
Il giorno dopo gli attacchi israeliani ai siti nucleari iraniani del 13 giugno, di fronte alla crescente minaccia di guerra ed alla sua ulteriore estensione, il Ministro degli Esteri iraniano Araghchi ha avuto colloqui urgenti con il suo omologo cinese Wang Yi [vii].
Lo scorso 25 giugno, il Ministro della Difesa iraniano, Aziz Nasirzadeh, è arrivato in Cina per un forum sulla sicurezza regionale, ospitato dal Ministro della Difesa cinese, Dong Jun. Il suo primo viaggio all’estero di cui si ha notizia dall’inizio della guerra con Israele. Secondo fonti non confermate, Pechino avrebbe dato il via libera al trasferimento della tecnologia del suo sistema di navigazione satellitare BeiDou (BDS) all’Iran, formalizzato in un nuovo memorandum d’intesa bilaterale. Un aggiornamento che avrebbe migliorato di molto la precisione degli attacchi missilistici iraniani.
Perché la Russia non sostiene l’Iran con aiuti militari ?
All’inizio del 2025, Vladimir Putin e Masoud Pezeshkian, Presidente dell’Iran, hanno firmato un accordo di partenariato strategico che ha rafforzato l’alleanza tra i due Paesi.
Secondo il Wall Street Journal [viii], i due Paesi hanno già collaborato in Siria per mantenere Bashar al-Assad al potere e l’Iran avrebbe sostenuto l’offensiva russa in Ucraina con armamento. Secondo il quotidiano statunitense, “Putin vuole evitare un’escalation di violenza che potrebbe rivelarsi inutile per Iran e Russia. Vuole anche preservare le relazioni con Israele e i suoi legami con Trump, che si è astenuto dal sanzionare la Russia nonostante la riluttanza del Cremlino a impegnarsi in colloqui di pace sostanziali con l’Ucraina”.
Giorni fa, giornalisti di tutto il mondo hanno chiesto a Putin perché non fornisse armi all’Iran per aiutarlo a fronteggiare gli attacchi di Israele. Putin ha risposto che l’Iran “non è molto interessato” alle armi russe e che non ha fatto alcuna nuova richiesta in tal senso.
La Russia e la Cina, le due potenze globali che stanno espandendo la loro presenza nell’Asia occidentale, interpretano questo conflitto come un chiaro segnale che l’Iran non svolge più un ruolo meramente simbolico nella resistenza contro il sionismo.
Ma, al di là dei comunicati di condanna, mentre la Cina punta a guadagnare tempo, l’impressione è che la Russia, non voglia giocare un ruolo da protagonista nello scontro in atto, per avere a cambio concessioni dagli Stati Uniti sul fronte della guerra in Ucraina. Almeno per il momento.
Iran, Pakistan e Cina
Poco si parla del Pakistan, uno dei Paesi dell’area che dispone di un arsenale nucleare e non aderisce al TNP. Denominato ufficialmente Repubblica Islamica del Pakistan, è il 5° Stato più popoloso al mondo (con una popolazione superiore ai 252 milioni di abitanti) ed il 35º più esteso del pianeta.
Fino a poco tempo fa, i rapporti tra Iran e Pakistan non erano certo dei migliori. Come si ricorderà, il 16 gennaio del 2024, l’Iran aveva lanciato attacchi missilistici e con droni contro la regione pakistana del Baluchistan, colpendo le posizioni del gruppo estremista Jaish al-Adl. Il Pakistan ha risposto subito dopo, con attacchi aerei e missilistici contro la provincia iraniana del Sistan e Baluchistan, in un’operazione chiamata Marg Bar Sarmachar. A conti fatti, la “scaramuccia” abbastanza “amichevole” sembra aver risolto alcune questioni critiche di cooperazione tra i due Stati.
Da quella data, come evidenziato dai recenti sviluppi, c’è stato un cambio di posizione di Islamabad, nonostante le smentite ufficiali sul sostegno militare o materiale all’Iran nel suo scontro con Israele. Il Pakistan ha rivelato che droni israeliani hanno tentato di sabotare le strutture nucleari pakistane durante la crisi India-Pakistan di maggio. Questo è uno dei motivi per cui Islamabad sta sostenendo Teheran nella guerra con Israele.
Oggi, questi ex avversari [ix] -che si erano impegnati in scontri militari diretti – hanno adottato tra loro una “solidarietà determinata”. Mentre Tel Aviv intensifica le ostilità, Pakistan e Cina sembrano coordinarsi strettamente con Teheran. Subito dopo la chiamata tra i ministri degli esteri di Pechino e Teheran, il 14 giugno il Presidente iraniano Masoud Pezeshkian ha incontrato il Primo Ministro pakistano Shehbaz Sharif, che ha espresso la forte solidarietà di Islamabad all’Iran [x]. Ha inoltre aggiunto che il Paese è fermamente al fianco del popolo iraniano in questo momento critico.
Sul fronte diplomatico, Islamabad ha appoggiato la richiesta di Teheran di convocare una sessione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sull’aggressione israeliana e ha esplicitamente appoggiato il diritto dell’Iran all’autodifesa, insieme ad Algeria, Cina e Russia. Il Pakistan ha svolto un ruolo chiave nell’amplificare l’iniziativa iraniana con un coordinamento sul fronte diplomatico che indica una maggiore convergenza all’interno del blocco euroasiatico.
Non è un gesto da poco da parte di un Paese considerato un possibile obiettivo della “dottrina preventiva” di Israele.
Monarchie arabe e controllo delle coscienze
Le guerre non si combattono solo con le armi e la battaglia per il controllo delle coscienze è importante quanto le bombe. Nel mondo, quasi due miliardi di persone sono musulmane e si stima che circa il 10% siano sciiti, almeno duecento milioni.
Il conflitto aperto ha aumentato il sostegno internazionale del mondo arabo e musulmano e di grandi potenze che vedono Israele come aggressore e l’Iran come aggredito. Nell’ambito dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC), 22 Paesi hanno firmato una dichiarazione di sostegno a Teheran, tra cui alcuni Stati tra i più grandi e potenti come l’Arabia Saudita, il Pakistan e la Turchia. Non è un dettaglio che alcuni dei Paesi in passato nemici dell’Iran (come la stessa Arabia Saudita), ora lo sostengono, condannando l’aggressione sionista.
Le monarchie arabe che, grazie ai cosiddetti “Accordi di Abramo”, avevano normalizzato le relazioni con Israele si trovano di fronte a un dilemma strategico: continuare a fare affidamento sulle garanzie di sicurezza occidentali o iniziare ad affrontare le conseguenze di uno scontro aperto? Nelle loro posizioni, i singoli governi dell’area non possono non tener conto delle spinte delle loro popolazioni, che in questi mesi hanno dato vita ad enormi mobilitazioni anti-israeliane e pro-palestinesi. Sarà quindi da verificare se le monarchie del Golfo (e la stessa Turchia) rivedranno la loro posizione negli equilibri di potere regionale.
Gli USA
La guerra contro l’Iran sta aumentando la spesa militare, spostando fondi dal welfare, il che a sua volta aumenta la crisi politica interna negli Stati Uniti. La base sociale che ha votato per Trump si sente ingannata, visto che l’attuale Presidente in campagna elettorale aveva promesso di uscire dalle guerre e di non iniziarne altre, mentre sta facendo tutto il contrario. Trump rischia la sconfitta alle urne mentre il calendario elettorale si chiude il 4 novembre con le elezioni generali in New Jersey, New York, Pennsylvania e Virginia. Sono elezioni che stabiliranno le tendenze e saranno fondamentali per proiettare le sue strategie per le elezioni presidenziali del 2028. Il duro scontro in atto è trasversale, sia dentro i democratici, che nei repubblicani. Uno scontro che esprime gli interessi contrastanti delle diverse frazioni di capitale in disputa. Bisogna tener conto che l’elezione di Trump è espressione di una profonda divisione delle classi dominanti.
Sul piano interno, la crisi sociale è stata assai più rapida della caduta di egemonia e di immagine internazionale. Infatti, la crisi del 2008-2009 ha contribuito in maniera decisiva alla disgregazione del tessuto sociale e da allora il “sogno americano” ha avuto un brutto risveglio. La lotta all’inflazione sta diventando in un vero e proprio boomerang per l’amministrazione Trump. L’aumento del costo del paniere della spesa sta superando il 10% delle retribuzioni del ceto medio, soglia che allarma i consumatori e che si è rivelata una delle principali cause della sconfitta elettorale dei democratici. L’occupazione ha subito una brusca frenata, anche se ultimamente sembrano esserci segni di ripresa a partire da giugno.
Conclusioni
In attesa che la polvere si abbassi, non pare che gli obiettivi di questi ultimi attacchi siano stati raggiunti.
Non c’è stato finora “regime change”. Gli Ayatollah per il momento restano al loro posto ed all’orizzonte non appare una alternativa con sufficiente consenso nel Paese persa.
I danni al programma nucleare iraniano sono tutti da verificare, nonostante i proclami di vittoria di Trump sulla distruzione dei siti. Mentre Teheran sostiene che le sue scorte di uranio arricchito rimangono intatte, così come la sua capacità tecnica nucleare. È molto probabile che entrambi stiano mentendo, viste le poche informazioni militari incontrovertibili a disposizione.
La capacità militare ed antiaerea dell’Iran è certamente indebolita (non sappiamo di quanto), ma rimane apparentemente in grado di rispondere ad altri attacchi.
Viceversa, è rovinosamente crollato il mito israeliano dell’inviolabilità della difesa anti-missile e la popolazione israeliana è oggi costretta ad affrontare una situazione molto simile a quella che le loro Forze Armate provocano giornalmente nella Palestina occupata e nei Paesi limitrofi. Ciò avrà un importante impatto sulle prossime mosse del governo israeliano.
Senza truppe sul campo e un’invasione militare su vasta scala, Israele non pare in grado di sconfiggere l’Iran senza la presenza dell’esercito statunitense. Quanto è disposto a spingersi Donald Trump? Non dimentichiamoci che l’egemonia ottenuta in disprezzo alle regole, attraverso l’abuso della forza militare è tirannica e, quindi, a lungo andare insostenibile.
Non possiamo che coincidere con la dichiarazione congiunta tra il Partito comunista dell’Iran (Tudeh) ed il Partito comunista di Israele (Maki): “Esprimiamo la nostra fondamentale opposizione a tutti i programmi di armamento nucleare in Medio Oriente e nel mondo. La strada per fermare la corsa al nucleare in Medio Oriente non può passare attraverso una guerra aggressiva contro l’Iran, ma passa attraverso la smilitarizzazione dell’intera regione dalle armi nucleari e la firma di tutti i Paesi, tra cui Israele, del Trattato di non Proliferazione delle armi nucleari.
Facciamo appello a tutti i progressisti e a tutte le forze amanti della libertà in Israele, Iran e nel mondo perché si uniscano per condannare questa palese e brutale violazione del diritto internazionale” [xi].
NOTE:
[i] Dichiarazione di Vasili Nebenzya, Ambasciatore russo all’ONU. https://trt.global/italiano/article/56306c4cb95a
[ii] “The Muslim World after 9/11”, Rand Corporation: https://www.rand.org/content/dam/rand/pubs/monographs/2004/RAND_MG246.pdf
[iii] https://www.infomercatiesteri.it/materie_prime.php?id_paesi=104#
[iv] https://www.hindustantimes.com/world-news/how-can-iran-return-to-something-it-never-left-araghchi-on-eu-call-for-negotiations-101750583420604.html
[v] https://www.telesurtv.net/iran-prohibe-starlink-terrorismo-occidental/
[vi]https://www.fmprc.gov.cn/eng/xw/wjbxw/202503/t20250314_11575903.html?utm_source=substack&utm_medium=email
[vii] https://www.fmprc.gov.cn/eng/wjbzhd/202506/t20250615_11648771.html
[ix] https://thecradle.co/articles/how-pakistan-and-iran-neatly-tackled-their-terror-threats
[x] https://www.arabnews.com/node/2604478/pakistan
[xi] https://insurgente.org/declaracion-conjunta-de-los-partidos-comunistas-de-iran-e-israel/
FONTE: https://marcoconsolo.altervista.org/note-sul-conflitto-in-medio-oriente-e-asia/














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