Matteo Sanfilippo (CSER – Centro Studi Emigrazione Roma — Università della Tuscia)
Quanto è accaduto nei primi mesi del 2025 mostra come I’attuale presidenza statunitense stia girando un remaking di quanto avvenuto negli anni Venti del Novecento. I dazi imposti il 2 aprile, in particolare, marcano la rottura con il Canada, l’Europa e gli alleati asiatici, risvegliando il ricordo dell’esasperato isolazionismo post-Grande guerra. Allora gli Stati Uniti non entrarono nelle Nazioni Unite, pur avendole lanciate alla conferenza di Parigi del 1919, e soprattutto non vollero mediare tra Francia e Germania, preparando il clima che avrebbe favorito l’ascesa del nazismo e la formazione dell’Asse. Inoltre le odierne deportazioni di migranti, illegali e non, nonché messe in scena come quella della segretaria alla Sicurezza Nazionale, Kristi Noem, piantata con berretto da baseball e maglietta bianca davanti alle gabbie dei 238 venezuelani deportati nel Salvador, riecheggiano vividamente il momento in cui, poco più di un secolo fa, confluirono gli effetti della prima “Red Scare” e dell’odio anti-immigrati.
Dal 1920 il governo statunitense perseguito alcuni gruppi di immigrati europei (italiani, greci, ebrei, russi, ucraini e finlandesi), accusandoli di nascondere pericolosi terroristi. Di recente Emilio Franzina ha ripercorso il cammino che condusse Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti dal primo processo nel 1920 alla sedia elettrica nel 1927 e ha concluso che la vicenda è nota, ma nessuno ha messo «in rilievo la circostanza, per nulla casuale, che quegli anni, compresi fra il 1920 e il 1927, coincisero cronologicamente con |’incedere della campagna xenofoba restrizionista e, pour cause, con le tappe del processo di chiusura degli sbocchi emigratori nordamericani» (La fine della Merica e altri saggi di storia dell’emigrazione italiana, Viterbo: Sette Citta, 2025).
La prima grande caccia alle streghe comuniste (1919-1920), immediatamente successiva ed evidente risposta alla Rivoluzione russa, porto il governo statunitense a utilizzare contro quelli che riteneva pericolosi estremisti le leggi speciali dell’appena concluso periodo bellico: quella sullo spionaggio del 1917 e quella sulla sedizione del 1918, nonché quella che promulgo il Literacy Test nel 1917. Quest’ultima disposizione prevedeva l’aumento della tassa d’ingresso negli Stati Uniti e il rinvio di persone con difetti fisici o mentali, nonché di alcolizzati, poligami, anarchici e rivoluzionari di qualsiasi tipo. Infine stabiliva che non potesse entrare chi, con più di 16 anni, non fosse capace di leggere in inglese o in qualsiasi altra lingua.
Dall’ultimo decennio ottocentesco si era proposto più volte d’imporre ai migranti il test sull’analfabetismo, già in uso per selezionare i votanti, soprattutto negli Stati “confederati”: grazie ad esso, molti afro-statunitensi furono esclusi dal voto sino agli anni Sessanta del secolo scorso.
Tuttavia i presidenti degli Stati Uniti si erano opposti a tale estensione ai migranti. Grover Cleveland e William Howard Taft avevano posto il veto nel 1897 e nel 1913. II presidente Woodrow Wilson si rifiuto di accettare una legge in proposito nel 1915 e nel 1916, ma il Parlamento lo scavalco votando il provvedimento a grandissima maggioranza nel 1917. Dopo la Red Scare, pero, i timori dei benpensanti ritennero tali leggi insufficienti e approfittarono di tre consecutive presidenze repubblicane per cambiarle.
L’isolazionismo appariva a quella maggioranza elettorale un buon mezzo per non accogliere elementi pericolosi, ma presto si cercò qualcosa di più efficace. Nel 1921 fu introdotto l’Emergency Quota Act, per il quale il numero di arrivi da un determinato Paese potesse essere al massimo pari al 3% del numero degli immigrati di quella nazione censiti nel 1910, e nel 1924 l’Immigration Act, che proibiva l’immigrazione dall’Asia e dall’Africa e inaspriva il sistema di quote su chi proveniva dall’Europa. Da quel momento e per oltre venti anni i soli immigranti accettabili dovevano partire dall’America Latina o dai Dominion britannici del Canada e di Terranova. La nuova legge istituiva una Border Patrol, per controllare gli ingressi alle dogane portuali (non vi erano in quel momento problemi ai confini di terra), e stabiliva che l’entrata fosse riservata a chi aveva il visto di un consolato statunitense. Nel 1929 questa legge fu portata a pieno regime e si previde che potessero arrivare da ogni Paese europeo un numero di immigrati pari al 2% dei residenti provenienti da quella nazione registrati nel censimento del 1920.
L’attuale strategia di controllo degli ingressi é comunque diversa da quella di un secolo fa: oggi, infatti, sono considerati pericolosi gli immigrati dell’America latina e non quelli europei. Inoltre, la loro pericolosità non è imputata alla loro adesione politica (a parte sporadiche accuse di terrorismo contro ispanofoni, cinesi e musulmani), ma all’essere entrati illegalmente, aprendo la strada alle gang criminali dei rispettivi paesi di origine e a ingenti stock di droghe.
Già durante le sue prime due campagne presidenziali Trump ha biasimato quella che ha definito l’immigrazione “criminale”. Nella terza ha trasformato la battaglia contro di essa nel perno del proprio programma, puntando sulla rabbia dei cosiddetti “bianchi poveri” e la paura delle precedenti generazioni immigrate. Come si vede dai risultati elettorali, la nuova immigrazione dall’America latina e dai Caraibi non è amata dagli ispanofoni insediati negli Stati Uniti da molto tempo. Alcuni “messicani” risiedono nel Paese da quando il trattato di Guadalupe Hidalgo (1848) fisso il Rio Grande come confine tra il Texas e il Messico e assegno agli Stati Uniti i territori prima spagnoli e poi messicani. Per essi, come per i bianchi poveri, i nuovi arrivati sono pericolosi concorrenti sul mercato del lavoro e inoltre provocano l’aumento della delinquenza e del disordine, che causano gravi danni soprattutto nei quartieri più poveri.
Grazie al supporto di buona parte della popolazione, quella ottenuta sommando i bianchi poveri e l’immigrazione di più antica data, la lotta contro I’“invasione” dei nuovi migranti è ora senza requie: rastrellamenti, deportazioni (anche di persone entrate legalmente, almeno a tener conto del parere di alcuni giudici), rifiuto di concedere la cittadinanza a chi nasce sul suolo statunitense ma senza almeno un genitore che ne sia già cittadino, rifiuto di accettare i profughi di qualsiasi Paese. In particolare sono presi di mira cubani, haitiani, nicaraguensi e venezuelani, in precedenza accolti e protetti perché vittime di regimi pericolosi. Sono inoltre rafforzate la vigilanza alle frontiere, con il Messico e con il Canada, e le prerogative dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), l’agenzia federale dipendente dal Dipartimento della Sicurezza Interna, che sovrintende appunto ai confini e all’immigrazione.
Il quadro sin qui delineato è abbastanza sconcertante, ma lo è ancora di più se si tiene conto della proposta presidenziale di concedere lo status di rifugiato a sudafricani bianchi: proposta che ha spinto un gruppo di separatisti sudafricani a chiedere l’aiuto di Trump per ottenere un proprio Stato, “libero” da qualsiasi presenza di colore. La chiusura ai più massicci flussi migratori indica come |’attuale governo statunitense non desideri nuovi immigranti se non ultra certificati e in quest’ottica ritiene che la miglior certificazione sia garantita dal colore della pelle e dai tratti somatici.
Al contempo |’amministrazione Trump anela al completo dominio sulle Americhe, promettendo come negli anni Venti del secolo scorso di abbandonare altri scenari geopolitici, riducendo cosi la spesa militare e diplomatica. In questo il nuovo presidente ha ancora una volta l’appoggio dei propri concittadini. Secondo una serie di sondaggi del 2013-2014, già sotto Barack Obama il 52% degli statunitensi sperava che il proprio Paese non si immischiasse più in quanto accadeva negli altri continenti e una ancora più alta percentuale voleva abbandonare i punti caldi del pianeta. Nel caso dell’Afghanistan ben il 77% delle risposte pretendevano il ritiro delle proprie truppe. Nel 2014, quando inizio la prima invasione russa, un possibile intervento in Ucraina era appoggiato dal 17% degli interrogati; la stessa percentuale che nel 2023 si è dichiarata in favore di aumentare gli aiuti agli ucraini.
Nei nostri anni Venti come nel medesimo decennio del Novecento gli statunitensi vorrebbero rinchiudersi nel proprio continente, ovviamente completamente posto sotto il loro dominio, e praticarvi una sorta di autarchia economica, di qui i dazi. Inoltre vorrebbero meno immigrati e soprattutto più controllo su di essi. Spererebbero infine in meno spese militari, diplomatiche e sociali, quindi in meno guerre e in meno assistenza ai profughi. In entrambi i casi più fattori spingono alla medesima scelta. Si pensi alla scossa psicologica causata da due pandemie: la Spagnola nel 1918-1920; il Covid-19 nel 2019-2021. Non si dimentichino inoltre gli impegni militari. La guerra del 1914-1918 vede gli Stati Uniti impegnati direttamente nel 1917-1918 con un bilancio di oltre 100.000 defunti. II conflitto afghano provoca poche morti statunitensi, ma dura dal 2001 al 2021. Infine in entrambi i secoli i capitalisti statunitensi vogliono giocare partite economiche assai azzardate. Si rammentino le speculazioni finanziarie dei “Roaring Twenties”, che portarono al crollo del 1929, ma si pensi anche alla scommessa odierna sulle criptovalute.
Inoltre se un secolo fa si progettavano le macchine e le fabbriche Ford, oggi sono investite ingenti somma nelle Tesla e nei missili spaziali di Musk, nonché nei razzi interplanetari di Jeff Bezos.
Potremmo fermarci e decretare che il 2025 si sta rivelando una riedizione del 1925, ma il discorso sugli anni Venti negli Stati Uniti dei vari secoli è ancora più complesso. Per affrontarlo meglio dobbiamo tornare alle origini della Repubblica statunitense.
Gli Stati Uniti nacquero il 4 luglio 1776, quando la Dichiarazione d’indipendenza fu approvata alla Convenzione di Filadelfia, dove s’incontrarono i rappresentanti delle 13 colonie britanniche stanche di una madrepatria lontana e tirannica. La definitiva separazione da questa fu ratificata dal Trattato di Parigi del 1783, in seguito al quale alla Gran Bretagna restarono solo le colonie canadesi. Da allora la nuova nazione costruì la propria infrastruttura politico-amministrativa e al tempo stesso vagliò come proteggersi dalle minacce europee, sentendosi accerchiata dai domini britannici a nord (le colonie che poi formarono il Canada) e da quelli spagnoli a sud e sud-ovest (la Florida e la California, che allora comprendeva i territori dello Stato attuale, nonché di Texas, Arizona, Colorado, Nevada, Nuovo Messico, Wyoming e Utah).
Nel 1803 iniziarono le guerre napoleoniche, le quali permisero al presidente Thomas Jefferson di comprare da Napoleone i territori che questi aveva ripreso alla Spagna tre anni prima. A prezzi stracciati gli Stati Uniti acquistarono gli odierni Arkansas, Missouri, lowa, Oklahoma, Kansas, Nebraska, gran parte dei due Dakota e porzioni di Colorado, Minnesota, Montana, Nuovo Messico, Texas e Wyoming. Inoltre ottennero la città di New Orleans e l’attuale Louisiana, inoltre alcune parcelle di quelle che oggi sono le province canadesi dell’Alberta e del Saskatchewan. Negli anni seguenti esplorarono questo vasto territorio e allo stesso tempo cercarono di non essere coinvolti nel conflitto europeo tra Francia e Regno Unito. Alla fine decisero di approfittare delle difficoltà di quest’ultimo e ne invasero nel 1812 le colonie in Canada. La mossa, pero, non sorti i risultati sperati: le truppe nemiche respinsero quelle statunitensi e invasero il territorio a sud dei Grandi Laghi. Inoltre la marina britannica devasto le coste del Maine e della baia del Chesapeake, incendi di Washington (Casa Bianca inclusa) e infine sbarco le proprie truppe sulle coste del Golfo del Messico nel 1814, minacciando New Orleans.
Alla fine la guerra si risolse in un pareggio, ma si trascinò sino al 1815 quando il trattato di Gand, firmato il 24 dicembre 1814, fu definitivamente attuato. La notizia dell’accordo giunse oltre Atlantico in ritardo, nel frattempo il generale Andrew Jackson aveva liberato New Orleans |’8 gennaio 1815, mettendo fine all’avanzata britannica. In quel momento si avviavano a conclusione anche le guerre napoleoniche: il 18 giugno Napoleone fu sconfitto a Waterloo e rientro a Parigi per abdicare. Al termine del lungo conflitto europeo, decine di migliaia di soldati britannici furono smobilitate e decisero di emigrare oltre oceano, non trovando lavoro in patria. Molti andarono in Canada o in Australia, ma tanti optarono per gli Stati Uniti. Questi ultimi si trovarono quindi di fronte ad arrivi crescenti di antichi nemici. Nel 1819 cercano di limitarli con lo Steerage Act, che prevedeva la limitazione del numero dei passeggeri sulle navi e perciò il conseguente aumento del prezzo di viaggio. Tale strategia non riusci, pero, a limitare del tutto lo sbarco di inglesi, scozzesi e irlandesi. Tra questi ultimi erano numerosissimi i cattolici e gli Stati Uniti, pur avendo in teoria rinunciato alla discriminazione religiosa, non li vedevano di buon occhio essendo a maggioranza protestanti. Inoltre all’arrivo dei nuovi migranti furono attribuite le epidemie che colpirono la nazione nei primi anni Venti, per esempio quella di febbre gialla esplosa nel 1820 a Savannah, in Georgia.
Timori di malattie epidemiche e polemiche anticattoliche nutrirono quindi il sospetto verso gli immigrati per tutto il decennio e prepararono la successiva esplosione di sentimenti “nativistici”.
Gli anni Venti dell’Ottocento videro quindi il primo deciso richiudersi su sé stessi degli Stati Uniti e inoltre lo sviluppo di una peculiare dottrina politica, che avrebbe in seguito condizionato più volte la strategia estera della nuova nazione. Il secondo e il terzo decennio dell’Ottocento furono politicamente dominati dal Partito Repubblicano di Thomas Jefferson e in particolare da James Monroe, segretario di Stato sotto James Madison dal 1811 al 1817 e poi presidente dal 1817 al 1825. Monroe volle marcare una volta per tutte le distanze dal Regno Unito e dalla Spagna.
Dichiaro quindi nel messaggio presidenziale del dicembre 1823 che gli Stati Uniti non si interessavano a quanto accadeva in Europa, questa quindi non doveva più cercare di colonizzare America Latina. Il Regno Unito accetto, perché pensava che la dichiarazione fosse soprattutto antispagnola, e di conseguenza non si oppose alla possibilità che l’America Latina divenisse il cortile posteriore degli Stati Uniti.
La cosiddetta Dottrina di Monroe è ancora oggi uno dei temi di politica estera pi discussi negli Stati Uniti e in Europa. Nella sola Italia, in genere restia ad occuparsi approfonditamente della storia statunitense, sono a essa dedicati ben due libri negli ultimi decenni: Marco Mariano, L’America nell’Occidente. Storia della dottrina Monroe (1823-1963), Roma: Carocci, 2013; Luca Castagna, L’America nel mondo. Duecento anni di Dottrina Monroe, Brescia: Morcelliana, 2024. Il secondo è uscito giusto prima delle recenti presidenziali e dichiara che il presidente entrante avrebbe dovuto riprendere in considerazione le tesi di Monroe. Ora è facile notare come Trump e i suoi consiglieri hanno fatto proprio questo, ampliando il proprio cortile a inglobare il Canada e la Groenlandia, necessari per garantirsi il controllo dell’Artico.
Nel 1824, alla fine del secondo mandato di Monroe, Andrew Jackson si presento alle presidenziali, ma pur avendo ricevuto più voti di tutti i candidati non ebbe la maggioranza assoluta e non fu eletto. Preparo meglio le successive elezioni e presiedette gli Stati Uniti dal 1829 al 1837.
Non possiamo considerare il suo governo come mero frutto degli anni Venti, visto che per gran parte si svolse nel decennio successivo, inaugurato firmando |’Indian Removal Act. Con esso le terre indiane erano messe a disposizione degli speculatori, Jackson compreso, che da tempo combatteva gli indiani (Creek War, 1813-1814; First Seminole War, 1818-1819) e approfittava delle vittorie militari per arricchirsi ulteriormente. Piantatore e proprietario di schiavi nel vecchio Sud, il generale cercò sempre di monetizzare le posizioni conquistate. Non appena entrato nella Casa Bianca, caccio tutti gli uomini del Partito Repubblicano dall’amministrazione pubblica e impose il cosiddetto “spoils system”: come spiego un suo senatore, William Marcy, al vincitore dovevano andare le spoglie del vinto.
Non è il caso di insistere sui paralleli con il presente, che comunque sono notevoli: Jackson fu il primo presidente “populista” e arrivo a far entrare i propri sostenitori alla Casa Bianca, provocandovi danni non indifferenti. Tuttavia non pare questo il punto centrale ed è invece più importante sottolineare come lo stesso sviluppo iniziale della Repubblica statunitense fece si che isolazionismo e chiusura all’immigrazione, quanto meno a quella ritenuta pericolosa, siano connaturati alla natura della nazione sin dai suoi inizi.
L’isolazionismo ha comportato nel passato catastrofi non indifferenti: abbiamo ricordato la grande crisi del 1929 e la Seconda guerra mondiale; vale la pena di menzionare come il populista Jackson inizi a erodere l’accordo nazionale tra Nord e Sud inasprendo le tensioni interne al Paese e preparando la Guerra civile del 1861-1865. Dopo ognuna di queste crisi, nell’Ottocento come nel Novecento, gli Stati Uniti si aprirono al mondo esterno, sia pure lentamente, e cercarono di espandere la propria sfera di influenza e di incrementare la propria popolazione, includendovi i migranti. Quando, pero, le guerre e/o le pandemie causarono nuove difficoltà, la popolazione torno a favorire elettoralmente chi puntava sull’autarchia, anche demografico. Per ragioni analoghe, cioè per il susseguirsi di guerra e pandemia, i nostri anni Venti riecheggiano quanto accaduto nel terzo decennio dei secoli passati e si sono mossi verso uno degli estremi di questo movimento ciclico, che vede gli Stati Uniti chiudersi, aprirsi, poi richiudersi e quindi riaprirsi.
Questa spiegazione non può servire di consolazione; però, sarebbe da non disconoscere, quando e se riprenderà |’oscillazione verso l’altro estremo del ciclo. Noi europei tendiamo a considerare l’Occidente come un tutt’unico, una sorta di Europa occidentale estesasi oltre i propri confini. L’Occidente invece è un insieme politico, culturale e geografico che nel tempo è cambiato e ha compreso o escluso più realtà, come ci hanno mostrato due studiosi importanti: Tiziano Bonazzi, a cura di, Quale Occidente, Occidente perché, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2005; Alessandro Vanoli, L’invenzione dell’Occidente, Roma-Bari: Laterza, 2024. Se vogliamo considerare l’Occidente come l’erede dell’Europa, dobbiamo considerare che gli Stati Uniti sono nati distaccandosi da quest’ultima e nell’Ottocento hanno asserito con forza che il Vecchio Mondo doveva tenersi lontano dal Nuovo. A tale dichiarazione di principi sembrano oggi far nuovamente riferimento e dunque quanto vediamo non deve sorprenderci, perché sembra semplicemente il riemergere di una delle costanti della storia statunitense.
FONTE: CSER (Centro Studi Emigrazione Roma)
- Ringrazio Lorenzo Prencipe e Grazia Trabattoni che hanno pazientemente seguito l’elaborazione di questa nota.














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