I migranti venezuelani negli Usa, prime cavie dell’esperimento di deportazione trumpiana in Salvador

Da un quarto di secolo il Venezuela subisce le pressioni di un occidente collettivo a guida USA, oggi in caduta libera, ma non per questo meno pericoloso.

Nella sua secolare pratica di colonizzazione e sottomissione di popoli e territori inaugurata dalle potenze europee e proseguita alla grande dagli USA fin dalla sua nascita, il suprematismo americano (e occidentale), oltre che nello sterminio dei popoli originari, si è distinto nell’importazione di schiavi e manodopera parallelamente alla subordinazione delle loro aree di provenienza.

Nelle fasi di crescita capitalistica questi benefattori dell’umanità hanno condito le loro pratiche di dominio e di sfruttamento con improbabili narrazioni – tuttora in voga – che sono ben riassunte in certa filmografia hoolywoodiana: la gente viene da noi perché siamo il regno della libertà e della democrazia.

Invece nella fasi di declino ha rimandato indietro i migranti scatenando campagne xenofobe e razziste organizzate e finanziate dalle stesse compagnie, lobbies e oligarchie che ne avevano prima stimolato e magari anche finanziato l’arrivo: il pendolo del capitalismo non ha alcun ancoraggio etico; ha solo quello del portafoglio; dovunque.

La libera e libertaria Inghilterra ha inaugurato qualche anno fa la moda del rimpatrio forzato verso paesi terzi (Ruanda) qualora i paesi di origine non siano disponibili a riprendersi le schiere di potenziali disoccupati stranieri. L’ha seguita l’Italia, con un accordo farsesco con l’Albania. Prima di loro, la Germania aveva stoppato i flussi oltre limite che si annunciavano da Siria e Medio-Oriente destabilizzati dalle guerra infinite (sempre scatenate dal noto gangster collettivo) elargendo, per l’incomodo, vari miliardi di dollari all’anno alla Turchia. Sempre alla ricerca del nuovo che avanza l’Europa intera ammette ora la pratica di esternalizzare le sue frontiere, ivi inclusa la connessa deportazione.

Con l’arrivo di questo mecenate di nome Trump, specializzato nella nuova iconografia social fatta di catene e manette, la pratica viene perfezionata con maggior rigore estetico e mercantile (mentre quelli di prima, quelli buoni, lo facevano di nascosto epperò addirittura con maggiore efficacia): la carne migrante diventa così anche un espediente per finanziare quelli che sentiamo più vicini, tipo il pro-console del Salvador, tal Nayib Bukele, che riscuote 6.000 USD a testa per ciascun rimpatriato dagli USA; lui ha calcolato che nel giro di un anno può riscuotere intorno ai 300mila dollari, sufficienti per finanziare il suo avanzato sistema penitenziario e di tortura.

Buona parte di questi deportati in questo paese terzo – il cui nome è uno degli appellativi del Redentore e abbastanza diffuso nello spazio latino americano – sono migranti venezuelani.

La ragione per cui si è deciso di iniziare proprio con loro è in sintonia con il realismo della nuova amministrazione americana che si è proposta di scindere ogni legame con l’ipocrisia del soft power; in pratica Trump vuole comunicare quanto segue:

– noi abbiamo sfruttato il grande campo petrolifero chiamato Venezuela per due secoli; ergo, ricordatevi che quella è roba nostra.

– nell’ultimo quarto di secolo avete rialzato la testa e questo ci ha molto infastidito, perché come tutti sanno, siete una parte del nostro giardino.

– abbiamo provato a farvi saltare e a mettervi sul lastrico, ma ancora non ci siamo riusciti; però con le nostre belle sanzioni unilaterali e con il furto dei vostri assets all’estero, siamo riusciti a far partire qualche milione di persone dal vostro paese sotto forma di migranti (per la cronaca esuli); ovviamente insisteremo con maggiore impegno, anche perché, come sapete, in altre aree abbiamo qualche difficoltà, quindi dovete capire che non è solo per la nostra insita insita cattiveria, ma anche perché in qualche modo siamo costretti dagli eventi.

– nel frattempo, visto che la nostra narrazione su di voi (alla quale hanno contribuito in tanti) si è affermata dovunque, anche in Europa, cominciamo a usare i vostri migranti, che malauguratamente hanno creduto che fossimo il paese della libertà, per una prima sperimentazione di massa della pratica di deportazione che così possiamo inaugurare. Questo non toccherà molto le corde della sensibilità degli umanisti e umanitaristi così diffusi, per esempio, in Europa, perché la vostra è la nazionalità di un paese canaglia. Cioè di un paese che ha osato mettere in discussione il vertice dalla cupola.

E in effetti, guarda caso, non si alza una voce né dal consesso delle nazioni, né dai cultori dei diritti civili universali, né dalle tante ONG a sentinella della salvaguardia delle persone. Solo poche e isolate indignazioni in un silenzio dei tartari inframezzato dai bombardamenti attuali e da quelli che si programmano a difesa della superiore civiltà europea fondata sul diritto di alcuni, sul non diritto di altri, sul “c’è un aggredito e c’è un aggressore” e l’aggressore è sempre quell’altro, e via dicendo.

Nessun turbamento, nessun talk show sul ridicolo recupero americano dell’Alien Enemies Act del 1798, sul mancato rispetto delle risoluzioni ONU sui diritti dei migranti, come la Convenzione Internazionale sulla Protezione dei Diritti di Tutti i Lavoratori Migranti e delle loro Famiglie (1990); come il Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici (1966); come la recente Risoluzione della Assemblea Generale dell’ONU sui Diritti Umani dei Migranti del 2018, che tanto spazio mediatico ebbe a fini di polemica politica interna in Italia e in altri paesi europei.

Ciò che non si può fare a noi e i nostri amici, si può invece fare agli altri.

“Fu anche detto: «Noi viviamo su un mostro». Ecco un motto che tutti potremmo fare nostro. (La Bestia che bracchiamo, è il luogo dove ci troviamo.)” – Giorgio Caproni: MONSTRUM

(Rodolfo Ricci – Fiei)


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