Analisi critica, in due parti, del Rapporto Draghi; limiti, incoerenze, conformismo euro-atlantico e scotomizzazioni del testo draghiano

Il rapporto Draghi, la competitività, la politica (prima parte)

Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi prendono spunto dal rapporto Draghi per riflettere sulle cause politiche ed economiche delle difficoltà dell’Europa a tenere il passo con gli Stati Uniti e le economie asiatiche sul terreno della crescita della produttività. In quest’ottica, l’assenza di una politica industriale europea capace di sviluppare tecnologie avanzate, l’austerità di Maastricht e la scelta di puntare sulle esportazioni, più che sulla domanda interna, appaiono particolarmente rilevanti.

Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi – Menabò di Etica ed Economia 14 Dicembre 2024

Analisi tecnica di una crisi politica che investe i fondamenti stessi di tutto il processo europeo: così ci sembra ragionevolmente definibile il rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi (The future of European Competitiveness), che da un lato lancia il sasso dichiarando l’esistenza di uno stato di vera e propria emergenza, dall’altro nasconde la mano, rifiutandosi di identificare le cause e il processo che a questo punto ci hanno portato.

Draghi si conferma parte di una classe dirigente europea alla quale i risultati storici della seconda guerra mondiale, resi ancora più cogenti dalla sparizione dell’Unione Sovietica, impediscono tuttora di avere un pensiero politico autonomo sui destini del nostro continente. È proprio il ritorno della guerra che ci ricorda perentoriamente ogni giorno il peso determinante delle gerarchie di potere che si stabilirono tra le due sponde dell’Atlantico alla fine del secondo conflitto mondiale. Vale oggi per l’Europa quello che un tempo si diceva per la Germania. Rinata dopo il 1945 come gigante economico, l’Europa continua ad essere condannata da quella sconfitta a rimanere un nano politico. La gravità, la vera e propria emergenza presente nella situazione attuale consiste nel fatto che il nanismo politico – reso istituzione con il Trattato di Maastricht- impedisce sistematicamente le azioni necessarie a mantenere i successi economici conseguiti, in un contesto internazionale radicalmente mutato rispetto a quello della guerra fredda, in cui scelte e decisioni strategiche tempestive sarebbero quotidianamente necessarie. 

1. Il peso dei rapporti di forza politici deve essere apprezzato già nella valutazione dei dati relativi al confronto di produttività tra USA e UE. L’industria europea produce ed esporta molto di più di quanto importa, quindi è sotto questo profilo più competitiva di quella americana che subisce un deficit commerciale cronico finanziato solo dalla possibilità di stampare dollari. Che il biglietto verde continui ad essere moneta di riserva, anche se crescenti sono le minacce rivolte al suo primato, provoca una sua sopravvalutazione che si riverbera sull’insieme dell’economia americana, spingendo in alto il valore effettivo degli indicatori economici espressi in dollari, incluso quello della produttività. 

Se la Cina riuscisse a creare un sistema monetario alternativo, oppure più semplicemente a denominare nella sua valuta, o in un insieme di valute diverse dal dollaro, i suoi grandi flussi commerciali con le aree emergenti del mondo, la domanda, e quindi la quotazione, del biglietto verde ne risentirebbe pesantemente. Un risultato analogo si avrebbe se decidesse di ridurre il volume delle sue sottoscrizioni di buoni del tesoro americano. 

Del resto si giunge a risultati diversi, nella misurazione della ricchezza, se si usa il dollaro o gli Standard di Potere d’Acquisto (PPA) che tengono conto del livello dei prezzi all’interno di ogni paese. Nel 2023 gli USA hanno avuto in dollari un Pil superiore di 1,5 volte rispetto a quello della Cina e di 6,1 volte rispetto a quello della Germania. Usando il PPA il PIL cinese supera di 1,27 volte quello americano, mentre la differenza tra USA e Germania si riduce al 3,4. Più in generale l’economia americana, che media attraverso il mercato prestazioni che sono altrove gratuite o semigratuite (si pensi alla sanità e alla scuola), gonfia artificialmente il valore della produzione di interi settori economici. 

Questo non toglie che vi siano settori dell’informatica e dell’elettronica in cui gli USA, diversamente da quanto accade nei settori manifatturieri, prevalgono nettamente. I grandi oligopoli di Microsoft, Facebook, Amazon, Intel, Nvidia, si spiegano con una indubbia capacità innovativa (spesso sostenuta da massicce doti di spesa federale, come hanno dimostrato gli studi di Mariana Mazzucato), ma anche con i vantaggi direttamente o indirettamente conseguiti grazie alla posizione di junior partner dell’Europa. 

Può essere interessante ricordare come il problema fosse ancora sentito negli anni Sessanta. Il celebre libro di Jean-Jacques Servan-Schreiber sulla “Sfida americana” (1967) denunciava il pericolo che gli investimenti americani in Europa finissero per rappresentare la terza economia mondiale dopo quelle di USA e URSS. Favorire attraverso la concentrazione l’aumento delle dimensioni di impresa divenne un obbiettivo della politica economica francese, con successi non trascurabili soprattutto nell’agricoltura. Gli sviluppi successivi hanno tuttavia mostrato che l’Europa ha saputo dare vita ad un sistema produttivo dinamico anche nel campo delle piccole e medie imprese. Soprattutto in Italia e in Germania questa dimensione d’impresa ha manifestato livelli di eccellenza tecnologica nei beni di consumo, nei servizi, nelle subforniture di qualità. I successi europei nella moda, nell’agroalimentare, negli yacht, e aziende come Ferrari, BMW, Mercedes, Airbus, sarebbero impossibili senza una rete di forniture di altissima qualità. L’Europa è invece rimasta “nana” in tutte le produzioni in cui non era sufficiente la creatività e la organizzazione di reti d’impresa, ma occorreva il convinto impegno degli stati con colossali investimenti in ricerca e sviluppo, quali sono messi in opera oggi dalla Cina e dagli Stati Uniti. Nella chimica l’Europa occupa ancora (per il ruolo di Francia e Germania) posizioni importanti a livello internazionale, anche se minacciate per l’incremento dei costi energetici. Nella siderurgia l’Europa si difende nelle seconde lavorazioni collegate ad impieghi manufatturieri, ma è fuori mercato nella siderurgia di base, quella che crea la materia prima, a causa dei costi energetici, come dimostra anche il trascinarsi della crisi dell’Ilva di Taranto. Sempre più convenienti sono gli approvvigionamenti da Cina, India, Turchia. Nel fotovoltaico l’Europa che pure promuove le tecnologie pulite è un buon applicatore di tecnologie altrui, con decine di migliaia di installatori  ma nessun produttore, in un mercato in cui anche gli USA soffrono di fronte allo strapotere cinese.

Il Rapporto non dice, inoltre, che l’Europa neoliberale è rimasta vittima della sua esaltazione del mercato, che ha prodotto immobilismo rispetto all’insieme dei paesi asiatici che hanno saputo instaurare un efficace rapporto di collaborazione tra Stato e imprese. Gli stessi programmi comuni, come quello sulla transizione ecologica o quello sulla ricerca, non si sono mai tradotti in un effettivo coordinamento europeo. Di contro l’apertura alla finanza internazionale fa sì che i grandi fondi, spesso americani, di private equity si possano impadronire di settori importanti dell’apparato produttivo europeo gestendoli in un’ottica di redditività immediata e di breve periodo. Quando poi l’Europa ha espresso l’intenzione di una presenza in campi industriali “sensibili” è scattato un veto politico. Il preannunciato sistema europeo di satelliti “Galileo”, che avrebbe potuto insidiare l’americano GPS, non è mai decollato. Per rimanere all’Italia la creazione dell’ENI si scontrò duramente con il cartello internazionale delle “sette sorelle”. La nostra Olivetti dovette lasciare il passo alla IBM. Per tornare all’oggi, è tutt’altro che casuale che il giro di affari di Amazon sia superato dalla cinese Alibaba, che il cinese Baidu sia l’unico a sfidare i motori di ricerca americani, che il russo Telegram competa con i social network statunitensi.

2.Venendo al cuore della questione, ossia l’origine della stagnazione della  produttività, Draghi sceglie di rimanere sostanzialmente all’ interno dell’ottica dell’impresa, assumendo la prospettiva dell’offerta come cifra esclusiva della sua proposta. Il Rapporto si apre indicando di punto in bianco l’intelligenza artificiale, l’energia intesa come decarbonizzazione e la tecnologia digitale come componente essenziale dell’industria della difesa, come “tre aree di intervento per rilanciare la crescita”. Manca il quadro di riferimento macroeconomico all’interno del quale si pensa che la ripresa della produttività debba avvenire. Da qui un contrasto che pervade tutto il testo: da un lato l’affermazione giustamente allarmata che in discussione sia il mantenimento stesso dei risultati storici conseguiti, dall’altro il suggerimento di rimedi volti esclusivamente a migliorare l’efficienza tecnologica vista come una sorta di dato esogeno rispetto al sistema economico. Non si capisce la caduta della produttività che si sviluppa ininterrottamente in Europa nel corso dell’ultimo trentennio se non si pone al centro la contrazione della domanda aggregata (consumi + investimenti) quale avanza lungo due direttrici: a) una progressiva riduzione della massa salariale come risultato di un attacco frontale alla forza di contrattazione del lavoro, che prende corpo all’inizio degli anni Ottanta per proseguire poi anche attraverso una legislazione rivolta esplicitamente ad incentivare la precarizzazione. La mancanza di qualsiasi pressione del salario sul profitto che ne è scaturita ha cancellato uno dei più importanti incentivi al progresso tecnologico (come aveva argomentato Nicholas Kaldor già negli anni Cinquanta esponendo il suo modello di crescita); b) la crescente diminuzione degli investimenti pubblici causata dal libero movimento dei capitali che toglie agli stati nazionali il controllo dei flussi finanziari e quindi del debito. Il fenomeno è istituzionalizzato da Maastricht che stabilisce un rapporto obbligato tra debito e PIL mentre la missione fondamentale della BCE, a differenza della FED americana, non è la crescita economica, ma la lotta all’inflazione. L’obiettivo della stabilità, frutto in questo caso di un’autonoma volontà europea, è stato raggiunto, ma pagando il prezzo della stagnazione e della retrocessione dei sistemi di stato sociale.

La grande dimensione della impresa americana, con relativa capacità di ricerca scientifica e innovazione tecnologica, che il Rapporto sprona ad imitare, nasce storicamente, lo abbiamo appreso tutti nei grandi studi sulla “Mano visibile” di Alfred Chandler (The Visible Hand. The Managerial Revolution in American Businnes, 1977) in un contesto simmetricamente opposto a quello europeo, ossia a partire dall’esistenza di una profonda simbiosi con mercati ininterrottamente crescenti, prima sul piano nazionale e poi su quello internazionale. In un quadro macroeconomico caratterizzato da politiche keynesiane di sostegno alla domanda, allora consentanee con la volontà politica di Washington, anche la piccola Europa uscita distrutta in ogni senso dalla seconda guerra mondiale, già all’inizio degli anni Sessanta si dimostrò competitiva con quella americana sul terreno allora strategico dei beni di consumo durevole. 

La crisi finanziaria del 2008 rappresentò un grande avvertimento pervicacemente ignorato dall’Europa. Il carattere sempre più speculativo degli strumenti finanziari che fu all’origine della crisi, nasceva dal tentativo di mantenere il boom edilizio facendo dell’indebitamento privato la risposta ad un deficit di domanda causato dalla restrizione del potere d’acquisto dei ceti meno abbienti. In questo senso Paul Krugman, non ancora tornato all’ovile, poteva affermare: “Per la prima volta da due generazioni la scarsità della domanda – ossia una spesa privata non sufficiente a sfruttare la capacità produttiva che abbiamo a disposizione – è ormai divenuta un chiaro ostacolo al benessere di gran parte del mondo”. Ancora lì stiamo e da lì bisogna avere il coraggio di ripartire se si vuole aprire una discussione sul futuro del nostro continente. 

Del resto sembra che la cultura economica mainstream non riesca ancora a realizzare che la sconfitta subita dall’insieme della economia occidentale nel processo di globalizzazione, con ripiegamenti su posizioni esplicitamente protezioniste, ha la sua origine principale nella debolezza propulsiva del modello liberista. Non è stato retto il confronto con modelli fortemente dirigisti vigenti in “altre” parti del mondo, capaci di garantire un alto flusso di investimenti  indirizzati con criteri strategici nei settori volta a volta più idonei a realizzare aumenti impetuosi della produttività e della competitività. 

L’economia europea era – fino all’inizio della guerra russo-ucraina – ben rappresentata da quella tedesca caratterizzata da un basso contenuto della domanda interna controbilanciato da un volume abnorme delle esportazioni pari al 50% del Pil. È stato questo il modello che si è voluto imporre a tutto il continente provocando in contesti più fragili, il nostro paese ne ha fatto diretta esperienza, restrizione ingiustificata della base produttiva e polverizzazione del sistema delle imprese. Qui deve essere ricercata l’origine prima di quella crescente diseguaglianza sociale che Draghi paventa, ma che invece di essere una temibile prospettiva futura è una realtà già consolidata. Insufficienza della domanda aggregata, dovuta sia alla contrazione del volume della massa salariale che alla progressiva diminuzione dell’investimento pubblico, e produttività decrescente, sono insomma legati tra loro in un nesso indissolubile che è indispensabile cogliere se si vuole delineare lo spazio di una riflessione di lungo periodo e aprire il dibattito sul futuro sempre più incerto della nostra vecchia Europa. Maastricht è però anche, in quanto realizzazione effettiva della utopia reazionaria del mercato autoregolato, istituzione della governance secondo regole precostituite e liquidazione radicale della politica, senza la quale non si vede come possa essere affrontato, ad esempio, quel problema della decarbonizzazione su cui il rapporto si sofferma a lungo. Ormai è chiaro che nessuna industria automobilistica europea (inclusa Volkswagen con i suoi milioni di vetture vendute in tutto il mondo) è in grado da sola di produrre un’auto elettrica. C’è in primo luogo un problema di reperimento di materie prime estremamente rare come il litio che non può essere prerogativa delle imprese. Ma c’è anche un problema di progettualità comune, di cooperazione politica tra culture, esperienze e saperi nazionali- quella pluralità che ha fatto la forza dell’Europa, di cui Maastricht vieta persino la menzione.

Sorge allora la domanda: che senso ha in una situazione in cui la nuova Commissione lavora già per ristabilire il Patto di Stabilità con l’impegno alacre dei cani da guardia lettoni e olandesi, richiedere, come fa Draghi, un nuovo piano Marshall, la creazione di eurobond, la istituzione di un fondo di investimenti comuni? Buoni pensieri, che scollegati da un’analisi critica della realtà della UE diventano pura autopromozione, demagogia intellettuale e politica.

L’aumento delle tensioni internazionali, allora, ben lungi dall’aumentare lo spazio di un protagonismo europeo (si pensi alla affermazione di una nuova improrogabile necessità di una difesa UE) accentua visibilmente la dipendenza e la subalternità del vecchio continente quale si è storicamente determinata con i risultati della seconda guerra mondiale. Da due anni la politica estera della UE è annunciata nei briefing del segretario della NATO e ripetuta con convinta enfasi dai presidenti della Commissione e del Consiglio europei. Le idee contenute nel Rapporto di Draghi sono insomma diventate la linea della nuova Commissione von der Leyen.

Il Rapporto Draghi, la competitività, la politica (seconda parte)

Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi nella seconda parte del loro articolo di analisi critica del Rapporto Draghi, si concentrano sulle conseguenze economiche e politiche della guerra tra la Russia e l’Ucraina e sulle sue implicazioni per le prospettive di crescita dell’economia europea. Gli autori denunciano la perdita di competitività europea e la subalternità agli USA e propongono un modello alternativo basato su pace, cooperazione economica e sostegno alla domanda interna.

Massimo D’Angelillo e Leonardo Paggi – Menabò di Etica ed Economia 29 Dicembre 2024

3. Nella prima parte di questo articolo abbiamo voluto evidenziare gli effetti negativi che una prolungata compressione della domanda interna, quale implicita negli accordi di Maastricht, provoca sulla crescita della produttività europea.

In questa seconda parte intendiamo soffermarci sugli effetti catastrofici che la guerra ai confini della Federazione Russa provoca per l’economia del nostro continente. Aspetto anche questo ignorato dal Rapporto Draghi.

Non è questa la sede per discutere delle responsabilità della guerra. Sono le conseguenze che non posso restare inevase. Il Rapporto non può fare a meno di menzionare laconicamente la sparizione del gas russo. Ma il problema va visto in tutta la sua complessità. E’ stato un grande errore strategico della cultura liberista la incomprensione della resilienza della Federazione Russa alle sanzioni. Il blocco posto all’importazione delle tecnologie e all’esportazione dei prodotti energetici, l’esclusione dai circuiti bancari, il sequestro degli assets, la business retreat delle imprese occidentali operanti in Russia si sono risolti in un aumento del PIL del paese. Antonio Gramsci diceva dinanzi al fascismo nascente: “conoscere il nemico per combatterlo meglio”. Ebbene, la cultura del mercato, abituata a pensare solo in termini quantitativi, non riesce mai a comprendere e valutare le variabili storiche e politiche che immettono energie “sociali” non calcolabili: in questo caso la pronta reazione patriottica dell’opinione pubblica nazionale, o l’ampiezza delle relazioni internazionali di solidarietà di cui la Russia si è potuta avvalere nel grande e spesso ignoto mondo extra occidentale. Del resto già nel settembre del 2014 (l’anno in cui con il colpo di stato Euromaidan e l’occupazione russa della Crimea le tensioni di confine tracimano in scontro militare aperto) la Federazione Russa adottava con la legge 488 un piano di riconversione industriale volto a ridurre la propria dipendenza dall’occidente e ad aumentare l’interscambio con la Cina. Si potrebbe aggiungere che la mancata previsione della resilienza russa è un esempio particolare della incapacità di comprendere la tenace resistenza che i grandi  nazionalismi non occidentali esercitano ora (è questa la importante tesi critica del politologo americano John Mearsheimer) ed eserciteranno ancora in futuro verso l’attuazione del progetto unipolare USA. James Kenneth Galbraith, figlio del più noto John, ha parlato di un “regalo delle sanzioni” (Gift of Sanctions). Di contro il decano degli economisti tedeschi Hans Werner Sinn, una delle poche voci fuori dal coro, ha parlato dell’embargo alla Russia come di una “trappola”. La crisi in cui versa oggi l’economia tedesca ha posto fine a ogni discussione. Ma la cultura economica tedesca ha impiegato molto tempo per realizzare la profondità del vulnus inferto al paese, reso plasticamente evidente dal sabotaggio dei due gasdotti. Si è intrattenuta anzi per mesi con l’idea che la guerra avesse creato nuove possibilità, mentre nella cultura anglosassone si è parlato a lungo della Germania, come “malato d’Europa”, con un evidente compiacimento per la cattiva sorte di un modello organizzativo sentito come irriducibilmente diverso. Persino il recente volume che la rivista Limes ha dedicato al problema, La Germania senza qualità, sembra non realizzare appieno la profondità e l’estensione della cesura che la guerra ha introdotto nella vita dell’economia tedesca ed europea. Abbiamo già ricordato il limite profondo del modello tedesco e del condizionamento sull’insieme della economia europea che esso ha esercitato. E tuttavia non si può nemmeno dimenticare che nel contesto di mercato autoregolato imposto da Maastricht, che esclude preventivamente qualsiasi politica di domanda, un alto flusso di esportazioni è l’unico modo per garantire crescita economica. Colpire la competitività delle esportazioni e ridurre drasticamente i suoi spazi di mercato ha significato nella situazione attuale mettere a rischio l’insieme della economia tedesca, insostituibile centro di raccordo di quella europea, toccandola nel suo punto più debole. A questo proposito stupisce come il Rapporto, che focalizza esclusivamente sulla relazione tra economia UE e economia USA, non faccia nemmeno parola della Cina, che in virtù della sua economia a differenza di quella USA prevalentemente manifatturiera, rappresenta il nostro più temibile competitore. Per noi europei, a cui non è dato schierare portaerei nei mari del Pacifico, il confronto con la Cina può essere affrontato e risolto solo in termini di struttura produttiva. L’indebolimento della forza competitiva dell’economia europea provocata dalla guerra deve dunque essere visto anche alla luce dei grandi rischi impliciti in un duello commerciale aperto almeno da un ventennio.

Conclusa la fase della subfornitura la Cina investe ormai massicce risorse in ricerca e sviluppo, e laurea annualmente un milione di ingegneri, oltre tre volte quelli che si laureano in USA (circa 300mila) e più di quindici volte quelli che si laureano in Germania (circa 60 mila). L’Europa ha già ceduto alla Cina la leadership nelle tecnologie delle energie pulite (fotovoltaico e eolico), nei droni ad uso civile, nella produzione di acciaio, alluminio e rame, nella cantieristica, nelle auto elettriche, negli smartphone, ecc. E’ un ritmo di crescita che crea per l’Europa il rischio di passare da una posizione di fornitore e partner ad una di follower. L’assenza di materie prime e il calo demografico (che tocca certamente anche la Russia e la Cina) sono due fattori strutturali che rendono ancora più fragile la competitività della manifattura europea. La guerra sta tuttavia colpendo anche la dimensione politica dell’Unione. L’aumento del senso di precarietà e di incertezza sul futuro rende sempre più attraente l’agenda demagogica del populismo di destra che si espande a macchia d’olio rendendo sempre più complicata e incerta la vita dell’Unione ostinatamente ferma al principio della unanimità nelle votazioni. In particolare è entrato definitivamente in crisi l’asse franco-tedesco che per decenni ha rappresentato una garanzia di continuità ordinata del processo europeo. E’ venuta meno quella divisione di poteri per cui la Germania curava in modo particolare la sua presenza nell’Europa orientale e la Francia nel Mediterraneo. La fine improvvisa del modello economico tedesco sta determinando una vistosa delegittimazione della direzione politica del paese. Lo stesso fenomeno si presenta in Francia, dove è invece la protesta sociale creata dalla politica di austerità che ha fatto saltare il compromesso moderato di Macron, con effetti che si riverberano ora sullo stesso funzionamento istituzionale della V Repubblica. In questa situazione il pervicace perseguimento USA di una politica muscolare di potenza, con la creazione di una nuova cortina di ferro che oltre la Russia coinvolge tutto il mondo non occidentale, si traduce in un gioco al massacro dei più vitali interessi economici dell’Europa, strutturalmente bisognosa di interlocuzione e coesistenza, e accelera la crisi dei sistemi democratici già messi a dura prova dalla austerità di Maastricht. Gli Stati Uniti, che sono stati dopo la seconda guerra mondiale un fattore essenziale della trasformazione della economia e della società europea, sembrano oggi remare alacremente in direzione contraria ai più fondamentali interessi del suo principale alleato.

4. La mancata analisi degli effetti economici e politici della guerra si riflette negativamente nel modo in cui viene impostato il problema della difesa europea cui il rapporto dedica ampio spazio. In proposito bisogna distinguere l’aspetto politico dall’aspetto economico. Per quanto riguarda il primo, il Rapporto riecheggia il tema diffuso di un presunto nuovo protagonismo militare europeo che la guerra dovrebbe suscitare, aprendo imprecisati nuovi spazi alla iniziativa UE. Dal 1949, la difesa europea è saldamente garantita dalla NATO, alleanza militare sorta per fronteggiare la minaccia rappresentata dalla Unione Sovietica, ma che proprio dopo la sua sparizione ha conosciuto uno sviluppo impetuoso sia come reclutamento di sempre nuovi paesi sia come estensione del sistema delle basi militari. Solo per fare un esempio, al bombardamento NATO di Belgrado del 1999 fece immediatamente seguito la costruzione in Kossovo di quella che è oggi la più grande base militare in Europa, la cui sola presenza ha trasformato i Balcani in un luogo ad alta sensibilità strategico- militare. Quello che allora la nuova situazione geopolitica creata dalla guerra ci chiede (lo ha detto più volte Trump, che è forse improprio pensare come un isolazionista) è un aumento del contributo che l’Europa deve versare agli USA per la propria protezione, inevitabilmente tanto più costosa quanto più aspro sarà il livello dello scontro internazionale. E’ quello che stiamo già ampiamente facendo decurtando ulteriormente i bilanci pubblici già resi magri dalla politica di austerità. L’aumento delle tensioni internazionali, allora, ben lungi dall’aumentare lo spazio di un protagonismo europeo (si pensi alla affermazione di una nuova improrogabile necessità di una difesa UE) accentua visibilmente la dipendenza e la subalternità del vecchio continente quale si è storicamente determinata con i risultati della seconda guerra mondiale. Da due anni la politica estera della UE è annunciata nei briefing del segretario della NATO e ripetuta con convinta enfasi dai presidenti della Commissione e del Consiglio Europei. Per quanto riguarda l’aspetto economico è indubbio che la spesa militare, che non è acquisto di armi progettate e costruite altrove, è sempre foriera di progresso tecnologico. L’intelligenza artificiale fa la sua prima apparizione con la cibernetica nella industria bellica della seconda guerra mondiale. Internet nasce come Arpanet alla fine degli anni Settanta come circuito di comunicazione alternativo nel caso di attacco atomico. Per non parlare della bomba atomica. Ma per tutto questo ci vogliono i grandi investimenti pubblici, ci vuole la vecchia onnipotenza dello stato, così caduta in disuso nella retorica politica liberista, ma non per questo venuta meno nella prassi dei grandi Leviatani che decidono delle sorti del mondo. Nemmeno le grandi imprese americane sarebbero capaci di progresso tecnologico senza il continuo input del bilancio e della ricerca federale. Rimane allora da considerare la spesa per armi come componente della domanda effettiva, che è quanto Draghi propone quando afferma: “L’industria della difesa necessita di investimenti massicci per recuperare il ritardo. Come riferimento se tutti gli stati membri dell’UE che sono membri della NATO e che non hanno ancora raggiunto l’obbiettivo del 2% lo facessero nel 2024, la spesa per la difesa aumenterebbe di 60 miliardi euro”. Figuriamoci, aggiungeremmo noi, se andasse avanti la proposta di arrivare al 5% del PIL, come richiesto da Trump! Indubbiamente lo sviluppo USA si è intrecciato strettamente per anni con la continua produzione di armi richiesta dalla prassi della deterrenza che ha guidato tutta la guerra fredda. La spesa per armi è in effetti una componente eccezionalmente dinamica della domanda per la sua continua ripetibilità dovuta alla rapida obsolescenza tecnologica e alla necessaria reintegrazione del materiale distrutto. Ma ancora una volta torna il carattere decisivo del quadro macroeconomico di riferimento. La spesa militare è inserita nella cornice di Maastricht ed è quindi soggetta ad uno stringente vincolo di pareggio dei conti pubblici anche se pare che la tradizionale avversità della Germania e dei paesi frugali potrebbe sbloccarsi con la emissione di un grande prestito europeo destinato a finanziare il riarmo della UE. In assenza di una autonomia strategica militare europea, e quindi anche di una politica industriale che pianifichi (come negli USA o in Cina) le ricadute delle tecnologie militari sulle applicazioni industriali, quali effetti avrebbe questo straordinario programma per il riarmo? Probabilmente solo quello di generare una gigantesca domanda per i sistemi d’arma americani, e in minima parte per quella dei pochi paesi europei (Germania in primis) dotati di alcune tecnologie di punta. La mobilitazione di risorse finanziarie europee a favore delle importazioni contribuirebbe a deprimere ulteriormente la domanda interna.

5. Detto tutto questo, il Rapporto Draghi rappresenta una provocazione e una sfida per tutte le forze che in Italia e in Europa si oppongono allo stato di cose esistente. La lunga campagna elettorale per le elezioni europee è stata una somma di dibattiti nazionali privi di qualsiasi comunicazione. Draghi cerca di disegnare a suo modo i confini di un interesse strategico europeo e indica nel rapporto con gli USA un termine di confronto ineludibile. Lo fa assumendo come irreversibile lo stato di guerra che si è determinato in Europa orientale e Medio Oriente, che gli Stati Uniti hanno voluto almeno fino ad oggi protrarre e legittimare con il profluvio delle loro armi. A noi tocca contro argomentare che proprio l’esperienza del passato sta a dire che le vie dello sviluppo sono quelle della pace e dell’interscambio economico con il maggior numero possibile di paesi, che le risorse create dalle armi sono infinitamente minori e più aleatorie di quelle che possono scaturire dalla soddisfazione dei bisogni più elementari dell’umanità, dalla costruzione di ospedali e di scuole, all’aumento della nostra ricerca scientifica, al miglioramento del livello professionale della nostra forza lavoro. I vuoti di analisi del rapporto che abbiamo cercato di mettere in evidenza, e quindi la fragilità delle alternative che esso intende prospettare, ricordano ancora una volta che l’unica opzione possibile è quella di riaprire il discorso su Maastricht, prendendo nello stesso tempo piena coscienza dei disastri creati in economia e in politica dall’azzeramento di ogni potere contrattuale del lavoro. In questo quadro, è interessante rilevare come le ultime esternazioni parigine di Mario Draghi – tese a sottolineare la necessità di riscoprire il ruolo centrale della domanda interna (a discapito delle esportazioni quale unico o prevalente motore della crescita), ma anche quello di un livello salariale non compresso fino all’esasperazione in nome della competitività esterna – sembrino, in parte, allinearsi alle posizioni espresse da chi ha messo in evidenza criticità e omissioni all’interno del suo Rapporto. 

FONTE: Menabò di Etica ed Economia


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