di Stefano Fassina (da Il Fatto Quotidiano, 11 Sep 2024)
Il Rapporto Draghi ha due contenuti di portata significativa. Non sono le note e martellate “riforme strutturali”, né la lista della spesa per investimenti, completata dalle risorse per la produzione di armamenti, in coerenza con la deriva della maggioranza Ursula verso la NATO globale.
Sono, invece, chi decide cosa comprare e chi paga il conto. Sul chi decide, nel Rapporto evaporano le favole su Stati Uniti d’Europa ed Europa Federale. Sono state utili a presentare come transitorio il dominio del mercato.
Ma, ora, non possiamo perdere altro tempo con le “Convenzioni sul futuro dell’Europa” o le “Conferenze per la riforma dei Trattati”. I beni pubblici europei li possiamo, li dobbiamo, “produrre” attraverso l’unica strada percorribile sul terreno politico insieme ai popoli: la cooperazione tra democrazie nazionali autonome. L’UE intergovernativa.
Quindi, regia piena al Consiglio dei Capi di Stato e di governo. Cooperazioni rafforzate dentro o fuori i Trattati. Rilancio dei Parlamenti nazionali criticati da Draghi per passività verso la Commissione e richiamati al loro dovere in applicazione del principio di sussidiarietà.
I liberal-progressisti osannanti hanno letto il Capitolo 6 del Rapporto? Su chi paga il conto, la prospettiva è drammatica. Sono somme enormi: 750-800 miliardi di euro all’anno, circa 5 punti percentuali di Pil UE, 7-8 volte la dotazione annuale della Commissione. Sono necessarie per le infrastrutture, la ricerca scientifica e tecnologica, le armi, la ricostruzione dell’ucraina. Chi paga?
Mario Draghi è esplicito: si spende a debito. “Debito buono”, si intende. È raccomandato non soltanto per finanziare investimenti pubblici, ma anche per riconoscere tassazione agevolata e innalzare i rendimenti degli investimenti dei privati, per offrirgli robuste garanzie dello Stato, per sostenere i fondi pensione.
Insomma, gli Stati nazionali devono indebitarsi a dosi massicce nel prossimo decennio. Attenzione al gioco di specchi degli Eurobonds “come per i PNRR”. Certo, sarebbero utili. Ma sono sempre debito nazionale: a parte la quota di risorse a fondo perduto, irripetibile e comunque ad oggi senza copertura di “risorse proprie” della Commissione per far fronte ai relativi oneri, il resto, la maggior parte, sono prestiti agli Stati.
Gli Stati devono ripagarli, sebbene, per alcuni come l’Italia, a tassi di interesse inferiori a quelli di mercato. Bene, allora? No. Male. Molto male. Perché, a prescindere dalle inutili revisioni del Patto di Stabilità e Crescita, senza un radicale mutamento della politica monetaria, la maggior spesa per interessi, dovuta sul maggior debito, risucchierebbe, prima o poi, più prima che poi, risorse da sanità, scuola, politiche sociali.
Il Rapporto, qui, è reticente. Sottintende soltanto ulteriori tagli sulle pensioni nell’invocazione di previdenza privata a fiscalità agevolata al fine di innalzare il risparmio delle famiglie e ridurre la spesa corrente.
Ipotizza fantasiosi incrementi di produttività. Ma non sarebbero sufficienti per ammissione dell’estensore stesso del documento.
In sintesi, da un lato, ancora mutilazioni del welfare; dall’altro, rigonfiamento della finanza. Insomma, una larga redistribuzione di reddito dal lavoro alla rendita.
Stupisce il giubilo per il Rapporto Draghi da parte di chi si ripropone come rappresentante di lavoratrici e lavoratori.
Ha letto il Capitolo 5? Si potrebbe evitare? Sì. Come? Attraverso la BCE.
Tale debito pubblico, proprio perché buono, vincolato a priorità strategiche condivise, dovrebbe essere comprato dalle Banche centrali nazionali guidate da Francoforte, come durante la pandemia per lasciare a zero i tassi di interesse, evitare oneri insostenibili per i contribuenti e salvare vite e lavoro.
Dovrebbe rimanere in pancia all’eurosistema, come già si sarebbe dovuto fare con il debito Covid e quello accumulato per ridurre l’impatto sui prezzi della guerra a Kiev.
In sostanza, si dovrebbe infrangere il tabù della monetizzazione del debito pubblico.
Mario Draghi, quando ricevette il premo Paul Volker a New York a metà febbraio scorso, riconobbe il passaggio di fase storica e segnalò l’esigenza di declinare l’indipendenza delle Banche centrali in termini meno autoreferenziali al fine di sostenere le politiche di bilancio. Qui, no. Verrebbe al pettine il nodo politico decisivo: lo statuto ordoliberista dell’UE, inteso come regolazione della moneta, dei mercati e del Tesoro, non può sopravvivere alla fine della “fine della Storia”.
È incompatibile con il tornante eccezionale di fronte a noi. La Germania e i suoi confinanti si mettono di traverso. Vero. Ma, caro Draghi, non possono essere sacrificati, ancora una volta, gli interessi di lavoro e piccola impresa. Gli ultimatum apocalittici non servono. Si giochi a carte scoperte.














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