
di Michele Nardelli (*)
Un’intera vita. Lungo questo arco temporale, nel quale l’impegno politico si è imposto pressoché naturalmente tratteggiando le nostre esistenze, quella che Nelson Mandela ebbe a definire come “la questione morale del nostro tempo” ci ha nostro malgrado accompagnati.
Come una sorella maggiore che ti riporta alla nuda realtà velando di tristezza il tuo passaggio terreno, come un monito permanente a ricordarci di luoghi dove l’immane tragedia della seconda guerra mondiale, nel dolore delle vittime e dei loro cari come nella falsa coscienza dei tanti che scelsero di guardare altrove, non si era mai conclusa.
Quell’eredità, in assenza di un processo di elaborazione individuale e collettiva, non è affatto estranea al dramma delle nuove guerre che dilaniano il nostro tempo e all’inquietudine che pervade un presente che ci sta portando verso una nuova guerra mondiale.
Di quella eredità, la questione palestinese occupa, sul piano simbolico come nella sofferenza di un popolo, uno spazio grande. Ci riporta alle radici della cultura mediterranea; ci racconta che la mezzaluna fertile del Mediterraneo è la culla delle religioni monoteiste e il luogo dove nacque un profeta condannato a morire per le sue idee di fratellanza universale; ci rammenta del cinismo dei potenti (e noi europei fra questi) che l’antisemitismo l’hanno inventato e praticato prima, durante e dopo l’olocausto; ci ammonisce su come la dignità dei popoli sia insopprimibile.
Nel mio colloquio ininterrotto con Ali Rashid, nei frammenti di vita come nella ricerca comune di vie d’uscita per quella terra che risultassero almeno accettabili, questo sguardo insieme critico ed esigente è diventato un caleidoscopio sul quale misurare la deriva della nostra civiltà. Ad ogni piccolo passo in avanti, ne sono seguiti di ben più pesanti in direzione opposta. Contrariamente a quel che si pensa, il tempo non è galantuomo e le ferite lasciate senza cure non possono che generare nuove tragedie. Così oggi – come ha scritto Ali nei mesi scorsi – dilaga il nichilismo (1) .
In molti abbiamo sperato che l’Europa potesse rappresentare un’ancora per tutto il Mediterraneo e dunque anche per la sua Mezzaluna fertile, facendo prevalere finalmente – per usare la metafora di Albert Camus – il meriggio sulla mezzanotte 2 . Non è stato così e ancora una volta, ignara delle proprie radici, l’Europa ha lasciato il passo agli interessi nazionali, ai nazionalismi e al rinchiudersi in fortezza.
Ma l’Europa politica è un’idea di pace, o non è. Per questo, quando l’amico Ali mi ha chiesto cosa pensassi di una sua candidatura al Parlamento Europeo per “Pace, Terra, Dignità”, a prescindere dalla sua realizzabilità, ho per un attimo immaginato al significato che avrebbe potuto avere la sua voce nella più alta espressione della democrazia europea.
Da tempo con Ali stavamo ragionando attorno all’ipotesi di una sua autobiografia, come un contributo per rileggere la vicenda palestinese in controluce rispetto alla sua storia personale. La storia di un padre che fu fondatore dell’OLP, quella del bel borgo di Lifta a Gerusalemme vittima come la sua famiglia della pulizia etnica israeliana, di un bambino nato profugo nella diaspora ad Amman, di un giovane militante che ancora adolescente viene incarcerato per le sue idee e poi come figlio maggiore mandato a studiare da medico in Italia, del rappresentante degli studenti palestinesi in questo paese che nel tempo diviene vice ambasciatore di Nemer Hammad, di uno spirito libero che mal sopporta la deriva burocratica dell’Autorità nazionale palestinese, della scelta di mettere su famiglia a Orvieto con la nascita di Aida Clara, della controversa scelta di mettere fine alla sua attività diplomatica diventando cittadino italiano per essere eletto alla Camera dei Deputati nella legislatura più breve che abbia conosciuto la nostra Repubblica, degli anni della riflessione ma anche della solitudine. Un lavoro – quello autobiografico – che avrebbe un grande valore di ripensamento e di restituzione, che solo per il momento abbiamo messo da parte.
Senza dimenticare che di fronte ad un crescente scenario di guerra tutto si radicalizza e un approccio nonviolento fatica a trovare rappresentazione. Prevale – ed è comprensibile – il bisogno di non stare a guardare e riconosco che anche il palcoscenico elettorale debba essere usato per esporre le ragioni del dialogo e della pace.
Da qui il mio personale appello al voto per un amico fraterno come Ali Rashid. Una testimonianza che va oltre il riconoscimento di gratitudine verso una delle poche voci che, nel delirio della guerra e nella contrapposizione che induce, invita l’umanità ad “uscire dalla gabbia” 3 per ritrovare l’antica saggezza di un mondo oltre ogni confine.
FONTE: Michele Nardelli * Il mio fraterno amico Ali è candidato al Parlamento Europeo nella Circoscrizione Centro Italia per Pace Terra Dignità
NOTE:
1 Ali Rashid, Eppure una volta eravamo fratelli. In https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=5000
2 Albert Camus, L’uomo in rivolta. Bombiani, 1957
3 https://www.michelenardelli.it/commenti.php?id=5022
Ali Rashid, frammenti di vita
“Avevamo una casa di pietra bianca nel mio villaggio: Lifta, fondato 4.000 anni fa dai Cananei e conosciuta dai Romani come Nifta.
Il suo territorio si estendeva fino alla porta di Damasco e alla porta dei Fiori sotto le mura di Gerusalemme.
Poco lontano, mio nonno aveva un oliveto su una collina, oggi chiamata la collina francese, con olivi secolari. Mio nonno conosceva ogni olivo, a ciascuno aveva dato un soprannome.
Lì, avevamo una seconda casa, dove andavamo in autunno.
Da diversi anni, al posto dell’oliveto è sorto un quartiere residenziale per coloni dell’Europa centro-orientale, che non sanno distinguere un fico da un olivo.
Alcuni di quegli olivi sono rimasti in piedi come testimoni silenziosi delle guerre dei conquistatori. Guerre in nome di Dio o degli imperi, che cambiano nome, ma restano sempre le stesse.
Il Massacro di Deir Yassin del 1948 costrinse la gente a fuggire, creando la parte israeliana di Gerusalemme.
La mia famiglia riuscì a trasferirsi nella casa d’autunno.
Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare città e villaggi palestinesi ci fu sempre un massacro.
Lungo la strada Lifta-Romema fino a via di S. Giorgio, infatti, non si trovano più palestinesi.
Le loro tracce furono cancellate.
Nahlul è sorto al posto di Mahlul. Gevat al posto Yibat. Kifar al posto di Tell Shaman.
Anche i cognomi subirono lo stesso destino.
L’autorità giordana decise che il mio cognome, Al Rashid, doveva diventare Khalil.
Tre anni dopo, ridisegnarono i confini tra Giordania e Israele e la mia famiglia fu espulsa nuovamente verso un campo di rifugiati nel deserto giordano.
La nostra casa, con tutte le nostre cose, fu espropriata.
I nuovi arrivati trovarono una casa pronta e arredata, promessa loro da Dio. La nostra identità fu così definitivamente annientata.
La Palestina fu cancellata dalla carta geografica e spartita tra nuovi Stati nazionali creati dalle potenze coloniali europee, a misura dei propri interessi.
Generazioni di palestinesi sono nate e cresciute in queste condizioni.
Venivamo chiamati giordani e il semplice dirsi palestinesi o esporre la bandiera della Palestina era punibile con il carcere.
Quando avevo 11 anni, io, mio padre, mia madre, tre sorelle e un fratello più piccoli di me, vivevamo nel campo rifugiati in una tenda, trasformata lentamente in una casa di fango.
Il nostro sogno è sempre stato quello di tornare alla casa di pietra bianca di Lifta.
Grazie all’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, abbiamo avuto accesso a istruzione e assistenza umanitaria.
A Zarqa, sul margine del deserto, ho camminato per ore ogni giorno per raggiungere la scuola.
Nel 1971, dopo il Settembre Nero in Giordania, fui arrestato e incarcerato per sei mesi perché figlio di un leader palestinese.
Avevo quasi 17 anni. Mia madre mi portava i libri in carcere perché voleva che studiassi. Sapeva che quella era la chiave per rendere liberi i suoi figli.
Nonostante le condizioni disumane della prigione, tra malattie della pelle e sporcizia, una volta liberato, passai l’esame di maturità. A quel punto la mia famiglia e la comunità decisero di mandarmi all’estero per studiare. Nonostante il ritardo per la consegna dei documenti, l’addetto culturale della ambasciata italiana mi prese in simpatia e fece di tutto per farmi partire per l’Italia e farmi arrivare a Parma, per intraprendere il mio percorso accademico.
Arrivai a Parma alle 4 del mattino, solo, con solo il nome di uno studente palestinese da incontrare. Seduto su una panchina vicino alla stazione, osservavo la gente che si affrettava al lavoro, in bicicletta o in Fiat 500.
Era una scena straordinaria, piena di vita, lavoro e diritti. Nell’ambiente accademico scoprii un mondo di conoscenza e opportunità. I libri senza censura e le discussioni del movimento studentesco mi avvicinarono alla libertà e all’impegno.
L’ingiustizia che abbiamo subito riguarda non solo le vite che abbiamo perso, riguarda la storia passata e il nostro presente.
Siamo stati raccontati da una potente macchina di disinformazione che non ha risparmiato nemmeno i libri di storia.
Ma la speranza è un obbligo morale, un faro di luce nel buio dell’ingiustizia e della violenza.
Continuo a chiamarmi Ali Rashid e continuo a sognare quella casa di pietra bianca.”
(Ali Rashid)
LINK al VIDEO: https://youtu.be/WVXzkv0lDCI?si=VPRN_W5yUzCs94qF















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