JEAN-LUC MÉLENCHON: “LE AUTORITÀ NON CONTROLLANO PIÙ LA POLIZIA, NE HANNO PAURA”

Intervista rilasciata il 4 luglio 2023 a Mediapart e pubblicata il 5 luglio

(traduzione a cura di Sandro De Toni)

JEAN-LUC MÉLENCHON: “LE AUTORITÀ NON CONTROLLANO PIÙ LA POLIZIA, NE HANNO PAURA”

Dans le cadre de l’élection présidentielle des 10 & 24 avril 2022 : Réunion publique de Jean-Luc Mélenchon, au Palais de la Musique et des Congrès de Strasbourg, le 19 janvier 2022.

A una settimana dalla morte del giovane Nahel, il leader de La France insoumise torna sulla necessità di fornire risposte politiche alla violenza della polizia e al degrado dei quartieri popolari. E invita la sinistra a “svegliarsi” contro l’estrema destra.

Mathieu Dejean, Fabien Escalona e Ellen Salvi

Il tono si è nuovamente inasprito, martedì 4 luglio, nell’emiciclo dell’Assemblea nazionale. Interrogata dalla presidente del gruppo della France Insoumise (LFI), Mathilde Panot, sull’assenza di risposte politiche a una settimana dalla morte del giovane Nahel, ucciso a distanza ravvicinata da un poliziotto, la premier (Elisabeth Borne – NdT) ha nuovamente attaccato il movimento di Jean-Luc Mélenchon. “State uscendo dal campo repubblicano”, ha accusato i deputati insoumis.

Dopo la tragedia di Nanterre, le critiche di destra e di estrema destra si sono concentrate su LFI, conquistando gradualmente anche le fila della Nuova Unione Popolare Ecologica e Sociale (Nupes). Il dibattito sulla violenza della polizia e i quartieri popolari è stato completamente eclissato. In un’intervista a Mediapart, Jean-Luc Mélenchon analizza le cause di questo spostamento, dietro le quali intravede l’avvento di un “fronte antipopolare”.

Mediapart: È passata una settimana da quando Nahel è stato ucciso a distanza ravvicinata da un poliziotto. Molto rapidamente, il dibattito non si è più concentrato sulla violenza della polizia, ma su quella dei giovani dei quartieri popolari. Come vedi questo cambiamento?

Jean-Luc Mélenchon: Il presidente avrebbe dovuto rispondere, seduta stante, ai problemi provocati della morte di Nahel, cioè sospendere immediatamente questa legge del 2017 sul “permesso di uccidere” di Cazeneuve (ex-Primo ministro sotto la Presidenza Hollande – NdT). Ma siccome non intende rispondere ai problemi posti dalla situazione, ne ha inventati altri. Questa è una tattica diversiva.

Ha innanzitutto indicato la responsabilità dei genitori – un’osservazione offensiva, che mostra il suo rifiuto di tener conto della loro situazione sociale. Quindi, ha incolpato i videogiochi, un’affermazione degna del bar dello sport, perché non esiste nessun studio che attesti un legame tra questi giochi e la violenza. Infine, la maggioranza ha puntato il dito contro di noi, gli insoumis.

Tuttavia, interveniamo sul nostro terreno. Non siamo sociologi o urbanisti. Il nostro ruolo è quello di formulare una valutazione politica di un problema politico al fine di fornire risposte politiche.

Come giudichi le risposte del potere?

Prendo atto che la prima reazione di Macron, quando è stato informato dell’uccisione di un giovane di 17 anni, è stata umana. Come ogni genitore, sentiva che questo evento era inaccettabile, il che è vero. Ma si è fermato lì, lasciando che fosse un ministro a chiamare la madre di Nahel. Avrebbe potuto chiamarla lui stesso o andare a trovarla, il che sarebbe stato un gesto estremamente forte, per dimostrare che non c’era scollamento tra la popolazione e le autorità.

Invece, ha passato il suo tempo a correre dietro la polizia. Lo hanno capito subito i sindacati di polizia, Alleanza e Unsa Polizia, che hanno prodotto un comunicato a tutti gli effetti inaccettabile. Tuttavia, non abbiamo sentito una sola critica. Quando abbiamo interrogato Dupont-Moretti (Ministro della giustizia – NdT) o altri leader, hanno detto che non erano parole loro e che non avevano commenti da fare. Il che significa che siamo più in pericolo di quanto pensassimo.

Il presidente e il suo governo non hanno ancora fatto una sola proposta in relazione agli eventi.

L’organizzazione maggioritaria della polizia dichiara che “non è il momento dell’azione sindacale ma della lotta” e addirittura che “i poliziotti combattono perché noi siamo in guerra”. Parlo qui come rappresentante politico di una parte dell’opinione pubblica francese, che si sente minacciata da un potere che si comporta in questo modo nei confronti della popolazione dei quartieri popolari. E che non fa niente quando bande armate di fascisti scendono in piazza per acciuffare ragazzini e consegnarli alla polizia. Quindi insisto: siamo in pericolo perché il potere non controlla più la polizia. Ne ha paura. Le è sottomesso.

Ecco la situazione dopo una settimana. Con questa incredibile constatazione: il presidente e il suo governo non hanno ancora fatto una sola proposta in relazione agli eventi, a parte l’invio di 45.000 uomini [responsabili del mantenimento dell’ordine – cifra volutamente sopravvalutata dal ministero dell’Interno, secondo Le Canard enchaîné – NdR] in tutto il Paese. Perfino Jacques Chirac, nel 2005 (nel corso di una precedente rivolta dei giovani delle banlieue – NdT), aveva fatto un discorso che cercava di preservare un terreno comune, sul quale potessero ritrovarsi persone di ogni parte.

All’epoca, Claude Dilain, il sindaco di Clichy-sous-Bois (dove era iniziata la rivolta del 2005 – NdT), ebbe questa magnifica frase al congresso del Partito Socialista, tenutosi alla fine delle rivolte urbane: “volete un ritorno alla normalità, ma è la normalità che è insopportabile”. Sappiamo che la normalità è insopportabile e che le persone che si trovano lì la stanno sopportando con incredibile coraggio e pazienza. La risposta, quindi, è la giustizia. In altre parole: la calma si costruisce.


Lei afferma che il potere ha paura della polizia. È un’affermazione forte. Pensa che questa sia una situazione senza precedenti sotto la Quinta Repubblica?

È una situazione simile che ha dato origine alla Costituzione del 1958, perché all’epoca il potere non controllava più l’esercito (in seguito agli sviluppi della guerra d’Algeria – NdT). Ora, non controlla più la polizia, i cui sindacati di maggioranza usano parole prese direttamente dal repertorio dell’estrema destra, trattando la popolazione che gli resiste come “nociva”. Abbiamo avuto un primo avviso di pericolo quando Christophe Castaner (dal 16 ottobre 2018 al 6 luglio 2020, Castaner è stato ministro dell’interno – NdT) si espresse contro la tecnica di blocco delle persone mediante presa per soffocamento. Poi siamo rimasti stupiti nel vedere la polizia affermare che gli era stato concesso il diritto di strangolare. A quel tempo, abbiamo capito che per mostrare tale audacia, dovevano percepire un equilibrio di potere a loro favorevole. In effetti, il signor Castaner ha poi lasciato il suo ministero.

Come spiega che è diventato impossibile avere un discorso critico sulla polizia? Dire semplicemente che c’è un problema di razzismo nelle forze dell’ordine senza essere subito esclusi dall’arco costituzionale repubblicano?

All’origine, si confrontano due visioni del mondo e delle relazioni sociali: l’estrema destra e gli insoumis. Coloro che condividono la dottrina economica del liberismo si sono ritrovati di fronte a una popolazione che resiste in massa alle loro politiche. Hanno dunque accettato di praticare una politica di distrazione di massa utilizzando il discorso dell’estrema destra, sostenendo che il problema sono gli immigrati e anche i musulmani, per introdurre una frattura nella popolazione francese. In tal modo, sono scivolati giù per una china pericolosa. Questo è il destino inevitabile di chi utilizza anche solo parzialmente il discorso dell’estrema destra.

C’è stato un capovolgimento del fronte repubblicano, trasformato in “fronte antipopolare”.

Questa evoluzione verso il peggio si traduce politicamente in quello che gli economisti Bruno Amable e Stefano Palombarini chiamano il “blocco borghese”. Abbiamo visto al secondo turno delle elezioni legislative che il potere ha ritenuto che il peggio non fosse l’estrema destra ma noi. Poi c’è stata la svolta delle elezioni suppletive in Ariège, dove una candidata insoumise, nettamente avanti al primo turno, ha visto tutti gli altri unirsi per sconfiggerla al secondo turno. Immediatamente, abbiamo sentito Jean-Pierre Raffarin (ex-primo ministro gollista – NdT) affermare che si era formato un fronte repubblicano (quello contro l’estrema destra di Marine Le Pen – NdT) capovolto. E infatti c’è stato un capovolgimento del fronte repubblicano, trasformato in “fronte antipopolare”.

Uso questa espressione perché richiama la situazione del 1936, quando tutti gli altri si erano accordati contro il Fronte Popolare, secondo lo slogan “Meglio Hitler che il Fronte Popolare”. La formazione di questo fronte antipopolare condurrà alla catastrofe il nostro Paese.

Tu e il movimento LFI avete cristallizzato le critiche. I vostri detrattori vi escludono dall’arco repubblicano. Come intendete rompere questo isolamento?

Innanzitutto, non ci sentiamo isolati. Rappresentiamo un settore della popolazione. L’attacco che ci è portato è solo un pretesto per conseguire un altro fine politico, cioè l’unificazione delle destre. La sfida è quella di non creare nessuna distanza dai settori sociali che rappresentiamo, anche quando hanno contraddizioni – perché a nessuno piace vedere le auto in fiamme. Dobbiamo evitare che una parte del nostro blocco sociale si sposti dalla parte del partito della repressione. Per questo dobbiamo continuare ad essere l’espressione politica di questo blocco, anche quando è difficile. La giustizia ovunque è la causa comune!

In ogni caso, nessuna propaganda cancellerà i dati del problema. In primo luogo, i quartieri popolari sono stati ostracizzati dalla Repubblica, con popolazioni considerate dagli altri di “razza” inferiore, confinate nei loro luoghi di residenza e nella loro religione, che beneficiano di meno denaro, trasporti e servizi sanitari rispetto ad altri. In secondo luogo, si è operata la secessione dei ricchi. Si sono rifugiati nei loro quartieri con una visione fantasiosa del resto della società. In generale, tutto ciò che era dell’ambito dei beni messi in comune scompare, con la conseguenza del “tutti a casa”.


Evocate i “ricchi”, ma atteggiamenti di secessione sociale possono interessare anche le classi medie…

Parliamone. Già negli anni ’30 le classi medie rappresentavano una questione elettorale. Erano più eterogenei di oggi, con molti negozianti e contadini. La destra oppose il destino di questi gruppi sociali a quello dei lavoratori, nella sua lotta contro il Fronte Popolare. Oggi ci troviamo di fronte a un ambiente più omogeneo rispetto ad allora, a causa di una comunità materiale de facto prodotta dalla dipendenza comune dalle reti.

Analizziamo più da vicino. Affinché la strategia del centrosinistra funzioni, come negli anni ’70, è necessaria l’ascesa della classe media. Quando ero socialista a Lons-le-Saunier [dans le Jura – NdR], il mio segretario di sezione era un assistente sociale, il mio primo segretario federale era un docente della facoltà. Chi erano queste persone? Figli di lavoratori sindacalizzati, in ascesa sociale che condividevano delle parole d’ordine trasversali, come quella dell’autogestione.

La differenza è che oggi le classi medie non sono più in ascesa. Sono impoverite e in via di declassamento. Il loro rapporto con la politica è determinato da un’incertezza: nella polarizzazione sociale, da che parte andranno? Al momento, propendono per un ritorno alla calma. In otto giorni, invece, avrete una valanga di documenti, articoli, forum sulle condizioni di vita nelle periferie. A quel punto, penso che la classe media “ben informata” e istruita riacquisterà il suo sangue freddo e si convincerà che non esiste una soluzione poliziesca a una situazione del genere.


Quale strategia politica adottare in un’arena mediatica isterica e bipolare? Il suo principio è quello di non tirarsi mai indietro rispetto alle proprie posizioni, ma non è correre il rischio di doversi continuamente giustificare sulla forma, a discapito della sostanza?

Vi ricordo che non vendiamo gelati. Apparteniamo a un campo politico, non possiamo mercanteggiare sulle nostre convinzioni. E questa è la condizione per essere ascoltati in seguito.

Se non resistiamo noi, chi lo farà? Quali simpatie si guadagnerebbero cedendo? Gente in preda al panico? Di chi ha paura? Questo dovrebbe essere alimentato? No. Il nostro dovere è resistere. A questo proposito, sono moltissimo e piacevolmente sorpreso dalla capacità di resistenza del gruppo parlamentare degli Insoumis. Molti sono stati eletti per la prima volta nella loro vita. Sono da appena un anno all’Assemblea nazionale, con continui attacchi da sopportare.

Ad ogni tappa, ad ogni passo, diciamo qualcosa a qualcuno che si sente più degno, più forte.

Non perdiamo tempo a spiegarci sulla forma, perché non c’è forma: è pura invenzione. Nessuno di noi ha chiamato all’insurrezione o ad appiccare incendi. Quando invece vado in televisione e racconto la situazione delle madri che faticano a farcela, vengo ascoltato da migliaia di donne che rappresentano l’anima dei quartieri popolari. Ad ogni tappa, ad ogni passo, diciamo qualcosa a qualcuno che si sente più degno, più forte.

Torniamo alla morte di Nahel. Il governo di Bernard Cazeneuve e François Hollande ha approvato una legge nel febbraio 2017 che consente un uso più semplice delle armi da fuoco per le forze dell’ordine. Tutto il gruppo PS aveva votato a favore. È possibile oggi per la Nupes (nella cui alleanza c’è anche il PS – NdT) avere una posizione comune per la sua abrogazione?

Hai ragione a indicare questa legge. Sarebbe stato puro buon senso sospenderla dopo la morte di un ragazzo. La polizia avrebbe ricevuto un segnale chiaro: non si spara più. Il segnale che la polizia riceverebbe è: basta sparare. Per legittima difesa, nessuno ha mai messo in discussione che utilizzino le loro armi. Lo sanno. Io sono sempre per limitare i danni. Di conseguenza avevo affermato che dovevano essere disamarti per controllare le manifestazioni. Chiediamo anche l’immediato giudizio da parte di un organo esterno alla polizia di ogni caso di violenza poliziesca, come richiesto dal Sindacato della magistratura, e la creazione di una commissione “Verità e giustizia”. Ne abbiamo bisogno, perché ci sono un gran numero di casi in cui non c’è ancora una decisione del tribunale.

Veniamo a quelli e a quelle che hanno votato la legge Cazeneuve. Tanto per cominciare, né i Verdi né i comunisti l’hanno fatto: è un buon inizio. Quanto ai socialisti, il loro gruppo in Assemblea ha emesso un comunicato stampa che afferma: “Poiché siamo attaccati all’ordine repubblicano, […] lo diciamo chiaramente: è urgente ridefinire una dottrina del mantenimento dell’ordine, lavorare a una riforma della formazione della polizia, a una revisione delle autorità di controllo e sanzionatorie delle nostre forze dell’ordine, ma anche a una necessaria valutazione dell’applicazione della legge del 2017, in vista della sua revisione”. Quindi vogliono rivederla, meglio di niente. Che bisogno c’è di dire che hanno una differenza fondamentale con me? Di cosa si sta parlando?

Subito dopo la morte di Nahel, lei ha detto che la polizia doveva essere “completamente rivista”. Cosa significa concretamente? E cosa risponde a tutti coloro che, a sinistra, credono che la polizia sarà sempre una forza repressiva al servizio dello Stato?

C’è bisogno di una polizia in tutte le società, è ovvio da quando esistono le città. Non credo che faremo a meno della necessità di far rispettare la legge da parte di persone che rappresentano lo Stato. Perché? Perché non vogliamo che tutti si facciano giustizia da sé. C’è una polizia per fare applicare la legge, questo va fatto bene, non lo possono fare tutti. Si tratta quindi di una professione e di una delega di potere che deve rimanere sotto stretto controllo politico. Tradizionalmente, i grandi poteri dello stato sono cogestiti. Il ministro dell’Interno collabora con i sindacati di polizia. Ma tra collaborare e dargli il potere, c’è una bella differenza!

I sondaggi mostrano che quasi il 50% degli agenti di polizia vota per l’estrema destra. Com’è possibile che l’organismo responsabile del mantenimento dell’ordine repubblicano abbia un’opinione maggioritaria con idee che non sono repubblicane? Cosa spinge un uomo di 24 anni a sparare a un ragazzo? O su una giovane donna? È perché non li vede come suo fratello o come la sua ragazza. Non sto dicendo che sparano per razzismo, ma il loro razzismo gli fa dimenticare a chi stanno sparando. È la mia convinzione.

Occorre dunque rifondare la polizia, a partire dalla formazione, riassumendo il controllo della gestione, ripristinando il codice deontologico di Pierre Joxe (ex-ministro socialista che nel 1988 operò una modernizzazione della polizia). Vi ricordo, inoltre, che quando era Ministro dell’Interno e che la polizia venne a manifestare armata sotto le sue finestre, ne sospese centoventi e ne licenziò quattro. Vi garantisco che dopo ci fu un clima di collaborazione. Rivendicazioni, sì, questa è la vita sindacale. Ma il sindacato che scrive “siamo in guerra”, dovrebbe essere sospeso.

Il suo pensiero si è evoluto sui temi dell’islamofobia. Si può dire lo stesso relativamente alla violenza in politica?

Rispetto ai miei 20 anni, senza dubbio. A 20 anni ero un ammiratore della guerriglia del Che. In seguito, dopo il golpe di Pinochet, ho sostenuto chi ha intrapreso una resistenza armata. E poi ho fatto un bilancio su tutto ciò: abbiamo avuto un risultato significativo da qualche parte, in qualche modo? No, e i migliori sono morti.

La violenza come strategia politica non porta da nessuna parte.

In definitiva, penso che la violenza come strategia politica non porti da nessuna parte. Non perché sarei una specie di santo spaventato dalla violenza, ma perché porta solo a dei disastri. Sostengo strategie non violente. L’unica strategia rivoluzionaria è il voto.

Come spiega allora che viene accusato di essere dalla parte della violenza?

Dobbiamo impiegare il nostro tempo a difenderci dall’essere violenti, quando è il potere a istituzionalizzare la violenza. Inoltre, c’è anche una deriva semantica del vocabolario. Quando sento Macron parlare di “decivilizzazione”, mi spaventa. Anche quando si parla di rivolte, per abitudine di linguaggio, si suggerisce che sia una cosa folle e cieca, quando si capisce che le cose sono più complicate. Siamo in una situazione di rivolte urbane. Assumono forme dettate dal contesto.

Precisamente, insiste molto sul fatto urbano nel suo libro “L’Ère du peuple” (L’Era del popolo – pubblicato nel febbraio del 2016 – NdT) Già nel 1989 il testo fondante della Nuova scuola socialista (nome dato alla corrente di sinistra del PS fondata a partire del 1988 da Jean-Luc Mélenchon e Julien Dray – NdT) teorizzava il concetto di “socialdemocrazia urbana”. Come possono gli abitanti dei quartieri popolari riconquistare il controllo collettivo su questo spazio?

La mia idea, allora, era che con l’urbanizzazione del mondo, le nuove organizzazioni progressiste, socialiste e collettiviste, sarebbero nate dalla struttura urbana e non nelle aziende. La città non è uno scenario, corrisponde al suo tempo. Logicamente, ha accompagnato le varie mutazioni del capitalismo.

Nel corso dell’era fordista e keynesiana, la città è stata fatta a pezzi: il luogo in cui viviamo, il luogo in cui andiamo a passeggiare, il luogo in cui mangiamo, ecc. Ma era una città del contratto sociale, nella quale tutti vivevano insieme. Poi, siamo passati alla città neoliberista, segnata da una dinamica di gentrificazione. Oggi, a Parigi, se sei una famiglia e non hai 5.000 euro in due, non ce la fai.

La città produce anche forme politiche specifiche. Quando i suoi abitanti sono indigenti, entrano in fasi di rivolta che sono eruzioni. Non c’è più alcuna mediazione perché questo si traduca in forme dove è possibile un compromesso. La città è comunque il nuovo terreno del conflitto sociale, perché per produrre e riprodurre la tua esistenza materiale servono reti. E con una rete, non si negozia. L’acqua del rubinetto scorre o non scorre. O c’è l’elettricità o non c’è.

Invito tutti a superare lo spirito del clan, per essere all’altezza della situazione.

La divisione tra classe politica e quartieri popolari non è nuova. A quale periodo la fa risalire e come rinnovare il legame tra gli abitanti di questi quartieri e le strutture politiche?

Questa rottura dipende dai rapporti di forza sociali. I possidenti hanno sempre ripetuto che le classi sociali sottomesse e oppresse fossero pericolose. Durante la Comune di Parigi, Émile Zola se ne esce dicendo: “È una causa meravigliosa ma è mal rappresentata».

Da quando i sindacati hanno perso la loro influenza, distrutti dal neoliberismo, non c’è più una linea di resistenza sociale e politica. I partiti al potere non danno certo ragione a chi protesta contro la loro gestione, cioè i quartieri popolari. L’ultima linea di difesa che avevano erano le associazioni, e anche loro furono smantellate. Abbiamo lasciato milioni di persone disarmate. E il discorso dei dominanti si ripete: le rivolte sono colpa dei ribelli. Non c’è stato assolutamente nulla di nuovo sotto il sole da un secolo a questa parte.

Gli Insoumis dispongono di 4.000 referenti di condominio. Non c’è nessun’altra organizzazione che lo faccia. Siamo ancora lontani dal necessario, ne servirebbero da 4 a 5 volte di più. C’è anche la rappresentanza politica. Vale a dire, far eleggere Rachel Keke (ex-donna delle pulizie in un albergo, originaria della Costa d’Avorio, eletta deputata sconfiggendo un ex-ministra di Macron – NdT), Carlos Martens Bilongo (deputato, insegnante nelle banlieue, famiglia d’origine congolese – NdT) o Louis Boyard (il più giovane deputato dell’Assemblea nazionale, ex-presidente del maggior sindacato studentesco – NdT), anche lui originario di un quartiere popolare. Quindi, il problema è posto e cerchiamo di rispondergli.

Ma ritengo che sia la ristrutturazione sociale che produrrà la propria rappresentazione politica. La legge prevede già che i comuni con più di 20.000 abitanti debbano istituire comitati di quartiere. Ma in quante città ci sono davvero? Dal momento in cui si hanno aree urbane immense, senza contorni definiti, senza limiti, è evidente che la questione della gestione si pone diversamente, e che la scala giusta è il quartiere.

Il movimento sociale contro la riforma delle pensioni ha subito una sconfitta, vediamo imporsi l’agenda della sicurezza e diversi leader politici parlano come l’estrema destra. Quali iniziative concrete dovrebbe lanciare la sinistra per evitare questa agenda mortale?

Occorre, innanzitutto, che la sinistra esista. In politica siamo riusciti a superare le divisioni – a costo di non poche difficoltà – proponendo alle elezioni legislative la coalizione Nupes. Ma non basta. La strategia è l’unione popolare, non solo l’unione dei partiti politici. L’unione popolare è una proposta che si rivolge alle masse e che passa anche attraverso forme organizzate. Lo abbiamo visto durante la battaglia per le pensioni, non abbiamo ancora superato l’assurda divisione tra forze sociali e forze politiche. Naturalmente, i nostri avversari approfittano al 100% della situazione: oppongono i sindacati alle organizzazioni politiche, e poi le organizzazioni politiche tra di loro.

Dopo una settimana di rivolte e senza alcuna risposta da parte del potere politico, siamo capaci di chiamare tutti insieme ad una mobilitazione? Possiamo spingere per parole d’ordine comuni come “verità e giustizia”? I cortei di sabato rispondono a questo [è stato lanciato un appello collettivo per un raduno l’8 luglio – NdR]. Questo prefigura bene l’unione popolare.

Le discussioni si fanno, si fa quel che si può, ma i nostri avversari sono molto abili: demonizzandomi, cercano di rendermi poco frequentabile. La mia persona non è la questione. Per questo invito tutti a superare lo spirito di clan, di cappella e di gruppo, per essere all’altezza della situazione. Quando hai i fachos per strada, sarà pure l’ora di svegliarsi, no? Occorre essere capaci di contrapporre un fronte nonviolento, ma che, per essere efficace, deve essere dieci volte, cento volte più massiccio di quello dei violenti.


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