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Jeffrey Sachs: “La guerra in Ucraina è stata provocata dagli Stati Uniti”

di Jeffrey D. Sachs* per Common Dreams

[Traduzione a cura di: Nora Hoppe]

George Orwell scrisse in “1984” che “Chi controlla il passato controlla il futuro: chi controlla il presente controlla il passato.” I governi lavorano incessantemente per distorcere la percezione pubblica del passato. Per quanto riguarda la guerra d’Ucraina, l’amministrazione Biden ha ripetutamente e falsamente affermato che la guerra d’Ucraina è iniziata con un attacco non provocato della Russia all’Ucraina il 24 febbraio 2022. In realtà, la guerra è stata provocata dagli Stati Uniti in modi che i principali diplomatici statunitensi avevano previsto per decenni nel periodo precedente la guerra, il che significa che la guerra avrebbe potuto essere evitata e che ora dovrebbe essere fermata attraverso i negoziati.

Riconoscere che la guerra è stata provocata ci aiuta a capire come fermarla. Non giustifica l’invasione della Russia. Un approccio di gran lunga migliore per la Russia sarebbe stato quello di intensificare la diplomazia con l’Europa e con il mondo non occidentale per spiegare e opporsi al militarismo e all’unilateralismo degli Stati Uniti. In effetti, l’incessante spinta statunitense ad espandere la NATO è ampiamente osteggiata in tutto il mondo, quindi la diplomazia russa, piuttosto che la guerra, sarebbe stata probabilmente efficace.

Il team di Biden usa senza tregua la parola “non provocata”, di recente nell’importante discorso di Biden per il primo anniversario della guerra, in una recente dichiarazione della NATO e nell’ultima dichiarazione del G7. I media mainstream favorevoli a Biden si limitano a ripetere le parole della Casa Bianca. Il New York Times è il principale colpevole: ha descritto l’invasione come “non provocata” non meno di 26 volte, in cinque editoriali, 14 colonne di opinione di scrittori del NYT e 7 op-editoriali ospiti!

In realtà le provocazioni statunitensi sono state principalmente due. La prima è stata l’intenzione degli Stati Uniti di espandere la NATO all’Ucraina e alla Georgia per poter circondare la Russia nella regione del Mar Nero con una cintura della NATO (Ucraina, Romania, Bulgaria, Turchia e Georgia, in ordine antiorario). Il secondo è stato il ruolo degli Stati Uniti nell’installazione di un regime russofobico in Ucraina con il rovesciamento violento del presidente filorusso Viktor Yanukovych nel febbraio 2014. La guerra in Ucraina è iniziata con il rovesciamento di Yanukovych nove anni fa, non nel febbraio 2022 come vorrebbero farci credere il governo statunitense, la NATO e i leader del G7.

La chiave per la pace in Ucraina è rappresentata da negoziati basati sulla neutralità dell’Ucraina e sul non allargamento della NATO.

Biden e la sua squadra di politica estera si rifiutano di discutere queste radici della guerra. Riconoscerle minerebbe l’amministrazione in tre modi. In primo luogo, rivelerebbe il fatto che la guerra avrebbe potuto essere evitata, o fermata in anticipo, risparmiando all’Ucraina l’attuale devastazione e agli Stati Uniti oltre 100 miliardi di dollari di spese finora sostenute. In secondo luogo, rivelerebbe il ruolo personale del Presidente Biden nella guerra, come partecipante al rovesciamento di Yanukovych e, prima ancora, come convinto sostenitore del complesso militar-industriale e precursore dell’allargamento della NATO. In terzo luogo, spingerebbe Biden al tavolo dei negoziati, minando la continua spinta dell’amministrazione all’espansione della NATO.

Gli archivi mostrano in modo inconfutabile che i governi statunitense e tedesco promisero ripetutamente al presidente sovietico Mikhail Gorbaciov che la NATO non si sarebbe mossa “di un solo centimetro verso est” quando l’Unione Sovietica avesse sciolto l’alleanza militare del Patto di Varsavia. Ciononostante, la pianificazione statunitense per l’espansione della NATO è iniziata all’inizio degli anni ’90, ben prima che Vladimir Putin diventasse presidente della Russia. Nel 1997, l’esperto di sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski ha delineato la tempistica dell’espansione della NATO con notevole precisione.

I diplomatici statunitensi e i leader ucraini sapevano bene che l’allargamento della NATO avrebbe potuto portare alla guerra. Il grande statista statunitense George Kennan definì l’allargamento della NATO un “errore fatale”, scrivendo sul New York Times che “ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionalistiche, anti-occidentali e militaristiche dell’opinione pubblica russa; che abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; che ripristini l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni tra Est e Ovest e che spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non gradite”.

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Il Segretario alla Difesa del Presidente Bill Clinton, William Perry, considerò di dimettersi per protestare contro l’allargamento della NATO. Ricordando questo momento cruciale a metà degli anni ’90, Perry ha detto quanto segue nel 2016: “La nostra prima azione che ci ha davvero portato in una cattiva direzione è stata quando la NATO ha iniziato ad espandersi, coinvolgendo le nazioni dell’Europa orientale, alcune delle quali confinanti con la Russia. A quel tempo, stavamo lavorando a stretto contatto con la Russia, che cominciava ad abituarsi all’idea che la NATO potesse essere un’amica piuttosto che un nemico… ma era molto a disagio all’idea di avere la NATO proprio sul suo confine e ci ha fatto un forte appello a non andare avanti”.

Nel 2008, l’allora ambasciatore americano in Russia, e ora direttore della CIA, William Burns, inviò un cablogramma un cablogramma a Washington in cui avvertiva a lungo dei gravi rischi dell’allargamento della NATO: “Le aspirazioni alla NATO dell’Ucraina e della Georgia non solo toccano un nervo scoperto in Russia, ma suscitano serie preoccupazioni per le conseguenze sulla stabilità della regione. La Russia non solo percepisce l’accerchiamento e gli sforzi per minare l’influenza della Russia nella regione, ma teme anche conseguenze imprevedibili e incontrollate che potrebbero compromettere seriamente gli interessi della sicurezza russa. Gli esperti ci dicono che la Russia è particolarmente preoccupata che le forti divisioni in Ucraina sull’adesione alla NATO, con gran parte della comunità etnica russa contraria all’adesione, possano portare a una grande spaccatura, con violenze o, nel peggiore dei casi, alla guerra civile. In questa eventualità, la Russia dovrebbe decidere se intervenire o meno; una decisione che la Russia non vuole affrontare.”

I leader ucraini sapevano chiaramente che fare pressione per l’allargamento della NATO all’Ucraina avrebbe significato la guerra. L’ex consigliere di Zelensky Oleksiy Arestovych ha dichiarato in un’intervista del 2019 “che il nostro prezzo per entrare nella NATO è una grande guerra con la Russia”.

Nel periodo 2010-2013, Yanukovych ha spinto per la neutralità, in linea con l’opinione pubblica ucraina. Gli Stati Uniti hanno lavorato segretamente per rovesciare Yanukovych, come si evince vivamente dal nastro dell’allora vicesegretaria di Stato americana Victoria Nuland e dell’ambasciatore statunitense Geoffrey Pyatt che pianificano il governo post-Yanukovych settimane prima del violento rovesciamento di Yanukovych. Nella telefonata, Nuland chiarisce che si stava coordinando strettamente con l’allora vicepresidente Biden e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, lo stesso team Biden-Nuland-Sullivan ora al centro della politica statunitense nei confronti dell’Ucraina.

Dopo il rovesciamento di Yanukovych, è scoppiata la guerra nel Donbas, mentre la Russia rivendicava la Crimea. Il nuovo governo ucraino ha chiesto l’adesione alla NATO e gli Stati Uniti hanno armato e aiutato a ristrutturare l’esercito ucraino per renderlo interoperabile con la NATO. Nel 2021, la NATO e l’amministrazione Biden si sono fortemente impegnati per il futuro dell’Ucraina nella NATO.

Nel periodo immediatamente precedente l’invasione della Russia, l’allargamento della NATO è stato al centro dell’attenzione. Il progetto di trattato USA-Russia di Putin (17 dicembre 2021) chiedeva di fermare l’allargamento della NATO. I leader russi hanno indicato l’allargamento della NATO come causa della guerra nella riunione del Consiglio di sicurezza nazionale russo del 21 febbraio 2022. Nel suo discorso alla nazione di quel giorno, Putin dichiarò che l’allargamento della NATO era una delle ragioni principali dell’invasione.

Lo storico Geoffrey Roberts ha recentemente scritto: “Si sarebbe potuta evitare la guerra con un accordo russo-occidentale che avesse fermato l’espansione della NATO e neutralizzato l’Ucraina in cambio di solide garanzie di indipendenza e sovranità ucraina? Probabilmente sì.” Nel marzo 2022, la Russia e l’Ucraina hanno riferito di aver fatto progressi verso una rapida fine negoziata della guerra, basata sulla neutralità dell’Ucraina. Secondo Naftali Bennett, ex primo ministro israeliano, che ha svolto il ruolo di mediatore, un accordo era vicino ad essere raggiunto prima che Stati Uniti, Regno Unito e Francia lo bloccassero.

Mentre l’amministrazione Biden dichiara che l’invasione russa non è stata provocata, nel 2021 la Russia ha cercato opzioni diplomatiche per evitare la guerra, mentre Biden ha rifiutato la diplomazia, insistendo sul fatto che la Russia non aveva voce in capitolo sulla questione dell’allargamento della NATO. Nel marzo 2022, la Russia ha insistito sulla diplomazia, mentre il team di Biden ha nuovamente bloccato la fine della guerra per via diplomatica.

Riconoscendo che la questione dell’allargamento della NATO è al centro di questa guerra, capiamo perché gli armamenti statunitensi non porranno fine a questa guerra. La Russia si intensificherà se necessario per impedire l’allargamento della NATO all’Ucraina. La chiave per la pace in Ucraina è rappresentata dai negoziati basati sulla neutralità dell’Ucraina e sul non allargamento della NATO. L’insistenza dell’amministrazione Biden sull’allargamento della NATO all’Ucraina ha reso quest’ultima vittima di aspirazioni militari statunitensi mal concepite e irraggiungibili. È ora che le provocazioni cessino e che i negoziati riportino la pace in Ucraina.

* Jeffrey D. Sachs è professore universitario e direttore del Centro per lo sviluppo sostenibile della Columbia University, dove ha diretto l’Earth Institute dal 2002 al 2016. È anche presidente del Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite e commissario della Commissione per lo sviluppo a banda larga delle Nazioni Unite. È stato consulente di tre Segretari generali delle Nazioni Unite e attualmente ricopre il ruolo di SDG Advocate sotto il Segretario generale Antonio Guterres. Sachs è autore, da ultimo, di “A New Foreign Policy: Beyond American Exceptionalism” (2020). Tra gli altri libri ricordiamo: “Costruire la nuova economia americana: Smart, Fair, and Sustainable” (2017) e “The Age of Sustainable Development” (2015) con Ban Ki-moon.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-jeffrey_sachs_la_guerra_in_ucraina__stata_provocata_dagli_stati_uniti/39602_49781/

Serbia: se il governo cede al ricatto per le sanzioni alla Russia, si spacca il paese e i Balcani entrano in piena destabilizzazione

di Enrico Vigna, 12 marzo 2023

Da quando il Parlamento europeo ha votato che la Serbia deve imporre sanzioni alla Russia o i negoziati dell’UE saranno interrotti, i ricatti e le pressioni NATO, legate alla situazione del Kosovo stanno arrivando a conclusione.

I Balcani occidentali sono un insieme di sei paesi, che comprende Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia del Nord e Serbia che i rappresentanti dell’Unione europea hanno ripetutamente affermato devono appartenere alla famiglia europea. La regione dell’Europa meridionale e orientale, abitata da circa 18 milioni di persone, è ormai nota come l’arena della rivalità geostrategica tra, Bruxelles, Washington e Mosca degli ultimi decenni.

La promessa di ammissione di questi paesi nell’Unione europea, oltreché nella NATO, è stato finora lo strumento più sottile dell’Occidente per assoggettare e integrare la regione, usando i leader filoeuropeisti da essi sponsorizzati e sostenuti.

Peter Stano, portavoce del capo della diplomazia europea ha dichiarato alla CNBC: “… Sicuramente, i Balcani occidentali sono il secondo campo di battaglia per la Russia in termini di strategia e… dopo l’Ucraina si sono intensificate le loro attività…”..

Anche la NATO ribadisce l’importanza strategica dei Balcani occidentali per l’Alleanza: “È chiaro che l’invasione russa dell’Ucraina influisce sulla stabilità dei nostri partner vulnerabili e li espone a un rischio maggiore di “influenza maligna”. Continueremo a lavorare insieme per mantenere la stabilità e sostenere le riforme e la resilienza nella regione perché la sicurezza e la stabilità nei Balcani occidentali sono importanti per la NATO e per la pace e la stabilità in Europa…”, ha poi affermato un funzionario della NATO citato dalla CNBC. Sappiamo cosa significano per la NATO le parole stabilità e sicurezza…

In risposta a una richiesta di commento, un portavoce del Dipartimento di Stato USA ha detto alla CNBC che: “… Washington rimane profondamente coinvolta nella regione, descrivendo il futuro dei Balcani occidentali come “esclusivamente all’interno dell’UE”…Non dobbiamo permettere al governo russo di frenare il progresso dei paesi dei Balcani occidentali“, ha detto il diplomatico americano.

Considerando il fatto che recentemente nei Balcani occidentali tutti gli esempi della cosiddetta “influenza maligna della Russia” si sono rivelati falsi e il livello di conflitto in Bosnia ed Erzegovina (BiH) e nella provincia autonoma serba del Kosovo è rimasto finora un problema locale e interno alle problematiche degli attori regionali, tali dichiarazioni dei media statunitensi suscitano sospetti e insidie. Queste dichiarazioni possono essere interpretate come una copertura per accrescere la campagna occidentale volta a costringere le autorità della Repubblica Serba della Bosnia-Erzegovina e della Serbia, a imporre sanzioni contro la Russia.

Casualmente, subito dopo queste ennesime dichiarazioni, l’11 febbraio il presidente serbo A. Vučić ha affermato che le autorità serbe stavano aspettando “il momento giusto” per imporre sanzioni contro la Russia, e “la questione non riguarda mesi” , e queste affermazioni hanno scatenato nella società serba proteste di piazza, fibrillazioni e accuse di tradimento al presidente serbo, il quale si è giustificato dicendo che ormai le pressioni sul paese sono al punto di insostenibilità.

Nell’ultima votazione di novembre scorso, il Parlamento Europeo, per la seconda volta ha chiesto ufficialmente che l’UE interrompa l’avanzamento dei negoziati con la Serbia fino a quando non soddisferà diversi requisiti di base, il più importante dei quali è il completo allineamento della politica estera e di sicurezza della Serbia con la politica estera e di sicurezza della UE. Il Parlamento europeo sottolinea l’importanza del pieno rispetto, in particolare della politica delle sanzioni contro i paesi terzi. Il PE esprime rammarico per il basso livello di conformità della Serbia alla politica estera e di sicurezza comune dell’UE, in particolare in relazione all’aggressione militare della Russia contro l’Ucraina. La risoluzione afferma che ulteriori capitoli negoziali dovrebbero essere aperti solo quando la Serbia rafforzerà il suo impegno per le riforme nel campo della democrazia e dello Stato di diritto e dimostrerà di essere pienamente allineata con la politica estera e di sicurezza comune dell’UE. Nel documento, il PE ricorda che la Serbia, in quanto paese che lotta per l’integrazione europea, deve aderire a valori comuni.

Il governo serbo già da alcuni mesi sta dando segnali di cedimento della sua storica politica (dai tempi della Jugoslavia socialista), di Non allineamento. UE, NATO, USA dall’armistizio, dopo l’aggressione del 24 marzo 1999, stanno cercando di piegare la politica serba ai diktat dell’egemonia occidentale, cercando di rompere la millenaria fratellanza del popolo serbo con quello russo e slavo. Ora sembra che siamo vicini a questo passaggio che sarebbe traumatico sia politicamente, che culturalmente e spiritualmente per i serbi, ma che avrebbe anche ripercussioni e destabilizzazioni in tutti i Balcani e i paesi vicini.

Secondo uno studio condotto dall’organizzazione britannica Henry Jackson Society (HJS) presso l’Università di Cambridge, la stragrande maggioranza dei cittadini serbi, il 78,7%, non sostiene l’imposizione di sanzioni anti-russe e l’armonizzazione della politica estera del Paese con l’Unione Europea, si oppone all’adesione alla NATO e non vuole perdere i suoi, storicamente buoni rapporti con la Russia. Mentre solo il 12,1% dei serbi è favorevole.

Secondo gli autori dello studio, nonostante le pressioni e i ricatti dell’UE sulla Serbia, il 53,3% dei suoi cittadini vuole rimanere neutrale rispetto al conflitto in Ucraina. Il 35,8% degli intervistati ritiene che la Serbia dovrebbe sostenere la Russia e solo il 4,4% ha dichiarato di sostenere l’Ucraina. Per i ricercatori inglesi, la reazione dei cittadini serbi al caso dell’uso del sistema “bastone e carota” da parte di Bruxelles e Washington si è rivelata scioccante.

Alla domanda se imporre sanzioni alla Russia per accelerare l’adesione della Serbia all’UE, solo il 6,4% ha risposto “sì”. Se l’UE fornisse un’assistenza finanziaria significativa alla Serbia, solo il 9,5% accetterebbe di imporre sanzioni. E se Bruxelles smetterà di fare pressioni su Belgrado affinché riconosca l’indipendenza dell’autoproclamata “Repubblica del Kosovo“, allora questa quota salirebbe solo al 13,6%.

Quando si tratta di possibili “fruste“, i risultati sono simili. Anche con la minaccia di sanzioni dell’UE contro la stessa Serbia, il 69,9% degli intervistati si è dichiarato contrario alle sanzioni anti-russe. Se l’Ue minaccia di chiudere i suoi fondi, solo il 12,4% è favorevole alle sanzioni. Il ritiro degli investimenti ha spaventato solo il 15,1% dei serbi.

Alla domanda su chi sia la colpa del conflitto in Ucraina, il 66,3% degli intervistati in Serbia ha risposto che è Kiev. Ma su questo argomento i maggiori “successi” sono stati ottenuti dagli Stati Uniti e dalla NATO: l’82,4% e l’84,8% degli intervistati li incolpa per la situazione attuale. Non a caso, in un ipotetico referendum sull’adesione della Serbia alla Nato, il 63,4% degli abitanti del Paese voterebbe “contro“. Solo l’1,2% sostiene fortemente questa idea. E se si tenesse un referendum sull’adesione della Serbia all’Unione europea, il 31,6% voterebbe “decisamente contro”, il 12,7% preferibilmente contro. Mentre il 23% dei serbi è favorevole all’adesione all’UE e solo il 15,1% è “decisamente favorevole”.

Per quanto riguarda una associazione alle potenze mondiali, il 54,1% degli intervistati in Serbia afferma che dovrebbe essere con laRussia, mentre il 22,6% vede un alleato nella UE, il 9,7% nellaCina. Gli Stati Uniti hanno ottenuto solo l’1,2% delle simpatie.

Gli autori dello studio sono giunti alla conclusione che ulteriori misure restrittive contro la Serbia potrebbero portare ad un allontanamento e contrarietà alla UE. Inoltre è stato rilevato che, foss’anche che le autorità serbe imponessero sanzioni anti-russe, i cittadini del Paese si allontanerebbero ancora di più dall’Occidente.

incontrati a Bruxelles per discutere il piano dell’Unione Europea per la normalizzazione tra Kosovo Lunedì 27 febbraio il presidente serbo A. Vucic e il premier kosovaro albanese A. Kurti si sono e Serbia. I due esponenti non hanno poi firmato nulla, l’accettazione del piano è solo verbale e mancano ancora da definire alcune riserve. Su queste nelle prossime settimane si andranno a concentrare nuovi negoziati,
Dopo l’aggressione NATO del 1998-99, il Kosovo ha proclamato nel 2008 la propria indipendenza, mai riconosciuta da Belgrado, che ha sempre goduto del sostegno della Russia per bloccare l’accesso di Pristina alle Nazioni Unite e in altre organizzazioni internazionali. La realizzazione di questo accordo sbloccherebbe questo status quo. Il 18 marzo i leader si incontreranno di nuovo, un incontro che potrebbe segnare l’inizio di nuovi scenari geopolitici e destabilizzazioni non solo in Serbia.

Il piano dell’UE è frutto di una proposta franco-tedesca, preparata mentre a livello locale crescevano le tensioni per via della cosiddetta “battaglia delle targhe” e della richiesta della realizzazione delle Comunità Autonome Serbe nella provincia, come previsto nella risoluzione ONU 1244.

Fino allo scorso 27 febbraio, questa proposta non era mai stata resa pubblica, se non da alcune indiscrezioni a mezzo stampa, il piano non prevede che Kosovo e Serbia si riconoscano ufficialmente, un truffaldino escamotage, che nasconde la resa dello stato serbo su tutti i fronti, mantenuti in questi 24 anni.

Si richiede di conseguenza l’impegno per Belgrado di smettere di ostacolare l’ingresso di Pristina nelle organizzazioni internazionali, promettendo l’avvio di “relazioni di buon vicinato sulla base di uguali diritti”: la Serbia deve riconoscere documenti, emblemi nazionali, passaporti e targhe automobilistiche emessi dal cosiddetto stato indipendente del Kosovo, si scambierebbero “missioni permanenti”; e rifiuterebbero l’uso della forza per la risoluzione delle controversie in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. Disposizioni, quindi, che prevedono un riconoscimento de facto, anche se la terminologia impiegata evita questa espressione. Resta solo un aspetto non risolto in questo piano, ovvero l’istituzione di una Associazione/Comunità dei comuni a maggioranza serba, che nel 2015 fu giudicata incostituzionale dalla UE. Un ultimatum per la capitolazione della Serbia, il cui passo successivo sarebbe l’accettazione delle sanzioni alla Russia, con tutto ciò che comporterà nelle relazioni tra i due paesi.

Intanto nel paese la tensione sale di giorno in giorno, con proteste, arresti, scontri sia in Serba che in Kosovo; nelle manifestazioni il clima è infuocato e lo scontro sale pericolosamente, alcuni leader patriottici di queste proteste, dove ci sono già stati arresti e scontri violenti, hanno addirittura espresso negli slogan il monito/minaccia “chi firmerà questo tradimento sarà ucciso” o dichiarazioni durissime, come quelle dell’accademico serbo Dusan Kovacevic“Chi firmerà per l’indipendenza del Kosovo morirà prima che l’inchiostro si asciughi“.

Alcuni deputati, anche dello stesso partito del presidente Vucic, il Partito Progressista Serbo al governo, ribadiscono che sarebbe economicamente non conveniente per la Serbia imporre sanzioni, poiché metterebbe a repentaglio la sua sicurezza energetica e le relazioni fraterne secolari. Anche la “…Chiesa Ortodossa serba sembra pronta a scendere in campo contro la resa del governo, molti analisti prevedono la possibilità di manifestazioni di massa nel paese contro l’introduzione di restrizioni alla Russia” ha dichiarato ai media il deputato Kostic; che ha poi aggiunto”…La gente in Serbia è per la Russia e contro la NATO, quindi un tentativo di imporre sanzioni potrebbe essere la fine per Aleksandar Vučić e il suo governo“.

Anche i serbi del Kosovo resistono e rispondono alle quotidiane provocazioni e violenze, con manifestazioni di piazza e resistenza civile

Nella provincia continuano le proteste e le manifestazioni nelle aree abitate dai serbi, nel nord del Kosovo contro le violenze e il terrorismo delle “forze speciali” delle autorità separatiste di Pristina e contro le prospettive di svendita della provincia. Le parole d’ordine con cui i serbi scendono in piazza sono: “Kurti, non ti perdoneremo i nostri figli colpiti”,“Europa, di cosa sono colpevoli i nostri figli?”,“Vučić, prenditi cura dei serbi e della pace!”,“Vogliamo solo pace”, “Kosovo è Serbia”.

Nel contempo USA e NATO soffiano sul fuoco, probabilmente ritenendo che la destabilizzazione della Serbia, potrebbe aprireun secondo fronte di scontro tra occidente e Russia, con l’obiettivo di creare nuove contraddizioni e un indebolimento strategico della stessa.

A cura di Enrico Vigna, presidente di SOS Yugoslavia-SOS Kosovo Metohija e portavoce del Forum Belgrado Italia – 12 marzo 2023

Frei Betto: La guerra fredda si surriscalda

Gli Stati Uniti, l’impero più potente della storia, sono come il dio azteco Tezcatlipoca: si nutrono di vittime umane. Uno dei principali motori della sua economia in espansione è l’industria bellica. Le guerre sono necessarie a Wall Street per raccogliere enormi dividendi.

Per tutto il XX secolo, il nemico permanente è stato il comunismo. Combatterlo giustificava spese multimilionarie e persino colpi di stato in America Latina per instaurare dittature sanguinarie.
Con la caduta del Muro di Berlino e la scomparsa dell’Unione Sovietica, la Casa Bianca aveva bisogno di un nuovo obiettivo per evitare che la macchina bellica si fermasse. E non ci volle molto per trovarlo: il terrorismo. Con il vantaggio che non si trattava di un nemico che poteva essere localizzato geograficamente o sconfitto, come in una guerra tra Paesi. È un nemico da combattere permanentemente e che assicura la soddisfazione perenne dell’insaziabile appetito di Tezcatlipoca.

Nella seconda settimana del suo mandato, Trump ha dichiarato: “Ho firmato un ordine esecutivo per iniziare una grande ricostruzione delle agenzie militari degli Stati Uniti”. Il suo segretario alla Difesa, James “Mad Dog” Mattis, ha dichiarato al Washington Post che era necessario “esaminare come condurre operazioni contro non meglio identificati concorrenti vicini” (Chomsky 2022, p. 162). È ovvio che non si riferiva ai dischi volanti, ma alla Russia e alla Cina. Il 19 gennaio 2018 è stato più esplicito: “Mentre continueremo a promuovere la campagna contro i terroristi, nella quale siamo attualmente impegnati, la competizione tra grandi potenze, non il terrorismo, occupa ora il centro dell’attenzione della sicurezza nazionale statunitense”.

Secondo un rapporto del 2018 del Dipartimento della Difesa, gli Stati Uniti mantengono 625 basi militari ufficiali in Paesi stranieri. L’analista politico David Vine ha rivelato nel 2021 che, se si contano le basi clandestine, ci sono circa 750 basi militari statunitensi.

Quando era presidente dell’Ecuador, Rafael Correa chiese alla Casa Bianca il permesso di collocare una base militare ecuadoriana a Miami, nel caso in cui gli Stati Uniti avessero voluto continuare a mantenere la base aerea di Manta sulla costa del Pacifico (del suo Paese  ndt). Manta è stata chiusa. Il bilancio militare statunitense (2023) è di 858 miliardi di dollari, il 35% del totale mondiale. Qual è lo scopo di tanto denaro sperperato in un mondo in cui vivono 3 miliardi di persone in povertà, di cui 821 milioni soffrono di fame cronica? Proteggere il modello di democrazia made in USA, cioè l’appropriazione privata del capitale.

Secondo Chomsky, “Ogni volta che c’è stato un conflitto tra la democrazia e l’ordine, definito come la protezione dell’accumulazione di capitale da parte delle élite, gli Stati Uniti si sono schierati dalla parte di quest’ultimo” (2022, p. 153).
Questa ideologia perversa affonda le sue radici nel XIX secolo, quando James Madison, uno dei “padri fondatori della nazione”, dichiarò: “Nelle democrazie i ricchi devono essere preservati; non solo la loro proprietà non deve essere divisa, ma i loro redditi devono essere protetti”.

La difesa della proprietà privata (di pochi, ovviamente) e dell’accumulazione privata di capitale richiede anche una protezione interna. Da qui la principale arma ideologica del sistema: la paura! Paura del nero, paura dell’immigrato, paura di chi non è cristiano o ebreo, paura del povero.

Oggi, ciò che la Casa Bianca teme di più è che la Cina superi gli Stati Uniti nell’innovazione tecnologica e diventi egemone nel pianeta. Questo perché il gigante asiatico ha denaro sufficiente per investire nella ricerca, dal momento che non mantiene basi militari fuori dai suoi confini e spende solo 230 miliardi di dollari nel settore bellico. Ecco perché l’imperialismo sta provocando la Cina in tutti i modi possibili, cercando di costringerla a partecipare alla corsa agli armamenti, alla quale partecipano Russia e Stati Uniti.

Gli Stati Uniti non vogliono disperatamente perdere l’egemonia mondiale acquisita dopo la Seconda guerra mondiale, ma oggi, nel mondo multipolare, la Cina si impone come l’economia in grado di superare in un prossimo futuro gli Usa e l’arsenale nucleare della Russia supera quello degli Stati Uniti.

La Casa Bianca è indignata per l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Sostiene che mancava il consenso delle Nazioni Unite. Che cinismo! Gli Stati Uniti hanno invaso la Russia nel 1918, senza successo. E senza il consenso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU hanno invaso Santo Domingo nel 1965; hanno invaso e bombardato i territori del Vietnam e della Cambogia per tutti gli anni ’60; hanno invaso il territorio della Somalia nel 1993 (300.000 morti); dell’Afghanistan nel 2001 (180.000 morti), dell’Iraq nel 2003 (300.000 morti); della Libia nel 2011 (40.000 morti); della Siria nel 2015 (600.000 morti); e infine dello Yemen, dove sono già morte circa 240.000 persone (Fiori, 2023).
Chi protesta contro l’occupazione statunitense di Porto Rico dal 1898, di Guantánamo a Cuba dal 1903 e contro il blocco di Cuba che dura da oltre 60 anni?

Per la Casa Bianca, la probabile sconfitta dell’Ucraina per mano della Russia sarà amara. Biden dovrà ingoiare duro, sapendo che ciò influirà sulla sua rielezione l’anno prossimo. Sa che l’unica reazione “all’altezza” sarebbe catastrofica per l’umanità: il confronto nucleare.

Anche i Paesi dell’Unione Europea, monitorati dagli Stati Uniti attraverso la NATO, sanno che la guerra della Russia contro l’Ucraina è un pantano in cui si sono cacciati. Non sanno come uscirne. E la cosa più grave: le sanzioni imposte alla Russia non hanno avuto alcun effetto sul Paese. Al contrario, il rublo si è rafforzato. E diversi Paesi europei, a partire dalla Germania, erano già irritati per le esplosioni che nel settembre 2022 hanno distrutto i gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico, che li rifornivano di gas naturale. Ora l’irritazione ha lasciato il posto alla furia: non sono stati i russi a interrompere la fornitura, ma la CIA è stata responsabile del sabotaggio.

Qui in Occidente conosciamo la narrazione del cacciatore, non della lepre. Le fantasie di Hollywood e di Walt Disney ci convincono che per la Casa Bianca la libertà non è solo il nome di una statua tra New York e il New Jersey. E moltissime persone credono ai discorsi falsi dello Zio Sam. Tra l’altro, perché in questo lato occidentale del mondo conosciamo poco la versione del lato orientale.

Frei Betto
Teologo, scrittore e politico brasiliano. E’ stato responsabile del Programma “Fame Zero” nel primo governo Lula. Come scrittore è stato insignito del Premio Jabuti e ha pubblicato più di 50 volumi, tra cui Paradiso perduto. Viene considerato uno degli esponenti della Teologia della Liberazione

https://it.wikipedia.org/wiki/Frei_Betto

FONTE: https://codice-rosso.net/la-guerra-fredda-si-riscalda-di-frei-betto/

Germania: il “Manifesto per la pace” di Alice Schwarzer e Sara Wagenknecht raccoglie oltre 300mila firme in due giorni

Schwarzer e Wagenknecht mettono in guardia da una terza guerra mondiale. Chiedono di porre fine alla fornitura di armi all’Ucraina. Chiamano a una manifestazione a Berlino il 25 febbraio.

di Maximilian Beer (dal Berliner Zeitung)

La politica di sinistra Sahra Wagenknecht e la pubblicista Alice Schwarzer hanno scritto un “Manifesto per la pace”. “Oggi è il 352° giorno di guerra in Ucraina”, si legge all’inizio del testo, pubblicato sulla piattaforma di petizione Change.org. “Se i combattimenti continuano così, l’Ucraina sarà presto un Paese spopolato e distrutto”.

Nel testo, Wagenknecht e Schwarzer parlano di “oltre 200.000 soldati e 50.000 civili” che sarebbero già morti nei combattimenti. Le donne sono state violentate, i bambini spaventati e “un intero popolo traumatizzato”. In tutta Europa, molti temono un’espansione della guerra.

Negli ultimi mesi, il deputato del Bundestag e la giornalista si erano ripetutamente espressi contro le forniture di armi all’Ucraina e a favore di maggiori sforzi diplomatici per porre fine alla guerra di aggressione russa.

La popolazione ucraina è stata “brutalmente” invasa dalla Russia, scrivono Schwarzer e Wagenknecht, e ha bisogno della “nostra solidarietà”. Agli occhi dei due autori, tuttavia, questo non può ovviamente consistere in ulteriori forniture di armi al Paese.

“Il presidente Zelenskyj non fa mistero del suo obiettivo”, affermano Wagenknecht e Schwarzer a proposito del presidente ucraino. “Dopo i carri armati promessi, ora chiede anche jet da combattimento, missili a lungo raggio e navi da guerra – per sconfiggere la Russia su tutta la linea?”.

Secondo Schwarzer e Wagenknecht, si teme che il Presidente russo Vladimir Putin “lancerà un contrattacco durissimo al più tardi in caso di attacco alla Crimea”. La Russia aveva già annesso la penisola ucraina nel 2014, in violazione del diritto internazionale.

Nel loro “Manifesto”, ora pubblicato, Schwarzer e Wagenknecht chiedono anche al Cancelliere tedesco di “fermare l’escalation di consegne di armi”. Olaf Scholz dovrebbe “guidare una forte alleanza per il cessate il fuoco e i negoziati di pace a livello tedesco ed europeo”.

Gli autori concludono dicendo: “Perché ogni giorno perso costa fino a 1000 vite in più – e ci avvicina a una terza guerra mondiale”.

Alice #Schwarzer e io abbiamo scritto un “Manifesto per la pace”. Per i #negoziati invece che per i #carri armati. A partire da oggi, tutti possono partecipare: https://t.co/UD8JGBXsVl Per il 25 febbraio, alle 14.00, vi invitiamo a una manifestazione alla Porta di Brandeburgo. #AufstandfuerFrieden pic.twitter.com/qCiAtUhjYO
– Sahra Wagenknecht (@SWagenknecht) 10 febbraio 2023

FONTE: https://www.berliner-zeitung.de/politik-gesellschaft/aufruf-zu-demo-schwarzer-und-wagenknecht-veroeffentlichen-manifest-fuer-frieden-li.316259


TESTO in ITALIANO della PETIZIONE LANCIATA IERI IN GERMANIA DA SARA WAGENKNECHT e ALICE SCHWARZER

Alice Schwarzer, Sahra Wagenknecht e il generale di brigata in pensione Erich Vad hanno indetto una giornata di protesta per il 25 febbraio: una manifestazione presso la Porta di Brandeburgo a Berlino.

LINK per firmare la petizione: https://www.change.org/p/manifest-f%C3%BCr-frieden

“Oggi è il 352° giorno di guerra in Ucraina. Finora sono stati uccisi oltre 200.000 soldati e 50.000 civili. Le donne sono state violentate, i bambini spaventati, un intero popolo traumatizzato. Se i combattimenti continuano così, l’Ucraina sarà presto un Paese spopolato e distrutto. E anche molte persone in tutta Europa temono un’espansione della guerra. Temono per il loro futuro e per quello dei loro figli.

Il popolo ucraino, brutalmente invaso dalla Russia, ha bisogno della nostra solidarietà. Ma cosa sarebbe ora la solidarietà? Per quanto tempo ancora si dovrà combattere e morire sul campo di battaglia dell’Ucraina? E qual è ora, un anno dopo, l’obiettivo di questa guerra? Il ministro degli Esteri tedesco ha recentemente parlato di “noi” che conduciamo una “guerra contro la Russia”. Sul serio?

Il Presidente Zelenskyj non fa mistero del suo obiettivo. Dopo i carri armati promessi, ora chiede jet da combattimento, missili a lungo raggio e navi da guerra – per sconfiggere la Russia su tutta la linea? Il cancelliere tedesco assicura ancora di non voler inviare né jet da combattimento né “truppe di terra”. Ma quante “linee rosse” sono già state superate negli ultimi mesi?

C’è da temere che Putin lanci al più tardi un massiccio contrattacco se viene attaccata la Crimea. Ci stiamo quindi dirigendo inesorabilmente verso un pendio scivoloso che porta alla guerra mondiale e alla guerra nucleare? Non sarebbe la prima grande guerra iniziata in questo modo. Ma potrebbe essere l’ultima.

L’Ucraina può vincere singole battaglie – con il sostegno dell’Occidente. Ma non può vincere una guerra contro la più grande potenza nucleare del mondo. Lo dice anche il più alto ufficiale militare degli Stati Uniti, il generale Milley. Parla di una situazione di stallo in cui nessuna delle due parti può vincere militarmente e la guerra può essere conclusa solo al tavolo dei negoziati. Allora perché non ora? Immediatamente!

Negoziare non significa arrendersi. Negoziare significa scendere a compromessi, da entrambe le parti. Con l’obiettivo di prevenire altre centinaia di migliaia di morti e peggio. Lo pensiamo anche noi, lo pensa anche metà della popolazione tedesca. È ora di ascoltarci!

Noi cittadini tedeschi non possiamo influenzare direttamente l’America e la Russia o i nostri vicini europei. Ma possiamo e dobbiamo chiedere conto al nostro governo e al Cancelliere e ricordargli il suo giuramento: “Evitare danni al popolo tedesco”.

Chiediamo al Cancelliere di fermare l’escalation di consegne di armi. Ora! Dovrebbe guidare una forte alleanza per il cessate il fuoco e i negoziati di pace sia a livello tedesco che europeo. Ora! Perché ogni giorno perso costa fino a 1.000 vite in più – e ci avvicina a una terza guerra mondiale.”

Alice Schwarzer e Sahra Wagenknecht

VIDEO:

I 69 SOSTENITORI

Dr. Franz Alt Journalist und Bigi AltChristian Baron Schriftsteller • Franziska Becker Cartoonistin • Dr. Thilo Bode Foodwatch-Gründer • Prof. Dr. Peter Brandt Historiker • Rainer Braun Internationales Friedensbüro (IPB) • Andrea Breth ­Regisseurin • Dr. Ulrich Brinkmann Soziologe • Prof. Dr. Christoph Butterwegge Armutsforscher • Dr. Angelika Claußen IPPNW Vize-Präsidentin Europa • Daniela Dahn Publizistin • Rudolf Dressler Ex-Staatssekretär (SPD) • Anna Dünnebier Autorin • Petra Erler Geschäftsführerin (SPD) • Valie Export Künstlerin • Bettina Flitner ­Fotografin und Autorin • Justus Frantz Dirigent und Pianist • Holger Friedrich Verleger ­Berliner ­Zeitung • Katharina Fritsch Künstlerin • Prof. Dr. Hajo Funke Politikwissenschaftler • Dr. Peter Gauweiler Rechtsanwalt  (CSU) • Jürgen Grässlin Dt. Friedensgesellschaft • ­Wolfgang Grupp Unternehmer • Prof. Dr. Ulrike Guérot Politikwissenschaftlerin • ­Gottfried ­Helnwein Künstler • Hannelore Hippe Schriftstellerin • Henry Hübchen Schauspieler • ­Wolfgang ­Hummel Jurist • Otto Jäckel Vorstand IALANA • Dr. Dirk Jörke Politikwissenschaftler • Dr. ­Margot Käßmann Theologin • Corinna Kirchhoff Schauspielerin • Uwe Kockisch Schauspieler • Prof. Dr. Matthias Kreck Mathematiker • Oskar Lafontaine Ex-Minister­präsident  • Detlef Malchow Kaufmann • Gisela Marx Journalistin • Prof. Dr. ­Rainer Mausfeld ­Psychologe • Roland May Regisseur • Maria Mesrian Theologin/Maria 2.0 • Reinhard Mey Musiker und Hella MeyProf. Dr. Klaus Moegling ­Scientists for Future • Michael Müller Vorsitzender NaturFreunde • Franz Nadler Connection e. V. • Dr. ­Christof ­Ostheimer ver.di-Vorsitzender Neumünster • Dr. Tanja Paulitz Soziologin • Romani Rose Vors. Zentralrat Deutscher Sinti und Roma • Eugen Ruge Schriftsteller • Helke Sander ­Filmemacherin • Michael von der Schulenburg ­UN-Diplomat a.D. • Hanna Schygulla Schauspielerin • Martin Sonneborn Journalist (Die Partei) • Jutta Speidel Schauspielerin • Dr. Hans-C. von Sponeck Beigeordneter ­UN-Generalsekretär a.D. • Prof. Dr. Wolfgang Streeck Soziologe und Politikwissenschaftler • Katharina Thalbach Schauspielerin • Dr. Jürgen Todenhöfer Politiker • Prof. Gerhard Trabert Sozial­mediziner • Bernhard ­Trautvetter Friedensratschlag • Dr. Erich Vad Brigade­general a.D. • Prof. Dr. Johannes Varwick Politikwissenschaftler • ­Günter Verheugen Ex-Vizepräsident EU-Kommission • Dr. Antje Vollmer Theologin (Die Grünen) • Prof. Dr. Peter Weibel Kunst- und ­Medientheoretiker • Nathalie Weidenfeld Schriftstellerin • ­Hans-Eckardt Wenzel ­Liedermacher • Dr. Theodor Ziegler Religionspädagoge

KUNDGEBUNG Alice Schwarzer, Sahra Wagenknecht und Brigadegeneral a.D. Erich Vad haben für den 25. Februar einen Protesttag ­initiiert: eine Kundgebung am Brandenburger Tor in Berlin.

SPENDEN Für die Kundgebung fallen Kosten an (Bühne, Technik, Livestream). Spenden: Stichwort “Aufstand für Frieden” via GoFundMe

LINK per firmare la petizione:

https://www.change.org/p/manifest-f%C3%BCr-frieden

Sergej Lavrov: Conferenza stampa di inizio anno (Video con traduzione in Italiano)

Conferenza stampa di inizio anno – 2023 – con i giornalisti stranieri. Mosca, 18 gennaio 2023

Conferenza stampa di Sergej Lavrov, ministro degli esteri della Federazione Russa, 18 gennaio 2023. Traduzione simultanea in italiano, versione integrale a cura di Mark Bernardini)

Ucraina: La guerra sbagliata

Il sostegno della NATO alla guerra in Ucraina, progettata per degradare l’esercito russo e cacciare Vladimir Putin dal potere, non sta andando secondo i piani. Il nuovo sofisticato hardware militare non aiuterà.

Di Chris Edges (da The Chris Edges Report)

Everything Must Go – Mr. Fish

Gli imperi in declino terminale passano da un fiasco militare all’altro. La guerra in Ucraina, un altro tentativo malriuscito di riaffermare l’egemonia globale degli Stati Uniti, rientra in questo schema. Il pericolo è che, più la situazione si aggrava, più gli Stati Uniti inaspriscono il conflitto, provocando potenzialmente un confronto aperto con la Russia. Se la Russia effettuerà attacchi di rappresaglia alle basi di rifornimento e addestramento nei Paesi NATO vicini, o utilizzerà armi nucleari tattiche, la NATO risponderà quasi certamente attaccando le forze russe. Avremo scatenato la Terza Guerra Mondiale, che potrebbe sfociare in un olocausto nucleare.

Il sostegno militare degli Stati Uniti all’Ucraina è iniziato con le basi: munizioni e armi d’assalto. L’amministrazione Biden, tuttavia, ha presto superato diverse linee rosse autoimposte per fornire un’ondata di macchinari bellici letali: Sistemi antiaerei Stinger; sistemi anti-corazza Javelin; obici trainati M777; razzi GRAD da 122 mm; lanciarazzi multipli M142, o HIMARS; missili Tube-Launched, Optically-Tracked, Wire-Guided (TOW); batterie di difesa aerea Patriot; National Advanced Surface-to-Air Missile Systems (NASAMS); M113 Armored Personnel Carriers; e ora 31 M1 Abrams, come parte di un nuovo pacchetto da 400 milioni di dollari. A questi carri armati si aggiungeranno 14 carri tedeschi Leopard 2A6, 14 carri britannici Challenger 2 e carri armati di altri membri della NATO, tra cui la Polonia. La prossima lista è quella delle munizioni perforanti all’uranio impoverito (DU) e dei jet da combattimento F-15 e F-16.

Dall’invasione russa del 24 febbraio 2022, il Congresso ha approvato oltre 113 miliardi di dollari in aiuti all’Ucraina e alle nazioni alleate che sostengono la guerra in Ucraina. Tre quinti di questi aiuti, 67 miliardi di dollari, sono stati destinati alle spese militari. Sono 28 i Paesi che trasferiscono armi all’Ucraina. Tutti, ad eccezione di Australia, Canada e Stati Uniti, sono in Europa.

Il rapido aggiornamento di hardware militare sofisticato e gli aiuti forniti all’Ucraina non sono un buon segno per l’alleanza NATO. Ci vogliono molti mesi, se non anni, di addestramento per far funzionare e coordinare questi sistemi d’arma. Le battaglie con i carri armati – come reporter ho partecipato all’ultima grande battaglia con i carri armati fuori Kuwait City durante la prima guerra del Golfo – sono operazioni altamente coreografiche e complesse. I carri armati devono lavorare in stretta collaborazione con il potere aereo, le navi da guerra, la fanteria e le batterie di artiglieria. Ci vorranno molti mesi, se non anni, prima che le forze ucraine ricevano un addestramento adeguato per far funzionare queste attrezzature e coordinare le diverse componenti di un campo di battaglia moderno. In effetti, gli Stati Uniti non sono mai riusciti ad addestrare gli eserciti iracheno e afghano alla guerra di manovra ad armi combinate, nonostante due decenni di occupazione.

Nel febbraio 1991 ero con le unità del Corpo dei Marines che hanno spinto le forze irachene fuori dalla città saudita di Khafji. Dotati di un equipaggiamento militare superiore, i soldati sauditi che tenevano Khafji opponevano una resistenza inefficace.

Quando siamo entrati in città, abbiamo visto truppe saudite su autopompe requisite, che scappavano verso sud per sfuggire ai combattimenti. Tutto l’hardware militare di lusso, che i sauditi avevano acquistato dagli Stati Uniti, si è rivelato inutile perché non sapevano come usarlo.

I comandanti militari della NATO sono consapevoli che l’infusione di questi sistemi di armamento nella guerra non modificherà quello che è, nella migliore delle ipotesi, uno stallo, definito in gran parte da duelli di artiglieria su centinaia di chilometri di linea del fronte. L’acquisto di questi sistemi d’arma – un carro armato M1 Abrams costa 10 milioni di dollari se si includono l’addestramento e la manutenzione – aumenta i profitti dei produttori di armi. L’uso di queste armi in Ucraina permette di testarle in condizioni da campo di battaglia, rendendo la guerra un laboratorio per i produttori di armi come Lockheed Martin. Tutto questo è utile alla NATO e all’industria degli armamenti. Ma non è molto utile all’Ucraina.

L’altro problema dei sistemi d’arma avanzati come l’M1 Abrams, che ha motori a turbina da 1.500 cavalli che funzionano con il carburante dei jet, è che sono capricciosi e richiedono una manutenzione altamente qualificata e quasi costante. Non sono indulgenti con chi li utilizza e commette errori; anzi, gli errori possono essere letali. Lo scenario più ottimistico per il dispiegamento dei carri armati M1-Abrams in Ucraina è di sei-otto mesi, più probabilmente di più. Se la Russia lancia una grande offensiva in primavera, come ci si aspetta, gli M1 Abrams non faranno parte dell’arsenale ucraino. Anche quando arriveranno, non modificheranno in modo significativo l’equilibrio di potere, soprattutto se i russi saranno in grado di trasformare i carri armati, gestiti da equipaggi inesperti, in relitti carbonizzati.

Allora perché tutta questa infusione di armi ad alta tecnologia? Possiamo riassumerlo in una parola: panico.

Dopo aver dichiarato una guerra de facto alla Russia e aver chiesto apertamente la rimozione di Vladimir Putin, i protettori della guerra neoconservatori guardano con terrore l’Ucraina che viene martoriata da un’implacabile guerra di logoramento russa. L’Ucraina ha subito quasi 18.000 vittime civili (6.919 morti e 11.075 feriti). Ha inoltre visto distrutto o danneggiato circa l’8% del totale delle sue abitazioni e il 50% delle sue infrastrutture energetiche ha subito un impatto diretto con frequenti interruzioni di corrente. L’Ucraina ha bisogno di almeno 3 miliardi di dollari al mese di aiuti esterni per mantenere a galla la sua economia, ha dichiarato recentemente il direttore generale del Fondo Monetario Internazionale. Quasi 14 milioni di ucraini sono stati sfollati – 8 milioni in Europa e 6 milioni internamente – e fino a 18 milioni di persone, ovvero il 40% della popolazione ucraina, avranno presto bisogno di assistenza umanitaria. L’economia ucraina si è contratta del 35% nel 2022 e, secondo le stime della Banca Mondiale, il 60% degli ucraini vive con meno di 5,5 dollari al giorno. Nove milioni di ucraini sono senza elettricità e acqua a temperature sotto lo zero, ha dichiarato il presidente ucraino. Secondo le stime dello Stato Maggiore degli Stati Uniti, a partire dallo scorso novembre sono stati uccisi in guerra 100.000 soldati ucraini e 100.000 russi.

“La mia sensazione è che ci troviamo in un momento cruciale del conflitto, in cui lo slancio potrebbe spostarsi a favore della Russia se non agiamo con decisione e rapidità”, ha dichiarato l’ex senatore statunitense Rob Portman al World Economic Forum in un post del Consiglio Atlantico. “È necessario un aumento”.

Ribaltando la logica, i sostenitori della guerra affermano che “la più grande minaccia nucleare che abbiamo di fronte è una vittoria russa”. L’atteggiamento cavilloso nei confronti di un potenziale confronto nucleare con la Russia da parte dei sostenitori della guerra in Ucraina è molto, molto spaventoso, soprattutto alla luce dei fallimenti che hanno supervisionato per vent’anni in Medio Oriente.

Gli appelli quasi isterici a sostenere l’Ucraina come baluardo di libertà e democrazia da parte dei mandarini di Washington sono una risposta al palpabile marciume e al declino dell’impero statunitense. L’autorità globale dell’America è stata decimata da crimini di guerra ben pubblicizzati, dalla tortura, dal declino economico, dalla disintegrazione sociale – tra cui l’assalto alla capitale il 6 gennaio scorso, la risposta fallimentare alla pandemia, il calo delle aspettative di vita e la piaga delle sparatorie di massa – e da una serie di debacle militari dal Vietnam all’Afghanistan. I colpi di Stato, gli assassinii politici, i brogli elettorali, la propaganda nera, i ricatti, i rapimenti, le brutali campagne di contro-insurrezione, i massacri sanzionati dagli Stati Uniti, le torture nei siti neri globali, le guerre per procura e gli interventi militari condotti dagli Stati Uniti in tutto il mondo dalla fine della Seconda guerra mondiale non hanno mai portato all’instaurazione di un governo democratico.

Invece, questi interventi hanno causato oltre 20 milioni di morti e hanno generato una repulsione globale per l’imperialismo statunitense.

Nella disperazione, l’impero pompa somme sempre maggiori nella sua macchina da guerra. L’ultima legge di spesa da 1.700 miliardi di dollari include 847 miliardi di dollari per le forze armate; il totale sale a 858 miliardi di dollari se si considerano i conti che non rientrano nella giurisdizione dei comitati per i servizi armati, come il Dipartimento dell’energia, che sovrintende alla manutenzione delle armi nucleari e alle infrastrutture che le sviluppano. Nel 2021, quando gli Stati Uniti avevano un bilancio militare di 801 miliardi di dollari, costituivano quasi il 40% di tutte le spese militari globali, più di quanto i nove Paesi successivi, tra cui Russia e Cina, spendessero per i loro eserciti messi insieme.

Come osservò Edward Gibbon a proposito della fatale brama di guerra infinita dell’Impero Romano: “Il declino di Roma fu l’effetto naturale e inevitabile di una grandezza smodata. La prosperità maturò il principio della decadenza; le cause della distruzione si moltiplicarono con l’estensione delle conquiste; e, non appena il tempo o il caso rimossero i sostegni artificiali, lo stupendo tessuto cedette alla pressione del suo stesso peso. La storia della rovina è semplice e ovvia; e invece di chiedersi perché l’Impero Romano sia stato distrutto, dovremmo piuttosto stupirci che sia esistito così a lungo”.

Uno stato di guerra permanente crea burocrazie complesse, sostenute da politici, giornalisti, scienziati, tecnocrati e accademici compiacenti, che servono ossequiosamente la macchina bellica. Questo militarismo ha bisogno di nemici mortali – gli ultimi sono la Russia e la Cina – anche quando coloro che vengono demonizzati non hanno alcuna intenzione o capacità, come nel caso dell’Iraq, di danneggiare gli Stati Uniti. Siamo ostaggio di queste strutture istituzionali incestuose.

All’inizio di questo mese, le commissioni per i servizi armati di Camera e Senato, ad esempio, hanno nominato otto commissari per rivedere la Strategia di Difesa Nazionale (NDS) di Biden per “esaminare i presupposti, gli obiettivi, gli investimenti nella difesa, la posizione e la struttura delle forze, i concetti operativi e i rischi militari della NDS”. La commissione, come scrive Eli Clifton del Quincy Institute for Responsible Statecraft, è “in gran parte composta da individui con legami finanziari con l’industria degli armamenti e con gli appaltatori del governo degli Stati Uniti, sollevando dubbi sul fatto che la commissione avrà un occhio critico nei confronti degli appaltatori che ricevono 400 miliardi di dollari degli 858 miliardi di dollari del bilancio della difesa per l’anno fiscale 2023”. Il presidente della commissione, osserva Clifton, è l’ex rappresentante Jane Harman (D-CA), che “siede nel consiglio di amministrazione di Iridium Communications, un’azienda di comunicazioni satellitari che si è aggiudicata un contratto settennale da 738,5 milioni di dollari con il Dipartimento della Difesa nel 2019”.

Le notizie sulle interferenze russe nelle elezioni e sui bot russi che manipolano l’opinione pubblica – che il recente reportage di Matt Taibbi sui “Twitter Files” smaschera come un elaborato pezzo di propaganda nera – sono state amplificate acriticamente dalla stampa. Ha sedotto i Democratici e i loro sostenitori liberali a vedere la Russia come un nemico mortale. Il sostegno quasi universale a una guerra prolungata con l’Ucraina non sarebbe stato possibile senza questa truffa.

I due partiti al potere in America dipendono dai fondi per le campagne elettorali dell’industria bellica e subiscono le pressioni dei produttori di armi dei loro Stati o distretti, che danno lavoro ai loro elettori, per approvare bilanci militari mastodontici. I politici sanno bene che sfidare l’economia di guerra permanente significa essere attaccati come antipatriottici e di solito è un atto di suicidio politico.

“L’anima schiava della guerra grida di essere liberata”, scrive Simone Weil nel suo saggio “L’Iliade o il poema della forza”, “ma la liberazione stessa le appare come un aspetto estremo e tragico, l’aspetto della distruzione”.

Gli storici definiscono “micro-militarismo” il tentativo donchisciottesco degli imperi in declino di riconquistare l’egemonia perduta attraverso l’avventurismo militare. Durante la Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.) gli Ateniesi invasero la Sicilia, perdendo 200 navi e migliaia di soldati. La sconfitta scatenò una serie di rivolte di successo in tutto l’impero ateniese. L’Impero romano, che al suo apice durò due secoli, divenne prigioniero del suo esercito di un solo uomo che, come l’industria bellica statunitense, era uno Stato nello Stato. Le legioni di Roma, un tempo potenti, nell’ultima fase dell’impero subirono una sconfitta dopo l’altra, estraendo sempre più risorse da uno Stato fatiscente e impoverito. Alla fine, l’élite della Guardia Pretoriana mise all’asta l’impero al miglior offerente. L’Impero britannico, già decimato dalla follia militare suicida della Prima Guerra Mondiale, esalò il suo ultimo respiro nel 1956, quando attaccò l’Egitto in una disputa sulla nazionalizzazione del Canale di Suez. La Gran Bretagna si ritirò umiliata e divenne un’appendice degli Stati Uniti. Una guerra decennale in Afghanistan segnò il destino di un’Unione Sovietica ormai decrepita.

“Mentre gli imperi in ascesa sono spesso accorti, persino razionali, nell’uso della forza armata per la conquista e il controllo dei domini d’oltremare, gli imperi in declino sono inclini ad esibizioni di potere sconsiderate, sognando audaci capolavori militari che possano in qualche modo recuperare il prestigio e il potere perduti”, scrive lo storico Alfred W. McCoy nel suo libro “In the Shadows of the American Century: The Rise and Decline of US Global Power”. “Spesso irrazionali anche da un punto di vista imperiale, queste micro-operazioni militari possono produrre un’emorragia di spese o umilianti sconfitte che non fanno altro che accelerare il processo già in atto”.

Il piano di rimodellare l’Europa e l’equilibrio di potere globale degradando la Russia si sta rivelando simile al piano fallito di rimodellare il Medio Oriente. Sta alimentando una crisi alimentare globale e devastando l’Europa con un’inflazione quasi a due cifre. Sta mettendo a nudo l’impotenza, ancora una volta, degli Stati Uniti e la bancarotta degli oligarchi al potere. Come contrappeso agli Stati Uniti, nazioni come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile e l’Iran si stanno staccando dalla tirannia del dollaro come valuta di riserva mondiale, una mossa che scatenerà una catastrofe economica e sociale negli Stati Uniti. Washington sta fornendo all’Ucraina sistemi di armamento sempre più sofisticati e aiuti per miliardi e miliardi nel futile tentativo di salvare l’Ucraina ma, soprattutto, di salvare se stessa.

(Traduzione Cambiailmondo.org)

FONTE: https://chrishedges.substack.com/p/ukraine-the-war-that-went-wrong?utm_source=twitter&utm_campaign=auto_share&r=1afom

Approvata la nona tranche di sanzioni alla Russia nonostante l’economia italiana vada incontro a nuova recessione e un’ulteriore crisi sociale

di Andrea Vento

Come preannunciato da alcuni giorni, il 16 dicembre il Consiglio Europeo, evidentemente non appagato dagli effetti delle tranche precedenti, ha approvato il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia introdotte a partire dal 23 febbraio scorso, due giorni dopo il riconoscimento da parte di Mosca delle Repubbliche Popolari del Donbass e uno prima dell’inizio dell’invasione via terra1.

Nonostante tali misure restrittive, da un lato, non stiano incidendo sulle sorti del conflitto, nel cui contesto l’esercito russo continua a sparare giornalmente dai 30.000 ai 50.000 colpi di artiglieria mentre le forze ucraine non sembrano nemmeno in grado di mantenere il ritmo dei 7.000, dall’altro, stanno avendo pesanti ripercussioni sul ciclo economico e sui flussi commerciali degli Stati che le hanno comminate2. In particolare per quanto riguarda il nostro Paese ilFondo Monetario Internazionale (Fmi) nel suo ultimo Outlook dell’11 ottobre prevede per l’Italia, a seguito degli effetti dell’inasprimento delle sanzioni, una variazione negativa del Pil per il 2023 del -0,2% (rispetto a +0,7% di luglio). Il nostro risulterebbe l’unico Paese in recessione dell’eurozona insieme alla Germania (-0,3%), non causalmente i due Stati maggiormente dipendenti fino allo scorso anno dalle forniture russe, quantificate intorno al 40% del fabbisogno nazionale di entrambi.

Carta 1: le previsioni economiche per il 2023 del World Economic Outlook del Fmi di ottobre 20223.

La destabilizzazione della ripresa post-pandemica italiana e comunitaria risulta, peraltro, accompagnata da una decisa impennata dell’inflazione tendenziale annua, dall’Istat confermata a novembre, in linea con quella di ottobre, all’11,8%, la quale sta causando gravi problemi alle imprese, oltre a ridimensionare in maniera significativa il potere d’acquisto di pensioni, salari e stipendi.

Incuranti del rallentamento economico in cui si sta impantanando l’Eurozona (solo +0,5 nel 2023 secondo l’Outlook di ottobre del Fmi, tab. 1), il Consiglio della Banca Centrale Europea (Bce) nella riunione del 15 dicembre ha deciso, per la quarta volta a partire da luglio, l’innalzamento dei tassi di interesse, questa volta dello 0,50%, portando il saggio di riferimento al 2,5% nell’intento di contenere la spinta inflazionistica e presagendo un ulteriore aumento a marzo 2023. Il rialzo dei tassi, oltre ad incidere negativamente sulle rate dei mutui delle famiglie, comporterà per il nostro Paese, secondo il Centro Studi della Cgia di Mestre, un appesantimento dell’onere degli interessi sulle imprese pari 14,9 miliardi di euro. Politiche monetarie restrittive che provocheranno, in base alle previsioni dell’agenzia EY, una riduzione dei prestiti bancari dell’1,8%4, che insieme all’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime già in corso difficilmente potranno evitare una nuova caduta in recessione della nostra economia (tabella 1).

Tabella 1: previsioni economiche dei 4 World Economic Outlook del 2022 del Fmi per l’anno 2023


Previsioni economiche per l’anno 2023

Gennaio 22Aprile 22Luglio 22Ottobre 22
Eurozona2,5%2,3%1,2%0,5%
Italia2,2%1,7%0,7%– 0,2%
Germania2,5%2,7%0,8%– 0,3%
Russia2,1%– 2,3%– 3,5%– 2,3%

A supporto del fosco trend prospettato dal Fmi, troviamo anche le proiezioni macroeconomiche per l’Italia per il quadriennio 2022-25, elaborate dagli esperti della Banca d’Italia di concerto con la Bce e pubblicate da Via Nazionale il 16 dicembre in contemporanea con l’approvazione della nona tranche di sanzioni (e diffuse il giorno prima dal sito della Bce insieme a quelle degli altri membri dell’Eurozona), le quali rivelano un’incomprensibile distonia prospettica e funzionale nell’operato delle istituzioni comunitarie. Il rapporto, a fianco di un poco probabile scenario base, prevede, sulla scorta della persistente alta inflazione, del rialzo dei tassi e delle perseveranti tranche di sanzioni, altro ben più realistico quadro avverso nell’ipotesi di una eventuale interruzione permanente dei flussi di materie prime energetiche dalla Russia, il quale provocherebbe una limitata disponibilità di gas nel prossimo inverno e in quello successivo. Al netto delle strategie della speculazione finanziaria che hanno determinato l’impennata del gas già da settembre 20215, il rapporto “ipotizza che la riduzione nell’offerta di materie prime energetiche comporti un forte aumento delle loro quotazioni sui mercati internazionali, una maggiore incertezza, in particolare nei mesi invernali 2023 e del 2024, e un marcato indebolimento del commercio mondiale”. Il rapporto conclude affermando che “in questo scenario il Pil si ridurrebbe di circa l’1% sia nel 2023 sia nel 2024 e rimarrebbe poco più che stagnante nell’anno successivo (poco sopra lo zero). L’inflazione al consumo salirebbe ulteriormente nel 2023, avvicinandosi all’11% (come valore medio annuo, ndr), per poi scendere progressivamente, riportandosi al 2,0% nel 2025”6. Con i consumi e gli investimenti in macchinari in contrazione e una disoccupazione stabile all’8,3% nei prossimi 2 anni. Previsioni, peraltro, in linea con quelle della principale agenzia di rating, Standard & Poors, del 9 dicembre7 nelle quali, nel 2023, la flessione del Pil per il nostro Paese viene quantifica in -1,1% e per l’Eurozona addirittura in -0,9%.

Quindi secondo la Bce e la Banca d’Italia, il nostro Paese che ha già rinunciato volontariamente al carbone e al petrolio russo, a seguito delle varie tranche di sanzioni e prevede di fare a meno del gas di Mosca con il piano comunitario REPowerEU del 18 maggio8, in caso di ulteriore inasprimento delle sanzioni, come in realtà già accaduto il 16 u.s, e probabili ritorsioni russe, scenderà in recessione nei prossimi due anni, uno scenario più drammatico di quello dipinto dal Fmi ad ottobre. Il tutto, in attesa del consueto Outlook di gennaio dell’Istituto di Washington, nel quale le previsioni saranno quasi sicuramente riviste al ribasso.

Le ricadute delle sanzioni e dell’aumento dei prezzi sul nostro commercio estero

L’aumento dei prezzi che sta interessando il nostro Paese, e in generale tutte le economie occidentali, dalla seconda metà del 2021, si caratterizza come una tipica inflazione importata generata dall’aumento del costo delle materie prime provenienti dall’estero, a causa di un mix di fattori: l’inadeguatezza dell’offerta al cospetto dell’incremento della domanda sospinta dalla ripresa post-pandemica (i cosiddetti colli di bottiglia), le spregiudicate strategie della finanza speculativa tramite strumenti derivati, le sanzioni occidentali imposte alla Russia e, da ultimo, gli effetti della guerra in Ucraina, in termini di varie difficoltà di approvvigionamento, fra i quali il sabotaggio dei gasdotti North Stream 1 e 2. L’elevata inflazione in essere, considerata dagli esperti una delle più gravi problematiche che possono affliggere un’economia, oltre ad aver indotto le banche centrali, Federal Reserve (Fed), Banca Centrale Europea e Bank of England (BoE) in primis9, all’aumento dei tassi di riferimento con effetti depressivi sul ciclo economico (rallentamento e recessione), incidono, a livello sociale sulla contrazione del potere d’acquisto dei lavoratori, mentre in campo commerciale generano effetti negativi sull’interscambio estero.

Su quest’ultimo aspetto, l’Istat nel suo ultimo report10 del 16 dicembre, ci mostra come il saldo della nostra bilancia commerciale abbia cambiato di segno, passando in campo negativo, proprio da dicembre 2021 (grafico 1), non causalmente, in corrispondenza del primo picco a 110 euro a MegaWatt/ora dei prezzi dei contratti spot (vale a dire a pronti) del gas su mercato Ttf di Amsterdam (tabella 2), per poi mantenersi passiva fino ad ottobre 22, ultimo mese di disponibilità dei dati.

Grafico 1: saldo della bilancia commerciale italiana fra gennaio 2017 e ottobre 2022. Fonte Istat

Tabella 2: prezzi medi mensili in euro delle transazioni spot del gas sul mercato olandese Ttf fra aprile 2021 e novembre 2022 al metro cubo e per MegaWatt/ora11


I prezzi medi mensili dei contratti spot del gas nel mercato Ttf in €
MeseAnnoCosto in al mcCosto in al MWh
Aprile20210,21920,50
Maggio20210,27025,21
Giugno20210.31329,12
Luglio20210.38836,23
Agosto20210,47244,12
Settembre20210,67963,45
Ottobre20210,93687,47
Novembre20210,87481,70
Dicembre20211,178110,12
Gennaio20220,89583,63
Febbraio20220,88983,07
Marzo20221,342125,42
Aprile20220,99092,80
Maggio20220,95689,34
Giugno20221,112103,92
Luglio20221,746173,17
Agosto20222,487232,20
Settembre20222,019188,69
Ottobre20220,85079,44
Novembre20220,97591,18

Dal rapporto in questione, fra le varie, si evince come nei primi 10 mesi di quest’anno, rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente, il valore delle nostre esportazioni sia cresciuto del 20,8%, mentre quello delle importazioni di ben il 41,8%, principalmente a causa dell’impennata del 151,7% della “bolletta” dell’energia importata, facendo sprofondare il saldo della bilancia commerciale fra gennaio e ottobre a -33,57 miliardi di euro.

Una debacle commerciale, riconducibile in primis alle poco avvedute sanzioni comminate alla Russia e ai suoi vari effetti collaterali, che è andata aggravandosi nel terzo trimestre dell’anno in corso, nel quale, rispetto al precedente (variazione congiunturale), il valore dell’export è addirittura diminuito dello 0,7% e quello dell’import è invece cresciuto del 3,9%.

L’Istat, infine, ci indica che è crollato anche il nostro interscambio commerciale con la Russia ad ottobre 2022 su base tendenziale (rispetto al corrispondente mese dell’anno precedente), quantificato in -30,9% per l’export e, addirittura, del -44,2% per l’import, con un controvalore totale dell’interscambio annuo fra Roma e Mosca di 25 miliardi di euro nel 2021. Ciò in conseguenza delle sanzioni adottate su pressione statunitense e del piano REPowerEU a causa dei quali abbiamo ridotto l’export e l’acquisto dalla Russia di materie prime minerarie, prodotti siderurgici, petrolio e, soprattutto, gas via conduttura, acquistato tramite convenienti contratti pluriennali, sostituendolo, oltre che con maggiori forniture tramite il gasdotto algerino, anche con l’aumento dell’import del Gas Naturale Liquefatto (Gnl) via nave12, a costi decisamente più elevati, da Stati Uniti, Qatar e, situazione paradossale, anche dalla Russia stessa, passato da 11,3 a 16,2 miliardi di mc nei primi 10 mesi di quest’anno (+46%) rispetto al corrispondente periodo del 202113 e con l’aggravante dell’incertezza nella continuità di forniture.

Mentre la transizione energetica, insieme all’inefficiente ministro Cingolani, è rimasta al palo, le famiglie e le imprese italiane arrancano per l’insostenibile aumento delle spese energetiche e dell’inflazione in generale a causa di improvvide scelte in campo economico e di politica internazionale.

I costi degli interventi per la guerra, le spese militari e il caro energia

Una volta acquisito, alla luce dell’analisi effettuata, che dal punto di vista economico e sociale il trend in atto è destinato ad aggravarsi nel prossimo biennio, con un sempre più probabile ritorno in recessione a soli 3 anni da quella pandemica e un aumento dell’aumento della povertà assoluta, in aggiunta ai 5,6 milioni di persone già quantificate per 2021 dall’Istat a giugno scorso14, non resta che individuare quanto lo Stato italiano abbia speso per la guerra in Ucraina e per contenere l’impatto dell’aumento dell’energia su famiglie e imprese.

Per quanto riguarda il solo costo degli armamenti inviati fino a tutto novembre, in base ai calcoli effettuati dall’Osservatorio Mil€x su dati del Ministero della Difesa, ammonterebbe a 450 milioni di euro, in attesa di ulteriori decisioni con la finanziaria in corso di definizione15. Dall’analisi delle tabelle preliminari della Legge di Bilancio 2023, sempre effettuata dalla stessa associazione, risulterebbe che il bilancio ordinario della Difesa passerebbe da 25,9 a 27,7 miliardi di europer il 2023, a causa principalmente dell’aumento dei costi del personale di Esercito, Marina e Aeronautica di 600 milioni di euro e dell’acquisto di nuovi armamenti per 700 milioni ai quali vanno aggiunti gli stanziamenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) per le missioni all’estero, pari a 1,5 miliardi di euro, con un aumento del 10% rispetto al 202216.

Le spese per il contenimento del caro energia, invece, secondo il think tank belga Bruegel (Brussels European and Global Economic Laboratory), ammonterebbero per il nostro Paese a ben 49,5 miliardi di euro fra settembre 2021, inizio dell’impennata del gas, e il termine del mandato di Draghi, risultando il secondo Paese dell’Ue per valore assoluto, dietro solo alla Germania e il terzo in rapporto al Pil (2,8%)17. Ai quali vanno aggiunti ben 21 dei 35 miliardi (pari a 2/3) dell’intera manovra di Bilancio 2023 predisposta dal Governo Meloni, al momento ancora non sottoposta all’approvazione parlamentare. In totale l’entità della spesa ammonterebbe al momento ad oltre 70 miliardi di euro, in sostanza fatti in dono dal contribuente italiano alla speculazione finanziaria, nonché frutto delle scellerate sanzioni imposte alla Russia.

Tutto ciò, mentre nel DDL Bilancio 2023 approvato dal Consiglio dei Ministri il 22 novembre, con il quale il Governo ha predisposto la proposta di Legge di Bilancio, non v’è traccia del termine sanità fra i capitoli di spesa18, abbandonando a se stesso il Sistema Sanitario Nazionale affossato da ben 37 miliardi di euro di definanziamento fra il 2010 e 2019 secondo la Fondazione Gimbe19 e ormai letteralmente prossimo al collasso, anche a causa della pressione esercitata sugli ospedali dalla nuova ondata pandemica.

Conclusioni

Risulta evidente a chi avesse l’accortezza di esaminare i processi reali economici, finanziari e geopolitici in atto analizzando i dati ufficiali e i contenuti delle decisioni dei governi europei, senza avventurarsi su affermazioni superficiali o, nel peggiore dei casi, tendenziose, che la crisi geopolitica, energetica, economica e, conseguentemente, sociale in atto è frutto dell’impudente operato della speculazione finanziaria, dell’incapacità di svincolarsi dal masochistico assoggettamento geopolitico statunitense che ci ha portato a continuare ad adottare supinamente le sanzioni alla Russia, anche in evidenza di pesanti ricadute negative. Oltre al fatto di perseverare nelle forniture di armamenti senza produrre alcun sforzo diplomatico teso al raggiungimento del cessate il fuoco e all’apertura di un serio ed efficace negoziato in sede Onu che apra le porte ad una pace stabile e duratura.

E’ assolutamente necessario che l’anestetizzata opinione pubblica nazionale prenda coscienza dell’incapacità della nostra classe politica di tutelare gli interessi generali dl Paese e tanto meno dei ceti popolari, i quali negli ultimi 15 anni sono stati schiacciati da ben 3 crisi economiche: dei mutui sub-prime del 2008-9, del debito del 2012-14 e quella gravissima (-8,9%) pandemica del 2020 e, a breve, saranno travolti anche dalla quarta.

Se non ora quando, una mobilitazione popolare che chieda con forza un radicale cambio di paradigma?

Andrea Vento – 20 dicembre 2022

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

Note:

1 https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2022/12/16/russia-s-war-of-aggression-against-ukraine-eu-adopts-9th-package-of-economic-and-individual-sanctions/

2 Per i dettagli: “Crisi ucraina: un primo bilancio delle sanzioni alla Russia” di Andrea Vento

3 https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2022/10/11/world-economic-outlook-october-2022

4 https://www.ilsole24ore.com/art/imprese-l-aumento-tassi-d-interesse-bce-costera-quasi-15-miliardi-piu-AEesc7NC

5 Raffaele Picarelli: “Finanza e mercato dell’energia” e “Il vero atto di nascita dell’incremento dei prezzi dell’energia, dell’inflazione e dell’aumento dei tassi”.

6 https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/proiezioni-macroeconomiche/2022/Proiezioni-Macroeconomiche-Italia-dicembre-2022.pdf

7 https://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2022/12/09/sp-nel-2023-recessione-in-italia-piu-pesante-11-pil_51c7ef18-ef3a-4fc5-a5f2-1ef3828bde72.html

8 https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/european-green-deal/repowereu-affordable-secure-and-sustainable-energy-europe_it

9 Anche Messico, Svizzera, Taiwan, Filippine, Norvegia, Danimarca e Colombia hanno aumentato i saggi d’interesse

10 https://www.istat.it/it/files//2022/12/Commercio-con-lestero-e-prezzi-allimport_102022.pdf

11 https://luce-gas.it/guida/mercato/ttf-gas

12 https://www.infodata.ilsole24ore.com/2022/11/05/ecco-come-litalia-ha-saputo-compensare-nei-primi-dieci-mesi-del-2022-le-forniture-mancanti-di-gas-dalla-russia/

13 https://www.ilsole24ore.com/art/l-europa-fa-pieno-gas-liquefatto-ma-quinto-arriva-russia-AEaPNsFC

14 https://www.istat.it/it/files/2022/06/Report_Povert%C3%A0_2021_14-06.pdf

15 https://www.milex.org/2022/11/28/armi-inviate-allucraina-finora-il-costo-per-litalia-e-stato-di-450-milioni-di-euro-la-stima-dellosservatorio-milex/

16 https://www.milex.org/2022/12/02/spese-militari-italiane-aumento-anche-2023/

17 https://www.dire.it/30-08-2022/781434-governo-draghi-aiuti-caro-energia/

18 https://www.mef.gov.it/inevidenza/DDL-Bilancio-approvato-dal-Cdm-manovra-da-35-miliardi/

19https://www.gimbe.org/osservatorio/Report_Osservatorio_GIMBE_2019.07_Definanziamento_SSN.pdf

Oskar Lafontaine, su guerra in Ucraina, Usa, Germania, Europa: “L’Europa paga il prezzo della codardia dei suoi stessi leader”

di Moritz Enders (da Deutsche Wirtschaftsnachrichten)

Interista esclusiva di Deutsche Wirtschaftsnachrichten ad Oscar Lafontaine

Oskar Lafontaine sul declino economico della Germania e sulla guerra per procura tra Nato e Russia in Ucraina. (Foto: dpa)

Deutsche Wirtschaftsnachrichten parla con Oskar Lafontaine del declino economico della Germania, della guerra per procura tra Russia e Nato in Ucraina e del perché chiede il ritiro delle truppe americane dalla Germania.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Cosa succede ora che i gasdotti Nordstream 1 e Nordstream 2 sono stati fatti saltare?

Oskar Lafontaine: L’esplosione dei due gasdotti è una dichiarazione di guerra alla Germania ed è patetico e vile che il governo tedesco voglia nascondere l’incidente sotto il tappeto. Dice di sapere qualcosa, ma non può dirlo per motivi di sicurezza nazionale. I passeri lo fischiano dai tetti da molto tempo: Gli Stati Uniti hanno eseguito direttamente l’attacco o almeno hanno dato il via libera. Senza la conoscenza e l’approvazione di Washington, non sarebbe stato possibile distruggere gli oleodotti, che costituiscono un attacco al nostro Paese, colpiscono la nostra economia nel profondo e vanno contro i nostri interessi geostrategici. È stato un atto ostile contro la Repubblica Federale – non solo contro di essa, ma anche – che chiarisce ancora una volta che dobbiamo liberarci dalla tutela degli americani.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Nel suo nuovo libro “Ami, è ora di andare!” lei chiede il ritiro delle truppe americane dalla Germania. Non è irrealistico?

Oskar Lafontaine: Naturalmente non accadrà da un giorno all’altro, ma l’obiettivo deve essere chiaro: Il ritiro di tutte le strutture militari e delle armi nucleari statunitensi dalla Germania e la chiusura della base aerea di Ramstein. Dobbiamo lavorare con costanza verso questo obiettivo e allo stesso tempo costruire un’architettura di sicurezza europea, perché la NATO, guidata dagli Stati Uniti, è obsoleta, come ha riconosciuto nel frattempo anche il Presidente francese Emmanuel Macron. Questo perché la NATO ha smesso da tempo di essere un’alleanza difensiva, ma piuttosto uno strumento per rafforzare la pretesa degli Stati Uniti di rimanere l’unica potenza mondiale. In ogni caso, dovremmo formulare i nostri interessi, che non sono affatto congruenti con quelli degli Stati Uniti.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Lei dice che gli americani sono responsabili dell’esplosione degli oleodotti. Crede davvero che rinuncerebbero alla Germania senza combattere?

Oskar Lafontaine: No, sarà un po’ complicato, ma non vedo alternative. Se noi e gli altri Paesi europei resteremo sotto la tutela degli Stati Uniti, questi ci spingeranno verso il precipizio per proteggere i loro interessi. Dobbiamo quindi ampliare progressivamente il nostro raggio d’azione, preferibilmente insieme alla Francia. Come Peter Scholl-Latour, molti anni fa ho invocato un’alleanza franco-tedesca. A quel punto anche la difesa dei due Stati potrebbe essere integrata, come nucleo di un’Europa indipendente. Per usare un’espressione ormai trita e ritrita: stiamo vivendo le doglie della fase di transizione da un ordine mondiale unipolare a uno multipolare. E qui si pone la questione se prenderemo un posto indipendente in questo nuovo ordine mondiale o se ci lasceremo trascinare nei conflitti di Washington con Mosca e Pechino, come vassalli degli Stati Uniti. In questo processo possiamo solo perdere.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: È necessario approfondire l’argomento. L’influenza americana sulla politica e sui media tedeschi è immensa. Come pensate di guadagnare spazio di manovra?

Oskar Lafontaine: Ha funzionato sotto cancellieri come Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl e Gerhard Schröder. Almeno in alcuni conflitti avevano in mente gli interessi tedeschi e non li hanno gettati in mare per anticipata obbedienza. Quando si è a capo di un Paese, occorre anche una spina dorsale. L’immagine del Cancelliere Scholz in piedi come uno scolaretto accanto al Presidente degli Stati Uniti Biden quando ha annunciato che il Nordstream 2 non sarebbe stato realizzato è stata un’umiliazione. E a ciò si aggiungono il Ministro degli Esteri tedesco, che fa da pappagallo alla propaganda statunitense, e il Ministro dell’Economia, che vuole essere “la guida dei servitori”. Non si può essere più compiacenti di così.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: A che tipo di gioco giocano Baerbock e Habeck?

Oskar Lafontaine: Per quanto riguarda la signora Baerbock, vorrei intervenire in sua difesa. Non sta giocando. Probabilmente è davvero così sempliciotta. E Habeck ricopre un ruolo completamente fuori della sua portata.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Nel suo libro cita Machiavelli: “Non è colui che per primo prende le armi ad essere l’istigatore del disastro, ma colui che lo costringe”.  Si riferisce al conflitto in Ucraina?

Oskar Lafontaine: Naturalmente, mi riferisco anche al conflitto ucraino, iniziato con il colpo di stato del Maidan di Kiev nel 2014. Da allora, gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali armano l’Ucraina e la preparano sistematicamente alla guerra contro la Russia. In questo modo, l’Ucraina è diventata un membro de facto della NATO, anche se non de jure. Questa storia è stata deliberatamente ignorata dai politici occidentali e dai media mainstream.

Tuttavia, l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo è stata una violazione imperdonabile del diritto internazionale. Le persone muoiono ogni giorno e tutti, Mosca, Kiev o Washington, sono fortemente responsabili del fatto che non c’è ancora un cessate il fuoco. Per oltre 100 anni, l’obiettivo dichiarato della politica statunitense è stato quello di impedire a tutti i costi che l’industria e la tecnologia tedesche si fondessero con le materie prime russe. È assolutamente chiaro che abbiamo a che fare con una guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia, preparata da tempo. È imperdonabile che la SPD, in particolare, abbia tradito in questo modo l’eredità di Willy Brandt e la sua politica di distensione e non abbia nemmeno insistito seriamente sul rispetto dell’accordo di Minsk.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Quindi? Gli Stati Uniti hanno raggiunto i loro obiettivi di guerra?

Oskar Lafontaine: Sì e no. Per quanto riguarda il contenimento delle relazioni tra la Federazione Russa e l’UE, esse hanno avuto un grande successo. Sono anche riusciti a mettere fuori gioco, per il momento, l’UE e la Germania come potenziali rivali geostrategici ed economici. Ancor più che prima del conflitto ucraino, ora determinano le politiche degli Stati dell’UE, anche grazie ai politici compiacenti di Berlino e Bruxelles. Possono vendere il loro sporco gas da fracking e l’industria degli armamenti statunitense fa affari con le bombe.

D’altra parte, non sono riusciti a “rovinare la Russia”, come ha detto la signora Baerbock, uno dei loro portavoce, rovesciando Putin e installando un governo fantoccio a Mosca per ottenere un migliore accesso alle materie prime russe come ai tempi di Eltsin. E ho l’impressione che gli Stati Uniti si rendano conto che stanno mordendo il granito. Nonostante le massicce forniture di armi all’Ucraina e l’invio di numerosi “consiglieri militari”, la Russia, una potenza nucleare, non può essere sconfitta militarmente. Inoltre, le sanzioni occidentali si stanno rivelando un boomerang: stanno danneggiando gli Stati occidentali più della Russia e porteranno alla deindustrializzazione, alla disoccupazione e alla povertà. La popolazione attiva in Europa sta pagando il prezzo delle ambizioni di potere mondiale di un’élite impazzita di Washington e della codardia dei leader europei.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Quindi da qui in poi è tutto in discesa?

Oskar Lafontaine: Dobbiamo urgentemente garantire la fine del conflitto in Ucraina. E questo sarà possibile solo se gli Stati Uniti abbandoneranno il loro piano di mettere in ginocchio la Russia, prima di affrontare la Cina. Per questo è necessaria un’iniziativa europea, che deve partire da Francia e Germania.

Se non lo faremo, e se non troveremo presto un accordo con la Russia sulle importazioni di materie prime ed energia, l’economia della Germania e dell’Europa andrà a rotoli e i partiti di destra diventeranno sempre più forti in Europa.

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Oskar Lafontaine, nato a Saarlouis nel 1943, nella sua vita politica è stato sindaco di Saarbrücken, primo ministro del Saarland, presidente della SPD, candidato alla carica di cancelliere e ministro delle Finanze federale. Nel marzo 1999 si è dimesso da tutti i suoi precedenti incarichi politici nell’SPD a causa delle critiche espresse nei confronti della linea di governo di Gerhard Schröder. È stato il presidente fondatore del partito DIE LINKE, nato su sua iniziativa da PDS e Wahlalternative Arbeit & soziale Gerechtigkeit (WASG), presidente del gruppo parlamentare di sinistra nel Bundestag tedesco e candidato di punta nelle campagne elettorali per il parlamento del Saarland nel 2009, 2012 e 2017. Fino alle sue dimissioni dal partito nel marzo 2022, ha guidato il gruppo parlamentare di Die LINKE nel parlamento del Saarland dal 2009.

(Traduzione: cambiailmondo.org)


Oskar Lafontaine: „Europa zahlt den Preis für die Feigheit der eigenen Staatenlenker“

Die Deutschen Wirtschaftsnachrichten im Gespräch mit Oskar Lafontaine über den wirtschaftlichen Niedergang Deutschlands, den Stellvertreterkrieg zwischen Russland und der Nato in der Ukraine – und warum er den Abzug der amerikanischen Truppen aus Deutschland fordert.

di Moritz Enders

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Wie geht es weiter nach der Sprengung der Gaspipelines Nordstream 1 und Nordstream 2?

Oskar Lafontaine: Die Sprengung der beiden Gaspipelines ist eine Kriegserklärung an Deutschland und es ist erbärmlich und feige, dass die Bundesregierung den Vorfall unter den Teppich kehren will. Sie sagt, sie wisse zwar etwas, könne dies aber aus Gründen der nationalen Sicherheit nicht sagen. Die Spatzen pfeifen es doch auch längst schon von den Dächern: Die USA haben den Anschlag entweder direkt durchgeführt oder sie haben zumindest grünes Licht dafür gegeben. Ohne das Wissen und die Zustimmung Washingtons wäre die Zerstörung der Pipelines, die einen Angriff auf unser Land darstellen, unsere Wirtschaft ins Mark treffen und unseren geostrategischen Interessen zuwiderlaufen, nicht möglich gewesen. Es war ein feindseliger Akt gegen die Bundesrepublik – nicht nur gegen sie, aber auch – der einmal mehr deutlich macht, dass wir uns vor der Vormundschaft der Amerikaner befreien müssen.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: In Ihrem neuen Buch „Ami, it´s time to go!“ fordern Sie den Abzug amerikanischer Truppen aus Deutschland. Ist das nicht unrealistisch?

Oskar Lafontaine: Natürlich geht das nicht von heute auf morgen, aber das Ziel sollte klar sein: Der Abzug sämtlicher militärischen Einrichtungen und Atomwaffen der USA aus Deutschland und die Schließung der Ramstein Airbase. Darauf müssen wir beharrlich hinarbeiten und gleichzeitig eine europäische Sicherheitsarchitektur aufbauen, weil die von den Vereinigten Staaten geführte NATO, wie ja auch der französische Präsident Emmanuel Macron zwischenzeitlich richtig erkannt hatte, obsolet ist. Das liegt daran, dass die NATO schon längst kein Verteidigungsbündnis mehr ist, sondern ein Werkzeug zur Durchsetzung des Anspruchs der USA, die einzige Weltmacht zu bleiben. Wir sollten aber unserer eigenen Interessen formulieren und die sind mit denen der USA beileibe nicht deckungsgleich.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Sie sagen, die Amerikaner seien für die Sprengung der Pipelines verantwortlich. Glauben Sie da im Ernst, dass sie Deutschland kampflos aufgeben würden?

Oskar Lafontaine: Nein, das wird haarig, aber ich sehe dazu keine Alternative. Bleiben wir und die übrigen europäischen Länder weiter unter der Vormundschaft der USA, dann werden die uns über die Klippe schieben, um ihre eigenen Interessen zu wahren. Wir müssen also langsam unseren Spielraum erweitern, am besten zusammen mit Frankreich. Wie Peter Scholl-Latour habe ich schon vor vielen Jahren einen deutsch-französischen Bund gefordert. Dann könnte auch die Verteidigung der beiden Staaten integriert werden, als Keimzelle eines unabhängigen Europas. Um einen inzwischen abgedroschenen Ausdruck zu bemühen: Wir erleben die Geburtswehen der Übergangsphase von einer uni- zu einer multipolaren Weltordnung. Und hier erhebt sich die Frage, ob wir in dieser neuen Weltordnung einen eigenständigen Platz einnehmen oder uns als Vasallen der USA in die Konflikte Washingtons mit Moskau und Peking hineinziehen lassen. Wir können dabei nur verlieren.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Da müssen wir noch mal nachhaken. Der amerikanische Einfluss auf die deutsche Politik und die Medien ist doch unendlich groß. Wie wollen Sie sich da Spielraum erarbeiten?

Oskar Lafontaine: Unter Kanzlern wie Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl und Gerhard Schröder ging es doch auch. Die hatten zumindest in einigen Konflikten die deutschen Interessen im Blick und haben sie nicht in vorauseilendem Gehorsam über Bord geworfen. Man braucht eben auch Rückgrat, wenn man an der Spitze eines Landes steht. Das Bild von Bundeskanzler Scholz, der wie ein Schuljunge neben US- Präsident Biden stand, als dieser verkündete, aus Nordstream 2 werde nichts, war eine Demütigung. Und dazu noch die deutsche Außenministerin, die die US- Propaganda nachplappert und der Wirtschaftsminister, der „führend dienen“ will. Mehr Anbiederung geht nicht.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Was für ein Spiel spielen Baerbock und Habeck?

Oskar Lafontaine: Was Frau Baerbock anbelangt, so möchte ich sie in Schutz nehmen. Die spielt kein Spiel. Die ist vermutlich wirklich so einfältig. Und Habeck ist in seinem Amt komplett überfordert.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: In Ihrem Buch zitieren Sie Machiavelli: „Nicht wer zuerst zu den Waffen greift, ist Anstifter des Unheils, sondern wer dazu nötigt.“ Beziehen Sie das auf den Ukraine-Konflikt?

Oskar Lafontaine: Natürlich meine ich damit auch und vor allem den Ukraine-Konflikt, der spätestens mit dem Putsch auf dem Kiewer Maidan im Jahr 2014 begonnen hat. Die USA und ihre westlichen Vasallen haben seitdem die Ukraine aufgerüstet und sie auf einen Krieg gegen Russland systematisch vorbereitet. So wurde die Ukraine zwar nicht de jure, aber de facto ein NATO- Mitglied. Diese Vorgeschichte wird von den westlichen Politikern und Mainstreammedien geflissentlich ignoriert.

Gleichwohl war es ein unverzeihlicher Bruch des Völkerrechts, dass die russische Armee in die Ukraine einmarschiert ist. Täglich sterben Menschen und alle, ob Moskau, Kiew oder Washington, die Verantwortung dafür tragen, dass es noch keinen Waffenstillstand gibt, laden schwere Schuld auf sich. Seit über 100 Jahren ist es das erklärte Ziel der US- Politik, ein Zusammengehen der deutschen Wirtschaft und Technik mit den russischen Rohstoffen um jeden Preis zu verhindern. Es ist vollkommen klar, dass wir es hier, wenn man die Vorgeschichte mit einbezieht, mit einem Stellvertreterkrieg der USA gegen Russland zu tun haben, der von langer Hand vorbereitet worden ist. Dass gerade die SPD das Erbe Willy Brandts und seiner Entspannungspolitik derartig verraten und nicht einmal auf der Einhaltung des Minsker Abkommen ernsthaft bestanden hat, ist unverzeihlich.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Und? Haben die USA ihre Kriegsziele erreicht?

Oskar Lafontaine: Ja und nein. Was die Kappung der Beziehungen zwischen der Russischen Föderation und der EU anbelangt, waren sie äußerst erfolgreich. Auch ist es ihnen gelungen, die EU und Deutschland als ihre potentiellen geostrategischen und wirtschaftlichen Rivalen vorerst aus dem Spiel zu nehmen. Noch mehr als vor dem Ukraine-Konflikt bestimmen sie jetzt die Politik der EU-Staaten, auch dank willfähriger Politiker in Berlin und Brüssel. Sie können ihr dreckiges Fracking-Gas verkaufen und die US- Rüstungsindustrie macht Bombengeschäfte.

Auf der anderen Seite ist es ihnen nicht gelungen, „Russland zu ruinieren“, wie es Frau Baerbock als eines ihrer Sprachrohre formuliert hat, Putin zu stürzen und in Moskau eine Marionettenregierung einzusetzen, um wie zu Zeiten Jelzins besser an die russischen Rohstoffe heranzukommen. Und ich habe den Eindruck, dass die USA inzwischen einsehen, dass sie hier auf Granit beißen. Trotz massiver Waffenlieferungen an die Ukraine, die Entsendung zahlreicher „Militär-Berater“, ist die Atommacht Russland militärisch nicht zu bezwingen. Zudem erweisen sich die westlichen Sanktionen als Bumerang, sie schaden den westlichen Staaten mehr als Russland und werden zu De-Industrialisierung, Arbeitslosigkeit und Armut führen. Die arbeitende Bevölkerung in Europa zahlt den Preis für die Weltmachtambitionen einer durchgeknallten Elite in Washington und die Feigheit der europäischen Staatenlenker.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Ab jetzt geht es also abwärts?

Oskar Lafontaine: Wir müssen dringend dafür Sorge tragen, dass der Ukraine-Konflikt beendet wird. Und das wird nur gehen, wenn die USA ihren Plan, Russland in die Knie zu zwingen – bevor sie sich China zur Brust nehmen – aufgeben. Hierfür brauchen wir eine europäische Initiative und die muss von Frankreich und Deutschland ausgehen.

Tun wir es nicht, und kommen wir nicht bald zu einem Arrangement mit Russland bezüglich unserer Rohstoff-und Energieimporte, dann wird die Wirtschaft in Deutschland und Europa den Bach runtergehen und rechte Parteien werden in Europa immer stärker.

Info zur Person:

Oskar Lafontaine, Jahrgang 1943 in Saarlouis geboren, war Im Verlauf seines politischen Lebens Oberbürgermeister in Saarbrücken, Ministerpräsident des Saarlandes, Vorsitzender der SPD, Kanzlerkandidat und Bundesfinanzminister. Im März 1999 legte er alle seine bisherigen politischen Ämter in der SPD aus Kritik am Regierungskurs von Gerhard Schröder nieder. Er war Gründungsvorsitzender der Partei DIE LINKE, die auf seine Initiative hin aus PDS und Wahlalternative Arbeit & soziale Gerechtigkeit (WASG) entstanden ist, Vorsitzender der Linksfraktion im Deutschen Bundestag und Spitzenkandidat bei den saarländischen Landtagswahlkämpfen 2009, 2012 und 2017. Bis zu seinem Parteiaustritt im März 2022 führte er seit 2009 die Fraktion der Linken im saarländischen Landtag.

FONTE: https://deutsche-wirtschafts-nachrichten.de/701200/DWN-EXKLUSIV-Oskar-Lafontaine-Europa-zahlt-den-Preis-fuer-die-Weltmachtambitionen-Washingtons-und-die-Feigheit-der-eigenen-Staatenlenker

Una decisione forzata: partire subito”: Come Kostanaj (Kazakistan) accoglie i russi in fuga dalla mobilitazione

di Ol’ga Loginova (28.09.2022)

Una decisione forzata: partire subito”

Mercoledì davanti al Centro Servizi Pubblici del distretto Žetysu di Almaty sostava una fila di russi arrivati ​​nei giorni scorsi. Volevano richiedere un codice fiscale, perché solo così avrebbero potuto aprire un conto in banca. Erano pronti ad aspettare ore in fila e ancora un po’ per avere una risposta dal Centro Servizi Pubblici. Vlast.kz ha parlato con loro ​​dell’attraversamento del confine, delle circostanze della loro partenza e dei loro piani per il futuro.

I nomi degli intervistati sono stati cambiati su loro richiesta.

C’è tutta una Silicon Valley radunata qui”

Le persone in attesa al CSP si erano divise in gruppetti. Girava la voce che avrebbero ricevuto dell’acqua gratuitamente all’interno dell’edificio. Era arrivata anche una caffetteria mobile accanto al CSP. Verso l’ora di pranzo, due kazaki si avvicinano alla coda: distribuiscono biglietti da visita ai presenti e promettono un codice fiscale senza fare la fila, naturalmente a pagamento. Nessuno accetta, chi si è radunato preferisce aspettare il proprio turno.

Aleksandr, uno specialista informatico, è arrivato da Mosca quattro giorni fa con venti colleghi: l’intera azienda ha deciso di trasferirsi.

Dice: “ci siamo riuniti d’urgenza, la notizia (sulla mobilitazione ndr) è arrivata come un fulmine, è stata una decisione forzata: partire subito”.

Il collega di Aleksandr, Evgenij, è l’unico dell’intera compagnia che ha dovuto partire con un passaporto civile (carta d’identità ndt).

“E adesso mi trovo di fronte al problema che non posso ricevere una carta SIM, non posso ricevere una carta bancaria. Sono venuto qui con una carta Visa, ricevo uno stipendio in rubli, ma non posso ritirarlo”, dice il giovane.

Evgenij ha presentato richiesta per il passaporto, ma il consolato ha risposto che a causa del grande flusso non sanno ancora quando sarà accettata. L’elaborazione del documento può richiedere fino a 90 giorni e Evgenij teme di non riuscire a riceverlo in tempo, prima di essere obbligato per legge a lasciare il Paese1. “Non è chiaro se potremo restare qui e formulare un contratto di lavoro, ma ci proveremo”, dice.

La maggior parte delle persone in fila lavora nel settore informatico. Alcuni affermano che per ora è possibile lavorare da remoto, altri sono alla ricerca di nuove opportunità per la propria attività o vogliono trovare un lavoro in società collegate.

Pëtr è stato uno dei primi ad attraversare a piedi il confine, a nord. “A piedi perché è più veloce, non per fare economia”, spiega. – Poi sono andato in macchina a Kostanaj, poi di notte in macchina ad Astana, e poi tre ore dopo in macchina ad Almaty. Sono arrivato qui lunedì (19 settembre – ndr).”

Per lui, uno degli obiettivi era trasferire l’attività in Kazakistan per facilitare il lavoro con i clienti stranieri. Il giovane dice anche che anche lui lavora nell’informatica. “C’è un’intera Silicon Valley qui, in effetti, i ragazzi ed io scherzavamo mentre aspettavamo in coda”, ride. Secondo quanto dice, gli ci sono volute due ore per fare domanda per un codice fiscale. Probabilmente dovrà trascorrere la stessa quantità di tempo in attesa di riceverlo.

Konstantin, uno specialista IT di Mosca, si è stabilito prima da parenti e poi ha preso una casa in affitto. Ha intenzione di rimanere ad Almaty per molto tempo. “Sono qui ad Almaty già da una settimana, mi piace molto, la città è bellissima, sono molto soddisfatto. Al momento per me questa non è una tappa intermedia, ma quella finale”, dice, aggiungendo di temere solo cambiamenti nei rapporti tra Russia e Kazakistan e l’estradizione di coloro che hanno evitato la mobilitazione alla parte russa. Konstantin dice che sta trattando con società internazionali che hanno trasferito gli uffici dalla Russia al Kazakistan e spera di riuscire a farsi assumere.

“In ogni caso è possibile lavorare da remoto e finché non è vietato continuo a lavorare”, dice anche. “Se necessario, posso lasciare il Paese e poi tornare”.

Secondo le sue parole, i suoi parenti rimasti in Russia sono preoccupati per lui ma tutti sono sicuri che abbia preso la decisione giusta.

“Non ho una sola persona nel mio ambiente che sia a favore quello che sta succedendo”, dice Konstantin. “È solo una cosa orribile”. L’uomo nota che molti dei suoi conoscenti stanno solo pianificando di andarsene e ci vuole molto tempo. Altri non possono partire immediatamente per motivi personali e familiari. “Per favore, non date per scontato che tutti quelli che sono rimasti siano d’accordo con ciò che sta accadendo. No, non siamo d’accordo. Ognuno ha le proprie ragioni: alcuni hanno parenti malati che hanno bisogno di cure, altri hanno in programma di trasferirsi, ma sono trattenuti da mutui, appartamenti e le persone decidono così”, spiega.

Siamo rimasti al confine per 19 ore”

Molti in coda hanno attraversato il confine in auto, ma ognuno ha seguito un percorso diverso.

Artem e Nikolaj sono partiti per il confine occidentale (del Kazakistan ndt) da città diverse: il primo da Nižnij Novgorod, il secondo dalla regione di Rostov. Avrebbero voluto incontrarsi lungo la strada, ma sono finiti in posti di blocco diversi.

“Abbiamo attraversato il confine vicino a Uralsk. Siamo rimasti al confine per 19 ore. Ci sono molti – non so nemmeno come chiamarli … banditi, che vendono un posto più avanti nella fila per un sacco di soldi, e quindi siamo rimasti più a lungo del necessario “, racconta Nikolaj.

Artem dice di aver conosciuto dei ragazzi in fila al Centro di Servizio Pubblico che sono rimasti al confine per 30 ore. Secondo lui, molti hanno anche scritto di questo problema nelle chat di Telegram per quelli che si trasferiscono. “Lì, il ragazzo ha detto che prendevano 25 mila rubli a persona. All’inizio ne hanno chiesti 50, hanno contrattato 25 a persona, e ce n’erano quattro in macchina e hanno pagato 100mila rubli. È che stavano lì già da trenta ore”, dice. Nikolaj racconta che dopo dieci ore lui stesso è rimasto senza acqua e cibo e si è fatto un po’ prendere dal panico. Sono riusciti a passare con grande difficoltà.

“Verso la fine mi sono arrabbiato, ho iniziato a urlare contro il vigile urbano che stava lì, perché non faceva niente, era inutile”, racconta il giovane. “E ciononostante abbiamo superato questi ragazzi che vendono i posti in coda, siamo rimasti letteralmente fermi per altre due o tre ore e poi abbiamo attraversato il confine”.

Artem ricorda che nella coda in cui è finito, alcuni hanno semplicemente abbandonato la macchina e hanno cercato di attraversare a piedi. “Davanti ai nostri occhi la gente semplicemente chiudeva l’auto e andava a piedi. Una roba da pazzi” dice. Nikolaj racconta che nella sua coda alcuni hanno cercato di vendere l’auto tramite le chat di telegram – a un certo punto, è passata per la mente anche a lui un’idea del genere. Poi però si è scoperto che i pedoni non potevano passare il confine e così hanno iniziato a chiedere agli autisti di portarli.

Si unisce alla nostra conversazione Lev. Dice che lui personalmente è arrivato ad Almaty in aereo, ma i suoi amici, partiti in macchina sabato, sono rimasti al confine per tre giorni e alla fine hanno fatto marcia indietro, perché la coda non si muoveva affatto. Lev dice che pensa di restare in Kazakistan e di lavorare qui: la sua azienda ha una filiale ad Almaty e, in caso di problemi, il giovane pensa di trovare lavoro da loro. Non ha avuto problemi a trovare un alloggio in affitto, ma ha detto che la proprietaria dell’appartamento ha aumentato il prezzo per i precedenti inquilini da 190 a 400mila tenge e che hanno dovuto trasferirsi.

Vladimir è arrivato in macchina dalla città di Kemerovo. “Siamo partiti il ​​21, letteralmente 5 ore dopo l’annuncio della mobilitazione”, ricorda. “In tre ore, abbiamo imballato le nostre cose con gli amici e abbiamo iniziato ad attraversare l’Altai”. Ha dovuto aspettare al confine per due ore. Racconta che un suo amico in servizio nell’esercito nella regione di Kemerovo ha cercato di partire tre giorni dopo di lui, ma gli è stato proibito di partire.

“Personalmente ero all’opposizione in Kuzbass, e posso dire che Kuzbass è il più fedele possibile a Putin, e adesso lì prendono tutto e tutti” racconta Vladimir “Lì non sono a posto. A Mosca hanno visto la storia che un disabile autistico è stato reclutato? La stessa cosa accade lì, ma non c’è una grande pubblicità, perché non ci sono media indipendenti”.

Vladimir lavora nel campo del cinema. Dice che non rimarrà in Kazakistan per molto tempo e prevede di andare negli Stati Uniti.

“Perché là ci sono altre opportunità, ho degli amici. E così non peseremo molto sui residenti locali in Kazakistan, perché ho sentito che con il nostro arrivo qui i prezzi sono davvero aumentati per tutto, – dice. – Ancora più o meno per il rublo se hai dei risparmi, puoi scambiare, e più o meno te la cavi. Tuttavia, un appartamento qui ora è più costoso che nelle nostre città. Anche se cambi il rublo in tenge, è molto caro”.

A Mosca tutti fanno finta che non stia succedendo niente”

Pavel è arrivato ad Almaty da Mosca, dopo aver acquistato un biglietto per 50 mila rubli, che secondo lui nella situazione attuale era relativamente economico. Sua moglie e suo figlio dovrebbero seguirlo presto. Spera di ottenere un codice fiscale e poi ottenere un lavoro nel suo campo, è un medico. “Forse, se qui non funziona, proverò a Erevan”, dice. C’erano già 300 persone in fila per compilare la domanda per il codice fiscale davanti a lui all’ora di pranzo.

Svjatoslav e Ekaterina sono venuti ad Almaty da luoghi diversi: lei da Mosca, lui dalla Finlandia. Già prima, la coppia non viveva in Russia da quattro mesi. Qualche mese fa hanno deciso di tornare in Russia, ma alla fine hanno deciso di ripartire.

“Pensavamo che forse le cose sarebbero andate in discesa. Magari le truppe sarebbero state ritirate. Speravamo per il meglio, ma evidentemente invano”, afferma Svjatoslav. Ekaterina aggiunge che all’inizio, dopo il ritorno, sembrava che fosse diventato più calmo, ma poi spiega che nella capitale russa, in linea di principio, sono generalmente calmi su ciò che sta accadendo.

“A Mosca fanno finta che non stia succedendo niente, che vada tutto bene e non c’è bisogno di pensarci”, spiega anche Svjatoslav. Ora la coppia ha in programma di rimanere in Kazakistan per almeno un anno: la filiale dell’azienda dove lavora Svjatoslav è stata trasferita ad Almaty, e lui ha intenzione di lavorare lì.

Molti degli intervistati hanno affermato che molto probabilmente sarebbero transitati in Kazakistan e poi sarebbero andati da qualche altra parte.

Secondo i dati ufficiali, più di 98.000 cittadini russi sono entrati in Kazakistan dal 22 al 27 settembre.

FONTE: https://vlast.kz/obsshestvo/51862-resenie-bylo-zeleznym-uezzat-srazu.html

Traduzione dal russo di Marco Ferrentino

1 È possibile per i cittadini russi rimanere in Kazakistan senza visto e con la carta d’identità solo per trenta giorni consecutivi ndt

La società Svedese e la NATO

a cura di Enrico Vigna (agosto 2022)

Mentre una grossa parte degli svedesi è favorevole all’adesione alla NATO, ci sono altri settori sociali e politici che sono scesi in piazza per protestare e opporsi. Denunciano che la decisione è affrettata e che la Svezia dovrebbe attenersi più sensatamente alla sua tradizione di neutralità. Prospettano che perdere la neutralità militare non contribuirà alla pace mondiale, ma favorirà ulteriori scenari di guerre.

COMUNICATO STAMPA DELLA SOCIETA’ SVEDESE PER LA PACE E L’ARBITRATO SULLA NATO

L’annuncio del Partito socialdemocratico svedese di richiedere oggi l’adesione della Svezia alla NATO è una decisione triste e affrettata.

Il Partito socialdemocratico svedese ha annunciato la sua decisione di lavorare per una domanda di adesione svedese alla NATO. Questa decisione significa che la Svezia sta per abbandonare oltre 200 anni di non allineamento militare.

– Questa decisione è incredibilmente dolorosa e affrettata e significa che la Svezia contribuirà a rendere il mondo più polarizzato e militarizzato. L’adesione alla NATO non renderà la Svezia, o il resto del mondo, più sicuri o più democratici, ha dichiarato Agnes Hellström, presidente della Società svedese per la pace e l’arbitrato.

Agli occhi di molti, la Svezia è un paese che difende il disarmo, la prevenzione dei conflitti, la mediazione e la diplomazia. Se la domanda di adesione della Svezia alla NATO sarà approvata, la Svezia farà parte di un’alleanza nucleare e dovrà sostenere l’uso di armi nucleari da parte della NATO nel caso in cui tale decisione venga presa.

La NATO è un’alleanza militare che si basa sulla minaccia di omicidi di massa di civili attraverso l’uso di armi nucleari. In quanto membro della NATO, sarà molto più difficile per la Svezia lavorare per il disarmo e saranno necessari ampi sforzi se la Svezia vorrà ancora influenzare il lavoro svolto nel disarmo nucleare, afferma Agnes Hellström.

In un comunicato stampa, il Partito socialdemocratico scrive che “lavorerà per assicurarsi che la Svezia, se la sua domanda di adesione sarà approvata dalla NATO, manifesti obiezioni unilaterali contro il posizionamento di armi nucleari e basi militari permanenti sul territorio svedese

– La questione della NATO e delle armi nucleari è molto più ampia delle sole basi militari e del posizionamento di armi nucleari. La minaccia delle armi nucleari è un principio centrale della NATO. In qualità di membro, la Svezia, a meno che non ci opponiamo, parteciperà attivamente alla pianificazione e all’esercizio dell’uso delle armi nucleari. La Svezia deve emanare una legge nazionale che vieti le armi nucleari dal territorio svedese e ratificare immediatamente il Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, affermato la presidente della Società svedese per la pace e l’arbitrato.

La decisione del Partito socialdemocratico è stata presa in un processo affrettato a pochi mesi dalle elezioni parlamentari. I critici all’interno del partito hanno ritenuto questo processo interno un “dibattito simulato” in cui la leadership del partito aveva già preso una decisione.

– La decisione manca di consenso popolare e quindi di legittimità. Molte domande rimangono ancora senza risposta su quale sarà il ruolo della Svezia nella NATO e cosa significherà esattamente l’adesione, ha affermato Agnes Hellström.

Maja Landin, addetto stampa, Società svedese per la pace e l’arbitrato


Perché molti giovani svedesi rimangono a disagio nell’entrare nella NATO

La cosa migliore per la sicurezza della Svezia e del popolo svedese è entrare a far parte della NATO”,  ha affermato il primo ministro svedese Magdalena Anderssonconfermando l’intenzione di Stoccolma di entrare a far parte della più grande alleanza militare del mondo.

La sua dichiarazione annuncia la fine dei 200 anni di neutralità militare della Svezia, una politica di sicurezza che  il paese nordico ha adottato dal 19° secolo. 

Mentre una maggioranza di svedesi ha espresso sostegno affinché il proprio paese si unisca alla NATO durante la guerra in Ucraina, ci sono molti giovani che sono più esitanti. 

Alcuni sono addirittura scesi nelle strade della capitale svedese in queste settimane, condannando la perdita della neutralità militare come un passo che genererebbe più violenza nel mondo. 

L’adesione alla NATO farà versare più sangue perché la NATO è un’organizzazione bellica e non una che lavora per la pace”, ha detto a DW, Ava Rudberg, 22 anni, presidente del Partito della Giovane sinistra in Svezia che fa parte delle proteste.  “È un’alleanza militare che crea più guerre e siamo anelanti di mantenere la pace in Svezia“.

Linda Akerström della Svenska Fredsoch Skiljedomsföreningen, la Società svedese per la pace e l’arbitrato, ha dichiarato che molte persone erano arrabbiate perché la neutralità nei conflitti militari è storicamente legata all’identità svedese.

Per molte persone, questa decisione è un grande cambiamento perché in tutti questi anni molti svedesi si sono visti come voci che nutrono la pace in tutto il mondo. Ma in questo momento, credo che molti ritengano che la decisione di entrare a far parte della NATO sia stata affrettata e basata sulla paura. Fondamentalmente, prendere una decisione così importante in una situazione molto tesa e in gran parte basata sulla paura è come andare al supermercato quando si ha fame, e sappiamo tutti che non è una situazione in cui si fanno buone scelte. non è stato sufficiente un dibattito con entrambe le parti coinvolte, perché una decisione così grande fosse legittima“, ha aggiunto la Akerstrom.

Lisa Nabo, 27 anni, presidente della Lega giovanile del Partito socialdemocratico al potere in Svezia, ha affermato che, nonostante la precedente cooperazione con la NATO “… la perdita ufficiale della neutralità è un problema contro cui molti giovani svedesi stanno lottando. La mia generazione di ventenni, non ha memoria di una guerra in Europa. Quindi questa situazione in cui ci troviamo ora ci è molto estranea e non abbiamo la stessa storia di guerra di molti dei nostri vicini, paesi che hanno fatto parte della seconda guerra mondiale o della guerra in Jugoslavia. Come giovani socialdemocratici in questo momento stiamo lottando con l’immagine di noi stessi, perché molti di noi hanno iniziato la propria attività politica con l’idea di essere un’organizzazione pacifica che combatte per fermare la militarizzazione. È difficile combinare questo con l’adesione nella NATO “, ha detto a DW.

Nel frattempo, lontano dalle frenetiche città della Svezia, Sara Andersson Ajnnak, una giovane artista che appartiene alla comunità indigena Sami nel nord del Paese , pensa che la  decisione della Svezia di aderire alla NATO potrebbe avere un impatto negativo sui loro diritti.

Sento che è problematico per la Svezia entrare a far parte della NATO, soprattutto per me come indigena del nord. Sento che c’è già una lotta per la terra nel paese e credo che la NATO possa vedere il nord della Svezia, che è Territorio indigeno, come un’enorme regione militare per svolgere le proprie esercitazioni. Quindi vedo questa come un’altra forma di colonizzazione. Già oggi siamo colpiti dalle attività dell’aviazione che ha un impatto negativo sulla popolazione delle renne. Tali attività sono ora destinate ad aumentare e ho paura di come questa decisione influirà sui nostri diritti e sull’ambiente“. ha detto a DW. Da dw

La gente in Svezia è incerta sull’adesione alla NATO di Mike Powers*

In queste settimane dal 21 maggio, in decine di città e paesi in tutta la Svezia, ci sono state manifestazioni e marce di opposizione alla decisione del governo di aderire alla NATO. La decisione formale di abbandonare la politica ufficiale di neutralità svedese, che dura da più di 200 anni, è arrivata nel mezzo di una frenesia di paura alimentata dalla propaganda sul conflitto armato in Ucraina e una presunta minaccia alla sicurezza dell’Europa.

Manifestazione anti-NATO fuori dal palazzo del governo a Stoccolma, Svezia

I partiti conservatori di opposizione sono da tempo favorevoli all’adesione alla NATO. Ma un improvviso cambiamento nella posizione di due dei più grandi partiti, il Partito Socialdemocratico dei Lavoratori (SAP) e quello di estrema destra il Partito Democratico Svedese (SD) di ispirazione neonazista, ha permesso il cambiamento nella politica del governo.

L’SD è un gruppo razzista populista anti-immigrati che si fa facendo strada negli strati popolari. Hanno sostenuto gli altri sul tema della NATO, nella speranza di essere accettati come elementi rispettabili in una nuova maggioranza di destra. Hanno persino cambiato la loro posizione sul non ammettere più rifugiati, a patto che i rifugiati fossero europei bianchi con lo stesso background culturale cristiano e non provenienti dal Medio Oriente! 

I socialdemocratici al potere, di recente al loro ultimo congresso del partito nel 2021, avevano dichiarato che la loro permanenza in carica avrebbe garantito che la Svezia non avrebbe mai abbandonato il non allineamento. Durante la Guerra Fredda, anche se non allineata, la Svezia faceva ufficiosamente parte del fianco settentrionale della NATO con la sua enorme forza aerea che pattugliava gran parte dello spazio aereo sovietico.

Negli ultimi decenni durante l governi SAP, la Svezia si era già avvicinata alla NATO, nel Partenariato per la Pace e nelle coalizioni contro il terrorismo costruite dagli Stati Uniti in Iraq e Siria. La Svezia ha ritirato le sue truppe dall’Afghanistan dopo 20 anni, dopo aver dimostrato la sua fedeltà e sottomissione a Washington. Le strutture spaziali svedesi nel nord sono state determinanti nel guidare i bombardamenti statunitensi contro la Libia nel 2011. Sono state organizzate manovre congiunte con molti paesi della NATO, comprese esercitazioni di bombardamento in Svezia.

Crisi d’identità

Tuttavia, l’abbandono della neutralità sta causando un senso di crisi di identità in Svezia. A volte avere una politica estera indipendente ha consentito di assumere una posizione morale, come quella di opporsi alla guerra degli Stati Uniti in Vietnam, ed essere il primo paese dell’UE a riconoscere lo stato di Palestina e ad operare per promuovere il disarmo nucleare. Eppure l’anno scorso la Svezia ha rifiutato di ratificare l’accordo delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, che essa stessa aveva contribuito a scrivere.

Il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti ha semplicemente avvertito pubblicamente che la firma dell’accordo avrebbe “complicato” la cooperazione militare con la NATO. La Svezia ha fatto marcia indietro. I giorni di una politica estera indipendente, già più difficili con l’adesione all’UE, potrebbero presto finire per sempre.

Oggi non c’è una concreta minaccia russa per la Svezia. Eppure il governo svedese afferma che la piena adesione, fornirebbe garanzie di sicurezza alle forze nucleari della NATO, ma le consentirebbe anche di proibire le armi nucleari e qualsiasi base straniera permanente sul suolo svedese!

È vero esattamente il contrario: renderebbe la Svezia un possibile obiettivo per le armi nucleari russe. Ora ci viene detto che la decisione finlandese di aderire, lascia la Svezia senza alternative. Ma la Svezia è un paese indipendente. L’adesione alla NATO trasformerebbe il Baltico in un lago interno della NATO, con 10 paesi che minacciano la Russia! 

Il dibattito sull’adesione è stato per lo più unilaterale. La TV e la radio hanno organizzato programmi in cui i partecipanti pro-NATO, per lo più esperti di ricerca militare, dibattono sui vantaggi dell’adesione tra di loro. I socialdemocratici hanno organizzato dialoghi zoom con migliaia di membri del partito, che hanno dovuto ascoltare i ministri rispondere a domande principali prestabilite da voci anonime, ma non potevano farne loro stesse. Dove si è svolta una votazione, i risultati, spesso negativi, non sono stati resi pubblici.

La dirigenza del partito fa riferimento ai continui e incerti cambiamenti nell’opinione pubblica nei sondaggi settimanali. Ma anche questi indicano che quasi la metà della popolazione, inclusa la maggioranza dei socialdemocratici e dei partiti minori di sinistra e verdi, è ancora contraria o indecisa! I lealisti del partito che seguono sempre il leader possono aver cambiato opinione, ma possono rappresentare solo il 10% degli elettori.

L’intero processo è stato ridicolo e una parodia della democrazia. Tutti i maggiori partiti sono contrari a un referendum popolare, poiché considerano la questione troppo complicata e trattano questioni di sicurezza delicate. Si oppongono anche all’attesa fino a dopo le elezioni programmate di settembre, e al lasciare che siano gli elettori a decidere, al fine di conferire alla decisione una qualche forma di legittimità democratica. Molti si sentono spinti dall’élite del partito. Ma hanno paura della democrazia diretta da parte del popolo.  Tra i relatori della protesta di Stoccolma c’erano Thomas Hammarberg, ex parlamentare socialista e Commissario del Consiglio europeo per i diritti umaniKajsa Ekis Eknman, nota scrittrice e giornalista; così come i rappresentanti del NO NATO, Folket I Bild (Persone in immagini); Donne per la pace e la Gioventù Comunista Rivoluzionaria

I mercanti della morte festeggiano 

Quelli che festeggiano di più sono i produttori di armi svedesi, i mercanti di morte, inclusa SAAB Dynamics. Vedono opportunità di vendere armi anticarro e possibilmente jet da combattimento svedesi ai futuri alleati della NATO. Che i coscritti svedesi debbano essere carne da cannone nelle guerre della NATO non fa parte dei loro calcoli capitalisti. E la Svezia ha già, in ampia unità, accettato di aumentare la spesa militare al 2% del suo budget, la nuova linea guida Trump-Biden per i partner europei.

Potrebbe volerci del tempo prima che venga concessa l’adesione formale. Il regime turco ha lanciato una chiave inglese nel procedimento. Si rifiuta di ammettere nuovi membri a meno che non trattino gli oppositori curdi del regime turco come “terroristi”. Il governo svedese ha stretti legami con l’enclave curda in Siria sostenuta dagli USA e con il Kurdistan iracheno; il regime turco afferma che queste entità curde forniscono rifugio alle forze del PKK, che combatte il dominio turco. La Svezia non consegnerà i rifugiati alla Turchia. La Svezia ha anche imposto un embargo sulle armi alla Turchia nel 2019 e ha contribuito a fermare l’adesione della Turchia all’UE. 

C’è grande incertezza su quanto tempo potrebbe richiedere il processo. Ma potrebbe non essere ancora un affare fatto.

  • Powers è un americano che si è opposto alla guerra dai tempi del Vietnam, emigrato in Svezia, è un noto attivista del movimento antimperialista da oltre 50 anni.

(A cura di Enrico Vigna, Iniziativa “Per un Mondo Multipolare”/ CIVG agosto 2022)

GUERRA IN UCRAINA E NUOVO ORDINE MONDIALE: Gli effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali (III° Parte)

GUERRA IN UCRAINA E NUOVO ORDINE MONDIALE

Gli effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali

Terza parte atti del seminario

(QUI la prima e la seconda parte degli atti già pubblicati)

di Raffaele Picarelli

Inflazione, alti tassi, recessione

Il 31 maggio scorso i dati preliminari di Eurostat hanno mostrato che l’indice dei prezzi al consumo nell’Eurozona è salito all’ 8,1% su base annua, dal 7,4% di aprile, ben al di sopra del “consenso” degli analisti che era di un aumento del 7,7%.

In Germania l’inflazione a maggio ha toccato il 7,9% anno su anno come ai tempi della crisi petrolifera del 1973, in Spagna ha registrato un aumento dell’8,7%.

In Italia, dopo il lieve rallentamento di aprile, l’inflazione è tornata ad accelerare in maggio, portandosi al 6,9% anno su anno, un livello che non si registrava dal 1986.

In USA in aprile l’inflazione era all’8,3%. In maggio è cresciuta all’8,6%, nuovo massimo dal dicembre del 1981. Biden: “I nuovi dati dimostrano il perché l’inflazione è la mia priorità […]. I rialzi dei prezzi causati da Vladimir Putin hanno colpito duramente in maggio […]. Faremo il possibile per ridurre i prezzi.” (“Il Sole – 24 Ore” dell’11 giugno). Non c’è limite alla menzogna e alla spudoratezza! Le cause dell’inflazione sono varie e, si è detto, anteriori all’attuale conflitto in Ucraina, anche se la guerra, in alcuni casi, ha funzionato da acceleratore: prezzi energetici, rottura delle catene di approvvigionamento di materie prime, semilavorati e merci, “rarità” di alcune materie prime.

“Bisogna dare uno sguardo ai cambiamenti in atto. Il primo riguarda la globalizzazione: […] dopo aver […] guidato il mondo dagli anni ’80, si sta bruscamente invertendo. Ormai la maggior parte delle aziende ha capito che tenere catene globali delle forniture troppo lunghe rappresenta un rischio. Basta una pandemia, un porto chiuso o un conflitto che non arriva più nulla. Tanti stanno dunque accorciando le catene. O intendono farlo. Questo terrà alta l’inflazione. Stesso discorso per le materie prime: improvvisamente ci si accorge quanto siano scarse e dislocate nelle parti più instabili […]. Il 44% del palladio globale arriva dalla Russia. Idem per oltre il 16-17% del gas naturale e dei fertilizzanti. Scarsità, in economia, significa rincari. Prezzi alti. Insomma: inflazione […]. L’inflazione è diventata strutturale.” (M. Longo ne “Il Sole – 24 Ore” del 13 giugno). E ancora: “Per anni le aziende hanno aumentato i margini pur in un’economia stagnante, perché potevano tagliare i costi. Riuscivano a farlo perché potevano allungare le “supply chain” e sfruttare la manodopera dove il costo del lavoro era basso, oppure perché potevano usare materie prime anche di scarsa sostenibilità ambientale da qualche parte del mondo. Nessuno lo sapeva.” (R. Almeida di Mfs Investment Management, ibidem).

Ora tutto questo (sfruttamento selvaggio del lavoro, devastazione ambientale ecc) è più difficile. Allora “i costi salgono. E l’accorciamento delle catene globali fa il resto.” E “la domanda è: chi pagherà questi maggiori costi industriali? Le aziende riducendo i margini oppure i consumatori con prezzi più alti?” (Ibidem).

Un’analisi dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo (risalente a fine marzo) dimostra che oggi, in Europa, il balzo dei prezzi è in gran parte causato dall’energia. Prendendo come punto di partenza il maggio 2018, quando l’indice dei prezzi in Eurozona raggiunse l’obiettivo della BCE del 2%, Intesa Sanpaolo ha calcolato da cosa “è stata causata l’extra inflazione di oggi [fine marzo]. Si tratta di 3,9 punti percentuali in più [ora l’inflazione ufficiale è ancora più alta di almeno un punto]. Due terzi sono dovuti proprio alla componente energetica. E un’altra fetta importante (0,8 punti su 3,9) va cercata nel settore alimentare, anch’esso in gran parte gravato dai maggiori costi dell’energia e dei fertilizzanti. Insomma: senza il petrolio e il gas alle stelle, in Eurozona l’inflazione sarebbe ben più bassa.” (M. Longo, “Il Sole – 24 Ore” del 31 marzo).

Diversa la situazione in USA dove la componente energia ha causato solo un terzo del rincaro, mentre la parte più pesante è costituita dai rincari da domanda per consumi.

Di alcuni fattori che rendono strutturale il carovita abbiamo già trattato. La deglobalizzazione, è utile ribadirlo, è uno di questi. Il rischio di filiere produttive lunghe e globali concerne settori sensibili come i semiconduttori, l’energia, i prodotti farmaceutici, ed è opinione diffusa che. principalmente in questi settori, avverrà un rimpatrio delle produzioni (reshoring). E questo farà salire i prezzi. Altro fenomeno inflattivo è la transizione energetica: almeno per un certo lasso di tempo la transizione produce un aumento dei prezzi.

Giordano Lombardo della casa d’investimento Plenisfer, in un’intervista del 7 aprile scorso al giornale confindustriale dichiarava: “In un mondo che va verso una nuova divisione in blocchi è inevitabile che aumenti il potere geopolitico e negoziale di Paesi non allineati con il blocco occidentale ma fondamentali per l’approvvigionamento di materie prime. [E quindi aumentino i prezzi]”. In una realtà fatta “di blocchi antagonisti, uno guidato dalla Cina [e dalla Russia] e uno dall’Occidente, le supply chain (le catene di approvvigionamento) si devono accorciare. Ma […] questo farà salire l’inflazione”. Per il fattore inflattivo rappresentato dalla transizione energetica, il problema è che “da anni è in corso un deciso calo degli investimenti in tutti i combustibili fossili. Peccato che oggi proprio questi combustibili rappresentino ancora l’80% del fabbisogno energetico globale. Si stima che per soddisfarlo con altre fonti, bisognerebbe moltiplicare per tre l’energia nucleare esistente oggi, oppure per cinque quella solare, oppure per 10 quella eolica. Nel breve periodo è impossibile che queste fonti rinnovabili riescano a soddisfare le necessità”(Ibidem).

Allora, dato che in Europa l’inflazione non è da consumi ma quasi interamente causata da rincari eccezionali delle materie prime (accelerati, talora, dal conflitto in corso), si tratta di un’inflazione da costi, un’ “inflazione importata”. Essa riduce gli investimenti perché non sempre si è in grado di trasferire in tutto, ma anche in parte, l’aumento dei costi (prezzi di produzione) sul prezzo finale dei beni e dei servizi. E se questo avviene, l’inflazione riduce il potere d’acquisto dei ceti deboli, dei lavoratori a reddito fisso, dei pensionati, dei piccoli risparmiatori.

Scrive Luca Mezzomo, economista di Intesa Sanpaolo: “Quando l’inflazione dipende dal rincaro dell’energia e delle materie prime, si distruggono i consumi”. Inoltre, le politiche delle banche centrali sono poco efficaci quando l’inflazione è causata da energia e materie prime: per quanto alzino i tassi, i prezzi di petrolio e gas restano elevati. L’unica cosa che possono fare è causare una “devastante” recessione: diminuendo drasticamente i consumi, crolla la domanda di energia e materie prime e quindi, piano piano, anche i prezzi calano. Tutto questo processo, con conseguente aumento dei tassi, accade, non dimentichiamolo, in una fase di contrazione dell’economia europea e globale.

Ma “in Europa i salari non stanno salendo” e se aumenti ci saranno “non saranno elevati […]. Oggi invece l’occupazione è ben diversa: tanti lavoratori sono precari, a tempo determinato, impiegati nella gig economy e in generale meno sindacalizzati” (“II Sole – 24 Ore” cit.).

L’inflazione da costi è per definizione un massacro sociale.

Lo è direttamente perché distrugge redditi e consumi e, in certa misura, cioè nella misura in cui le aziende non riescono a trasferirla sui prezzi finali, anche gli investimenti. I più colpiti sono naturalmente i gruppi sociali più fragili.

Lo è indirettamente, con l’aumento dei tassi di interesse praticato dalle banche centrali e, a cascata, da tutto il sistema creditizio.

Questo aumento se, come si è detto, è vano direttamente contro l’inflazione importata, fa crollare più o meno rapidamente tutti i consumi (perché tende a propagarsi a tutti settori) e anche la domanda di energia e materie prime.

Quindi i prezzi cadono proprio attraverso e a causa di un massacro sociale.

Da qui il passo verso la recessione (forse attraverso una fase di stagflazione) è breve.

Le “stazioni” di tale massacro (riduzione del potere d’acquisto, impoverimento soprattutto dei ceti deboli, svalorizzazione dei risparmi e degli asset, liquidazione degli ultimi brandelli di welfare, disoccupazione, riduzione ulteriore degli investimenti, ulteriore disoccupazione, etc.), hanno anche un contraltare positivo per i governi molto indebitati: il debito pubblico (anche quello privato) con l’inflazione si svaluta.

A fronte di tutto questo, in Italia e non solo, i ceti popolari non hanno nessun valido strumento di protezione e recupero. Ma di ciò parleremo più avanti.

La dinamica dell’adozione dei tassi e delle condizioni finanziarie più restrittive

Il 10 giugno scorso la presidente Christine Lagarde ha anticipato gli aumenti dei prossimi mesi, “rebus sic stantibus”. Il 1 luglio terminerà il programma APP di acquisti netti di titoli pubblici da parte della BCE; il 21 luglio, alla prossima riunione del Consiglio della BCE, i tassi di riferimento saliranno dello 0,25% e di un altro 0,25 o 0,50% (a seconda dell’inflazione) alla riunione successiva dell’8 settembre.

Mercoledì 15 giugno la Federal Reserve ha deciso di alzare i tassi di 75 punti base (0,75%). È la prima volta dal novembre 1994 che un rialzo è così forte. E ulteriori consistenti rialzi sono previsti nei prossimi mesi.

Le borse mondiali hanno reagito con pesanti perdite, e titoli pubblici e corporate bond hanno visto aumentare in modo rilevante i rendimenti e scendere altrettanto cospicuamente i prezzi.

L’aumento dei tassi e la conseguente caduta della domanda non piace a Confindustria perché, in prospettiva, aumenta i costi di produzione e affievolisce le vendite. Per Carlo Bonomi l’aumento dei tassi della BCE “non è la soluzione per controllare l’inflazione […]. Il Paese è fermo, e abbiamo un debito pubblico enorme. Capisco che si debba controllare l’inflazione. Ma con il rialzo dei tassi avremo sicuramente dei problemi” (“Il sole-24 ore” 11 giugno).

Di fronte a possibili rivendicazioni salariali, il fuoco di sbarramento è la richiesta di soldi pubblici per il taglio del cuneo fiscale e contributivo.

Alla luce di quanto detto finora è semplicemente inconcepibile che un’inflazione da costi diventi, sic et simpliciter, un’ inflazione da domanda. Eppure la parola d’ordine in questi tempi del governo e della Banca d’Italia é di “non disancorare” l’inflazione e impedire la spirale prezzi-salari. Se i salari sono fermi, se non esistono meccanismi di indicizzazione e recupero, tali affermazioni surreali e spudorate che senso hanno? Hanno il senso di un fuoco di sbarramento contro ogni futura, possibile richiesta salariale.

E’ una menzogna, nella situazione attuale, evocare la spirale prezzi-salari. Nelle “Considerazioni finali” del 31 maggio scorso, il Governatore della Banca d’Italia Visco ammette che se è concepibile una spirale prezzi-salari in USA ove esiste un’inflazione da domanda, nell’area euro “la dinamica delle retribuzioni è sinora rimasta moderata”. Ciò nonostante, le richieste di adeguamenti salariali sarebbero accettabili solo se si risolvessero “in aumenti una tantum [perché in tal caso] il rischio di un circolo vizioso tra inflazione e crescita salariale sarebbe ridotto”. Anziché ad una “vana rincorsa tra prezzi e salari”, ci ricorda Visco, bisogna mettere mano alla produttività.

Il governo Draghi, in stretta assonanza, ribadisce il salvifico appello: “Sindacati, imprese e governo lavorino insieme”.

Indice IPCA / massacro sociale / un cenno ancora al gas

È giunto ora il momento di affrontare la questione dell’indice IPCA e della contrattazione collettiva. Ho presente al riguardo la pubblicazione online della collana “ADAPT – Scuola di alta formazione in relazioni industriali e di lavoro, numero del 2013”. La collana è (o almeno era) diretta da Michele Tiraboschi e si ispirava ad Ezio Tarantelli. Il paragrafo che ci interessa reca appunto il titolo “Indice IPCA e contrattazione collettiva”.

Vi leggiamo: “Le crisi petrolifere del 1973-74 e del 1979-1980 hanno restituito all’Italia degli anni Ottanta un’inflazione galoppante, contrastata dagli interventi di politica dei redditi studiati dal professor Ezio Tarantelli (lodo Scotti e decreto di San Valentino), volti ad arrestare la spirale prezzi-salari-prezzi e ridurre l’inflazione giocando una politica salariale d’anticipo in grado di programmare gli aumenti retributivi in linea con l’inflazione attesa”.

Si legge inoltre che, nel Protocollo sulla politica dei redditi e dell’occupazione e sugli assetti contrattuali del 1993, le parti sociali “abbandonarono definitivamente il meccanismo della scala mobile, concordando l’utilizzo dell’inflazione programmata nel primo livello di contrattazione e garantendo, quale elemento di tutela del potere d’acquisto dei lavoratori, il recupero dello scostamento tra inflazione programmata ed effettiva.

Al secondo livello di contrattazione spettava invece la regolazione delle retribuzioni sulla base dei risultati di produttività e redditività aziendale”.

Questo meccanismo ha funzionato fino al 2009, allorché, con l’Accordo Quadro sulla riforma degli assetti contrattuali, “governo e parti sociali hanno stabilito un nuovo indice previsionale di inflazione: l’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea (IPCA) depurato della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L’elaborazione è stata affidata ad un soggetto terzo, identificato […] a partire dal 2011 […] nell’Istat”.

L’IPCA è una delle innovazioni più note dell’Accordo del 2009, (la Cgil non aderì denunciando la minore protezione fornita da questo indice al potere d’acquisto dei salari).

“L’Accordo ha confermato il sistema di salvaguardia del potere d’acquisto [?!] attraverso la verifica di eventuali scostamenti tra l’inflazione prevista [non più programmata] e quella reale effettivamente osservata”.

Quindi, tale indice istituzionalmente non contiene l’inflazione importata. I meccanismi dell’inflazione programmata prima e dell’inflazione prevista poi, prevedono recuperi degli altri tipi di inflazione ex post e solo in parte con l’inevitabile effetto che una parte del salario è sottratta ai lavoratori.

Se l’inflazione prevista non contempla, come non contempla, l’inflazione importata, quale strumento di difesa rimane ai lavoratori?

I rinnovi contrattuali che sono lenti, farraginosi, sempre rinviati.

Leggiamo su “Il Fatto Quotidiano” del 4 giugno scorso: “Quasi sette milioni di lavoratori italiani sono in attesa del rinnovo del contratto nazionale. Per dirla meglio, quasi sette milioni di persone aspettano un aumento in busta paga che permetta quantomeno di far fronte ai rincari. Non è tutto: oltre a questi, tanti altri lavoratori hanno ottenuto di recente il rinnovo, ma non ancorato all’inflazione [ora al 6,9%]. […]. Una serie di trattative sono in corso, ma di solito si ragiona prendendo come riferimento l’indice IPCA che non tiene conto dei rincari energetici importati […]. A marzo 2022, secondo l’Istat, il tempo medio di rinnovo dei contratti scaduti risulta pari a 30,8 mesi”.

Dall’abolizione della scala mobile, avviata con il referendum del 1985, i salari hanno molto perduto. La situazione si è aggravata negli ultimi trent’anni (è del 23 luglio 1993, abbiamo visto, il primo accordo interconfederale post scala mobile).

La massa salariale è scemata in modo esponenziale. l’Istat prevede che quest’anno il potere d’acquisto delle famiglie calerà almeno del 5% (la valutazione è benevola).

Secondo l’OCSE, l’Italia è l’unico Paese sviluppato nel quale durante gli ultimi trent’anni i salari sono calati del 3%, mentre in Germania sono aumentati del 34%, in Francia del 31% e in Spagna del 6% (Grafico 1).

Grafico 1: dinamica degli stipendi nei Paesi Ocse fra il 1990 e il 2020. Fonte Ocse

In conclusione, il governo e le elites dei gruppi capitalistici dominanti italiani ed europei (oltre gli USA) che hanno alimentato il carovita prima della guerra in Ucraina, e lo hanno incrementato con le loro politiche guerrafondaie e sanzionatorie nel corso del conflitto, stanno scaricando, e hanno in progetto di continuare a scaricare in futuro, tutto il peso della crisi sui subalterni, sulle masse popolari, le quali non dispongono in Italia (e non solo), di adeguati strumenti di difesa e di soggetti sociali e politici che abbiano la volontà e/o i mezzi per sostenerli.

Inflazione, riarmo, politiche monetarie restrittive, stagflazione, incipiente recessione (in alcuni paesi, esempio Regno Unito, già cruda realtà), disoccupazione, erosione dei risparmi, sostanziale estinzione dei pochi residui di welfare, è questo il quadro d’insieme che abbiamo davanti.

Solo un’ampia mobilitazione di massa dei lavoratori e dei pensionati contro il carovita e la guerra, per la difesa dei salari e delle pensioni, per il lavoro, può contrastare la deriva alla quale UE ed USA hanno condannato gran parte dei loro popoli.

Abbiamo precedentemente affrontato le dinamiche dei prezzi energetici e della loro riferibilità, se non in termini assai parziali, al conflitto in corso in Ucraina.

Dedichiamo ora un cenno al caso degli ultimi giorni del prezzo del gas e alle parziali sospensioni della sua erogazione, da parte di Gazprom, a Germania e Italia (totale la sospensione del poco gas erogato alla Francia).

Nelle ultime settimane l’UE ha proposto il piano REPower EU (confronta sopra) di chiusura strategica all’apporto del gas russo alle sue economie, ha stipulato accordi con l’Algeria per la fornitura di gas a parziale copertura di quello russo (gas che l’Algeria ha potuto fornire perché, per ragioni legate ai suoi rapporti bilaterali con la Spagna per la questione del Sahara Occidentale, lo ha completamente sottratto a quest’ultima). Sono stati stipulati accordi tra UE, Israele ed Egitto per la fornitura di GNL, trasformato dall’Egitto, ed arbitrariamente estratto come gas naturale da Israele nel Mediterraneo, senza intesa alcuna con altri Stati, come il Libano, che ne rivendicano pure la propria giurisdizione.

Tale accordo prelude a un ridisegno dell’area mediorientale con l’emarginazione definitiva di Libano e Siria dai grandi movimenti e interessi d’area e con l’allineamento, pressoché completo, (e questo è un fatto nuovo) delle politiche dell’UE e degli USA anche relativamente alla questione palestinese (a quando il riconoscimento di Gerusalemme capitale da parte della burocrazia di Bruxelles?).

È nota poi l’estensione della ricerca di fonti di approvvigionamento alternativo dell’UE a paesi africani e all’Azerbaigian.

Non si può sottacere inoltre che la Germania ha espropriato “Gazprom Germania”, nodo distributivo e finanziario importante di Gazprom nella diramazione del gas in Germania (e non solo).

L’UE ha varato, si è visto, la sesta tornata di sanzioni alla Russia per il petrolio e i prodotti petroliferi.

Dopo tutto questo, si attendeva dall’Occidente che tutto continuasse come prima da parte della Russia, in modo da permettere all’Occidente stesso di completare, in tempo utile per l’inverno, le operazioni di stoccaggio con il gas russo! Sembrano le pretese di un bambino prepotente che sottrae i giocattoli, tutti i giocattoli, a un altro bambino e vuole continuare, col consenso di quest’ultimo, a giocare con lui.

Inflazione e recessione: il caso emblematico dell’Inghilterra

All’inizio dell’anno la banconota britannica era ai massimi degli ultimi anni sull’euro. Nel giro di poche settimane la sterlina è di nuovo nel ciclone e sta perdendo rapidamente posizioni contro euro e dollaro. Ora il Pound è definito “il malato del mondo” tra le valute. Ha subito un calo del 10% sull’euro in tre mesi.

È una flessione molto rapida che si spiega con una scommessa al ribasso sul Paese: gli hedge fund hanno cambiato posizione sulla sterlina. I dati del mercato dei future statunitensi mostrano che i fondi speculativi hanno iniziato a scommettere contro la sterlina: una scommessa che ora vale quasi 5 miliardi di dollari.

Poco prima dell’inizio della guerra, il 24 febbraio, i dati della “Commodity Futures Trading Commission” hanno mostrato che i fondi detenevano una piccola posizione lunga scadenza sulla sterlina e la stessa valuta veniva scambiata a 1,4 sul dollaro. Nove settimane dopo, i fondi sono short (corti) in sterline per un totale di circa 59 mila contratti: è la più grande scommessa contro la sterlina da tempo.

La giravolta degli hadge fund è conseguenza dell’imminente recessione economica. La Banca d’Inghilterra teme una “apocalisse” economica nel 2022. Scrive ”Il Sole – 24 Ore” del 25 maggio: “Sono gli effetti del mondo post covid, che ha visto l’inflazione salire; e della guerra in Ucraina che ha dato una mazzata al costo dell’energia. Il costo della vita sta salendo a ritmi insostenibili: l’inflazione è attesa al 10% a fine anno, e i redditi delle famiglie sono erosi per pagare le bollette e gli affitti. Con meno consumi, in un’economia che vive di servizi, l’economia rallenta. Ecco che allora hedge fund fiutano la preda e [prendono] posizione. Il Regno Unito [che importa energia] ma anche molto cibo e semilavorati, ha fatto forza su accordi commerciali extra Ue per compensare le perdite del mercato unico. Accordi che finora hanno funzionato anche grazie una valuta forte. Per un paese importatore, significa potere d’acquisto. Ma con una sterlina debole […] diventa molto più costoso. E quindi, a cascata, ancora più inflazione e un’economia ancora più in difficoltà”.

E quindi ancora più vendite sulla valuta da parte dei fondi speculativi. Allora rialzo dei tassi e recessione.

Economia di guerra / armi / dollaro

L’Osservatorio del sulle spese militari italiane (Milex) – fondato nel 2016 con la collaborazione del Movimento Nonviolento, nell’ambito di attività della Rete italiana per il disarmo – il 16 marzo scorso riporta il voto a larghissima maggioranza (391 voti favorevoli su 421 presenti, 19 contrari) di un ordine del giorno collegato al decreto “Ucraina” proposto dalla Lega e sottoscritto da PD, FI, IV, M5S,e FdI. Il voto di tale odg impegna il governo ad avviare l’incremento delle spese per la “Difesa” verso il traguardo del 2% del Pil. Nella parte dispositiva del testo approvato, si legge che tale risultato dovrebbe essere raggiunto “predisponendo un sentiero di aumento stabile nel tempo, che garantisca al Paese una capacità di deterrenza e di protezione”. Mentre nell’immediato bisogna agire per “incrementare alla prima occasione utile il Fondo per le esigenze di difesa nazionale”. Ciò significherebbe, citando le cifre fornite dal ministro Guerini, passare da 25,8 miliardi l’anno attuali (68 milioni al giorno) ad almeno 38 miliardi l’anno (104 milioni al giorno).

L’indicazione di spese militari pari ad almeno il 2% del Pil in ambito Nato deriva da un accordo informale del 2006 dei Ministri della difesa dei Paesi membri dell’Alleanza atlantica, poi confermato e rilanciato al vertice dei Capi di Stato e di Governo del 2014 in Galles.

Era stato deciso che l’obiettivo dovesse essere raggiunto entro il 2024, con un 20% di spesa da destinare ad investimenti in nuovi sistemi d’arma.

La quota indicata del 2% del Pil non ha mai avuto una giustificazione specifica e di natura militare, cioè dettata da esigenze operative, ma è stata vista come spinta alla crescita della spesa. Accanto e oltre l’obiettivo del 2% dei paesi Nato, c’è un ulteriore fondo, “European Defence Fund” (Edf), per cofinanziare progetti transfrontalieri insieme ai bilanci nazionali.

L’Edf (cfr. “Il Fatto Quotidiano” del 26 maggio) ha il compito di assemblare le proposte della lobby delle armi di cui è espressione il Commissario europeo alla Difesa Thierry Breton.

“L’anno scorso Breton ha ufficialmente istituito un comitato di esperti in cui cura a porte chiuse i suoi rapporti personali con i giganti del business della guerra che ambiscono a spartirsi gli 8 miliardi stanziati dall’Edf dal 2021 al 2027”.

Al comitato partecipano 61 enti, la stragrande maggioranza produttori di armi. Tra questi l’italiana Leonardo, le francesi Thales e Safran, la spagnola Indra e Airbus, la società transeuropea con sede in Olanda.

Leonardo è tra i produttori di armi con cifre record per finanziamenti UE, spese di lobbyng ed export.

Nell’elenco dei primi 100 esportatori di armi al mondo, stilato nel dicembre 2021 dall’Istituto internazionale di ricerca sulla pace (Sipri) di Stoccolma, Leonardo occupa il 13º posto con vendite per un valore di 10,6 miliardi. In Europa è terza, alle spalle solo del britannica Bae Systems (22,7 miliardi) e della franco-tedesca Airbus (11,3 miliardi).

L’annunciato riarmo europeo (cfr. “Il Fatto Quotidiano” del 27 maggio), spingerà i Paesi a una ristrutturazione dell’industrie nazionali per sedersi al tavolo della futura Difesa comune, evitando duplicazioni nei programmi. Per questa ragione il governo sta mettendo a punto un “polo militare italiano”, secondo le parole di Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico, che potrebbe passare dalla fusione tra Fincantieri e Leonardo.

Se la guerra darà impulso al progetto di Difesa europea bisognerà presentarsi con gruppi solidi e punti di forza di fronte ai concorrenti e in tale quadro va vista la liquidazione di Giuseppe Bono di Fincantieri, considerato un ostacolo all’operazione (era proprio quel Bono della cena con D’Alema, quest’ultimo scoperto a fare da mediatore per una commessa alla Colombia di armi di Leonardo e Fincantieri).

Germania e armi

“Quello che non è riuscito all’ex presidente USA Donald Trump”, (“Il Fatto” del 5 giugno scorso) ”è riuscito al democratico Joe Biden. La Germania pagherà. Comincerà col fondo straordinario di 100 miliardi di euro [da spendere in 3-4 anni] […] per ammodernare le forze armate tedesche […]. Gran parte di questi soldi verranno usati per comprare armi prodotte da aziende americane, a partire dagli F-35.”

Il Parlamento federale ha approvato il 3 giugno scorso la modifica della Costituzione necessaria per creare, con nuovo debito pubblico, il fondo di 100 miliardi annunciato dal cancelliere Scholz il 27 febbraio. E’ pure confermato l’impegno ad aumentare lo stanziamento annuale per la difesa al 2% del Pil, prodotto che nel 2021 ha superato 3.500 miliardi di euro (il doppio di quello italiano). Il che significa che raggiungere il 2% entro il 2024 vuol dire spendere quasi 17 miliardi in più all’anno. Ne è conseguita naturalmente una grande impennata delle quotazioni delle industrie tedesche di armi, in primis la Rheinmetall, colosso degli armamenti terrestri, e poi la Hensoldt, che produce sensori elettronici per i caccia Eurofighter.

Giulio Da Silva sul “Fatto” cit., ci spiega che appunto buona parte (dei 100 miliardi) verrà usata per armi statunitensi. La Germania in marzo ha deciso di comprare 35 cacciabombardieri F-35 prodotti dalla Lockheed, gli unici in grado di trasportare bombe atomiche. E intende comprare anche 60 elicotteri pesanti da trasporto prodotti dalla Boeing. Dagli USA verranno comprati anche missili della Raytheon.

Se l’80% degli stanziamenti tedeschi sarà mandato altrove (USA in particolare), il 60% delle armi già comprate dai Paesi UE tra il 2007 e 2016 è di provenienza USA (e Israele).

Regime militare USA e dollaro

Il Sipri (Istituto Internazionale di Ricerche per Pace di Stoccolma) ha calcolato che i primi 100 produttori di armi del mercato mondiale hanno totalizzato nel 2020 vendite per 531 miliardi di dollari. Mentre la spesa militare mondiale del 2021 ha superato per la prima volta i 2.000 miliardi, tenendo conto di tutte le voci ad esempio il personale (Grafico 2).

Grafico 2: andamento delle spese militari mondiali dal 1988 al 2021. Fonte Sipri

Sempre nel 2021 il Paese che ha speso di più sono stati gli USA (801 miliardi di dollari), seguiti da Cina (293 miliardi), India (76,6 miliardi), Regno Unito e Russia (Grafico 3).

Grafico 3: la spesa militare per Stato nel 2021. Fonte Sipri

Dati più recenti che tengono conto dell’incremento poderoso delle spese militari nel corso dell’attuale conflitto, proiettano la spesa USA non lontana da 1.000 miliardi nel 2022.

Le aziende statunitensi dominano, sono 41 tra le prime 100.

I dati elaborati dal Sipri sono riferiti al 2020 e solo ai ricavi nelle “armi e servizi militari”. Al primo posto c’è Lockheed Martin: 58,2 miliardi di dollari di ricavi su 65,4 del gruppo; al secondo Raytheon, si è visto primo produttore mondiale di missili, quali i noti Patriot. Produce anche gli Stinger e, con Lockheed, i Javelin anticarro forniti anche, e abbondantemente, all’Ucraina.

Terza è la Boeing, 32,1 miliardi di ricavi nella difesa (produce aerei da caccia e armi da rifornimento).

La prima europea è la britannica Bae Systems, sesta con 24 miliardi di ricavi nel settore delle armi. Di Leonardo abbiamo già detto.

La strategia, ormai quasi ottantennale degli USA, di “costruire nemici”, meglio se stabili e di lunga durata, è propria delle logiche di ogni Stato e regime militare. Serve a più scopi rimasti nel tempo abbastanza invariati.

In primo luogo è utile ai fini interni per compattare la popolazione e ottenere consenso all’azione del regime. L’adesione acritica diffusa, infantile, della gran parte dei nordamericani è “costruita”, direi scientificamente, utilizzando le più moderne tecnologie e un apparato vasto e complesso di personale e competenze permanentemente mobilitati allo scopo. Spesso collegati o addirittura emanazione della CIA e delle altre strutture simili (negli ultimi trent’anni soprattutto nell’est Europa sotto la veste esteriore di Ong).

In secondo luogo è basilare per la per la riproduzione capitalistica USA, cioè per quella parte di essa, assai importante, che si fonda sul complesso militar-industriale. Una spesa militare di quasi 1.000 miliardi all’anno destinata in misura rilevante a commesse verso le proprie aziende militari le quali grazie anche al trasferimento dell’innovazione tecnologica realizzata con fondi pubblici facilitano l’export di armamenti che risulta una voce di primo piano del Pil statunitense e della sua bilancia dei pagamenti (Grafico 4).

Grafico 4: i principali 10 Paesi esportatori di armamenti nel quinquennio 2017-21. Fonte: Sipri.

Qual è lo strumento che si è rivelato storicamente più efficace non solo per il predominio geopolitico, ma per la supremazia valutaria e finanziaria su scala planetaria?

È la forza, la forza militare, la preponderanza strategico-militare. Che è (o è stata) anche preponderanza tecnologico-scientifica.

La forza del dollaro, la possibilità per gli USA di ottenere “in perpetuo” il finanziamento del proprio cronico deficit esterno mediante l’uso dell’avanzo delle bilance dei pagamenti degli altri Stati, cioè con il risparmio mondiale, dipendono dalla (finora) grande affidabilità del dollaro e dall’enorme movimento di capitali planetari verso i porti della finanza americana. E tutto questo discende da varie cose, di cui una è essenziale: la primazia militare.

Per tale ragione le opposizioni – quale quella russa per interposta Ucraina – all’ormai longevo modello statunitense, destano reazioni viscerali e un’aspra volontà di annichilimento dell’oppositore, meglio se attraverso conflitti (degli altri) di lunga durata.

Quindi opporsi ai disegni guerrafondai degli USA, per interposta Nato e con l’assistenza ancillare dell’UE, è opporsi a quel modello e al conseguente signoraggio del dollaro.

Quale Russia?

Due mesi e mezzo fa (a 45 giorni dall’inizio delle ostilità) erano state valutate in più di 600 le multinazionali che si supponeva avessero deciso o annunciato di uscire in tutto o in parte dalla Russia. Nei settori più diversi, da petrolio e hamburger all’high tech, media e banche.

Secondo Jeffrey Sonnenfeld, dell’Università di Yale, gran parte delle imprese in uscita era statunitense ed europea con alcune rilevanti eccezioni asiatiche come Samsung e Toyota.

Del complesso delle aziende alcune si ritirarono (all’aprile scorso 250), altre sospesero le attività (257), altre si ridimensionarono (72), altre ancora presero tempo (99), rinviando gli investimenti. Secondo Sonnenfeld erano 194 i gruppi, per così dire, “arroccati” in Russia. Tra questi la conglomerata USA Koch Industries, Astra-Zeneca, J&J (“Il Sole – 24 Ore”del 9 aprile scorso).

Tra le italiane, l’ad (Amministratore Delegato) di Intesa San Paolo, Carlo Messina, ebbe a dichiarare in aprile che l’impatto sulla banca fosse “assolutamente gestibile”, mentre la presenza in Russia fosse ormai “in fase di revisione strategica”. Intesa “sin dall’inizio della crisi […] non ha perfezionato nuovi finanziamenti con controparti russe e bielorusse e ha interrotto le attività di investimento in strumenti finanziari”. L’esposizione complessiva di Intesa San Paolo verso la Russia era al momento di circa 5,1 miliardi di euro.

Più significativa era l’esposizione di Unicredit Russia (13,3 miliardi), presente al Forum di San Pietroburgo del 15-18 giugno (Spief) con Vadim Aparkhov, membro del consiglio di amministrazione della controllata russa AO Unicredit Bank.

Andrea Orcel, ad di Unicredit, nei giorni a ridosso del Forum, a proposito dell’attività della banca in Russia, ha dichiarato: “La nostra esposizione in Russia è stata gestita in modo razionale: l’abbiamo ridotta, ma svalutare il business non è corretto e non è nemmeno in linea con le sanzioni”. In sostanza Unicredit non intende svendere le sue attività in Russia.

L’ad di Enel, Francesco Starace, nei mesi scorsi a più riprese ebbe a dichiarare che il gruppo “non poteva avere un ulteriore crescita in Russia”, ove controlla tre impianti di generazione a ciclo combinato e due impianti eolici. Tutte le strade per lui “erano percorribili”.

Il 16 giugno scorso (cfr. “Il Sole – 24 Ore” del 17 giugno), prima energy company, Enel ha concluso un accordo di vendita di tutti gli asset in Russia. I compratori sono Lukoil (la più importante società petrolifera russa e una delle principali al mondo) e il Fondo privato di investimento Gazprombank-Frezia, non colpiti dalle sanzioni. Enel ha ceduto per 137 milioni di euro il 56,43% che deteneva di Enel Russia. L’operazione deve ancora ottenere il via libera della Commissione governativa russa per il monitoraggio degli investimenti esteri, autorizzazione che non dovrebbe mancare perché, ci spiega Starace, “i compratori hanno già avuto un via libera quando hanno rilevato le catene di distribuzione che la Shell ha venduto in Russia”.

Gli azionisti di riferimento di Lukoil, fino alle dimissioni in aprile di Alekperov, erano appunto Vagit Alekperov (28,30%) e Leonid Fedun (9,32%). Alekperov era un giovanissimo dirigente d’azienda sovietico, il quale, nella veloce transizione dei primi anni Novanta è diventato dirigente dell’azienda privatizzata e poi socio di riferimento della medesima. Le dimissioni, apparentemente per dissenso con l’ “operazione speciale” in Ucraina, per molti in Russia, sono stati un “escamotage” per salvare Lukoil in caso di esito infausto per la Russia della vicenda Ucraina (e per salvare Alekperov stesso). Non si può dire. Vedremo.

Senz’altro la cessione degli importanti asset dell’Enel in Russia è avvenuta a favore di soggetti privati, uno dei quali è un soggetto finanziario.

Per come si presenta, sembrerebbe un’operazione in continuità con il passato.

Un brevissimo cenno a Eni, la quale ha dichiarato di essere pronta a cedere le quote in Blue Stream (detenute con Gazprom). Fermiamoci qui.

La Duma, la Camera bassa del Parlamento russo, il 25 maggio scorso ha approvato una legge che consente al governo russo di nominare un nuovo management e di fatto espropriare le società (soprattutto USA, giapponesi ed europee) che hanno interrotto la loro attività nel paese, dopo l’inizio del conflitto in Ucraina, non per motivi economici ma “per sentimenti antirussi” (“Il Sole 24 – Ore” del 26 maggio).

Secondo la Yale School of Management, a fine maggio, sono 500 le società che hanno deciso di lasciare la Russia. Esse rappresentano il 63% delle aziende straniere presenti nel territorio russo prima della guerra, con quasi 40 mila dipendenti e un fatturato di circa 7,5 miliardi di euro. “La lista nera stilata da Mosca comprende decine di multinazionali della logistica, dell’industria energetica, delle tecnologie, dell’automotive, della grande distribuzione: da Maersk a Msc; da Shell a Bp; da Volkswagen-Porsche a Toyota, Volvo e Renault; da Apple a Microsoft a Ibm; da McDonald’s a Starbuks, Levi’s, Ikea [etc.]. Molte di queste hanno sospeso le operazioni, […] altre hanno abbandonato tutto, nonostante i notevoli investimenti” (ib.).

Il 25° International Economic Forum di San Pietroburgo (SPIEF)

Il 6 giugno scorso, in un messaggio agli organizzatori del Forum, il presidente Putin ha parlato dei settori industriali in difficoltà. Si tratta in primo luogo del settore automobilistico sul quale pesa (oltre la partenza di importanti case straniere come Renault e Volkswagen), la mancanza, a causa delle sanzioni, di componenti importate. Ciò costringerà le fabbriche a chiudere via via che le scorte si esauriranno. Anche l’industria siderurgica rischia “sostanziali tagli produttivi nel medio termine”.

Entro fine luglio il Governo, secondo una direttiva presidenziale, dovrà definire una nuova impostazione del budget federale per i prossimi anni, che miri a ridare slancio alla crescita.

Sono molte le domande che nascono di fronte alla genericità del progetto di espropriazione delle realtà industriali dei “paesi ostili” e all’altrettale genericità del “nuovo” budget federale. A chi andranno le industrie espropriate o acquistate? Saranno puramente e semplicemente privatizzate? Chi costruirà i loro progetti industriali? Il management proverrà dal bacino del modello economico putiniano dei decenni precedenti? Le aziende pubbliche e/o pubblicizzate che ruolo avranno nella Russia del post-conflitto?

L’intervento di Putin del 17 giugno scorso alla sessione plenaria del Forum, qualche risposta (non molte) l’ha data.

Dividiamo il suo intervento in due parti: quella dell’attacco (fondato e condivisibile) all’Occidente e quella progettuale.

“Gli Stati Uniti si consideravano l’emissario di dio sulla terra ma ora la Russia sta prendendo il proprio posto in un nuovo ordine mondiale le cui regole sono stabilite da Stati forti e sovrani […]. L’era dell’ordine mondiale unipolare fondato sullo strapotere degli USA è finita”.

“Nulla sarà come prima, nulla è eterno” dice poi il presidente della federazione russa. “Il blitzkrieg economico contro la Russia non è riuscito, non aveva alcuna possibilità di riuscire fin dall’inizio”. Ed ora danneggerà di più chi ha imposto le sanzioni “folli e insensate”, una spada a doppio taglio che potrebbe far perdere all’UE più di 400 miliardi di dollari.

“La Russia” prosegue, “non ha alcuna responsabilità” per la crisi economica e per un’inflazione in Occidente le cui radici, sottolinea, risalgono a prima del conflitto. “La Russia perseguirà l’obiettivo di inflazione al 4% […]”.

“Abbiamo sentito parlare tutti di inflazione putiniana […]. Io penso: ma chi ha ideato questa stupidaggine? Chi non sa né leggere né scrivere. Ecco tutto”.

E ancora: “L’UE ha perso la sua sovranità politica, adottando sanzioni che le si sono ritorte contro e i cui costi ricadranno sulle popolazioni […]. Hanno fatto tutto con le loro mani”.

Per l’Europa poi già si intravede “un aggravamento delle disparità, delle tensioni sociali, dei radicalismi […] e in prospettiva il cambio delle elites al potere”.

Passando alla seconda parte, Putin dichiara che la Russia è “pronta ai cambiamenti globali e propone nuove soluzioni alla crisi”. Bisogna trasformare i problemi in possibilità. “Dobbiamo fare un lavoro sistemico, un piano di sviluppo a lungo termine impostato su alcuni principi chiave”.

In primis il rifiuto dell’isolamento: “La Russia si svilupperà come un’economia aperta, non imboccherà la strada dell’autarchia”.

Il secondo elemento fondamentale è l’appello al contributo degli imprenditori privati, come Oleg Deripaska, che ascolta in prima fila.

La Russia “deve essere in grado di produrre tecnologie chiave”. E’ fondamentale raggiungere “l’indipendenza” nelle alte tecnologie.

E, rivolto agli investitori, anche occidentali: “Il nostro Paese ha un enorme potenziale […] investite qui, investite nella creazione di nuove imprese […]”.

Un ruolo centrale nella Russia post-conflitto sembra destinato allora all’impresa privata interna ed esterna. L’inquietante presenza di gente come Deripaska, lascia aperto il dubbio che si tratti solo di un parziale rimescolamento di ceti capitalistici russi sempre interni al modello e alle caratteristiche proprie del ceto dirigente economico-finanziario russo degli ultimi decenni.

Non basta il riferimento, nella relazione, alle indicizzazioni che sono effettive, al mantenimento di una qualche forma di welfare e a misure di tutela dei ceti subalterni, quali i crediti agevolati, i sussidi, mutui a tassi bassi. Ne basta l’importante aumento (10%), operato nei mesi scorsi, di salari e pensioni medio-bassi per fronteggiare l’inflazione. Parte di tutto questo, e in misura certamente minore, lo vediamo anche in Occidente.

Non è visibile al momento, a giudicare dalle parole di Putin, una chiara volontà di costruire un’architettura economico-sociale “alla cinese”, con un ruolo importante deferito al capitale pubblico (e ai soggetti economici pubblici) e con la relativa capacità di orientamento e controllo, se e quando strettamente necessario, da parte del ceto politico nei confronti di un consistente e intraprendente ceto capitalistico.

Nel discorso di Putin al Forum, le aziende a partecipazione statale, per il futuro, sembrano relegate a un ruolo economicamente e politicamente non più rilevante di quello che occupano ora.

Ma esiste un progetto alternativo e di opposizione nella Russia post-bellica, escludendo, il dissenso dei ceti filo-occidentali delle grandi città legati, per rapporti materiali e culturali, alle multinazionali occidentali?

Non è dato sapere con chiarezza. Di certo il partito comunista di Gennadij Zjuganov ha mostrato da tempo subalternità rispetto al disegno e alla prassi politica dei partiti che hanno sostenuto i vari governi russi.

Concludo affermando che sarebbe un’occasione perduta, per la Russia e anche per le masse popolari dell’Occidente, se tutto o gran parte di quello che è successo e sta succedendo fuori dalla Russia e dentro la Russia si risolvesse alla fine in una operazione puramente geopolitica, oltre naturalmente che di difesa delle popolazioni vessate del Donbass e di resistenza all’aggressività della Nato per interposta Ucraina. E non favorisse i “cambiamenti strutturali” economico-sociali e politici (quantomeno verso un’economia mista del tipo cinese), con la comparsa di nuove soggettività, di nuove rivendicazioni e di nuova democrazia sociale, economica e politica.

Firenze, 22 giugno 2022

Raffaele Picarelli

GUERRA IN UCRAINA E NUOVO ORDINE MONDIALE. Gli effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali (I° parte)

Atti del seminario “Guerra in Ucraina: effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali” tenuto da Raffaele Picarelli

Proponiamo gli atti della prima tranche del seminario  “Guerra in Ucraina: effetti nell’economia, nella finanza e nelle relazioni internazionali” tenuto dal dr Raffaele Picarelli al Circolo Arci di San Giuliano Terme sabato 4 giugno suiniziativa del Comitato Popolare Sangiulianese in collaborazione con le seguenti associazioni:Ita-nica di Livorno, il Laboratorio della solidarietà di Livorno, Codice Rosso e la Libera Università Popolare di Livorno.

Raffaele Picarelli, saggista ed esperto di questioni economico-finanziarie e di relazioni internazionali, ha offerto una approfondita e organica disamina a 360° dei processi in corso ormai da anni nell’economia occidentale e degli effetti provocati dalla guerra in Ucraina e, soprattutto, dalle sanzioni comminate alla Russia dai Paesi occidentali che consente di comprendere parte delle verità sottaciute dalla narrazione mediatica main stream, ma anche di avere una quadro organico delle dinamiche geopolitiche che sottostanno al conflitto.

Questo il breve abstract della prima parte della relazione che risulta estremamente utile oltre che per la comprensione degli scenari in essere, anche per fornire strumenti di analisi e di lotta politica per gli attivisti.

“La guerra in Ucraina ha amplificato e accelerato processi già in corso in Occidente, legati agli anni della pandemia ed agli effetti della crisi sistemica cominciata nel 2008.

Inflazione, primi segni di recessione, blocco o difficoltà nelle catene di approvvigionamento di materie prime, semilavorati e merci, aumento dei tassi di interesse, caduta di valore di tutti gli asset finanziari: queste tendenze risultavano già in atto a partire dal terzo trimestre del 2021.

Cosa è successo di veramente nuovo con la guerra? Il tentativo di riaffermare la supremazia del modello Usa di riproduzione capitalistica basato su industria delle armi, controllo dell’energia, forza del dollaro e macroscopica finanziarizzazione a fronte del grave indebolimento del progetto capitalistico europeo a base tedesca, fondato su approvvigionamento energetico a basso costo e modello industriale deflattivo.

Insieme al tentativo di liquidazione della possibilità di integrazione  tra manifattura, tecnologia e finanza europee ed energia, tecnologie e  grandi mercati russo e cinese.

Un disperato e feroce tentativo dell’imperialismo a base angloamericana di “perpetuatio ad infinitum”, a mezzo di una guerra per procura, del proprio dominio mondiale da tempo in crisi e in declino.

Un incontro partecipato da circa 50 persone che è risultato interessante non solo per lo spessore culturale e l’assoluto livello di competenze del relatore ma anche perché ha consentito di fornire un quadro abbastanza nitido delle cause e degli effetti della guerra in Ucraina sull’andamento preesistente dell’economia mondiale.

E’ possibile fruire della videoregistrazione dell’incontro dalla pagina Facebook del Comitato Popolare Sangiulianese tramite il link: https://fb.watch/dvlB6lmcnM/

Il presidente del Comitato Popolare Sangiulianese

Andrea Vento


GUERRA IN UCRAINA E NUOVO ORDINE MONDIALE.

Gli effetti nell’economia, nella finanza, nelle relazioni internazionali

1. Quadro macroeconomico generale e contesto geopolitico

La guerra in Ucraina ha amplificato e accelerato processi già in corso in Occidente, legati al perdurare di numerosi effetti della crisi sistemica emersa nel 2007-2008 e alle ripercussioni della pandemia. Tuttavia, sussistono fatti nuovi e assai profondi che, in questa introduzione, mi limiterò solo ad enunciare.

In primo luogo l’approfondimento della rottura della mondializzazione capitalistica e del suo ineguale incedere per circa un trentennio. Dico approfondimento perché una prima frattura si era precedentemente verificata con la vasta apposizione di dazi commerciali e di altre misure restrittive alla Cina da parte degli USA, a partire dalla seconda metà del decennio passato. E con il covid.

Ora tale processo nel suo incedere delinea un futuro assetto mondiale policentrico, ripartito in macroaree più o meno integrate e conflittuali, policentrismo che si contrappone al trentennale unilateralismo statunitense.

Da parte di Washington è in atto il tentativo, attraverso la guerra per procura (proxy war) che si combatte sul suolo ucraino, di mantenere e riaffermare nel medio/lungo periodo la supremazia del modello USA di riproduzione capitalistica basato sulla guerra permanente, sull’egemonia del complesso militar-industriale, sul controllo dell’energia, sulla centralità internazionale del dollaro, su una macroscopica finanziarizzazione dell’economia e, naturalmente, sul controllo delle catene del valore e delle nuove tecnologie.

Da parte della Russia e di molta parte del “resto del mondo” c’è la volontà di opporsi a tale disegno contrastando il signoraggio del dollaro in nome di nuove centralità valutarie esistenti o progettate (rublo, yuan, sur latinoamericano del progetto del presidente “in pectore” brasiliano Ignacio Lula).

In questo senso la guerra in Ucraina è anche una guerra contro il dollaro. E di riappropriazione del pieno controllo delle proprie materie prime e delle proprie catene di approvvigionamento e valore.

Sussiste inoltre la volontà di opporsi al nuovo “piano Brzezinski” portato avanti dai suoi eredi “politico-intellettuali”, Victoria Nuland e Tony Blinken, che ha come obiettivo l’annichilimento della Russia usando l’Ucraina come ariete: una versione aggiornata della dottrina Brzezinski sull’impossibilità di un “impero euroasiatico senza l’Ucraina”.

Dicevamo che la guerra in Ucraina ha accelerato processi già in corso: inflazione, primi segni di recessione, blocco o difficoltà nelle catene di approvvigionamento di materie prime, semilavorati e merci, aumento dei tassi, caduta di valore degli asset finanziari, costituivano fenomeni già marcatamente presenti a partire dal terzo trimestre del 2021 e dei quali cercheremo di analizzarne lo sviluppo delle rispettive dinamiche nell’ambito del conflitto e tenteremo di delinearne gli scenari post-conflitto.

Ma è solo la Russia l’obiettivo della politica bellica statunitense? Ci pare oltremodo evidente che gli USA, all’interno del campo occidentale, tendano ad indebolire e, se possibile, addirittura a liquidare il progetto europeo a base “renana” che, in termini molto generali, possiamo considerare fondato su un approvvigionamento energetico a basso costo e un modello industriale deflattivo. Con il corollario di liquidare ogni duratura possibilità di integrazione tra manifattura e finanza europea ed energia, materie prime, tecnologia e grandi mercati russo e cinese. E di bloccare ogni espansione e radicamento della manifattura tedesca e italiana nei mercati russo, cinese e “degli altri”.

A tale evidente, e talora dichiarato, intendimento USA di deindustrializzazione europea, l’Europa (con l’eccellenza italiana) ha risposto con il proprio suicidio economico e geopolitico.

Nel contesto dell’analisi, cercherò inoltre di dare rilievo ad un aspetto quasi sempre sottaciuto nella narrazione corrente del conflitto, per interposta Ucraina, USA-Russia: il ruolo importante della finanza, e in particolare della finanza derivata, anche in questa guerra, e della propria capacità di accelerazione bellica di processi preesistenti, concernenti la determinazione e la crescita dei prezzi di energia, materie prime e “inflazione di fondo”.

Di contro, cercherò di analizzare i progetti, ancora “in nuce”, di una reindustrializzazione russa dopo la devastazione eltsiniano-statunitense della manifattura sovietica dei primi anni Novanta e l’instaurazione in Russia di una “monocoltura estrattivista” dell’energia e delle materie prime.

Infine, a fronte del dissolvimento, nelle intenzioni USA, di quella sorta di utopia nata dall’incontro dell’Ostpolitik tedesca (Willy Brandt 1970) e delle ultime leadership sovietiche di una “Europa dagli Urali all’Atlantico”, proporremo l’analisi dei nuovi scenari che sembrano nascere da questa asperrima vicenda bellica.

Con una scelta chiara: opporsi alla “perpetuatio ad infinitum”, a mezzo di una guerra per procura, del dominio dei vecchi “signori del mondo”, ormai in declino, e ampliare lo sguardo verso nuove ed emergenti potenze mondiali.

2. Banca Centrale Russa, rublo, falso default, finanza derivata.

Un nuovo Gold standard in Russia?

Lunedì 18 aprile la governatrice della Banca centrale russa Elvira Nabiullina, abile tessitrice della difesa finanziaria ed economica del rublo, ha affermato in una pubblica audizione che gli effetti delle sanzioni occidentali si sentiranno maggiormente a partire dai mesi estivi e che bisogna attrezzarsi fin da ora per gestirli. L’economia reale russa, ha proseguito, dovrà affrontare “cambiamenti strutturali”.

Era chiaro il riferimento alla ricostruzione di un’industria e di una manifattura nazionali russe, devastate negli anni Novanta del Novecento dagli USA e dai governi Elsin e in parte “appaltate”, negli anni successivi, sia pure in partnership, ad imprese soprattutto europee (automotive, industrie di trasformazione, semilavorati, etc). La primazia energetica e delle materie prime, nell’ultimo decennio dello scorso secolo una vera monocoltura, l’utilizzo dell’eccedenza negli ultimi vent’anni per la ricostruzione di un apparato difensivo caduto in rovina, la permanenza di forme decenti, anche se non eccelse, di welfare nel campo della sanità, dell’istruzione e della previdenza, l’esistenza di eccellenze nel campo della ricerca e della tecnologia, non sono più un modello sufficientemente sostenibile nell’età delle sanzioni e dello scontro generale con l’Occidente. La guerra e le sanzioni richiedono “cambiamenti strutturali”. Una situazione in forte cambiamento, in forte movimento è alle viste. Quale ne sarà l’esito? Non è facile prevederlo. Molto dipenderà dalle forze politiche e dal popolo russo, molto dalle relazioni internazionali. Vedremo.

Ritorniamo adesso all’oggetto di questo paragrafo.

Per la prima volta in assoluto dal 28 febbraio è stato deciso di applicare le sanzioni ad una banca centrale di un paese del G20: la Banca Centrale della Federazione Russa (CBR, Central Bank of Russian Federation, Bank Rossij). L’idea di congelare gli asset della Banca centrale è stata di Draghi, anche se era già stata applicata dagli USA, da ultimo nei confronti dell’Afghanistan, dopo la presa di Kabul da parte dei Talebani.

Le riserve russe alla fine di febbraio 2022 ammontavano a complessivi 630 miliardi di dollari in valute estere (euro, dollari, yen, sterline, yuan), titoli e oro (grafico 1).

Erano lievitate a tale valore dai 368 miliardi di dollari del post-Crimea. Nel 2018 la Banca Centrale russa aveva venduto una notevole quantità di T-bond americani. All’8 aprile le riserve ammontavano a circa 609 miliardi di dollari, di cui 478 in valute estere e 131 in oro. Il 28 febbraio i rappresentanti di Usa, Giappone e UE in una dichiarazione congiunta affermarono di essere determinati ad imporre sanzioni per isolare la Russia dal sistema finanziario internazionale. Oltre il 50% delle riserve della CBR presso altre Banche centrali (soprattutto presso Bundesbank) e anche banche commerciali (soprattutto J.P. Morgan) furono resi indisponibili, non confiscati (in gergo giornalistico “congelati”).

Rimanevano riserve non toccate dalle sanzioni: il 13% delle riserve costituite da yuan (renmimbi/RMB) e il 22% da oro. Restavano esclusi dalle sanzioni i pagamenti in favore delle società russe fornitrici di energia.

Il 13% di yuan è detenuto in Cina. Come è noto, la Cina è l’unico paese emittente di una valuta di riserva a livello internazionale a non aver partecipato alle sanzioni, giudicate prive di “basi legali”.

Sebbene un Paese possa naturalmente detenere le proprie riserve presso le proprie banche, le banche centrali (e i governi) spesso scelgono di mantenere le proprie riserve all’estero per evitare costose transazioni transfrontaliere e ottenere l’accesso diretto ai mercati delle valute estere e del debito estero.

Come è noto le riserve in valute estere sono essenziali per gestire l’inflazione interna e i pagamenti dell’import. L’indisponibilità totale o parziale delle proprie riserve impedisce a una banca centrale di difendere la propria valuta, che tende a deprezzarsi e quindi, negli acquisti dall’estero, a “importare inflazione” all’interno del Paese. Crollo del rublo, inflazione elevata all’interno della Russia, sconvolgimenti complessivi del sistema economico: era ciò a cui miravano i Paesi che hanno dichiarato e applicato le sanzioni.

Grafico 1: Valore in miliardi di Dollari e luogo di deposito delle riserve valutarie della Banca Centrale Russa

Sul rublo e sul debito estero russo torneremo fra poco.

Ora alcuni cenni a questioni di contorno, comunque rilevanti.

E’ noto che in campo commerciale, a metà marzo, l’Occidente e il Giappone hanno revocato alla Russia lo status di “nazione più favorita”, ossia hanno revocato l’uguale trattamento riservato ad ogni Paese membro del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), con la conseguenza che ora le merci russe possono essere soggette a dazi aggiuntivi.

UE, Regno Unito e Stati Uniti hanno vietato l’export in Russia di una vasta quantità di beni strumentali, di uso comune e di lusso e l’import di molti prodotti fra cui, importanti, i prodotti in ferro e in acciaio. Sono chiusi alle navi russe i porti di UE, UK, USA, Canada e Nuova Zelanda. E’ stato posto il divieto di noleggiare navi di altri Paesi e di assicurare le merci in viaggio.

I dati del commercio estero russo relativi al primo trimestre 2022 (che risentono solo in parte delle sanzioni) evidenziano conseguentemente un calo dell’8% del valore dell’export e del 17% dell’import rispetto agli ultimi tre mesi del 2021.

La previsione del FMI, coincidente con quella della Banca centrale russa, è di un calo del PIL russo di quest’anno tra il 7,5 e l’8,5%.

In campo energetico discuteremo più avanti della sesta tornata di sanzioni aventi ad oggetto il petrolio e i prodotti petroliferi. Diciamo ora che gli USA, forti della scarsa dipendenza dalla Russia, hanno imposto un divieto totale dell’acquisto di petrolio, prodotti petroliferi, gas, carbone russi. Il Regno Unito ha annunciato lo stop al petrolio entro la fine dell’anno (periodo, vedremo, che più o meno coincide temporalmente con quello UE).

Prima della sesta tornata di sanzioni, l’UE, importatrice nel 2021 del 25% del grezzo, per un valore superiore ai 70 miliardi, il 40% del gas (55% per la Germania) pari a 16,3 miliardi e il 49% del carbone dalla Russia, aveva trovato l’accordo solo sul divieto di importazione del carbone, a partire da agosto.

E’ il caso di fare appena un cenno all’esclusione delle principali banche russe dal sistema di pagamento internazionale SWIFT (alle prime sette si è aggiunta all’inizio di giugno la Sberbank), per lo scambio di informazioni e pagamenti tra istituzioni finanziarie (conti accentrati, conti reciproci tra banche, conti su terze banche, etc.). Diventa molto difficile effettuare o ricevere pagamenti da banche occidentali, tranne le eccezioni come Gazprombank, perché legata alle fonti energetiche essenziali per l’Occidente. Come è appena il caso di dire che sono state prese una serie di misure mirate a escludere la Russia dal mercato dei capitali (collocamenti nei paesi occidentali, prestiti, etc.).

Ma torniamo al rublo.

A partire dal 24 febbraio il rublo ha cominciato a deprezzarsi fino a giungere al suo punto più basso il 7 marzo: per un dollaro occorrevano 139 rubli. Era questo il primo effetto di quella congerie di provvedimenti dei primi giorni di guerra (downgrade del debito russo, sanzioni ed altro). Era diventato, diceva Biden, una valuta “rubble”, cioè spazzatura, e valeva meno di un “cent”.

Ai primi di giugno il rublo è la migliore valuta del 2022, quella con il maggior rialzo nei confronti del dollaro: oltre il 14% (seguono il real brasiliano e il peso messicano). Sono negative rispetto al dollaro tutte le altre valute. Perché?

Per prima cosa l’avanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti russa.

A fine 2022, secondo la rivista tedesca “Die Welt”, potrebbe superare i 250 miliardi di dollari. Grazie al rialzo dei prezzi di gas e petrolio, leggiamo sull’“Economist”, nel primo trimestre del 2022 le entrate da idrocarburi sono aumentate dell’80% anno su anno. Tra gennaio e aprile il surplus commerciale è stato di 96 miliardi di dollari, quasi quadruplicato rispetto ai 27 miliardi di un anno fa. E’ il surplus più alto dal 1994. Rammentiamo che l’“Economist” è controllato al 43% da Exor, la finanziaria della famiglia Agnelli, la stessa che possiede l’89% di Gedi che edita “La Repubblica”, “La Stampa” ed il “Secolo XIX”.

Sempre l’“Economist” afferma che se è vero che i prezzi al consumo in Russia sono aumentati (17,5% a maggio) per il calo dell’offerta dovuto al ritiro di molte aziende occidentali, è anche vero che i consumi elettrici sono diminuiti di poco e che regge la domanda per beni di consumo.

Al momento le condizioni dell’economia reale fanno apparire eccessive le previsioni degli enti occidentali di una caduta del PIL russo (dal 10 al 15%) e le stesse previsioni del Ministero russo dello Sviluppo Economico del 7,8% nel 2022.

Ma ci sono altri fattori alla base dell’apprezzamento del rublo:

A) Il controllo sul movimento dei capitali. E’ stato introdotto il limite di 10 mila dollari, poi portato a 50 mila per persona al mese, al trasferimento di valuta estera verso Paesi terzi. Che il limite sia stato elevato testimonia che cominciano ad affiorare preoccupazioni per la forza del rublo, soprattutto in relazione alle società orientate all’export che spendono in rubli sul mercato interno.

Le aziende russe che incassano valuta estera devono convertirne l’80% in rubli entro tre giorni.

Il meccanismo del doppio conto delle imprese straniere importatrici di energia russa presso Gazprombank porta alla conversione del 100% della valuta pervenuta dagli acquirenti esteri, essenzialmente per l’acquisto di gas e petrolio.

B) L’ancora alto tasso di interesse passato dal 20 agli inizi della guerra, gradualmente al 17, al 14 e infine all’11%. La Banca Centrale russa in data 9 giugno ha ulteriormente ridotto il tasso di riferimento al 9,5%.

La CBR ha dichiarato che il tasso d’inflazione è calato e il rallentamento della crescita ad aprile è stato inferiore al previsto. Anche se l’economia russa ha ancora davanti diversi venti contrari. L’alto tasso iniziale ha frenato la fuoriuscita dei capitali. Dopo il taglio di tre punti del 26 maggio il valore del rublo è sceso di quasi il 10% per poi risalire. Il taglio del 9 giugno ha comportato una perdita di oltre il 3% della valuta russa. L’inflazione tendenziale, pur scesa al 17,5% in maggio (e ridotta al 17% i primi di giugno), è coperta al 60% dell’aumento medio del 10% di salari e pensioni medio-bassi (misura strutturale, non “una tantum”).

C) Rapporto ottimale debito/PIL sotto il 20%.

La forza prospettica della valuta russa risiede in altri fattori.

La Banca centrale russa all’inizio del conflitto disponeva di 130 miliardi di dollari di riserve auree. Negli ultimi mesi l’Istituto ha avviato nuovi acquisti di oro dalle banche locali: prima al prezzo fisso di 5000 rubli al grammo e successivamente a un valore negoziato. E’ questo il primo passo importante, come più volte il governo ha dichiarato, verso una convertibilità, quantomeno parziale, del rublo in oro.

La Russia sta accumulando riserve auree che potrebbero costituire in tutto o in parte una garanzia per la sua moneta. Il rublo in tal modo potrebbe avere grandi possibilità di essere accettato come valuta di pagamento nelle transazioni internazionali.

Non dimentichiamo che la Russia è il terzo produttore e il quinto detentore mondiale di oro. Il regolamento in valute locali (e non in dollari) degli scambi si è accentuato in questi mesi (l’India paga in rupie il petrolio che acquista a prezzi scontati dalla Russia). La Russia, per tale ragione, vuole una valuta forte che appaia più stabile anche all’esterno.

È lecito pensare che non sia così lontana dall’orientamento della leadership russo-cinese una nuova Bretton Woods con baricentro spostato nelle economie provviste di materie prime minerarie, energetiche e agricole? Certo che possiamo pensarlo perché tali sono in misura diversa la Russia e la Cina, dotate tra l’altro di tecnologie avanzate.

E’ fantasia e pura illusione oppure è il senso di individuare i processi qualitativi per come si delineano a una osservazione attenta e interessata?

Potrebbe essere questo, “in nuce”, un elemento del Nuovo Ordine Mondiale con baricentro in Russia, Cina e nei Paesi che non hanno aderito alle sanzioni e non le hanno sostenute.

Il debito estero russo verso i paesi “ostili” ammonta a 49 miliardi dollari. A questo va aggiunto il debito privato che è di molto superiore (non ne conosco l’ammontare. Ho letto di 150 – 200 miliardi di dollari), con ampio flusso cedolare che coinvolge principalmente Gazprom e Rosneft. Per il servizio del debito estero teoricamente basterebbe alla Russia il 13% delle riserve denominate in yuan, ma ovviamente ora più che mai esse sono strategiche per mantenere aperto un legame tra la Russia e il resto del mondo. Un utilizzo delle riserve significherebbe dirottare le entrate energetiche (un miliardo di euro al giorno) per il servizio del debito anziché per l’acquisto di risorse necessarie all’economia russa. E questo sarebbe un controsenso. Da qui la battaglia quasi completamente vinta dalla Russia per il pagamento del gas in rubli (fanno eccezione Olanda, Danimarca, Polonia, Finlandia e Bulgaria, alle quali le forniture sono state sospese).

Le sanzioni imposte alla Russia dagli USA, in un primo momento erano accompagnate da una serie di “licenze generali” che hanno consentito lo svolgimento di transazioni altrimenti vietate. La licenza “9c” ha permesso ai russi, a marzo, di utilizzare i fondi in dollari del Ministero delle Finanze presso la banca J.P. Morgan di New York e trasferirli ai creditori. Si trattava di titoli a scadenza e cedole su obbligazioni. A inizio aprile il provvedimento di “licenza” veniva modificato dagli USA e i conti venivano definitivamente bloccati. Giungevano a scadenza a fine aprile un eurobond denominato in dollari e un coupon su obbligazione con scadenza aprile 2042, per un totale di 649,2 milioni di dollari. Il rischio di default era evidente con tutte le sue conseguenze (assai prolungato e definitivo non accesso ai mercati, difficoltà estrema di rifinanziamento, suoi costi esorbitanti, diventare un “paria” della comunità finanziaria oltre l’inaccettabilità politica per la Russia dell’insolvenza “coattiva”).

In questa circostanza la Russia ha utilizzato, per pagare, i conti della società finanziaria “Dom. R F” non sottoposta a sanzioni.

Tuttavia, la “licenza” è scaduta il 24 maggio scorso e non è stata rinnovata dagli USA. La Russia ha offerto il pagamento in anticipo sulla scadenza (27 maggio). Nulla da fare. Era stata tolta alla Russia la possibilità di pagare. Sta ora decorrendo il periodo di “comporto” di 30 giorni, decorso inutilmente il quale si sarà verificato l’“evento” default.

Intanto, nella concitazione delle prime settimane di guerra, era stato permesso a fondi ed hedge, statunitensi e non solo, di portare a casa i soldi degli interessi e delle cedole su bond emessi dalla Banca Centrale russa, dal Fondo sovrano per gli investimenti e dal Ministero delle Finanze. L’“evento” default “artificiale”, provocato dagli USA, consentirebbe ai creditori, soprattutto statunitensi, di attivare i CDS.

“Abbiamo sia i soldi che il desiderio di effettuare i pagamenti”, ha dichiarato a fine maggio il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov. E questo vuole esserci impedito. “Poiché la mancata estensione della licenza ci rende impossibile rispettare il servizio del debito in dollari, i pagamenti saranno effettuati nella valuta russa”, con la possibilità di convertirla in un secondo momento nella valuta di partenza dell’emissione utilizzando un Istituto finanziario russo come agente di pagamento.

Tuttavia, con l’ultimo pacchetto di sanzioni adottate formalmente il 3 giugno scorso (quelle della sesta tornata), l’UE si è perfettamente allineata agli USA. “[Si tratta] di una decisione che avvicina ulteriormente la Russia al default, malgrado la determinazione del governo [russo] di rispettare gli impegni presi […]. Bruxelles ha infatti aggiunto alla lista di individui e organizzazioni sanzionate il National Settlement Depository, organismo a cui il Ministero delle Finanze russo contava di affidare i pagamenti sugli eurobond in scadenza, comprese due emissioni che Mosca ha cercato di rimborsare entro il 27 maggio scorso. Pagamenti bloccati, tuttavia: al termine del periodo di grazia, a fine giugno, scatterà il default” (“Il Sole 24 Ore” del 4 giugno scorso).

Grande soddisfazione della finanza statunitense ed europea aver impedito il pagamento a un debitore che ha fatto tutto il possibile per pagare.

Ma questo perché? Torniamo ai CDS.

Si può dire che le due deroghe avevano fatto lievitare i CDS sulle obbligazioni e permesso ai possessori statunitensi ed europei di incassare cedole e capitale e poi garantirsi e attivare la protezione.

Cosa sono i CDS? Il “credit default swap” (CDS) è uno swap, cioè uno strumento derivato, che ha la funzione di trasferire il rischio di credito, cioè il rischio di insolvenza. È il più comune dei derivati creditizi, quello che il megafinanziere Warren Buffet, proprietario di una pluralità di fondi, hedge e quant’altro, chiamò “l’arma di distruzione di massa” della finanza.

Lo schema di base di un CDS è il seguente: un investitore A vanta un credito nei confronti di una controparte debitrice B e vuole proteggersi dal rischio che B non paghi e il credito diventi inesigibile. A tal fine si rivolge a una terza parte C, disposta ad accollarsi tale rischio. C agisce come se fosse una assicurazione, e nel gergo tecnico è definito “protection seller” ovvero “venditore di protezione”.

La parte A (protection buyer) si impegna a versare a C un importo periodico il cui ammontare è il prezzo della copertura. In cambio di tale flusso di cassa, il venditore di protezione C (di solito una banca, una società finanziaria, un buyer) si impegna a rimborsare ad A il valore nominale del titolo di credito nel caso in cui il debitore B diventi insolvente (evento definito “credit default”).

Lo stesso discorso vale per il mancato pagamento di cedole e/o interessi. I CDS, nati per scambiare protezione come avviene per le valute o le materie prime, sono utilizzabili, come ogni derivato, soprattutto per scopi speculativi, e tale era fin dall’inizio lo scopo della banca d’affari J. P. Morgan, che li creò nei primi anni Novanta.

Nel mercato dei CDS è pratica comune che si possa speculare comprando protezione dal rischio pur non avendo nulla da proteggere, ma aspettandosi che il rischio aumenti, magari esagerandolo o addirittura costruendolo artificialmente e dunque la protezione acquistata valga man mano di più. I CDS si comprano nei mercati “over the counter” (OTC), mercati paralleli fuori borsa che rappresentano una fetta importante degli scambi finanziari alternativi alle borse ufficiali. Tali mercati sono gestiti da un’associazione privata chiamata ISDA (International Swaps and Derivatives Association), con più di 800 aderenti (banche, assicurazioni, società finanziarie, governi, enti sovranazionali). Tale associazione è fuori da ogni controllo politico.

I CDS sulla Russia, sull’onda delle reiterate dichiarazioni dei media e sulle cattive notizie propalate riguardanti il pagamento, sono cresciuti di valore. La parte A, a questo punto, potrà rivendere i CDS sul mercato OTC prima della loro naturale scadenza, lucrando la differenza tra prezzo di acquisto e prezzo di vendita. Oppure può acquistare il “sottostante”, cioè i titoli garantiti, per esempio BTP, pagandoli però meno, perché le voci o le dichiarazioni di imminente default dell’ente debitore ne hanno svilito il prezzo (per esempio 40 su 100 di nominale rimborsabile). Ma poi appunto, essendo garantito il nominale, una volta avvenuto il default, A riceverà dal “protection seller” l’intero, nel nostro caso 100. Anche se non è il caso della Russia, il cui default, se ci sarà, sarà causato da un atto arbitrario e illegale, le speculazioni per esempio sul debito sovrano di un Paese, possono accelerare, come è accaduto molte volte in passato, la crisi del paese stesso e il suo tracollo, alla maniera di una profezia autoavverantesi.

Ciò, su scala assai larga, è avvenuto con il default del debito sovrano greco.

Ai possessori dei CDS, soprattutto le grandi istituzioni finanziarie, è stata destinata una parte significativa dei prestiti della famigerata “troika” (BCE, FMI, UE), finalizzata al rimborso dei titoli garantiti.

Regista di tale operazione fu, come è noto, l’allora governatore della BCE Mario Draghi, mentre vittima della stessa fu la gran parte della popolazione greca, portata alla fame.

Firenze, 13 giugno 2022 Raffaele Picarelli

L’imminente frattura globale causata dallo scontro tra diversi ordini economici

Intervista a Michael Hudson

Il post che segue è la traduzione di un’intervista al prof. Michael Hudson pubblicata su The Unz Review. Un’altra analisi essenziale per comprendere gli avvenimenti epocali che stiamo vivendo e orientarci in un mondo che si fa sempre più complesso, oltre che “grande e terribile”. L’originale lo puoi trovare qui.

Prof. Hudson, è uscito il suo nuovo libro “Il destino della civiltà”. Questo ciclo di conferenze sul capitalismo finanziario e la nuova guerra fredda presenta una panoramica della sua particolare prospettiva geopolitica.

Lei parla di un conflitto ideologico e materiale in corso tra Paesi finanziarizzati e deindustrializzati come gli Stati Uniti contro le economie miste di Cina e Russia. In che cosa consiste questo conflitto e perché il mondo si trova in questo momento in un “punto di frattura” particolare, come afferma il suo libro?

L’attuale frattura globale sta dividendo il mondo tra due diverse filosofie economiche: Nell’Occidente USA/NATO, il capitalismo finanziario sta deindustrializzando le economie e ha spostato l’industria manifatturiera verso la leadership eurasiatica, soprattutto Cina, India e altri Paesi asiatici, insieme alla Russia che fornisce materie prime di base e armi.

Questi Paesi sono un’estensione di base del capitalismo industriale che si sta evolvendo verso il socialismo, cioè verso un’economia mista con forti investimenti governativi nelle infrastrutture per fornire istruzione, assistenza sanitaria, trasporti e altre necessità di base, trattandole come servizi di pubblica utilità con servizi sovvenzionati o gratuiti per queste necessità.

Nell’Occidente neoliberale degli Stati Uniti e della NATO, invece, questa infrastruttura di base viene privatizzata come un monopolio naturale che estrae rendite.

Il risultato è che l’Occidente USA/NATO è rimasto un’economia ad alto costo, con le spese per la casa, l’istruzione e la sanità sempre più finanziate dal debito, lasciando sempre meno reddito personale e aziendale da investire in nuovi mezzi di produzione (formazione del capitale).

Ciò pone un problema esistenziale al capitalismo finanziario occidentale: come può mantenere il tenore di vita di fronte alla deindustrializzazione, alla deflazione del debito e alla ricerca di rendite finanziarizzate che impoveriscono il 99% per arricchire l’1%?

Il primo obiettivo degli Stati Uniti è dissuadere l’Europa e il Giappone dal cercare un futuro più prospero in legami commerciali e di investimento più stretti con l’Eurasia e l’Organizzazione di Cooperazione di Shanghai (SCO). Per mantenere l’Europa e il Giappone come economie satelliti, i diplomatici statunitensi insistono su un nuovo muro di Berlino economico fatto di sanzioni per bloccare il commercio tra Est e Ovest.

Per molti decenni la diplomazia statunitense si è intromessa nella politica interna europea e giapponese, sponsorizzando funzionari filo-neoliberali alla guida dei governi. Questi funzionari sentono che il loro destino (e anche la loro fortuna politica personale) è strettamente legato alla leadership statunitense. Nel frattempo, la politica europea è diventata fondamentalmente una politica della NATO gestita dagli Stati Uniti.

Il problema è come tenere il Sud globale – America Latina, Africa e molti Paesi asiatici – nell’orbita USA/NATO. Le sanzioni contro la Russia hanno l’effetto di danneggiare la bilancia commerciale di questi Paesi, aumentando drasticamente i prezzi del petrolio, del gas e dei prodotti alimentari (nonché di molti metalli) che devono importare. Nel frattempo, l’aumento dei tassi di interesse statunitensi sta attirando i risparmi finanziari e il credito bancario verso i titoli denominati in dollari. Questo ha fatto aumentare il tasso di cambio del dollaro, rendendo molto più difficile per i Paesi della SCO e del Sud globale pagare il servizio del debito in dollari in scadenza quest’anno.

Ciò impone a questi paesi una scelta: o rimanere senza energia e cibo per pagare i creditori stranieri – anteponendo così gli interessi finanziari internazionali alla loro sopravvivenza economica interna – o andare in default sul debito, come è successo negli anni ’80 dopo che il Messico ha annunciato nel 1982 di non essere in grado di pagare gli obbligazionisti stranieri.

Come vede l’attuale guerra/operazione militare speciale in Ucraina? Quali conseguenze economiche prevede?

La Russia ha messo in sicurezza l’Ucraina orientale russofona e la costa meridionale del Mar Nero. La NATO continuerà a “punzecchiare l’orso” con sabotaggi e nuovi attacchi in corso, soprattutto da parte di combattenti polacchi.

I Paesi della NATO hanno scaricato in Ucraina le loro armi vecchie e obsolete e ora devono spendere somme immense per modernizzare il loro hardware militare. Il deflusso dei pagamenti al complesso militare-industriale statunitense eserciterà una pressione al ribasso sull’euro e sulla sterlina britannica – il tutto in aggiunta ai loro deficit energetici e alimentari in aumento. Pertanto, l’euro e la sterlina si dirigono verso la parità con il dollaro statunitense. L’euro ci è quasi arrivato (circa 1,07 dollari). Ciò significa un forte aumento dell’inflazione dei prezzi in Europa.

Ho letto e sentito informazioni contrastanti sulle nuove sanzioni. Alcuni esperti, sia a Est che a Ovest, ritengono che questo danneggerà enormemente l’economia nazionale della Federazione Russa. Altri esperti tendono a credere che si ritorceranno contro o avranno un enorme effetto boomerang sui Paesi occidentali.

La politica degli Stati Uniti è quella di lottare contro la Cina, sperando di separare le regioni occidentali degli Uiguri e di dividere la Cina in Stati più piccoli. A tal fine, è necessario eliminare il sostegno militare e di materie prime della Russia alla Cina – e, a tempo debito, suddividerla in una serie di Stati più piccoli (le grandi città occidentali, la Siberia settentrionale, un fianco meridionale, ecc.)

Le sanzioni sono state imposte nella speranza di rendere le condizioni di vita dei russi così sgradevoli da spingerli a cambiare regime. L’attacco della NATO in Ucraina è stato progettato per prosciugare militarmente la Russia – facendo sì che i corpi degli ucraini esaurissero le scorte di proiettili e bombe della Russia, dando le loro vite semplicemente per assorbire le armi russe.

L’effetto è stato quello di aumentare il sostegno russo a Putin, proprio il contrario di ciò che si voleva ottenere. C’è una crescente disillusione nei confronti dell’Occidente, dopo aver visto ciò che gli Harvard Boys hanno fatto alla Russia quando gli Stati Uniti hanno appoggiato Eltsin per creare una classe cleptocratica interna che ha cercato di “incassare” le sue privatizzazioni vendendo all’Occidente azioni del petrolio, del nichel e dei servizi pubblici, per poi stimolare gli attacchi militari dalla Georgia e dalla Cecenia. È opinione comune che la Russia stia compiendo una svolta a lungo termine verso est anziché verso ovest.

L’effetto delle sanzioni e dell’opposizione militare degli Stati Uniti alla Russia è stato quindi quello di imporre una cortina di ferro politica ed economica che ha costretto l’Europa a dipendere dagli Stati Uniti, mentre ha spinto la Russia a unirsi alla Cina invece di separarle. Nel frattempo, il costo delle sanzioni europee contro il petrolio e i prodotti alimentari russi – a tutto vantaggio dei fornitori di gas LNG e degli esportatori agricoli statunitensi – minaccia di creare un’opposizione europea a lungo termine alla strategia globale unipolare degli Stati Uniti. È probabile che si sviluppi un nuovo movimento “Ami go home”.

Per l’Europa, però, il danno è già stato fatto e né la Russia né la Cina probabilmente confidano che i funzionari governativi europei possano resistere alla corruzione e alle pressioni personali esercitate dall’interferenza statunitense.

Qui in Germania sto ascoltando il nuovo ministro dell’Economia, Robert Habeck del partito dei Verdi, che parla di attivare l’”emergenza gas” federale e chiede risorse agli Emirati (questo “accordo” sembra già fallito, dicono le notizie). Vediamo la fine del North Stream II e l’enorme dipendenza di Berlino e Bruxelles dalle risorse russe. Come si concluderà tutto questo?

In effetti, i funzionari statunitensi hanno chiesto alla Germania di commettere un suicidio economico e di provocare una depressione, un aumento dei prezzi al consumo e un abbassamento del tenore di vita. Le aziende chimiche tedesche hanno già iniziato a chiudere la produzione di fertilizzanti, dato che la Germania ha accettato le sanzioni commerciali e finanziarie che le impediscono di acquistare il gas russo (la materia prima per la maggior parte dei fertilizzanti). E le aziende automobilistiche tedesche stanno soffrendo per i tagli alle forniture.

Queste carenze economiche europee sono un enorme vantaggio per gli Stati Uniti, che stanno realizzando enormi profitti grazie al petrolio più costoso (che è controllato in gran parte da compagnie statunitensi, seguite da compagnie petrolifere britanniche e francesi). Il rifornimento di armi che l’Europa ha donato all’Ucraina è anche una manna per il complesso militare-industriale statunitense, i cui profitti sono in aumento.

Ma gli Stati Uniti non stanno riciclando questi guadagni economici verso l’Europa, che sembra la grande perdente.

I produttori di petrolio arabi hanno già respinto le richieste degli Stati Uniti di far pagare meno il loro petrolio. Si prevede che saranno i primi a guadagnare dall’attacco della NATO sul campo di battaglia per procura dell’Ucraina.

Sembra improbabile che la Germania possa semplicemente restituire alla Russia il Nord Stream 2 e le affiliate di Gazprom che hanno condotto scambi commerciali con la Germania. La fiducia è venuta meno. E la Russia ha paura di accettare pagamenti dalle banche europee dopo il furto di 300 miliardi di dollari delle sue riserve estere. L’Europa non è più economicamente sicura per la Russia.

La domanda è quanto presto la Russia smetterà di rifornire l’Europa.

Sembra che l’Europa stia diventando un’appendice dell’economia statunitense, sopportando di fatto il peso fiscale della Guerra Fredda 2.0 americana, senza alcuna rappresentanza politica negli Stati Uniti. La soluzione logica è che l’Europa si unisca agli Stati Uniti dal punto di vista politico, rinunciando ai propri governi ma ottenendo almeno qualche europeo nel Senato e nella Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti.

Quale ruolo giocano a) la nuova guerra fredda e b) il capitalismo finanziario neoliberale nell’attuale guerra tra Russia e Ucraina? Secondo la vostra recente ricerca.

La guerra USA/NATO in Ucraina è la prima battaglia di quello che sembra un tentativo ventennale di isolare l’Occidente dell’area del dollaro dall’Eurasia e dal Sud globale. I politici statunitensi promettono di mantenere la guerra in Ucraina a tempo indeterminato, sperando che questa possa diventare il “nuovo Afghanistan” della Russia. Ma questa tattica sembra ora minacciare di diventare l’Afghanistan dell’America. È una guerra per procura, il cui effetto è quello di bloccare la dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti come oligarchia cliente, con l’euro come valuta satellite del dollaro.

La diplomazia statunitense ha cercato di mettere fuori gioco la Russia in tre modi principali. In primo luogo, isolandola finanziariamente escludendola dal sistema di compensazione bancaria SWIFT. La Russia ha risposto passando senza problemi al sistema di compensazione bancaria della Cina.

La seconda tattica è consistita nel sequestrare i depositi russi nelle banche statunitensi e i titoli finanziari americani. La Russia ha risposto raccogliendo gli investimenti statunitensi ed europei in Russia a basso costo, mentre l’Occidente li scaricava.

La terza tattica è stata quella di impedire ai membri della NATO di commerciare con la Russia. L’effetto è stato che le importazioni russe dall’Occidente sono diminuite, mentre le esportazioni di petrolio, gas e cibo sono aumentate. Questo ha fatto aumentare il tasso di cambio del rublo, invece di danneggiarlo. Mentre le sanzioni bloccano le importazioni russe dall’Occidente, il Presidente Putin ha annunciato che il suo governo investirà pesantemente nella sostituzione delle importazioni. L’effetto sarà una perdita permanente dei mercati russi per i fornitori e gli esportatori europei.

Nel frattempo, i dazi di Trump contro le esportazioni europee negli Stati Uniti rimangono in vigore, lasciando all’industria europea opportunità commerciali sempre più ridotte. La Banca Centrale Europea potrebbe continuare a comprare azioni e obbligazioni europee per proteggere la ricchezza dell’1%, ma soprattutto taglierà la spesa sociale interna per rispettare il limite del 3% di deficit di bilancio che l’eurozona si è imposta.

Nel medio e lungo periodo, le sanzioni USA/NATO sono quindi rivolte principalmente contro l’Europa. E gli europei non sembrano nemmeno rendersi conto di essere le prime vittime di questa nuova guerra economica degli Stati Uniti per il dominio energetico, alimentare e finanziario.

In Germania lo stop al progetto energetico Nord Stream II è ancora una grande questione politica. Nel suo recente articolo online “Il dollaro divora l’euro” lei ha scritto: “È ormai chiaro che l’odierna escalation della nuova guerra fredda è stata pianificata più di un anno fa. Il piano dell’America di bloccare il Nord Stream 2 era in realtà parte della sua strategia per impedire all’Europa occidentale (“NATO”) di cercare la prosperità attraverso il commercio e gli investimenti reciproci con la Cina e la Russia”. Può spiegare questo ai nostri lettori?

Quello che lei definisce “blocco del Nord Stream 2” è in realtà una politica tesa a favorire i prodotti americani. Gli Stati Uniti hanno convinto l’Europa a non acquistare sul mercato al prezzo più basso, ma a pagare fino a sette volte di più per il gas proveniente dai fornitori statunitensi di LGN e a spendere 5 miliardi di dollari per l’espansione della capacità portuale, che non sarà disponibile prima di un anno.

Questo minaccia un interregno molto scomodo per la Germania e gli altri Paesi europei che seguono i dettami degli Stati Uniti. In sostanza, i parlamenti nazionali sono ora asserviti alla NATO, le cui politiche sono gestite da Washington.

Un prezzo che l’Europa pagherà, come già detto, è il calo del tasso di cambio rispetto al dollaro americano. È probabile che gli investitori europei spostino i loro risparmi e investimenti dall’Europa agli Stati Uniti per massimizzare i guadagni in conto capitale ed evitare semplicemente il calo dei prezzi delle loro azioni e obbligazioni misurati in dollari.

Prof. Hudson, diamo un’occhiata agli ulteriori sviluppi in Germania. A maggio il Parlamento tedesco – Bundestag – ha approvato una nuova legge: I legislatori tedeschi hanno approvato la possibilità di espropriare le aziende energetiche. Ciò potrebbe consentire al governo di Berlino di mettere le aziende energetiche sotto amministrazione fiduciaria se non sono più in grado di svolgere i loro compiti e se la sicurezza dell’approvvigionamento è a rischio. Secondo REUTERS, la legge rinnovata – che deve ancora passare la Camera alta del Parlamento – potrebbe essere applicata per la prima volta se non si trova una soluzione sulla proprietà della raffineria di petrolio PCK Refinery a Schwedt/Oder (Germania dell’Est), che è di proprietà della società statale russa Rosneft.

Sembra che l’Europa e l’America confischeranno gli investimenti russi nei loro Paesi e venderanno (o faranno confiscare dalla Russia) gli investimenti dei Paesi NATO in Russia. Ciò significa un distacco dell’economia russa dall’Occidente e un legame più stretto con la Cina, che sembra essere la prossima economia a essere sanzionata dalla NATO, in quanto quest’ultima diventerà un’Organizzazione del Trattato del Pacifico Orientale che coinvolgerà l’Europa nel confronto nel Mar Cinese.

Sarei sorpreso se la Russia riprendesse a vendere petrolio e gas all’Europa senza essere rimborsata per ciò che l’Europa (e anche gli Stati Uniti) hanno sequestrato. Questa richiesta aiuterebbe l’Europa a fare pressione sugli Stati Uniti affinché restituiscano i 300 miliardi di dollari di riserve estere di cui si sono impossessati.

Ma anche dopo tale accordo di restituzione e risarcimento, è improbabile che il commercio riprenda. Si è verificato un cambiamento di fase, un cambiamento di coscienza su come il mondo si stia dividendo sotto gli attacchi diplomatici degli Stati Uniti sia agli alleati che agli avversari.

La mia domanda sarebbe: Il socialismo è un tema importante nel suo nuovo libro. Qual è la sua opinione sulle misure “socialiste” adottate ora da un Paese capitalista come la Germania?

Un secolo fa si pensava che lo “stadio finale” del capitalismo industriale fosse il socialismo. Esistevano diversi tipi di socialismo: Socialismo di Stato, socialismo marxiano, socialismo cristiano, socialismo anarchico, socialismo libertario. Ma ciò che si verificò dopo la Prima Guerra Mondiale fu l’antitesi del socialismo. Era il capitalismo finanziario e un capitalismo finanziario militarizzato.

Il denominatore comune di tutti i movimenti socialisti, da destra a sinistra dello spettro politico, era il rafforzamento della spesa pubblica per le infrastrutture. La transizione verso il socialismo era guidata (negli Stati Uniti e in Germania) dallo stesso capitalismo industriale, che cercava di ridurre al minimo il costo della vita (e quindi il salario di base) e il costo dell’attività economica attraverso investimenti statali nelle infrastrutture di base, i cui servizi dovevano essere forniti gratuitamente, o almeno a prezzi sovvenzionati.

Questo obiettivo avrebbe impedito ai servizi di base di diventare opportunità di rendita monopolistica. L’antitesi era la dottrina Thatcher-neoliberista della privatizzazione. I governi cedettero i servizi pubblici agli investitori privati. Le aziende sono state acquistate a credito, aggiungendo interessi e altri oneri finanziari ai profitti e ai pagamenti al management. Il risultato è stato quello di trasformare l’Europa e l’America neoliberiste in economie ad alto costo, incapaci di competere nei prezzi di produzione con i Paesi che perseguono politiche socialiste invece del neoliberismo finanziarizzato.

Questa contrapposizione tra sistemi economici è la chiave per comprendere l’attuale frattura mondiale.

Soprattutto il petrolio e il gas russi sono al centro dell’attenzione in questo momento. Mosca richiede pagamenti solo in rubli e sta ampliando il suo campo di acquirenti con Cina, India o Arabia Saudita. Ma sembra che gli acquirenti occidentali possano ancora pagare in euro o in dollari. Qual è la sua opinione su questa guerra delle risorse in corso? Il rublo sembra essere il vincitore.

Il rublo sta certamente salendo. Ma questo non fa della Russia un “vincitore” se la sua economia viene sconvolta dalle sanzioni che bloccano le importazioni necessarie al buon funzionamento delle sue catene di approvvigionamento.

La Russia risulterà vincente se sarà in grado di organizzare un programma di sostituzione delle importazioni industriali e di ricreare infrastrutture pubbliche per sostituire quelle che sono state privatizzate sotto la direzione degli Stati Uniti dagli Harvard Boys negli anni Novanta.

Vediamo la fine del petrodollaro e l’ascesa di una nuova architettura finanziaria a est, accompagnata dal rafforzamento dei BRICS e della Shanghai Cooperation Organization (SCO)?

Ci saranno ancora i petrodollari, ma anche una serie di blocchi di aree valutarie, man mano che il mondo de-dollarizza i suoi accordi di commercio e investimento internazionale. A fine maggio, il ministro degli Esteri Lavrov ha dichiarato che l’Arabia Saudita e l’Argentina vogliono unirsi ai BRICS. Come ha recentemente osservato Pepe Escobar, il BRICS+ potrebbe espandersi fino a includere il MERCOSUR e la Comunità di sviluppo del Sudafrica (SADC).

Questi accordi probabilmente richiederanno un’alternativa non statunitense al FMI per creare credito e fornire un veicolo per le riserve ufficiali di valuta estera per i Paesi non appartenenti alla NATO. Il FMI sopravviverà ancora per imporre l’austerità ai Paesi satellite degli Stati Uniti, sovvenzionando al contempo la fuga di capitali dai Paesi del Sud globale e creando DSP per finanziare le spese militari statunitensi all’estero.

L’estate del 2022 sarà un banco di prova, poiché i Paesi del Sud globale subiranno una crisi della bilancia dei pagamenti a causa dell’aumento dei deficit petroliferi e alimentari e dei maggiori costi in valuta nazionale per il mantenimento del debito in dollari. Il FMI potrebbe offrire loro nuovi DSP per pagare gli obbligazionisti in dollari per mantenere l’illusione della solvibilità. Ma i Paesi della SCO possono offrire petrolio e cibo – SE i Paesi garantiscono di ripagare il credito ripudiando i loro debiti in dollari con l’Occidente.

Questa diplomazia finanziaria promette di introdurre “tempi interessanti”.

Nella sua recente intervista con Michael Welch (“Accidental Crisis?“) lei ha un’analisi specifica sugli attuali eventi in Ucraina/Russia: “La guerra non è contro la Russia. La guerra non è contro l’Ucraina. La guerra è contro l’Europa e la Germania”. Potrebbe approfondire questo punto?

Come ho spiegato in precedenza, le sanzioni commerciali e finanziarie degli Stati Uniti stanno costringendo la Germania a dipendere dalle esportazioni statunitensi di GNL e dall’acquisto di armi militari statunitensi per trasformare la NATO in un’autorità di governo europea de facto.

L’effetto è quello di distruggere ogni speranza europea di guadagni reciproci in termini di commercio e investimenti con la Russia. L’Europa si sta trasformando in un junior partner (molto junior) nelle sue nuove relazioni commerciali e di investimento con gli Stati Uniti, sempre più protezionisti e nazionalisti.

Il vero problema degli Stati Uniti sembra essere questo: “L’unico modo per mantenere la prosperità se non si riesce a crearla in patria è ottenerla dall’estero”. Qual è la strategia di Washington?

Il mio libro Super Imperialismo ha spiegato come, negli ultimi 50 anni, da quando gli Stati Uniti hanno abbandonato l’oro nell’agosto del 1971, lo standard dei Buoni del Tesoro americano abbia dato agli Stati Uniti un giro gratuito a spese dell’estero. Le banche centrali straniere hanno riciclato l’afflusso di dollari derivante dal deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti in prestiti al Tesoro americano, cioè nell’acquisto di titoli del Tesoro americano per custodire i propri risparmi. Questo accordo ha permesso agli Stati Uniti di intraprendere spese militari all’estero per le loro quasi 800 basi militari in Eurasia senza dover deprezzare il dollaro o tassare i propri cittadini. Il costo è stato sostenuto dai Paesi le cui banche centrali hanno accumulato prestiti in dollari al Tesoro americano.

Ma ora che è diventato pericoloso per i Paesi detenere depositi bancari o titoli di Stato o investimenti statunitensi denominati in dollari se “minacciano” di difendere i propri interessi economici o se le loro politiche divergono da quelle dettate dai diplomatici statunitensi, come può l’America continuare ad avere un giro gratis?

Infatti, come può importare materiali di base dalla Russia per riempire parti della sua catena di approvvigionamento industriale ed economico che è stata interrotta dalle sanzioni?

Questa è la sfida per la politica estera degli Stati Uniti. In un modo o nell’altro, essa mira a tassare l’Europa e a trasformare altri Paesi in satelliti economici. Lo sfruttamento potrebbe non essere così palese come l’accaparramento da parte degli Stati Uniti delle riserve ufficiali venezuelane, afghane e russe. È probabile che si tratti di ridurre l’autosufficienza estera per costringere altri Paesi a dipendere economicamente dagli Stati Uniti, in modo che questi ultimi possano minacciare sanzioni dirompenti se cercano di anteporre i propri interessi nazionali a ciò che i diplomatici statunitensi vogliono che facciano.

Come influirà tutto questo sulla bilancia dei pagamenti dell’Europa occidentale (Germania / Francia / Italia) e quindi sul tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro? E perché pensa che l’Unione Europea si stia avviando a diventare una nuova “Panama, Porto Rico e Liberia”?

L’euro è già una moneta satellite degli Stati Uniti. I suoi paesi membri non sono in grado di gestire i deficit di bilancio interni per far fronte all’imminente depressione inflazionistica derivante dalle sanzioni sponsorizzate dagli Stati Uniti e dalla conseguente frattura globale.

La chiave si sta rivelando la dipendenza militare. Si tratta di una “condivisione dei costi” per la Guerra Fredda 2.0 sponsorizzata dagli Stati Uniti. Questa condivisione dei costi è ciò che ha portato i diplomatici statunitensi a rendersi conto di dover controllare la politica interna europea per impedire alle popolazioni e alle imprese di agire nel proprio interesse. La loro compressione economica è un “danno collaterale” dell’attuale Nuova Guerra Fredda.

Una filosofa svizzera ha scritto a metà marzo un saggio critico per il giornale socialista tedesco “Neues Deutschland”, ex organo di informazione del governo della DDR. Tove Soiland ha criticato la sinistra internazionale per l’attuale comportamento in merito alla crisi ucraina e alla gestione del Covid. La sinistra, a suo dire, è troppo favorevole a governi/stati autoritari, copiando così i metodi dei tradizionali partiti di destra. Condividete questo punto di vista? O è troppo severa?

Come risponderebbe a questa domanda, soprattutto per quanto riguarda la tesi del suo nuovo libro: “… il percorso alternativo è un capitalismo industriale a economia mista che porta al socialismo…”.

Il Dipartimento di Stato e il “potente altoparlante” della CIA si sono concentrati sull’acquisizione del controllo dei partiti socialdemocratici e laburisti europei, prevedendo che la grande minaccia al capitalismo finanziario incentrato sugli Stati Uniti sarebbe stato il socialismo. Questo ha incluso i partiti “verdi”, al punto che la loro pretesa di opporsi al riscaldamento globale si è dimostrata ipocrita alla luce della vasta impronta di carbonio e dell’inquinamento della guerra militare della NATO in Ucraina e delle relative esercitazioni aeree e navali. Non si può essere a favore dell’ambiente e della guerra allo stesso tempo!

Questo ha lasciato i partiti nazionalisti di destra meno influenzati dall’ingerenza politica degli Stati Uniti. È da qui che proviene l’opposizione alla NATO, come in Francia e in Ungheria.

E negli stessi Stati Uniti, gli unici voti contrari al nuovo contributo di 30 miliardi di dollari alle spese militari contro la Russia sono arrivati dai repubblicani. L’intera “squadra di sinistra” del Partito Democratico ha votato a favore della spesa bellica.

I partiti socialdemocratici sono fondamentalmente partiti borghesi i cui sostenitori sperano di entrare nella classe dei rentier, o almeno di diventare investitori in azioni e obbligazioni in miniatura. Il risultato è che il neoliberismo è stato guidato da Tony Blair in Gran Bretagna e dai suoi omologhi in altri Paesi. Discuto di questo allineamento politico in Il destino della civiltà.

I propagandisti statunitensi definiscono “autocratici” i governi che mantengono i monopoli naturali come servizi pubblici. Essere “democratici” significa lasciare che le imprese statunitensi controllino queste altezze di comando, essendo “libere” dalla regolamentazione governativa e dalla tassazione del capitale finanziario. Così “sinistra” e “destra”, “democrazia” e “autocrazia” sono diventati un vocabolario orwelliano in doppia lingua sponsorizzato dall’oligarchia americana (che eufemizza come “democrazia”).

La guerra in Ucraina potrebbe essere un punto di riferimento per mostrare una nuova mappa geopolitica del mondo? Oppure il Nuovo Ordine Mondiale neoliberista è in ascesa? Come lo vede?

Come ho spiegato nella domanda n. 1, il mondo si sta dividendo in due parti. Il conflitto non è solo nazionale, Occidente contro Oriente, ma è un conflitto di sistemi economici: il capitalismo finanziario predatorio contro il socialismo industriale che mira all’autosufficienza dell’Eurasia e della SCO.

I Paesi non allineati non erano in grado di “andare avanti da soli” negli anni ’70 perché non avevano una massa critica per produrre autonomamente cibo, energia e materie prime. Ma ora che gli Stati Uniti hanno deindustrializzato la propria economia ed esternalizzato la produzione in Asia, questi Paesi hanno la possibilità di non rimanere dipendenti dalla diplomazia del dollaro statunitense.

FONTE: https://pensieriprovinciali.wordpress.com/

Non temere di essere dichiarato un “traditore della patria”

“Dove siete stati per otto anni?” è la domanda che la propaganda russa ripete ossessivamente. Andrij Movčan, giornalista ed attivista di sinistra ucraino, racconta la sua lotta contro l’estrema destra e l’emigrazione, ed invita la sinistra russa a prendere posizione contro la guerra

8 giugno 2022

Andrij Movčan

La domanda “Dove siete stati negli ultimi 8 anni” è ancora, dopo mesi di guerra devastante, una delle più importanti tematiche utilizzate dalla propaganda russa. Questa domanda retorica sottintende che coloro che oggi si oppongono alla guerra hanno preferito non notare la violenta repressione del dissenso e l’ascesa dell’estrema destra in corso nella stessa Ucraina. Sappiamo bene che il movente degli “ultimi 8 anni” è basato sulla menzogna e sulla sostituzione di concetti: una violenza subita non può essere il pretesto per un’altra inflitta (oltretutto su scala molto più ampia), e migliaia di vittime non possono essere ripagate da decine di migliaia. Eppure, questo articolo dell’antifascista e socialista ucraino Andrij Movčan è di grande importanza, poiché è rivolto principalmente a quella parte del pubblico russo (compresa parte della sinistra), che cerca di giustificare il proprio conformismo usando pretesti come “gli 8 anni” oppure “entrambe le parti sono da biasimare”.

Ho ricevuto la notizia dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina verso le cinque del mattino del 24 febbraio, svegliandomi da un sonno inquieto. Non sono stati suoni di sirene o esplosioni a svegliarmi, ma il rumore del primo treno della metropolitana, che a quell’ora inizia a correre tra le stazioni di Barcellona. Da più di sette anni vivo lontano dalla mia nativa Kiev, sei dei quali in Catalogna. Sono un emigrato politico. Alla fine del 2014 ho dovuto lasciare il mio paese a causa della mia posizione contro la guerra. Perché non ero d’accordo con la soluzione militare del conflitto nel Donbass. Per molti miei compatrioti, ex amici, colleghi, conoscenti, io sono un traditore della patria.

Quindici anni fa, dopo aver aderito al movimento della sinistra, non potevo nemmeno immaginare dove questa strada avrebbe condotto me e i miei pochi compagni. Anche in quei lontani giorni di pace per un giovane diventare comunista o socialista in Ucraina era una scelta decisamente anticonformista, una sfida al mainstream anticomunista, che già allora occupava una posizione dominante. Una tale scelta non prometteva altro che problemi. Tuttavia, ancora non avevamo intuito quali.

La loro vera portata ha cominciato a emergere nei primi anni successivi al 2010: una crescita spasmodica dell’estrema destra stava letteralmente avvenendo davanti ai nostri occhi. E noi, una manciata di attivisti di sinistra, siamo stati i primi ad essere esposti alla violenza di queste formazioni. Quando le bande di estrema destra non si erano neanche sentite nominare in Donbass o in Crimea, noi conoscevamo queste persone di vista ed eravamo quasi gli unici che cercavano di attirare l’attenzione su questo problema e in qualche modo resistervi.

Negli ultimi quattro anni della mia vita in Ucraina, io (da solo o in gruppo con i compagni) ho subito una decina di attacchi di strada da parte di estremisti di destra. Alcuni di loro sono finiti in rianimazione. I fotografi mi chiedono ancora dove mi sono rotto il naso; i dentisti sono interessati a come mi sono frantumato i denti; i parrucchieri si sorprendono di trovarmi cicatrici da oggetti metallici sul cranio. Era il terrore. Siamo stati fisicamente allontanati dalla strada.

Per ovvie ragioni, non ho accettato il Maidan. Perché conoscevo di persona i suoi promotori e che tipo di valori condividevano queste persone. Inoltre, non mi facevo illusioni su cosa avrebbe riservato il futuro nella nuova Ucraina a coloro che condividevano idee comuniste. Andava molto male. Da quando la Russia ha annesso la Crimea, è andata anche peggio.

Mi sono reso conto con orrore di quale vaso di Pandora era stato aperto. Naturalmente, sapevo che i russi di Crimea si erano avvicinati alla Russia per 25 anni non avendo mai percepito lo stato ucraino come casa loro. Quello che è successo non è stata una sorpresa. Mi spaventava capire in che modo le perdite territoriali avrebbero esacerbato il problema del nazionalismo in Ucraina. Quanto questo avrebbe complicato la già deplorevole situazione di tutte le opposizioni, soprattutto di sinistra. Da quel momento chiunque criticasse il nazionalismo, chiunque criticasse il nuovo governo, e ancor di più chiunque osasse balbettare qualcosa sul diritto all’autodeterminazione degli abitanti della Crimea, avrebbe potuto essere dichiarato un “traditore della patria”. Non solo avrebbe potuto… è stato dichiarato tale.

L’annessione della Crimea ha complicato radicalmente la vita di quegli ucraini che non volevano accettare il nuovo ordine. Ognuno di noi ha dovuto affrontare una scelta: come bisognava reagire a quello che era successo? Inchinarsi davanti ai nazionalisti per la Crimea, o rimanere fedeli ai propri ideali e subire il marchio dei traditori della patria e dei perseguitati? Per me ho scelto la seconda via.

Alla Crimea è seguito il Donbass. E questo ha ulteriormente aggravato la nostra situazione. Ogni ucraino di sinistra doveva darsi una risposta alla domanda: come descrivere questa guerra? Era difficile per me rendermi conto che la logica dei processi era quella di un conflitto territoriale. Se il Donbass fosse rimasto parte dell’Ucraina, sarebbe inevitabilmente diventato il cuore dell’opposizione e del movimento di protesta dei lavoratori industriali. Il Donbass sarebbe diventato la base sociale delle forze di sinistra, avrebbe fatto pressione sul governo di Kiev e con i suoi voti avrebbe minato l’egemonia dei partiti filoccidentali di destra. Invece, la regione stava volando a tutta velocità verso il suo stato attuale: distrutto, deindustrializzato, un simbolo dell’irredentismo russo in balia della guerra e dell’odio nazionale.

I nostri desideri e le nostre speranze raramente coincidono con quanto poi accade realmente. Questo è successo anche con il Donbass. Avevo la sensazione che il Donbass, lasciando l’Ucraina, stesse lasciando altri lavoratori ucraini faccia a faccia con il governo neoliberista, dipendente dall’Occidente e i suoi fedeli cani da guardia delle bande di estrema destra. Ma avrei mai potuto accogliere con favore lo strangolamento militare del Donbass dissidente? No.

Ero profondamente disgustato dai leader della rivolta nel Donbass. Ero disgustato dal loro nazionalismo russo, dalla loro manifesta ucrainofobia, dal loro disprezzo per la lingua ucraina, che è la mia lingua madre. Ero disgustato dalla diffusa e volgare concezione del passato sovietico come proiezione della grande potenza russa. Era disgustoso non solo dal punto di vista politico, ma anche dal punto di vista estetico. Tuttavia, non ho ritenuto possibile per me schierarmi dalla parte del governo ucraino e dei nazionalisti. Perché lo stato ucraino, a mio avviso, aveva assunto un ruolo repressivo del dissenso nei confronti dei suoi propri cittadini.

Come comunista e come ucraino, ho deciso che il mio dovere in quella situazione era quello di criticare il mio governo, l’esercito e il nazionalismo. Qualcuno deve rendere noti alla società anche i fatti più spiacevoli. Che dall’altra parte del fronte ci sono più nostri concittadini ucraini che soldati e mercenari russi. Che l’artiglieria sta bombardando le zone residenziali. Che l’esercito ucraino nel Donbass non viene accolto con mazzi di fiori. Che i battaglioni di volontari commettono atrocità sui civili. Che i membri del governo si arricchiscono in guerra. Che il nemico principale è nel nostro stesso paese.

Potete immaginare cosa possa significare una tale posizione in una società che sta soffrendo un dolore all’arto fantasma a causa delle perdite territoriali. La mia carriera giornalistica era finita. Gli ex amici si sono affrettati a rinnegarmi. Ho perso tutto il capitale sociale accumulato negli anni precedenti. L’80% delle persone del mio ambiente ha deciso che era meglio non avere nulla a che fare con me. Altri hanno anche preso parte attiva alla campagna di molestie pubbliche.

Per i nazionalisti, sono diventato ancora più odioso di prima. Vivevo in un rifugio urbano, limitavo sensibilmente i miei contatti ed ogni viaggio nel centro della mia città natale diventava una prova per i miei nervi: troppe persone mi conoscevano di vista e spesso non era la gente migliore di Kiev. Il fatto che nel 2014 ci sia stato un solo attacco contro di me è stata una felice coincidenza. Allora la maggior parte degli elementi di spicco dell’ultra-destra era nel Donbass, non avevano tempo per me. Ma hanno minacciato di tornare presto e di occuparsi della “quinta colonna”.

Verso la fine del 2014, i miei cari mi hanno convinto a lasciare il paese. Così sono finito a Madrid. Poi ci sono state le lunghe peregrinazioni della vita da clandestino: senza documenti, senza soldi, senza parlare la lingua, senza amici, senza lavoro, senza la possibilità di tornare in patria. Sono stati gli anni più difficili della mia vita.

Ma non ho rimpianti per la posizione che ho sostenuto e difeso in tutti questi anni.

Dopo il 24 febbraio, cari compagni russi, state affrontando le stesse sfide che abbiamo affrontato noi otto anni fa. Adesso voi siete come noi.

E la vostra scelta è molto più facile e più ovvia. Il vostro paese, a differenza dell’Ucraina nel 2014, non ha subìto perdite territoriali, non deve risolvere problemi di integrità territoriale, non deve resistere ad interventi sotto copertura. La Russia sta conducendo un’aggressiva guerra di conquista sul territorio di uno stato sovrano, mettendo in discussione lo stesso diritto di esistere di quest’ultimo. Bombarda città pacifiche, uccide la popolazione civile (principalmente di lingua russa), commette atrocità nei territori occupati. E voi stessi sapete che questo è vero.

È dovere di ogni comunista e internazionalista russo opporsi a questa invasione criminale. E richiedere il ritiro immediato e incondizionato delle truppe della Federazione Russa almeno entro i confini del 24 febbraio.

Potreste chiedere: “Dove sei stato in tutti questi otto anni?”. Se avete letto fino a qui, lo sapete dove sono stato e cosa ho fatto. Mi sono opposto a quella guerra, guadagnandomi il marchio di traditore della patria.

Parte della sinistra russa esprime diverse motivazioni sul perché sia ​​necessario sostenere l’“operazione speciale” o non interferire con essa. Non sono per niente convincenti. No, non si tratta di argomentazioni politiche razionali, si tratta di qualcos’altro. Per me è diventato ovvio che la paura più profonda di molti esponenti della sinistra in Russia è quella di venire marchiati come traditori della patria. Conosco questa sensazione. Questa paura del “tradimento” deve essere superata, come l’abbiamo superata noi.

Sì, se condannerete la guerra, sarete sicuramente accusati di tradire la vostra patria. Perderete amici e conoscenti, prospettive di carriera e meriti passati. Sarete odiati e disprezzati dai “patrioti”. Sarete perseguitati. Ma i comunisti sono stati perseguitati in ogni momento, in tutti gli angoli del mondo sono stati accusati di non amare la loro patria borghese e di lavorare per il nemico. Ora è il turno della sinistra russa di partecipare all’Internazionale attraverso una rottura simbolica con la “patria-stato”.

E sono sinceramente felice che in Russia molte persone che rispetto non abbiano avuto paura di questo marchio. Perché il vero patriottismo ora consiste nel contrastare una catastrofe nazionale fermando questa guerra vergognosa.

Traduzione dal russo di Marco Ferrentino

FONTE:

Le contromisure russe e l’Occidente.

di Tonino D’Orazio

La Russia stila l’elenco dei paesi ostili. C’è anche l’Italia. Oltre che l’Ucraina, gli Usa, i paesi Ue, la Gran Bretagna, il Giappone, l’Australia, la Corea del Sud, l’Australia, Taiwan, e Singapore. Anche la Svizzera che ha interrotto la sua proverbiale neutralità. Nella lista figurano anche piccoli paesi, Andorra, Islanda, Liechtenstein, Monaco, San Marino e Micronesia. (Sono tutti paradisi fiscali).

Decreto: la Stato, le imprese e i cittadini russi che abbiano debiti verso creditori stranieri appartenenti a questa lista potranno pagare in rubli. Il principio è il seguente: per pagare i prestiti ottenuti da un paese sanzionatorio che superano i 10 milioni di rubli al mese, le società russe non hanno bisogno di effettuare un trasferimento. Chiedono a una banca russa di aprire un conto di corrispondenza in rubli a nome del creditore. Quindi la società trasferisce rubli su questo conto al tasso di cambio corrente e tutto ciò è perfettamente legale. L’equivalente in rubli sarà depositato da qualche parte, nelle banche russe, ma le banche occidentali, allo stato attuale, non possono accedervi. I bond emessi dallo stato russo potrebbero perdere valore, anche se il rublo è stato agganciato al valore dell’oro, superando “il Bretton Woods” americano del 1971 che indicava il dollaro come unica moneta internazionale non convertibile.

Tuttavia, non si possono escludere altre contromisure. Oltre alla completa de-dollarizzazione la Russia potrebbe vietare l’esportazione di titanio, terre rare, combustibili nucleari e, già in vigore, motori a razzo. Alcune delle misure altamente tossiche includono il sequestro di tutti i beni esteri di nazioni ostili, il congelamento di tutti i rimborsi dei prestiti alle banche occidentali e il deposito di fondi in un conto congelato presso una banca russa, il divieto totale di tutti i media stranieri ostili, la loro proprietà, ONG di facciata, oltre a fornire alle nazioni amiche armi avanzate, condivisione di informazioni e addestramento ed esercitazioni congiunte.

Blocco del sistema Swift? Quel che è certo è che una nuova architettura dei sistemi di pagamento che già unisce SPFS russo e CHIPS cinese, potrebbe presto essere offerta a decine di nazioni eurasiatiche e del Sud, molte delle quali già sanzionate, come Iran, Venezuela, Cuba, Nicaragua, Bolivia, Siria, Iraq, Libano e RPDC. Lentamente ma inesorabilmente, siamo già sulla strada per l’emergere di un grande blocco nel Sud del mondo che è immune alla guerra finanziaria degli Stati Uniti. I BRICS, RIC – Russia, India e Cina – stanno già aumentando il commercio nelle proprie valute. Se guardiamo all’elenco delle nazioni che all’ONU non hanno votato contro la Russia o si sono astenute dal condannare l’Operazione Z in Ucraina, più quelle che non hanno sanzionato la Russia, abbiamo almeno il 70% dell’intero Sud del mondo. Quindi, ancora una volta, è l’Occidente – più le satrapie coloniali come il Giappone e Singapore in Asia – contro il resto: Eurasia, Sud-est asiatico, Africa, America Latina. L’altro lato della nuova cortina di ferro.

L’agenzia di rating Fitch ha declassato i titoli di Stato russi con rating C, catalogandoli come  “spazzatura”. Il declassamento è ovviamente dovuto alla guerra e al conseguente tentativo di isolamento economico del Paese. Il rating C indica una “insolvenza sovrana”(default) che si va ad aggiungere all’embargo contro il gas e il petrolio russo dichiarato da USA e UK. Veramente forse ce lo taglia Putin il gas e il petrolio, imbarcandoci in una nuova era di energia nucleare. In quanto al default politico, perché la Russia ha debito sovrano minimo e nessun bisogno del mercato dei capitali globali, chi deve temere sono i creditori e i risparmiatori privati. (Credit Ansa). l’Italia e l’Europa subiranno delle ripercussioni economiche per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, alimentare, di materie prime e il pagamento dei crediti in rubli. Un grande problema per i creditori internazionali perché non saprebbero, poi, cambiare quanto ricevuto in altra valuta. Il problema non tocca tanto l’emissione dei bond statali, quanto quelli societari, molto più diffusi, anche tra gli investimenti dei piccoli risparmiatori italiani.

i fatti sul campo alla fine porteranno intere economie occidentali al macello, con il caos delle merci che porterà a costi energetici e alimentari alle stelle. A rischio fino al 60% delle industrie manifatturiere tedesche e il 70% delle industrie manifatturiere italiane; potrebbero essere costrette a chiudere definitivamente, con conseguenze sociali catastrofiche. Il che fa dire che è una guerra degli Usa contro una potenza economica concorrente, la Ue. Non possiamo più comprare a Russia e Cina, ma solo agli Usa e rilanciare la loro economia per competere, fuori noi, con la potenza commerciale cinese.

Oppure gli Stati Uniti e l’Europa occidentale si aspettavano un Froelicher Krieg (“guerra felice”) ? La Germania e altri paesi non hanno ancora iniziato a sentire il dolore della privazione di gas, minerali e cibo. Questo sarebbe il vero obiettivo: strappare l’Europa dal controllo degli Stati Uniti attraverso la NATO. Ciò necessita un movimento e un partito politico per un Nuovo Ordine Mondiale, come il movimento comunista di un secolo fa. Potremmo chiamarlo un nuovo Grande Risveglio o una rivolta contro il capitalismo becero. Purtroppo all’orizzonte momentaneamente ci sono solo destre nazionalistiche, sempre molto legate al – o prodotto del – capitalismo.

L’amministrazione americana del presidente Joe Biden è ora assolutamente disperata: oggi (10 marzo), ha vietato tutte le importazioni di petrolio e gas dalla Russia, che risulta essere il secondo esportatore di petrolio negli Stati Uniti, dietro al Canada e davanti al Messico. La grande “strategia di sostituzione” degli Stati Uniti per l’energia russa consiste nel chiedere petrolio all’Iran e al Venezuela. All’Iran al tavolo delle trattative a Vienna, sull’eventuale ripristino dell’accordo strappato da Trump, sulle centrali atomiche. Forse, senza ironia, un po’ gliene daranno. In Venezuela, sono arrivati con addirittura una delegazione governativa di livello. L’offerta Usa è quella di “alleviare” le sanzioni imposte a Caracas in cambio di petrolio. Il governo degli Stati Uniti ha passato anni, anche decenni, a bruciare tutti i ponti con il Venezuela e l’Iran. Gli Stati Uniti hanno distrutto l’Iraq e la Libia e hanno isolato il Venezuela e l’Iran nel tentativo di prendere il controllo dei mercati petroliferi mondiali, solo al fine di tentare miseramente di rilevare entrambi i paesi e poi fuggire schiacciati dalle forze economiche che avevano scatenato. Ciò dimostra, ancora una volta, che i “decisori” imperiali sono totalmente disperati. Caracas ha chiesto la rimozione di tutte le sanzioni contro il Venezuela e la restituzione di tutto l’oro confiscato. Aspettano risposta.

L’Europa importa circa 400 miliardi di metri cubi di gas all’anno, di cui 200 miliardi provengono dalla Russia. È impossibile per l’Europa trovare 200 miliardi di metri cubi altrove per sostituire la Russia, che sia in Algeria, Qatar o Turkmenistan. Per non parlare della mancanza dei necessari terminali GNL. L’Europa si ritroverà con una produzione ridotta di gas per la sua industria in declino, la perdita di posti di lavoro, la riduzione della qualità della vita, l’aumento della pressione sul sistema di sicurezza sociale e, ultimo ma non meno importante, la necessità di richiedere ulteriori prestiti, con carta straccia, agli Stati Uniti. (Nuovo Piano Marshall, Nuovo debito di guerra). Alcuni paesi tornano al carbone per il riscaldamento e l’energia, e quella atomica sicura (altro specchietto per merli) che si realizzerà fra minimo 10 anni. I Verdi e Cop26 diventano semplicemente lividi. Mi dispiace moltissimo, anche perché mi toccherà conviverci in questo mondo senza speranza.

Sostengo Putin? No, dico solo che la guerra è perdente per chi la fa, chi la subisce e peggio ancora per chi la sostiene con attacca brighe per conto terzi.

11 marzo 2022.

“Volete fare la guerra alla Russia”. La trascrizione completa dell’intero messaggio di Putin all’Europa

di Marinella Mondaini

“Volete fare la guerra con la Russia”? Questa domanda Vladimir Putin la rivolge non tanto a Emmanuel Macron o alla stampa francese, ma all’Occidente intero! Putin non getta mai le parole al vento. E’ un avvertimento all’Occidente. La Russia non scherza. Putin avvisa, forse per l’ultima volta, e usa la parola guerra molto consapevolmente. Dipende dall’Occidente adesso.

Macron è venuto in Russia nel momento in cui la campagna propagandistica occidentale dell’“imminente invasione russa in Ucraina” ha raggiunto il suo massimo picco di follia. Secondo me, lo stesso presidente francese non ci crede. I suoi movimenti verso Putin stati interpretati dalla stampa occidentale come “un estremo tentativo di fermare la guerra di Putin in Ucraina”, in realtà Macron ha bisogno di vantaggio e affermazione personale in vista delle elezioni presidenziali fra due mesi. Non a caso ci ha messo particolare cura, all’incontro personale sono precedute tre telefonate a Putin.

Macron aspira ad alzare lo status non tanto della Francia, quanto dell’Europa unita, nella quale intende avere uno dei ruoli chiave, per questo alla Eu serve una certa autonomia strategica che non c’è, essendo ancora la Ue prigioniera dell’atlantismo. E’ venuto a Mosca per portare le sue “idee per abbassare la tensione”, ha dichiarato che coordina le sue azioni con il cancelliere tedesco Schulz e che “il dialogo con la Russia è indispensabile per conservare la stabilità nel mondo e per risolvere molti problemi internazionali. Il dialogo con la Russia è condizione indispensabile per costruire la pace in Europa”, ha detto il presidente francese, e ha aggiunto che “non è possibile costruire un sistema di sicurezza europea senza la Russia e tanto più contro la Russia”; poi ha definito la Russia “paese europeo con il quale bisognerà lavorare per costruire il futuro in Europa”.

All’apertura della conferenza stampa, dove i due capi di Stato hanno risposto alle domande dei giornalisti, Putin ha dichiarato che “la situazione che si è venuta a creare in Europa nella sfera della sicurezza è motivo di comune preoccupazione per Mosca e Parigi”, poi ha ringraziato Macron per il fatto che “la Francia continua come prima a prendere una parte molto attiva nell’elaborazione di decisioni di principio su questa direzione ed è simbolico che ci incontriamo proprio oggi, 7 febbraio, perché esattamente trent’anni fa fu firmato l’ “Accordo sui rapporti particolari tra Russia e Francia” – un documento fondamentale che ha gettato per i decenni a venire le basi per un partenariato di reciproco rispetto e collaborazione”.

Dunque, il tema centrale dell’incontro non è stato, – come dicono i giornali italiani, “fermare l’invasione di Putin dell’Ucraina” (che doveva succedere prima a dicembre, poi a gennaio, adesso hanno spostato la data a febbraio!), bensì quello delle garanzie della sicurezza alla Federazione Russa e della sicurezza europea, perché essa passa proprio attraverso la sicurezza della Russia. Questo ha voluto far capire Putin. Il suo portavoce, Peskov ha detto che la situazione è talmente complicata che è davvero difficile aspettarsi dei cambiamenti decisivi da un incontro.

Macron ha usato la parola guerra: “l’incontro di oggi può tracciare il cammino, per il quale noi dobbiamo andare e che è la de-escalation. Conosciamo la situazione militare-politica, la questione ucraina e le questioni importanti della sicurezza collettiva, perciò possiamo collettivamente elaborare una risposta pratica per la Russia e per tutta l’Europa, una risposta utile e pratica è una risposta che permette di evitare la guerra e costruire la stabilità, la trasparenza e la fiducia per tutti”. Macron sa benissimo che c’è nessuna minaccia di guerra, infatti alla vigilia del suo viaggio a Mosca aveva dichiarato che “grazie al dialogo intensivo con la Russia e a questo incontro con Putin, riusciremo senz’altro a prevenire l’invasione russa e poi discuteremo le condizioni della distensione perché al momento attuale, lo scopo geopolitico della Russia non è certamente l’Ucraina, ma è il voler chiarire le regole della coesistenza con la Nato e l’Unione Europea”.

Tuttavia Macron ha dichiarato che sostiene la politica delle “porte aperte” della Nato, mentre Putin è tornato a spiegare la posizione ferma della Russia: esige che vengano attuati i 3 punti fondamentali per la sua sicurezza, ma che la Nato e USA continuano a ignorare sostenendo che ogni Stato è libero di affidare la sua sicurezza a chi vuole. E qui Putin non è d’accordo, la sicurezza non è un principio “divisibile” e gli Stati hanno fissato gli obblighi sulla carta, secondo cui non si può rafforzare la propria sicurezza senza tener conto e rispettare la sicurezza degli altri Stati, Putin ha poi aggiunto che la politica delle “porte aperte” è interpretata molto “liberamente” e costituisce motivo di dubbio; ha ricordato l’articolo 10 dell’Accordo Nordatlantico del 1949, secondo il quale gli Stati membri, con il benestare degli altri membri, possono invitare altri Stati europei nella Nato, ma che siano Stati in grado di apportare un contributo alla sicurezza europea; tuttavia questo non significa che la Nato sia obbligata per forza a prendere tutti coloro che chiedono di essere inclusi – ha sottolineato Putin. E poi Putin ha incalzato: “ci vogliono tranquillizzare dicendo che la Nato è un’alleanza “pacifica e prettamente difensiva”, un’ “Alleanza di difesa” – quanto questo corrisponda alla verità lo hanno accertato con la propria esperienza i cittadini di molti Stati: Iraq, Libia, Afghanistan … e poi prendiamo le grandi operazioni militari della Nato condotte contro Belgrado e senza il permesso del Consiglio di Sicurezza dell’ONU .. Un’attività molto lontana da quella che dovrebbe fare un’alleanza pacifica! Inoltre, vorrei fare presente che non possiamo ignorare la strategia militare della Nato del 2019, dove la Russia è chiamata “nemico e principale minaccia per la sicurezza”. E poi, dopo aver portato le proprie infrastrutture militari a ridosso della nostra frontiera, la Nato e i suoi Stati membri si credono in diritto di “metterci al nostro posto”, insegnandoci come e dove spostare le nostre forze armate e si credono perfino in diritto di esigere da noi di non svolgere le esercitazioni e manovre militari pianificate.

Il movimento dei nostri soldati dentro – sottolineo – il nostro proprio territorio – viene rappresentato come una minaccia militare di invasione dell’Ucraina. Da ciò si sentono minacciati anche altri Stati vicini, tra cui quelli baltici e su quale base si sentano minacciati non è chiaro, ad ogni modo viene usata come tesi per costruire la politica di inimicizia verso la Russia. Sotto questo accompagnamento gli Stati membri della Nato continuano a rimpinzare l’Ucraina di armi moderne, vengono elargiti considerevoli finanziamenti per ammodernare l’esercito ucraino, mandano specialisti militari e istruttori, di questo ne abbiamo parlato a lungo oggi con il presidente francese Macron, al quale ho fatto anche presente che le autorità di Kiev non vogliono adempiere agli obblighi del complesso delle misure di Minsk e degli accordi del Formato Normanno, compreso quelli raggiunti ai summit di Parigi e Berlino. E’ evidente a tutti che Kiev ha iniziato lo smantellamento degli Accordi di Minsk, non c’è stato alcun movimento su punti basilari, quali la riforma costituzionale, l’amnistia, le elezioni locali, lo status speciale per il Donbass. Kiev ignora come prima la possibilità di ristabilire in modo pacifico l’integrità territoriale dell’Ucraina tramite il dialogo diretto con il Donezk e Lugansk (Donbass).

Putin ha fatto presente a Macron la sistematica violazione dei diritti umani in Ucraina, che vengono chiusi i mass media che non vanno a genio al potere, che gli oppositori vengono perseguitati e qui Putin ha detto: “a Poroshenko, quando era presidente dell’Ucraina avevo detto che in caso dovessero sorgere delle difficoltà in futuro la Russia è pronta a dargli rifugio politico, lui ironizzò molto su questo, oggi riconfermo questa proposta, nonostante le forti divergenze sulla regolazione della questione Donbass, dove ritengo lui abbia fatto molti errori, oggi viene perseguitato in Ucraina come criminale di Stato, noi siamo pronti a dare rifugio politico a lui e quelli come Poroshenko. Ma ciò che mi preoccupa di più è che in Ucraina viene discriminata la popolazione russofona con misure legislative. Ritornando alla questione dell’allargamento della Nato ad est per conto di nuovi Stati, Putin ha dichiarato la Russia è categoricamente contro perché ciò rappresenta una minaccia per la Russia per due motivi.

Per primo “non siamo noi che andiamo verso la Nato, è la Nato che si avvicina a noi! E dire poi che la Russia “si comporta in modo aggressivo” – come minimo non corrisponde alla logica, a un modo di ragionare sano! Per secondo, perché è così pericoloso prendere l’Ucraina nella Nato?

L’Unione Europea, la Francia ritengono che la Crimea è parte dell’Ucraina, noi riteniamo che fa parte della Federazione Russa, potranno essere fatti tentativi di cambiare questa situazione con metodi bellici, poiché nei documenti dottrinali dell’Ucraina c’è scritto che la Russia è il nemico e che sono disposti a riprendersi la Crimea anche tramite la guerra.

Ora figuratevi che l’Ucraina sia parte della Nato, l’articolo 5 non è stato abrogato, il presidente Biden ha detto che è un imperativo assoluto e sarà messo in pratica, questo significa che ci sarà un confronto militare fra Nato e Russia.

Ora vi voglio chiedere: voi volete fare la guerra con la Russia? Chiedete ai vostri lettori, ascoltatori, a chi usa i social, chiedete se la Francia vuole fare la guerra con la Russia perché questo accadrà! Ma voi capite o no che se l’Ucraina verrà assorbita nella Nato e tenterà di prendere la Crimea, gli Stati europei automaticamente saranno coinvolti nella guerra con la Russia? Non ci saranno vincitori! E sarete coinvolti nella guerra anche se non lo volete, non farete nemmeno in tempo a battere ciglio mentre vi preparate ad adempiere al punto 5 del Trattato di Roma! Siete preoccupati della sicurezza europea ma il Donbass? cosa deve dire? Kiev dice che non adempirà agli accordi di Minsk e questo distrugge lo Stato ucraino. Ci dicono che siamo noi – Russia – che dobbiamo dare le garanzie di sicurezza e a noi chi le dà le garanzie di sicurezza? Già due volte Kiev ha tentato di risolvere la questione del Donbass con violente operazioni di guerra e dopo l’ennesima sconfitta sono nati gli Accordi di Minsk, ora gli ucraini li eseguiranno o no? Chi ci garantisce che non tentino per la terza volta?? Qui è in gioco la sicurezza non solo della Russia, ma anche dell’Europa e di tutto il mondo. Voglio ricordare infine che noi siamo anche contro l’installazione dei sistemi missilistici offensivi vicino le nostre frontiere, se tutti sono per la pace, cosa c’è di male a non installare queste armi di attacco vicino alle nostre frontiere? Qualcuno può rispondere a questa domanda? Se la Nato è un’alleanza pacifica, cosa c’è di male per la Nato ritornare alle posizioni che occupava al momento in cui ha firmato l’Accordo con la Russia nel 1997?

Poi un giornalista ha rivolto la domanda a Putin sulla questione del Mali e qui il presidente russo ha risposto che sì ne hanno parlato con Macron, ha ribadito che lo Stato, il governo russo non ha nulla a che fare con le compagnie che operano nel Mali, è totalmente estraneo, e se il governo del Malì non ha alcuna obiezione sull’attività commerciale di tali compagnie, allora secondo la logica che applica la Nato, se il Malì preferisce lavorare con quelle compagnie significa che ne ha diritto.

Erano appena iniziati i colloqui tra Putin e Macron quando sulle agenzie d’informazione è apparsa la notizia che l’Ucraina chiede agli Stati Uniti di mandare nei pressi della città di Kharkov il “THAAD” – sistema antimissile dell’esercito statunitense, destinato anche a colpire i missili balistici a medio e corto raggio. “Ciò diventerebbe un altro passo verso la destabilizzazione della situazione – ha dichiarato il portavoce di Putin.

I colloqui tra Putin e Macron sono durati quasi 6 ore e solo dopo la conferenza stampa, oramai mezzanotte sono riusciti a cenare, poi Macron ha voluto tornare a piedi in hotel attraversando la Piazza Rossa, forse aveva bisogno di aria fresca. Dopo i colloqui al Cremlino, Macron è appena atterrato a Kiev, dopo di che telefonerà di nuovo a Putin per riferire sui risultati e mettere a punto la situazione e come procedere oltre. Intanto Macron si è già preso il merito di aver “fermato la guerra”, appena atterrato a chi ha dichiarato che è riuscito a convincere Putin a non proseguire sul cammino della “escalation”. I giornali francesi scoppiano di frasi che sottolineano il grande successo e che Macron è riuscito ad ottenere la de-escalation. Davvero un successo incredibile, alla luce del fatto che alla Russia non è nemmeno mai passato per la mente di “andare per la via dell’escalation”.

FONTE: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-volete_fare_la_guerra_alla_russia_la_trascrizione_completa_dellintero_messaggio_di_putin_alleuropa/40832_45092/

APPELLO: Impedire il ritorno della guerra in Europa

L’appello. «È assolutamente urgente mobilitarsi per impedire il ritorno della guerra in Europa. Un conflitto potrebbe avere conseguenze inimmaginabili»

Nel secolo scorso l’Europa è stata dilaniata per ben due volte, nel corso di una generazione, dal flagello della guerra che ha causato sofferenze indicibili ai suoi popoli e una degradazione inconcepibile dell’umanità fino al male assoluto della Shoah.

La profonda aspirazione alla pace, a rendere impossibile di nuovo la guerra fra le nazioni europee è stata a fondamento della nascita della Comunità europea e del percorso che l’ha portata a trasformarsi in Unione Europea.

La caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia hanno fatto venire meno le ultime conseguenze della guerra fredda in Europa e creato la possibilità della convivenza pacifica di tutti i suoi popoli, dall’Atlantico agli Urali.

Purtroppo la distensione resa possibile dalla fine della guerra fredda non è stata coltivata; non è bastata la dissoluzione dell’Unione Sovietica per far venir meno lo spirito di contrapposizione dei due blocchi militari, come poteva fare prevedere l’allargamento del G7 alla Russia, capitolo che è stato frettolosamente chiuso.

L’allargamento ad est della NATO, che ha inglobato paesi che facevano parte della ex Unione Sovietica, ha comportato il dispiegamento di un dispositivo militare ostile ai confini della Russia; ciò costituisce obiettivamente una minaccia e come tale è stata percepita.

Questa situazione ha generato una nuova corsa agli armamenti, compreso il riarmo nucleare.

Si sono create, così, le condizioni per un nuovo tipo di guerra fredda molto più pericolosa della precedente, perché non più fondata su una contrapposizione ideologica ma su pulsioni nazionalistiche ancora meno controllabili.

L’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo ucraino è stato fortemente condizionato dal tentativo della Russia, da un lato, e del blocco occidentale a guida USA, dall’altro, di trascinare questo Paese ognuno nel proprio campo di influenza.

Se la Russia ha occupato la Crimea e in seguito alimentato il conflitto del Donbass, la NATO ha assunto una posizione vissuta come provocazione politica e militare dalla Russia quando si è dichiarata disponibile ad accogliere Ucraina e Georgia nell’alleanza atlantica.

Adesso la tensione politica e militare fra i due schieramenti è arrivata a livelli insostenibili.

Una provocazione può arrivare da qualunque parte sul terreno e fare da detonatore ad un conflitto armato non più controllabile.

E’ assolutamente urgente mobilitarsi per impedire il ritorno della guerra in Europa.

Un conflitto potrebbe avere conseguenze inimmaginabili.

Si deve operare immediatamente per un raffreddamento della tensione politico-militare e l’unica strada percorribile è quella del blocco immediato di ogni escalation militare.

L’Unione Europea non deve farsi trascinare dalla NATO in una insensata corsa all’incremento delle minacce sul campo e ad un rilancio delle spese militari. L’Italia deve dissociarsi da questa politica e deve mandare un segnale chiaro a favore della distensione, che non ha alternative, opponendosi – com’è in suo potere – all’estensione nel territorio dell’Ucraina del dispositivo militare della NATO e al dispiegamento in Europa di nuovi missili e armi nucleari americane. E’ interesse dell’Italia e dell’Unione Europea avviare una trattativa per arrivare a condizioni che garantiscano la Russia dalla preoccupazione di un accerchiamento e consentano all’Ucraina di sviluppare la propria autonomia nazionale, in condizioni di indipendenza dai due blocchi, com’è avvenuto per la Finlandia durante la guerra fredda. Partendo dall’attuazione dell’accordo di Minsk, occorre negoziare una posizione di neutralità per l’Ucraina, non più avamposto militare della NATO ma terra d’incontro fra la civiltà russa e quella occidentale

Occorre agire adesso prima che sia troppo tardi.

Primi firmatari:

Domenico Gallo, Pietro Adami, Mario Agostinelli, Paola Altrui, Cesare Antetomaso, Pietro Antonuccio, Franco Argada, Franco Astengo, Gaetano Azzariti, Donata Bacci, Vittorio Bardi, Fausto Bertinotti, Mauro Beschi, Maria Luisa Boccia, Sergio Caserta, Enrico Calamai, Duccio Campagnoli, Giuseppe Cassini, Aurora D’Agostino, Roberto De Angelis, Claudio De Fiores, Tommaso Di Francesco, Piero Di Siena, Anna Falcone, Luigi Ferrajoli, Chiara Gabrielli,  Fausto Gianelli, Alfonso Gianni, Rossella Guadagnini, Elisabetta Grande, Alfiero Grandi, Roberto Lamacchia, Sergio Labate, Raniero La Valle, Alberto Leiss, Lidia Lo Schiavo, Federico Losurdo, Silvia Manderino, Antonio Mazzeo, Alberta Milone, Rossella Muroni, Gian Giacomo Migone, Tomaso Montanari, Alberto Negri, Daniela Padoan, Francesco Pallante, Pierluigi Panici, Valentina Pazè, Claudia Pedrotti, Livio Pepino, Giancarlo Piccinni, Carmelo Picciotto, Antonio Pileggi, Bianca Pomeranzi, Jacopo Ricci, Rodolfo Ricci, Marco Romani, Giovanni Russo Spena, Giuseppe Salmè, Lucia Salto, Gianluca Schiavon, Massimo Serafini, Paolo Solimeno, Gianni Tognoni, Fabrizio Tonello, Enrico Tonolo, Aldo Tortorella, Giulio Toscano, Stefania Tuzi, Nadia Urbinati, Angelo Viglianisi Ferraro, Massimo Villone, Vincenzo Vita, Gianluca Vitale, Mauro Volpi, Pietro Lunetto, Massimo Angrisano, Antonio Galante, Laura Salsi, Enrico Pugliese, Elisa Castellano.

Per aderire inviare una mail a:

coord.dem.costituzionale@gmail.com

red@emigrazione-notizie.org

cambiailmondo2012@gmail.com

FONTE: https://ilmanifesto.it/impedire-il-ritorno-della-guerra-in-europa/

La Russia ha ragione: L’Occidente ha promesso di non allargare la NATO e queste promesse non sono state mantenute

  • Gli eventi di tre decenni fa perseguitano la politica del presente

di Tarik Cyril Amar, storico tedesco dell’Università Koç di Istanbul che lavora su Russia, Ucraina ed Europa dell’Est, sulla storia della Seconda Guerra Mondiale, sulla Guerra Fredda culturale e sulla politica della memoria. Scrive su Twitter a @tarikcyrilamar.

Con la Russia che sfida l’unilateralismo occidentale in un modo che non si vedeva dalla fine dell’Unione Sovietica, due grandi questioni continuano a venire alla ribalta. Entrambe, sembra, sono centrate sul blocco militare di punta dell’America, la NATO.

In primo luogo, c’è l’affermazione di Mosca che c’era una promessa occidentale di non espandere la NATO oltre la sua area di guerra fredda. In secondo luogo, c’è l’affermazione occidentale che la NATO non può, e tanto meno non vuole, porre fine all’ammissione di nuovi stati membri.

Questa non è semplice retorica; questi sono punti cruciali. L’insistenza della Russia su una revisione approfondita e un reset completo e codificato delle relazioni di sicurezza post-Guerra Fredda con l’Occidente si basa sulla sua affermazione che le precedenti assicurazioni occidentali sono state infrante. Le chiacchiere e le promesse informali, dice il Cremlino, non sono più sufficienti perché si sono rivelate inaffidabili. Dall’altro lato della disputa, l’Occidente sta respingendo una richiesta chiave russa – fermare l’espansione della NATO – trincerandosi dietro la sua affermazione che la NATO deve semplicemente tenere la porta aperta a nuovi membri.

Entrambe le affermazioni possono essere verificate. Diamo un’occhiata ai fatti. Mosca ha ragione nell’affermare che l’Occidente non ha mantenuto le sue promesse.

Tali promesse sono state fatte due volte alla Russia, come dato di fatto. Nel 1990, durante i negoziati per l’unificazione della Germania dell’Ovest e dell’Est, e poi, di nuovo, nel 1993, quando la NATO stava estendendo la sua politica di Partnership for Peace verso est. In entrambi i casi, le assicurazioni furono date dai segretari di stato americani, James Baker e Warren Christopher, rispettivamente. E in entrambi i casi, si sono presi la responsabilità di parlare, in effetti, per tutta la NATO.

Nonostante le prove evidenti, ci sono ancora pubblicisti occidentali e persino politici attivi che negano o relativizzano questi fatti, come, per esempio, il rievocatore della guerra fredda ed ex ambasciatore americano in Russia Michael McFaul. Affrontiamo le loro obiezioni.

Per quanto riguarda le promesse del 1993, il caso è estremamente semplice. Come Angela Stent – un’esperta di politica estera americana ampiamente riconosciuta e praticante senza pregiudizi a favore della Russia – ha riassunto nel 2019, due “ambasciatori statunitensi… hanno poi ammesso che Washington ha rinnegato le sue promesse” – del 1993, cioè – “offrendo successivamente l’adesione all’Europa centrale.” L’allora presidente russo Boris “Eltsin aveva ragione di credere che le promesse esplicite fatte… sul fatto che la NATO non si sarebbe allargata in un futuro prevedibile sono state infrante quando l’amministrazione Clinton ha deciso di offrire l’adesione” – e non solo il partenariato, come Christopher aveva assicurato a Eltsin – “all’Europa centrale.”

Il caso del 1990 è un po’ più complicato, ma non molto. Anche lì, la prova di una promessa esplicita è chiara. Ecco il massimo esperto americano, Joshua Shifrinson – come Stent al di là di ogni sospetto di favorire la Russia – sulla questione, scrivendo nel 2016:

“All’inizio del febbraio 1990, i leader statunitensi fecero un’offerta ai sovietici… Il Segretario di Stato James Baker suggerì che in cambio della cooperazione sulla Germania, [gli] Stati Uniti potevano dare “garanzie di ferro” che la NATO non si sarebbe espansa “di un centimetro verso est”… Il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov accettò di iniziare i colloqui per la riunificazione. Nessun accordo formale è stato raggiunto, ma da tutte le prove, il quid pro quo era chiaro: Gorbaciov ha accettato l’allineamento occidentale della Germania e gli Stati Uniti avrebbero limitato l’espansione della NATO”.

Per essere chiari, Shifrinson, uno studioso attento, ha anche spiegato che i negoziatori e i leader americani hanno iniziato a tornare indietro su questa promessa molto rapidamente. Ma questo non fa alcuna differenza rispetto a due fatti: Primo, la promessa è stata fatta, e la tempistica suggerisce fortemente che ha avuto importanza per l’acquiescenza della Russia all’unificazione tedesca a condizioni interamente occidentali. In altre parole: Mosca ha mantenuto la sua parte dell’accordo, l’Occidente no. In secondo luogo, anche mentre si faceva rapidamente marcia indietro internamente, i politici americani hanno continuato a dare alla Russia la – falsa – impressione che i suoi interessi di sicurezza sarebbero stati considerati. In altre parole, la promessa iniziale – e consequenziale – non è stata solo infranta; l’inganno è stato seguito da un inganno ancora maggiore.

I rappresentanti dell’Occidente che ancora negano ciò che è successo nel 1990, come Mark Kramer, per esempio, citano spesso anche l’ex presidente sovietico Gorbaciov: egli ha dichiarato, dopo tutto, che la famigerata promessa di “non un pollice” si riferiva strettamente solo alla Germania dell’Est. Quindi, sostengono i difensori dell’Occidente, non si trattava affatto della NATO oltre la Germania dell’Est.

Francamente, anche se popolare, questo è un argomento straordinariamente sciocco: In primo luogo, Gorbaciov ha un comprensibile interesse a non essere ritenuto responsabile del fiasco della politica di sicurezza che ha permesso alla NATO di espandersi a suo piacimento. In secondo luogo, anche se i negoziati del 1990 riguardavano strettamente la Germania dell’Est, ricordate il loro contesto reale: L’Unione Sovietica era ancora lì e così il Patto di Varsavia. Quindi, due cose sono ovvie – a patto che tutti discutiamo in buona fede: Primo, in termini specifici, la promessa del 1990 poteva riguardare solo la Germania dell’Est. E, secondo, implicava chiaramente che tutto ciò che si trovava a est della Germania dell’Est sarebbe stato, semmai, ancora più – non meno – off-limits per la NATO.

Un’altra linea di difesa occidentale può essere descritta solo come fondamentalmente disonesta: la NATO stessa – e apparentemente anche l’attuale segretario di stato americano Antony Blinken – ora improvvisamente ricordano che “gli alleati della NATO prendono decisioni per consenso e queste sono registrate. Non c’è nessuna registrazione di una tale decisione presa dalla NATO. Le assicurazioni personali dei singoli leader non possono sostituire il consenso dell’Alleanza e non costituiscono un accordo formale della NATO”.

Sembra fantastico! Se solo James Baker e Christopher Warren l’avessero saputo quando hanno fatto le loro promesse sulla NATO a Gorbaciov e poi a Eltsin!

Seriamente? Due segretari di stato americani si rivolgono a Mosca come se avessero il diritto di parlare per la NATO e plasmarla. Mosca, molto plausibilmente – dato il modo in cui funziona realmente la NATO – presume che possano farlo. E quando queste promesse non vengono mantenute, è un problema della Russia? Notizia flash: se si segue davvero questa logica contorta, si sarebbe giustificata anche l’invasione sovietica dell’Afghanistan come “aiuto fraterno”. Perché formalmente è quello che “era”.

Che dire dell’affermazione dell’Occidente che la NATO deve mantenere una politica di “porte aperte”, o, detto diversamente, non può assolutamente concordare con la Russia di smettere di espandersi? Questa affermazione, a differenza di quella di Mosca sulle promesse della NATO, non è corretta. Ecco perché:

La NATO sostiene che la sua incapacità di chiudere le sue porte è basata sul trattato NATO, la sua costituzione, per così dire. Ecco l’argomentazione della NATO in originale:

“La ‘politica della porta aperta’ della NATO si basa sull’articolo 10 del documento fondatore dell’Alleanza, il Trattato del Nord Atlantico”, che “afferma che l’adesione alla NATO è aperta a qualsiasi ‘Stato europeo in grado di promuovere i principi del presente trattato e di contribuire alla sicurezza dell’area del Nord Atlantico’”. E che “qualsiasi decisione sull’allargamento deve essere presa ‘all’unanimità’… Negli ultimi 72 anni, 30 paesi hanno scelto liberamente, e in conformità con i loro processi democratici interni, di entrare nella NATO. Questa è la loro scelta sovrana”.

Se tutto ciò fosse corretto, sarebbe ancora una forzatura credere che tali cose non possano mai essere cambiate – come se fossero una forza naturale simile alla gravità – ma, almeno, potremmo capire perché è una sfida fare tali cambiamenti.

Eppure, in realtà, in questo caso non c’è motivo di accettare l’interpretazione sorprendentemente inverosimile e incoerente della NATO del suo stesso documento fondatore. Perché ciò che l’articolo 10 dice in realtà è che la porta è aperta a ogni stato europeo che può “contribuire alla sicurezza dell’area del Nord Atlantico” e che l’ammissione di qualsiasi stato al blocco può avvenire solo con il “consenso unanime” di tutti gli attuali membri della NATO.

Niente di tutto questo, in realtà, contraddice la possibilità che la NATO un giorno dichiari che per il futuro (illimitato o con date precise) nessun altro stato può contribuire alla sua sicurezza e quindi nessun altro stato può essere ammesso. La NATO avrebbe tutto il diritto di farlo; e l’articolo 10 andrebbe perfettamente bene.
Detto diversamente: La “politica della porta aperta” della NATO è esattamente questo: una politica. Non è una legge naturale e nemmeno qualcosa che la NATO è obbligata a fare dal suo stesso documento costitutivo (che comunque non vincolerebbe nessun altro, in realtà). Una politica, tuttavia, è ovviamente aperta alla revisione. Le affermazioni della NATO che “non può” smettere di ammettere è, quindi, strettamente insensata. In realtà, sceglie di non voler smettere di ammettere, purtroppo.

In sintesi, la Russia ha ragione: L’Occidente ha promesso di non allargare la NATO, e queste promesse non sono state mantenute. La NATO ha torto: può, in realtà, chiudere la porta, solo che non ne ha voglia.

Queste cose, in realtà, non sono difficili da capire. Quindi, ciò che è forse più preoccupante delle narrazioni occidentali attualmente dominanti su questi temi non è nemmeno che siano errate, ma che, apparentemente, parti delle élite occidentali, intellettuali e politiche, credono davvero alle loro stesse sciocchezze. Ma speriamo che stiano deliberatamente distorcendo la verità. Perché altrimenti hanno iniziato a credere alla loro stessa propaganda. E se questo è il caso, è molto difficile vedere come i negoziati potranno mai avere successo.

Russia is right: The West promised not to enlarge NATO & these promises were broken

  • The events of three decades ago are haunting the politics of the present

By Tarik Cyril Amar, a historian from Germany at Koç University in Istanbul working on Russia, Ukraine, and Eastern Europe, the history of World War II, the cultural Cold War, and the politics of memory. He tweets at @tarikcyrilamar.

With Russia challenging Western unilateralism in a way not seen since the end of the Soviet Union, two major issues keep coming to the fore. Both, it seems, are centered on America’s flagship military bloc, NATO.

First, there is Moscow’s claim that there was a Western promise not to expand NATO beyond its Cold War area. Second, there is a Western claim that NATO cannot, let alone will not, put an end to admitting new member states. 

This is no mere rhetoric; these are crucial points. Russia’s insistence on a thorough review and comprehensive, bindingly codified reset of post-Cold War security relations with the West hinges on its claim that prior Western assurances were broken. Talk and informal promises, the Kremlin says, are not enough anymore because they have turned out to be unreliable. On the other side of the quarrel, the West is rejecting a Russian key demand – to stop NATO expansion – by entrenching itself behind its claim that NATO simply must keep the door open to new members. 

Both claims can be verified. Let’s take a look at the facts. Moscow is right in its assertion that the West has broken its promises.

Such pledges were made twice to Russia, as a matter of fact. In 1990, during the negotiations over the unification of West and East Germany, and then, again, in 1993, when NATO was extending its Partnership for Peace policy eastward. In both cases, the assurances were given by US secretaries of state, James Baker and Warren Christopher, respectively. And in both cases, they took it upon themselves to speak, in effect, for NATO as a whole.

Despite clear evidence, there are still Western publicists and even active politicians who deny or relativize these facts, such as, for instance, Cold War Re-Enactor and former American ambassador to Russia Michael McFaul. Let’s address their objections.

Regarding the 1993 promises, the case is extremely simple. As Angela Stent – a widely recognized American foreign policy expert and practitioner with no bias in Russia’s favor – has summarized it in 2019, two “US ambassadors… later admitted that Washington reneged on its promises” – of 1993, that is – “by subsequently offering membership to Central Europe.” Then-Russian president Boris “Yeltsin was correct in believing that explicit promises made… about NATO not enlarging for the foreseeable future were broken when the Clinton administration decided to offer membership,” – and not merely partnership, as Christopher had assured Yeltsin – “to Central Europe.”   

The 1990 case is a little more complicated, but not much. There, too, the evidence for an explicit promise is clear. Here is the foremost American expert, Joshua Shifrinson – like Stent beyond any suspicion of favoring Russia – on the issue, writing in 2016:  

“In early February 1990, U.S. leaders made the Soviets an offer… Secretary of State James Baker suggested that in exchange for cooperation on Germany, [the] U.S. could make ‘iron-clad guarantees’ that NATO would not expand ‘one inch eastward.’… Soviet President Mikhail Gorbachev agreed to begin reunification talks. No formal deal was struck, but from all the evidence, the quid pro quo was clear: Gorbachev acceded to Germany’s western alignment and the U.S. would limit NATO’s expansion.”

To be clear, Shifrinson, a careful scholar, has also explained that American negotiators and leaders started going back on this promise very quickly. But that makes zero difference to two facts: First, the promise was made, and timing suggests strongly that it mattered to Russia’s acquiescence to German unification on entirely Western terms. In other words: Moscow kept its part of the deal, the West did not. Second, even while rapidly backpedaling internally, American politicians continued to give Russia the – false – impression that its security interests would be considered. Put differently, the initial – and consequential – promise was not only broken; the deception was followed up with even more deception.

Those representatives of the West still in denial of what happened in 1990, such as Mark Kramer, for instance, also often quote former Soviet president Gorbachev: He has stated, after all, that the infamous “not-one-inch” promise referred strictly to East Germany only. Hence, the West’s defenders argue, it wasn’t about NATO beyond East Germany at all.  READ MORE: Can Russia do a deal with the West?

Frankly, though popular, that is an extraordinarily silly argument: First, Gorbachev has an understandable interest in not being held responsible for the security-policy fiasco of letting NATO expand as it liked. Secondly, even if the 1990 negotiations were strictly about East Germany, please remember their real context: The Soviet Union was still there and so was the Warsaw Pact. Thus, two things are obvious – as long as we all argue in good faith: First, in specific terms, the 1990 promise could only be about East Germany. And, second, it of course clearly implied that anything east of East Germany would be, if anything, even more – not less – off-limits to NATO.

Another line of Western defense can only be described as fundamentally dishonest: NATO itself – and apparently the current American secretary of state Antony Blinken as well – now quite suddenly remember that “NATO Allies take decisions by consensus and these are recorded. There is no record of any such decision taken by NATO. Personal assurances from individual leaders cannot replace Alliance consensus and do not constitute formal NATO agreement.” 

That sounds great! If only James Baker and Christopher Warren had known about it when making their promises about NATO to Gorbachev and then Yeltsin!

Seriously? Two US secretaries of state address Moscow as if they had the right to speak for and shape NATO. Moscow, very plausibly – given the way NATO really works – assumes that they can. And when these promises are then broken, that is Russia’s problem? News flash: If you really follow that twisted logic, you would have justified the Soviet invasion of Afghanistan as “fraternal help” as well. Because formally that’s what it “was.”

What about the West’s contention that NATO must maintain an “open door” policy, or, put differently, cannot possibly agree with Russia to stop expanding? That claim, unlike Moscow’s about NATO promises, is incorrect. Here’s why:

NATO argues that its inability to ever close its doors is based on the NATO treaty, its constitution, as it were. Here is NATO’s argument in the original:

“NATO’s ‘Open Door Policy’ is based on Article 10 of the Alliance’s founding document, the North Atlantic Treaty,” which “states that NATO membership is open to any ‘European state in a position to further the principles of this Treaty and to contribute to the security of the North Atlantic area’.” And that “any decision on enlargement must be made ‘by unanimous agreement.’… Over the past 72 years, 30 countries have chosen freely, and in accordance with their domestic democratic processes, to join NATO. This is their sovereign choice.” 

If all of the above were correct, it would still be a stretch to believe that such things can never be changed – as if they were a natural force akin to gravity – but, at least, we could understand why it is a challenge to make such changes.

Yet, in reality, in this case there is no reason to accept NATO’s surprisingly far-fetched and inconsistent interpretation of its own founding document. Because what Article 10 actually says is that the door is open to every European state that can “contribute to the security of the North Atlantic area” and that the admission of any such state to the bloc can only happen by the “unanimous consent” of all current NATO members. 

None of this, actually, contradicts the possibility of NATO one day stating that for the future (unlimited or with precise dates) no further states can possibly help “contribute” to its security and therefore no further states can be admitted. NATO would be entirely within its rights doing so; and Article 10 would be perfectly fine.  READ MORE: Russia & NATO fail to find common ground – Moscow

Regarding NATO’s statement that it is every European state’s sovereign right to “join,” it does not withstand elementary scrutiny: If that were so, then both the “unanimous consent” of all current members and the distinction between applying and joining would be meaningless. That is an obviously absurd position. In reality, states have a right to apply, not to join – by NATO’s own rules, which someone at NATO seems to very badly misunderstand. 

Put differently: NATO’s “Open Door Policy” is exactly that: a policy. It is not a natural law or even something that NATO is obliged to do by its own founding document (which would still not bind anyone else, actually). A policy, however, is, of course, open to revision. NATO’s claims that it “cannot” stop admitting is, therefore, strictly nonsensical. In reality, it chooses not to want to stop admitting, unfortunately.

In sum, Russia is right: The West promised not to enlarge NATO, and these promises were broken. NATO is wrong: It can, actually, shut the door; it just doesn’t feel like it.

These things are, actually, not hard to grasp. Hence, what is perhaps most worrying about the currently dominant Western narratives on these issues is not even that they are incorrect but that, apparently, parts of the Western elites, intellectual and political, really believe their own nonsense. But let’s hope they are deliberately distorting the truth. Because otherwise they have started buying into their own propaganda. And if that is the case, it is very hard to see how negotiations will ever succeed.

FONTE: https://www.rt.com/russia/546074-russia-nato-relations-lie/

Turchia Russia Usa

Tonino D’Orazio. 12 aprile 2021.

Washington ha bisogno di un’Unione Europea forte al suo comando quindi ha dato diverse istruzioni, in particolare per mantenere buoni rapporti con la Turchia, nonostante le varie pesanti controversie in corso (delimitazione dei confini nel Mediterraneo orientale; occupazione militare di Cipro, Iraq e Siria; violazione dell’embargo ONU in Libia; ingerenza religiosa in Europa; Nato sì, Nato no? Minacce dirette alla Grecia; tralasciamo il problema diritti umani, in genere non c’entrano con gli affari).

Soprattutto, Erdogan sa che una minoranza di turchi nutre ancora il sogno di entrare a far parte dell’Unione Europea (sono più di 4 milioni i turchi in Germania) e che sta inglobando i paesi dell’Europa dell’Est. È nel quadro della sua strategia di ridistribuzione dell’influenza turca sull’Europa orientale, il cui territorio è stato per secoli il campo di manovra dell’Impero Ottomano, che Erdogan pensa che l’Unione Europea possa servire anche gli interessi della Turchia.

La porta della Turchia verso l’Europa orientale è l’Ucraina, un paese instabile in conflitto con la Russia. Tuttavia, l’Unione Europea sta manovrando in Ucraina per conto di Washington come parte della strategia di contenimento e destabilizzazione di Russia e Bielorussia.

La marcia sul filo del rasoio della Turchia tra Mosca e Washington è un successo: da un lato la Turchia acquisisce sofisticati sistemi d’arma russi come i missili S-400 e dall’altro vende i suoi droni Bayraktar all’Ucraina; in un solo movimento, la Turchia si avvicina alla Russia pur rimanendo un alleato strategico e indispensabile degli Stati Uniti. Per Erdogan, l’Europa è il minimo indispensabile. Tuttavia, l’UE può aiutare. Erdogan è il guardiano. Può aprire la porta del diluvio migratorio su una fortezza Europa chiusa a chiave. Quest’ultima preferisce pagare un servizio (e molti altri perché i turchi detengono fascicoli molto sensibili sulle attività clandestine di alcuni paesi europei, vedi lo scambio feroce con Macron) e proteggersi così da una crisi causata in primo luogo dalla politica irregolare di un’Unione, seguendo un’agenda che non è mai stata la sua.

La scusa dell’Ucraina. Una serie di discussioni informate convergono su quelli che potrebbero essere i tre obiettivi principali dell’egemone americano in tutto questo casino, tranne la guerra: provocare una spaccatura irreparabile tra Russia e UE (ormai ci siamo sempre più vicini), sotto gli auspici della NATO (vedi le manovre previste); far fallire il gasdotto Nord Steam 2 (sono in atto sabotaggi e pirataggi nella costruzione degli ultimi 35Km); e aumentare i profitti del complesso industriale militare nel campo degli armamenti., unica e vera industria pesante rimasta agli Usa, persa quella delle automobili e degli aerei civili (cfr Boing).

È così, le forze armate statunitensi occupano parti dell’Europa per “difenderla” da (da chi altri?) quei dannati russi. Questa è la ragion d’essere dell’annuale Operazione DEFENDER-Europe 21 dell’esercito americano, che attualmente si protrae fino alla fine di giugno e coinvolge 28.000 soldati degli Stati Uniti e 25 alleati e “partner” della NATO. In questi prossimi mesi, uomini e attrezzature pesanti già predisposti in tre depositi dell’esercito americano, in Italia, Germania e Paesi Bassi verranno spostati in più “aree di addestramento” in 12 paesi. Nessun confinamento in un esercizio all’aperto poiché tutti sono stati vaccinati contro il Covid-19 e avranno le mascherine cinesi.

In realtà si tratta di continuare a isolare diplomaticamente e militarmente la Russia. Se Erdogan, un piede nella Nato e un piede in una rinnovata e storica ideologia dell’antico Impero turco (ormai è presente dappertutto in Medio Oriente). Fa accordi di convenienza con tutti, persino in modo stretto con Israele. Prende soldi da tutti. Minaccia e ricatta l’Europa. Il “sofagate” potrebbe essere profondamente simbolico e dimostrare che in fondo non era previsto un posto di ordine pari per i valvassini. Spera di continuare a divorare e occupare territori altrui. (Se può farlo Israele!). Accordo con Israele e regni arabi per bloccare Cina Iran Siria e musulmani sciiti, ma soprattutto la Nuova Via della Seta, (altro cruccio americano), anche se intende poi esserne beneficiario. Doppio gioco con Russia. Pacificatore armato in Libia (a favore governo Onu. Sic.) facendo fuori gioco francesi e italiani (tentativo stupido di recupero di Draghi). Impegno in Yemen. Costruzione di porti commerciali/militari in Mediterraneo e nel Golfo di Aden. Gli inglesi dopo Brexit riprendono in mano la loro ideologia imperiale e militar/marittima. Erdogan è l’elemento migliore anti espansione russa nelle acque Mediterranee. Almeno lo fa credere. Però sa che è diventato punto di equilibrio tra i due campi.

Allora mette mano anche nell’Ucraina e dovunque c’è confusione o situazione critica.

È abbastanza chiaro che la Turchia persegue obiettivi geostrategici specifici in Ucraina con il pretesto di un partenariato strategico con Kiev. Questi obiettivi turchi non hanno nulla a che fare con gli obiettivi strategici dell’egemonia perseguiti da Washington e dalla NATO volti a indebolire la Russia, ma aiutano. Non è questione di pragmatismo, Erdogan ha già consegnato alla Russia i progetti di costruzione di centrali nucleari (meno costi di quelli russi), figuriamoci con i contratti d’acquisto dei missili s400 e altre costruzioni navali per un giro di miliardi.

Ma perché la Turchia punta sempre al recupero di parte del territorio ucraino. La proposta di assistenza militare turca a Kiev e lo svolgimento di, ultimamente, un Consiglio strategico turco-ucraino a Istanbul è rivolta meno alla Russia con la quale, come detto, la Turchia ha un rapporto ambiguo ma spesso stretto che però gli permette un pieno ingresso nel pandemonio ucraino e altrove. (fonte: TRT).

Con un alleato come Erdogan, il presidente ucraino Zelensky ora non ha bisogno di nemici. La vaga allusione turca all’assistenza per la “liberazione della Crimea” la dice lunga sulla nuova strategia turca così come si è svolta in Siria, Libia e Iraq. Per la Turchia, la Crimea rimane un ex territorio ottomano e l’influenza di Ankara sui musulmani di Crimea rimane una leva piuttosto formidabile. La Russia, inoltre, ha recuperato la Crimea grazie al contributo decisivo delle proprie popolazioni musulmane nel Caucaso, e più in particolare delle forze speciali cecene. Tuttavia, il sultano ha parlato, niente più, di mantenere la Crimea nella zona di influenza di Kiev. L’importante è mettere un piede dappertutto ed essere presente, non sempre con truppe regolari, ma con quelle degli amici volontari Daesh (Isis) siriani, ormai sparsi in tutte le aree di crisi. (mancava l’Ucraina).

In questo articolo ci sono varie contraddizioni, ma sono dovute al muoversi contraddittorio di Erdogan stesso con la politica di un colpo al cerchio e uno alla botte.

DAVOS-2021: La fase riflessiva del capitalismo. L’intervento di Vladimir Putin (VIDEO)

https://zen.yandex.ru/media/id/5ed8714a27fb6c647cd4e4dc/intervento-di-putin-a-davos-6011a0e08b595f6198c00879

(Traduzione in Italiano di Mark Bernardini – post su Facebook)

Russia e Covid-19: dramma e potenzialità

di Stojan Spetič *

*) Giornalista; già Senatore della Repubblica (PCI)

Si può scrivere che la Russia è in ginocchio? Forse sì, ma potrebbe anche rialzarsi. Dipenderà dalle scelte politiche ed economiche che stanno dinnanzi alla sua classe dirigente. Perché i nodi stanno arrivando al pettine.

Da più decenni il paese vive di un’economia capitalista alquanto debole in cui lo Stato sopravvive grazie all’esportazione delle proprie enormi risorse di petrolio e gas naturale. I governi che si sono succeduti, da Gorbačev fino a Putin, hanno privatizzato gran parte dell’industria nazionale divenuta terreno di caccia di pochi oligarchi. Quasi tutti i governi hanno seguito politiche neoliberali sfrenate, solo parzialmente frenate da Putin per i suoi fini populisti e come conseguenza della crescente forza dell’opposizione comunista in grado di mobilitare milioni di lavoratori del braccio e della mente e di governare immense regioni del paese più esteso del pianeta. Continua a leggere

In una settimana il mondo è cambiato

di Alberto Negri (da Il Manifesto del 17/10/19)

La guerra siriana. Sanzioni ad Ankara? Bene! Ma il 70% dei prestiti delle aziende turche sono con banche europee e sono migliaia le società delocalizzate in Turchia (anche Barilla e Benetton). L’atlantismo è sul viale del tramonto. L’obiettivo di Mosca: non ci sarà più un altro Kosovo (’99), né un’altra Libia (2011), né rivoluzioni «colorate», compreso il Venezuela.

In una settimana il mondo è cambiato: è arrivato il Capo, quello vero. Questa non è una guerra come le altre: il mondo uscito dal crollo del muro di Berlino nell’89 è cambiato ancora una volta. Continua a leggere

Il nuovo ordine mondiale a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino

Cartina tratta da LIMES

Pubblichiamo uno stralcio dell’intervento di Andrea Vento in preparazione dell’iniziativa dedicata a “Il nuovo ordine mondiale a 30 anni dalla caduta del Muro di Berlino” di martedì 23 luglio presso la Festa di Liberazione di Poggibonsi (Siena),

 

Sintesi storico-geopolitica della fase post-bipolare

La fine del bipolarismo, iniziata con la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989 e sancita dalla disgregazione dell’Urss nel dicembre del 1991, ha aperto una nuova fase storica che autorevoli analisti hanno denominato “Nuovo ordine mondiale”. Da una periodo storico protrattosi per circa 45 anni e caratterizzato dal predominio geopolitico e militare globale di Usa e Urss, si è repentinamente passati ad un nuovo scenario internazionale dominato da un’unica superpotenza. Continua a leggere

Siria: Corbyn e Mélenchon contro l’attacco alla Siria. Cuba, Bolivia, Venezuela condannano l’azione

Esponenti di quella sinistra che non ha abbandonato il pacifismo

In un’Europa drammaticamente allineata alla linea guerrafondaia del trio Trump, May, Macron, emergono alcuni leader politici che continuano a portare avanti alcuni concetti fondamentali come il rispetto del diritto internazionale e la salvaguardia della pace. Una circostanza non scontata visto il clima neomaccartista che si è venuto a creare sulle due sponde dell’oceano Atlantico.

Tra questi vi è sicuramente il laburista inglese Jeremy Corbyn. Lo storico esponente della sinistra britannica già prima dell’attacco quando iniziava a risuonare l’eco dei primi tamburi di guerra aveva ammonito le potenze occidentali dal non compiere atti unilaterali e contrari al diritto internazionale, oltre che al buon senso. Continua a leggere

Guerra in Siria, ecco perché l’Italia non deve cascarci di nuovo (almeno stavolta)

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di Fulvio Scaglione

Il nuovo Governo nascerà, forse, a causa dell’urgenza bellica. Ma la nostra eventuale partecipazione alla guerra siriana è sintomo che non sappiamo stare nelle alleanze. Vedi i precedenti disastrosi di Iraq e Libia, e non solo

Adesso forse sì che avremo un Governo, visto che ci dobbiamo attrezzare alla guerra di Usa-Francia-Regno Unito alla Russia per interposta Siria. Un Governo del Presidente, magari, con tutti dentro, perché l’ora è solenne, il Paese non può restare senza guida, il funzionamento delle Camere e bla bla bla. Il che, naturalmente, equivale ad ammettere che l’Italia la governano altri e che l’agenda di Washington ci mette in riga anche quando siamo divisi su tutto. Ma pazienza. Così va spesso il mondo… voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo, com’era scritto nelle pagine dei Promessi sposi che lo stesso Manzoni aveva definito “la notte degli imbrogli e dei sotterfugi”. Continua a leggere

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