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La Guerra contro il mondo multipolare

di Hauke Ritz*

Politici di spicco suggeriscono che si potrebbe rischiare una continua escalation della guerra in Ucraina perché una vittoria russa sarebbe peggiore di una terza guerra mondiale. A cosa è dovuta questa enorme volontà di escalation? Perché sembra non esistere un piano B? Per quale motivo l’élite politica degli Stati Uniti e quella della Germania hanno legato il proprio destino all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale?

Non si può ignorare che il mondo occidentale sia in preda a una sorta di frenesia bellica nei confronti della Russia. Ogni escalation sembra portare quasi automaticamente alla successiva. Non appena è stata decisa la consegna di carri armati all’Ucraina, si è parlato della consegna di jet da combattimento. Un drone spia americano era appena stato abbattuto vicino al confine russo dal passaggio ravvicinato di un caccia russo, quando la Corte penale internazionale dell’Aia ha pubblicato un mandato di arresto per Vladimir Putin. Criminalizzando il presidente russo, l’Occidente ha deliberatamente distrutto il percorso verso una soluzione negoziale e ha portato l’escalation a un nuovo livello. Ma come se il livello così raggiunto non fosse abbastanza alto, la Gran Bretagna ha annunciato la consegna di munizioni all’uranio, considerate armi “convenzionali” che lasciano una contaminazione radioattiva sul luogo dell’esplosione. La risposta di Mosca non si è fatta attendere ed è consistita nella decisione di posizionare armi nucleari tattiche in Bielorussia a stretto giro.

La rinuncia al controllo dell‘escalation

Da dove deriva questa disposizione quasi automatica all’escalation da parte dei politici al potere oggi? È un fenomeno di decadenza? Qualcosa di analogo si verifica quando l’adattamento allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) è diventato più importante dell’adattamento alla realtà. Oppure la disponibilità all’escalation può essere spiegata razionalmente? È forse l’espressione di un certo obiettivo politico che è stato minacciato ma che non può essere abbandonato dalla classe politica al potere e che quindi sembra raggiungibile solo attraverso un azzardo?

Una dichiarazione molto significativa, rilasciata dal Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg il 18 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, fa pensare a quest’ultima ipotesi: Stoltenberg ha ammesso nel suo discorso che, continuando a sostenere l’Ucraina, c’era il rischio di un’escalation militare tra la NATO e la Russia che non poteva più essere controllata. Tuttavia, ha fatto seguito a questa ammissione chiarendo immediatamente che non esistono soluzioni prive di rischi e “che il rischio più grande di tutti sarebbe una vittoria russa”. In un certo senso, Stoltenberg ha legittimato il rischio di un’escalation militare tra le due superpotenze nucleari. In altre parole, si potrebbe tranquillamente rischiare l’escalation perché una vittoria russa in Ucraina sarebbe potenzialmente peggiore di una terza guerra mondiale.

Ora, si potrebbe liquidare la dichiarazione di Stoltenberg come irrazionale se non fosse in linea con altre dichiarazioni allarmanti di politici, militari e persone che gravitano in questi mondi. Si consideri, ad esempio, l’osservazione fiduciosa di Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, che si è detto sicuro che Putin non userà le armi nucleari anche in caso di escalation (1), il che implicherebbe dunque che si può osare un’escalation. Che altri leader della NATO la pensino allo stesso modo è stato recentemente reso noto da una prostituta (Hanna Lakomy su “Berliner Zeitung”) che bazzica in questi ambienti. Anche il capo del governo ungherese, Victor Orban, ha recentemente avvertito che i Paesi occidentali sono sul punto di discutere seriamente l’invio di proprie truppe in Ucraina. Solo due giorni dopo, il famoso giornalista investigativo Seymour Hersh, noto per le sue fonti nella burocrazia di Washington, ha lanciato avvertimenti molto simili. Secondo Hersh, il governo statunitense sta valutando la possibilità di inviare proprie truppe in Ucraina sotto la copertura della NATO. Il presidente serbo, a sua volta, ha commentato la notizia del mandato di arresto della Corte penale internazionale contro il presidente russo con le parole “E sono pronto a dirvi che temo che non siamo lontani dallo scoppio della terza guerra mondiale”. Perché si era creata una situazione “in cui entrambe le parti scommettono su tutto o niente e rischiano fino in fondo”. Lo scorso dicembre, il leggendario Segretario di Stato americano Henry Kissinger aveva espresso sentimenti simili. Nel suo articolo “Come evitare un’altra guerra mondiale”, ha descritto come in questa guerra si scontrino posizioni assolutiste che potrebbero effettivamente portare allo scoppio di una guerra mondiale.

Affermazioni di questo tipo sollevano la questione di cosa si stia effettivamente combattendo in Ucraina: qual è il vero scopo di questa enorme volontà di escalation? I bacini carboniferi del Donbass? Probabilmente no. Ma allora di cosa si tratta?

Il contrasto tra ordine mondiale unipolare e multipolare

La tesi di lavoro di questo saggio è che nel conflitto ucraino si stanno confrontando due concetti di ordine mondiale, ovvero la contrapposizione tra un ordine mondiale unipolare e uno multipolare. Di seguito, le caratteristiche di entrambi i principi dell’ordine mondiale saranno sviluppate e messe a confronto.

Se si esaminano i documenti di politica estera pubblicati negli ultimi due decenni dalle principali riviste di politica estera occidentale (ad esempio negli Stati Uniti “Foreign Affairs”, rivista del Council on Foreign Relations, o in Germania “Internationale Politik”, rivista del DGAP – Consiglio tedesco per le relazioni estere), una circostanza colpisce particolarmente: in queste pubblicazioni l’obiettivo di un mondo normativamente governato dagli Stati Uniti o dalla NATO non viene messo in discussione, ma sempre presupposto. Il potenziale fallimento del dominio occidentale non viene nemmeno preso in considerazione, nemmeno come possibilità. La situazione è simile a quella di quasi tutti gli altri think tank statunitensi o tedeschi e delle loro pubblicazioni sulla geopolitica e la politica estera. Per queste istituzioni la validità dell’ordine mondiale incentrato sull’Occidente è inconfutabile, mentre il declino della Russia è considerato un dato di fatto.

In altre parole, al momento non sembra esistere un “piano B” nella pianificazione politica occidentale. È proprio l’assenza di un tale piano che potrebbe spiegare l’enorme disponibilità dell’Occidente all’escalation. Per qualche motivo, l’élite politica degli Stati Uniti, ma anche della Gran Bretagna, della Germania e di numerosi altri Paesi, ha legato il proprio destino politico all’imposizione di un ordine mondiale a guida occidentale. Gli Occidentali sembrano essere dominati dall’idea che la guerra in Ucraina possa portare a un cambio di regime a Mosca e quindi a una restaurazione del potere occidentale. Ma ora che, contrariamente alle aspettative, il predominio dell’Occidente ha iniziato a scivolare, si stanno verificando le reazioni isteriche di cui sopra.

Per arrivare al nocciolo del conflitto, dobbiamo quindi rispondere alla domanda su che cosa sia in realtà un ordine mondiale a guida occidentale, sul perché sia chiamato anche ordine mondiale unipolare, tra le altre cose, e su quale sia il suo contro-concetto.

Caratteristiche dell’ordine mondiale unipolare

Un ordine mondiale unipolare è un ordine globale strutturato in modo tale che solo una regione del globo sia davvero abbastanza sviluppata da essere il polo di potere che dà forma a tutte le sfere del mondo moderno. In un ordine mondiale unipolare, ad esempio, gran parte del potere militare sarebbe concentrato nelle mani di un’unica superpotenza o alleanza di Stati. A causa di questa concentrazione di potere, in questo caso ci sarebbe anche una sola norma di politica estera che strutturerebbe la politica estera di tutti i Paesi. Una politica estera sovrana sarebbe, per così dire, modellata solo dal centro, il polo unico; il resto del mondo, cioè la periferia, dovrebbe seguirla.

Il polo di potere in un mondo unipolare plasmerebbe le condizioni quadro delle relazioni economiche globali, ad esempio propagando una teoria economica generalmente riconosciuta come valida e controllando importanti istituzioni come la Banca Mondiale, il FMI o persino i grandi gestori di fondi. Il polo di potere eserciterebbe anche il controllo su una quota significativa delle materie prime globali, sulle rotte commerciali via terra e via mare e sulla fatturazione globale. A causa di questo monopolio economico, la crescita economica in altre regioni del mondo potrebbe essere colpita, il che ridurrebbe notevolmente la possibilità di emergere di un secondo centro di potere.

In un ordine mondiale unipolare, anche le tendenze a lungo termine dello sviluppo tecnologico sarebbero progettate e modellate da un solo polo di potere, che dominerebbe allo stesso tempo lo sviluppo e la progettazione del sistema finanziario globale e la regolamentazione giuridica delle relazioni economiche.

Tutto ciò porterebbe il diritto internazionale ad assumere la forma di una politica interna mondiale. Infine, in un ordine mondiale unipolare, anche lo sviluppo della cultura sarebbe orientato verso il centro globale: tutte le tendenze decisive nascerebbero al centro e da lì si diffonderebbero alla periferia. Questo influenzerebbe aspetti diversi come la forma del sistema educativo, l’emergere di mode, tendenze estetiche e stili, e persino la questione dei criteri con cui artisti e scrittori, così come scienziati e le loro teorie, ottengono o meno un riconoscimento internazionale. In breve, tutte le questioni riguardanti lo sviluppo della civiltà sarebbero determinate da un solo potere centrale in un ordine mondiale unipolare.

In un certo senso, un ordine mondiale unipolare creerebbe un mondo in cui l’esterno o l’altro scomparirebbero. In un mondo unipolare, ci sarebbe un solo polo di potere e quindi un solo modello di civiltà. Un ordine mondiale unipolare sarebbe in definitiva un impero la cui sfera di potere comprenderebbe l’intero globo per la prima volta nella storia: il mondo assumerebbe una struttura completamente immanente.

Dal 1991 al 2022 – Un ordine mondiale unipolare in sospeso

Questo elenco delle caratteristiche di un mondo unipolare è stato volutamente scritto a immagine e somiglianza di questo ordine mondiale per sottolinearne chiaramente il carattere presuntuoso, addirittura antiumanista. Tuttavia, bisogna tenere presente che un ordine mondiale unipolare è già esistito in forma latente a partire dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991, e molti dei criteri appena elencati in realtà descrivono già il nostro mondo di oggi. La situazione degli ultimi tre decenni non è stata il risultato di un processo di sviluppo naturale, ma piuttosto l’esito non pianificato del crollo caotico dell’Unione Sovietica, che ha colto di sorpresa quasi tutti i contemporanei. È stata quindi una svolta storica difficile da prevedere che ha portato gli Stati Uniti a trovarsi nel ruolo di polo di potere unipolare del mondo negli anni Novanta.

Il risultato è stato che nel primo decennio e mezzo dopo il crollo dell’URSS, gli USA hanno potuto determinare la forma della politica globale quasi da soli. Hanno dominato tutte le istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, nonché molte delle fondazioni attive a livello internazionale e, a partire dagli anni ’90, sempre più spesso anche molte organizzazioni non governative, che in molti casi possono certamente essere considerate organizzazioni semi-governative. Infine, gli Stati Uniti hanno avuto una grande influenza anche nella sfera della cultura (soft power), nella misura in cui le tendenze e le mode emerse negli Stati Uniti hanno influenzato lo sviluppo della cultura mondiale nel suo complesso. Inoltre, sono stati in grado di determinare autonomamente la standardizzazione di nuove tecnologie come Internet e i telefoni cellulari e di utilizzarle per la loro influenza culturale e per lo spionaggio.

Si può quindi affermare che l’ordine mondiale unipolare è rimasto in sospeso dal 1991 fino alla crisi finanziaria del 2008. Sebbene in quel periodo il mondo avesse già una struttura unipolare, mancavano ancora i criteri decisivi per la piena attuazione dell’unipolarismo. Gli Stati Uniti, tuttavia, erano così forti della loro nuova posizione di potere che hanno valutato male il rischio che comportava l’instaurazione definitiva di un tale ordine. Dal mandato di George W. Bush Jr. in poi, l’ordine mondiale unipolare è stato apertamente proclamato dagli USA, dividendo il mondo in Stati amici e nemici (i cosiddetti “Stati canaglia”).

I primi segni di crisi dell’ordine mondiale unipolare dopo il 1991

L’euforia è durata poco. Sono stati tre i fattori principali che hanno provocato la graduale erosione del ruolo degli Stati Uniti come polo di potere unipolare nella politica mondiale: in primo luogo, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti si sono giocati la loro reputazione politica globale con un comportamento apertamente imperialista in Iraq. Attraverso l’esibizione di un imperialismo dichiarato, è emersa una nuova consapevolezza in gran parte del mondo arabo, in America Latina e nel Sud e Sud-Est asiatico. La subordinazione a lungo termine di questi Paesi all’egemonia statunitense è man mano divenuta sempre più difficile.

Un secondo fattore è stato che, a partire dalla metà degli anni Novanta, l’ascesa di Cina, India e di una serie di piccole economie emergenti ha iniziato a spostare l’equilibrio economico globale. Il deficit commerciale degli Stati Uniti ha rivelato la dipendenza dell’economia americana dall’economia finanziaria, perché il settore produttivo, necessario per la stabilità del settore finanziario, è andato perso nel corso degli anni. A partire dalla crisi finanziaria del 2008, gli squilibri strutturali dell’economia statunitense sono diventati generalmente visibili. Da allora, il ruolo del dollaro come valuta mondiale e di riserva è stato messo sempre più apertamente in discussione.

Il terzo fattore che ha messo in discussione l’ordine mondiale unipolare nella seconda metà degli anni Novanta è stato il fatto che la Russia è riuscita gradualmente a ripristinare la propria sovranità e il proprio potenziale militare dopo il crollo dell’URSS negli anni Novanta. Il discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco del 2007 può essere visto come un punto di svolta simbolico, in cui la Federazione Russa ha assunto una contro-posizione differenziata davanti agli occhi dell’opinione pubblica mondiale per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino.

In quanto erede diretto dell’Unione Sovietica, la Russia ha un potenziale di armi nucleari, pari a quello degli Stati Uniti, che ostacola un ordine mondiale unipolare. Questo perché un ordine mondiale unipolare richiede il monopolio dell’uso della forza per essere realizzato e in questo senso assomiglia a uno Stato che non può esistere senza il monopolio dell’uso della forza. Per questo motivo, gli Stati Uniti hanno ampliato la NATO verso est durante il mandato di Bill Clinton, in violazione di precedenti accordi con Mosca, e hanno iniziato a sviluppare uno scudo missilistico durante il mandato di George W. Bush jr. L’intenzione di neutralizzare la capacità di attacco della Russia è stata tuttavia vanificata dallo sviluppo di nuovi missili russi. Anche se non esiste ancora un’alleanza ufficiale tra Russia e Cina o Russia e India, il potenziale nucleare russo è comunque un fattore che protegge indirettamente l’ascesa economica di questi Paesi.

A partire dagli anni Novanta, al ruolo di seconda potenza nucleare di Mosca si è aggiunto anche quello di fornitore di sistemi di difesa moderni. Vendendo sistemi di difesa aerea, ad esempio, Mosca è stata in grado di limitare in modo massiccio il raggio d’azione militare degli Stati Uniti. Paesi ricchi di petrolio e sovrani come l’Iran o il Venezuela sono stati in grado di proteggersi dall’azione militare degli Stati Uniti, anche grazie all’acquisto di armi russe.

A causa di questi tre fattori, gli intellettuali hanno parlato della fine dell’ordine mondiale unipolare al più tardi a cominciare dalla crisi finanziaria del 2008: non appena è stata proclamata, sembrava già parte del passato. L’insieme di libri, articoli e saggi scritti in tutti i continenti su questo slittamento di potere dalla metà degli anni ’90 potrebbe riempire intere biblioteche. (2) Ciò solleva naturalmente la questione del perché Stoltenberg e i suoi compagni d’armi oggi sembrino addirittura disposti ad accettare un’escalation sconsiderata, compreso il rischio di una guerra mondiale, solo per far passare qualcosa che è sostanzialmente inapplicabile. Non sono a conoscenza delle numerose analisi negli uffici del Dipartimento di Stato americano e nei corridoi della NATO che trattano dell’impossibilità di un ordine mondiale unipolare?

È vero che la sovranità e la forza militare russa sono uno dei tre fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare. Se la Russia riuscirà a difendere la sua zona d’influenza in Ucraina, avrà indirettamente difeso anche la sovranità di numerosi altri Paesi al di fuori dell’Occidente. Agli occhi del mondo, una vittoria russa in Ucraina equivarrebbe quindi all’attuazione dell’ordine mondiale multipolare. Tuttavia, si tratterebbe solo di un passo evolutivo che avverrà comunque nei prossimi anni. Infatti, l’enorme sviluppo economico della Cina, dell’India, ma anche del Brasile, dell’Iran, dell’Indonesia e di numerosi altri Paesi emergenti non può più essere fermato e porterà in ogni caso a un mondo multipolare. Anche il risveglio intellettuale e politico che si sta verificando in vaste aree dell’emisfero meridionale e orientale, nel corso del quale vengono ricordati anche i crimini dell’imperialismo occidentale, va in questa direzione e rende impossibile una centralità permanente dell’ordine mondiale in Occidente. (3)

Unipolarismo e valori occidentali

Storicamente, un ordine mondiale multipolare è “la norma”: Quasi per tutta la storia dell’umanità, il mondo è sempre stato costituito da diversi poli di potere. Anche negli ultimi secoli di dominazione europea, nella stessa Europa sono sempre esistiti diversi centri di potere che si controllavano e limitavano a vicenda. Il tentativo della Francia sotto Napoleone di unificare l’intera Europa con la forza militare fallì a causa della Russia. Anche il tentativo del “Terzo Reich” di sottomettere nuovamente l’Europa con la forza militare è fallito a causa di Mosca. E anche il tentativo degli Stati Uniti, avviato dopo il crollo dell’URSS, di estendere il proprio potere dall’Europa al mondo intero si è nuovamente infranto a causa della resistenza russa.

È per via di questo schema costante della storia mondiale che la NATO sta ora letteralmente azzannando la Russia e trascurando gli altri fattori che rendono impossibile un ordine mondiale unipolare? Comunque sia, l’alba di un ordine mondiale multipolare vedrà il mondo tornare a un vecchio schema. Non c’è motivo di descrivere questo ritorno di un vecchio ordine come il “rischio più grande di tutti”, come ha fatto Stoltenberg durante l’ultima Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Al contrario: un ordine mondiale unipolare monopolizzerebbe il potere su scala globale. Si tratterebbe di uno sviluppo che non solo sarebbe in contraddizione con gli interessi di Russia, Cina, India e numerosi altri Paesi dell’emisfero meridionale e orientale, ma una tale concentrazione di potere sarebbe anche fondamentalmente in contrasto con i valori dell’Occidente stesso.

I valori occidentali sono emersi da una serie di rivoluzioni iniziate con le aspirazioni di autonomia delle città-stato italiane del Rinascimento, proseguite nella Confederazione svizzera, attraverso la guerra dei contadini tedeschi, la rivolta olandese, le rivoluzioni inglese e americana e infine culminate nella grande rivoluzione francese. (4) I valori occidentali sono quindi valori rivoluzionari, del tutto incompatibili con l’idea di una concentrazione globale del potere. Si basano sulla possibilità di un’inversione dei rapporti di forza esistenti che può essere avviata in qualsiasi momento. Desacralizzano il potere e sono quindi in grado di impegnarlo per il bene comune. Questa idea è stata istituzionalizzata nella Repubblica. L’idea della separazione dei poteri svolge un ruolo decisivo nel garantire equilibri stabili, nel rendere visibili gli abusi di potere e nel correggere le politiche sbagliate.

Il fatto che l’Occidente, tra tutti i Paesi, abbia fatto dell’idea di un ordine mondiale unipolare e quindi del concetto di concentrazione globale del potere la base della sua politica estera nell’era iniziata dopo la caduta del Muro di Berlino dimostra quanto il mondo occidentale si sia allontanato dalle sue basi intellettuali. Naturalmente, l’Occidente è sempre stato diviso tra la sua tradizione imperiale e quella repubblicana. Spesso le due sono esistite in parallelo, anche se i loro principi filosofici si escludevano a vicenda. Un esempio famoso è la rivolta degli schiavi ad Haiti, che il governo francese cercò invano di sedare con la forza delle armi, anche se gli schiavi in rivolta invocavano i valori della Rivoluzione francese. Con le sue azioni, Parigi ha chiarito che i valori della Rivoluzione francese – cioè libertà, uguaglianza, fraternità – dovevano valere solo per i cittadini francesi, ma non per quelli delle colonie. (5)

Tuttavia, deve essere successo qualcosa nell’Occidente stesso che ha fatto sì che l’ambivalenza che esisteva ancora all’epoca tra repubblica e impero, che poteva esistere in parallelo per molto tempo, si è chiaramente dissolta nel nostro tempo a favore dell’imperialismo nella forma di un ordine mondiale unipolare. Un Occidente che voglia professare i propri valori politici potrebbe, al contrario, lottare per un mondo multipolare, in accordo con la Russia e le grandi civiltà dell’Asia. Un ordine mondiale multipolare trasferirebbe nel mondo l’idea della separazione dei poteri e quindi l’effetto benefico degli equilibri di potere; rimarrebbe la competizione tra civiltà.

La competizione tra civiltà

La competizione tra civiltà è un fattore importante per il futuro sviluppo dell’umanità. Proprio perché le nuove tecnologie del XXI secolo permettono di interferire con i diritti naturali degli individui su una scala molto più ampia rispetto al XX secolo, la competizione tra civiltà deve essere mantenuta ad ogni costo. I diritti naturali sono diritti che precedono il diritto positivo stabilito da uno Stato. Questi diritti esistono “per natura” e sono dati per scontati, come il diritto di disporre del proprio corpo, i diritti fondamentali della libertà umana o il diritto dei genitori di crescere i propri figli.

Tecnologicamente, oggi è possibile monitorare una persona per tutta la vita, memorizzare e valutare in modo permanente le sue tracce digitali e, su questa base, regolare e limitare individualmente il suo accesso alla società. Questo permette di intervenire nell’ordine della legge naturale che prima era impensabile. Lo sviluppo futuro dell’ingegneria genetica si aggiunge a tutto questo e potrebbe, ad esempio, mettere in discussione il diritto all’integrità corporea e all’autonomia della persona in modo molto più drastico di quanto abbiano potuto fare i dittatori del passato. Finché le civiltà possono essere messe a confronto tra loro, questi sviluppi indesiderati delle singole civiltà possono essere riconosciuti e nominati. In un mondo determinato da civiltà diverse, nessuna di esse potrebbe interferire con i diritti naturali dei propri cittadini per un lungo tempo senza subire uno svantaggio strutturale nei confronti delle altre civiltà.

In un mondo unipolare, invece, la comparabilità e la competizione latente delle civiltà scomparirebbero. In un mondo del genere, sarebbe molto più facile definire in modo esaustivo le implicazioni di potere della tecnologia moderna e limitare o addirittura abolire i diritti naturali. Ne consegue che: chi sogna un mondo tecnocratico in cui l’uomo sia sottomesso alla tecnologia non può evitare di lottare per un mondo unipolare per realizzare questo obiettivo. Al contrario, se si vuole vedere tutelata la libertà e la dignità umana nel XXI secolo, si deve lottare per un mondo multipolare. Vediamo quindi che i due concetti di ordine mondiale, unipolarismo e multipolarismo, rappresentano ordini di valori diversi.

Un altro svantaggio dell’ordine mondiale unipolare è che non dà spazio alla diversità culturale del mondo e alla diversità delle civiltà emerse nella storia. Poiché l’ordine unipolare cerca di governare il mondo secondo un unico principio, deve inevitabilmente vedere una minaccia nella diversità culturale e tendere a unificare culturalmente il mondo. Ma questo provocherebbe inevitabilmente una resistenza, alla quale il governo mondiale unipolare può rispondere solo con la propaganda, la manipolazione o la violenza. Per questo motivo, un ordine mondiale unipolare sarebbe possibile solo come dittatura globale.

I fautori di un ordine mondiale unipolare sostengono spesso che solo un governo mondiale potrebbe abolire la guerra e garantire la pace nel mondo. Tuttavia, qualsiasi conquistatore del passato avrebbe potuto affermare lo stesso, secondo il motto: “Quando vi avrò conquistati tutti, allora…”. Ci devono essere altri modi per garantire la pace nel mondo che non la realizzazione di un monopolio globale del potere. Perché la strada per raggiungere questo obiettivo è lastricata di sangue e violenza, come ha recentemente sottolineato il musicista Roger Waters nel suo discorso alle Nazioni Unite. (6)

È vero che anche in un ordine mondiale multipolare esiste un pericolo di guerra a causa della moltitudine di attori. Tuttavia, va detto in primo luogo che le guerre all’interno di un ordine mondiale multipolare non assumerebbero probabilmente il carattere assoluto che caratterizza la ricerca dell’unipolarismo, a cui ha fatto riferimento anche Roger Waters nel suo discorso all’ONU. In secondo luogo, non sono solo gli equilibri di potere a proteggere dalla guerra, ma anche la cultura. In una certa misura, il livello di cultura determina la capacità di pace di una società. Poiché il livello di cultura in un mondo multipolare potrebbe essere inegualmente più sviluppato che in un ordine mondiale unipolare orientato all’unificazione, la pace in un ordine mondiale multipolare potrebbe essere garantita in due modi, da un lato attraverso gli equilibri di potere e dall’altro attraverso il più alto livello di cultura possibile.

Anche l’argomentazione secondo cui alcuni problemi, come la regolamentazione delle armi di distruzione di massa, il cambiamento climatico o la prevenzione delle pandemie, potrebbero essere risolti solo a livello internazionale non è efficace, perché il polo di potere unipolare o il “governo mondiale” cercherebbero di convertire questi problemi internazionali in una fonte di legittimità per il proprio potere. Invece di risolvere i problemi, se ne temerebbe l’appropriazione indebita. Un polo di potere unipolare non avrebbe alcun interesse a risolvere i problemi internazionali o globali, poiché ne avrebbe bisogno come pretesto per esercitare il proprio potere. Chiunque abbia seguito con un po’ di distanza i dibattiti pubblici in Occidente negli ultimi anni potrebbe facilmente vedere le indicazioni di una simile appropriazione indebita del potere. Chi vuole davvero risolvere i problemi citati dovrebbe quindi impegnarsi maggiormente per la stipula di trattati tra Stati sovrani, invece di un “governo mondiale” che sarebbe al di sopra di tutti e quindi non potrebbe più essere controllato da nessuno.

L’unipolarismo, la guerra e il fallimento politico dell’Europa

Fa parte della natura del nostro mondo il fatto che esso sia costituito da diverse civiltà molto grandi e antiche. Molte di queste civiltà hanno prodotto in passato importanti conquiste culturali che hanno anche costituito dei punti di riferimento per il futuro dell’umanità. Tuttavia, queste civiltà sono nate da religioni e filosofie molto diverse e da storie diverse. Sebbene si possano trovare valori e intuizioni comuni, gli approcci scelti si basano spesso su principi opposti tra i quali non sempre sembra possibile un compromesso. Ad esempio, i confini della vergogna, l’ordine dei sentimenti e degli affetti, il rapporto dell’individuo con la famiglia, la società e lo Stato, il senso del tempo e della storia o il rapporto con la propria soggettività sono codificati in modo molto diverso nelle diverse culture.

Il polo di potere unipolare, a sua volta, non può essere culturalmente neutrale e inevitabilmente globalizzerebbe l’ordine di valori della sua cultura di origine – nel mondo di oggi, quella degli Stati Uniti. Le altre culture al di fuori del polo di potere difficilmente potrebbero quindi essere rappresentate culturalmente. La loro diversità culturale rappresenterebbe una fonte costante di instabilità all’interno dello “Stato mondiale”, che l’ordine mondiale unipolare dovrebbe contrastare con una sempre maggiore omogeneizzazione. La propaganda e la violenza dovrebbero essere costantemente utilizzate a questo scopo, il che a sua volta porterebbe a nuove resistenze. Ma questo meccanismo sopprimerebbe, indebolirebbe e forse addirittura dissolverebbe proprio quelle conquiste culturali di cui l’umanità ha tanto bisogno per riappropriarsi del proprio futuro.

È chiaro che molte delle civiltà più antiche non possono acconsentire alla loro dissoluzione in un ordine mondiale unipolare dominato dalla cultura consumistica americana senza opporre resistenza. Il tentativo di stabilire un mondo unipolare deve quindi necessariamente portare a una situazione in cui le rivendicazioni di un ordine unipolare e le rivendicazioni di uno Stato sovrano più grande, che eventualmente rappresenti anche la propria sfera culturale, entrano in conflitto esistenziale tra loro. In questo conflitto, o il concetto di governo mondiale crollerà o lo Stato in questione perderà la sua sovranità. In un certo senso, tra Stati Uniti e Russia è sorto esattamente un conflitto di questo tipo: poiché non è possibile alcun compromesso tra gli Stati Uniti, in quanto rappresentanti dell’ordine mondiale unipolare, e la Russia, in quanto rappresentante dei Paesi emergenti che lottano per la sovranità, ora c’è persino la minaccia di una guerra tra le due potenze nucleari.

Chiunque rifletta su questi problemi con un po’ di conoscenza storica e senso di responsabilità deve, per tutte queste ragioni, rifiutare l’idea di un mondo unipolare o di un governo mondiale. Poiché il concetto di istituire un governo mondiale porta necessariamente a un conflitto esistenziale tra potenze nucleari, questo concetto non avrebbe mai dovuto essere ricercato dagli europei. Quando, a partire dagli anni Novanta, è apparso chiaro che gli Stati Uniti non potevano più staccarsi da questo piano, gli europei avrebbero dovuto separarsi dagli USA.

Il fatto che gli Stati Uniti siano stati ricettivi a queste fantasie di potere è dovuto anche al fatto che si tratta di un Paese molto giovane che si è espanso quasi continuamente dalla sua fondazione. Allo stesso tempo, gli Stati Uniti non hanno il tipo di esperienze storiche drastiche che l’Europa ha subito più volte sul suo territorio, dalla Guerra dei Trent’anni alle due guerre mondiali. Chi è stato così viziato dalla Storia come gli Stati Uniti ha avuto difficoltà a imparare la maturità e l’autocontrollo. Sarebbe stato quindi compito degli europei esercitare saggezza e lungimiranza e contrastare l’euforia di potenza statunitense con una riflessione sul bene comune di tutta l’umanità. Una riflessione, si badi bene, che avrebbe dovuto essere concepita in dialogo con le altre grandi civiltà.

Come si vede, gli argomenti a favore di un ordine mondiale multipolare sono ovvi. Avrebbero potuto essere sviluppati senza sforzo nei ministeri degli Esteri di Germania, Francia o Italia. Perché ciò non sia avvenuto, perché l’Europa non abbia intrapreso un percorso indipendente e abbia invece assecondato una “Grande Strategia” americana che avrebbe potuto fare dell’Europa, ancora una volta, il campo di battaglia di una grande guerra, è sconcertante. Il fatto che quasi nessuno delle migliaia di esperti che lavorano nei ministeri degli Esteri dei vari Paesi europei sia apparso pubblicamente come voce critica e ammonitrice indica o un’enorme mancanza di senso di responsabilità o dimostra che i rappresentanti dell’intellighenzia sono stati attivamente esclusi da queste istituzioni.

Il fallimento dell’Europa e la vera paura delle élite

Il fatto che oggi, 33 anni dopo la riunificazione, l’Europa si trovi di fronte al pericolo reale di una guerra nucleare è l’espressione di un fallimento fondamentale della politica estera tedesca, francese e italiana che difficilmente può essere descritto a parole. Nel 1989, l’Europa è stata benedetta dalle circostanze della storia. Era dotata della possibilità di un ordine di pace duraturo, potenzialmente in grado di durare per generazioni, sotto forma di unificazione tedesca ed europea. L’Europa di oggi, invece, che sta di nuovo sguinzagliando i cani da guerra sul suo continente con un occhio al futuro e persino con una certa astuzia, (7) si è dimostrata indegna di questo dono. Il potere in politica estera di almeno due decenni è stato sprecato per un obiettivo discutibile.

La separazione dell’Ucraina dalla Russia era un vecchio obiettivo bellico dell’Impero tedesco nella Prima Guerra Mondiale, imposto con la forza nel trattato di pace di Brest-Litovsk. Il “Terzo Reich” riattivò questo obiettivo bellico e lo ampliò ulteriormente, cercando non solo di appropriarsi dell’Ucraina, ma anche di sterminare una parte considerevole di tutti i russi. La campagna di Hitler contro l’Unione Sovietica era infatti apertamente concepita come una guerra di sterminio razziale e ideologica. Nella vecchia Repubblica Federale e nella DDR, ma anche nella Germania riunificata sotto Kohl e Schröder, c’era ancora un consenso sul fatto che i vecchi obiettivi bellici tedeschi erano falliti e che quindi un futuro conflitto con la Russia per l’Ucraina doveva essere evitato a tutti i costi. Il fatto che questa convinzione abbia perso la sua validità incondizionata durante i mandati di Merkel e Scholz non è altro che una catastrofe intellettuale e morale per il nostro Paese e per l’Europa nel suo complesso.

Torniamo alla dichiarazione del Segretario Generale della NATO: Jens Stoltenberg ritiene che una vittoria russa sarebbe peggiore di una continua escalation che potrebbe portare a una vera e propria guerra mondiale con miliardi di morti. Che un simile azzardo possa essere davvero pianificato è indicato anche dalle dichiarazioni di numerosi politici e testimoni contemporanei citati all’inizio. Quale paura di fondo può aver portato Stoltenberg a chiedere un’escalation?

Forse teme che l’irrazionalità di 30 anni di politica estera occidentale possa venire alla luce, che i cittadini vengano illuminati su ciò che è stato realmente tentato negli ultimi tre decenni? Vale a dire, che i politici occidentali hanno cercato un ordine mondiale che, da un lato, porta necessariamente alla guerra? E dall’altro contraddice fondamentalmente l’ordine di valori occidentale.

Tuttavia, se questa rivelazione diventasse nota, potrebbe essere l’inizio di una rivalutazione che, man mano che procede, potrebbe trasformarsi in un secondo Illuminismo. Il primo Illuminismo ha messo in discussione il potere illegittimo della Chiesa e del clero, nonché della nobiltà e della società classista. Oggi viviamo di nuovo in un mondo in cui il potere è cresciuto enormemente – come nella Francia assolutista – ma sta perdendo sempre più la sua base di legittimità nel corso di questa espansione.

Un secondo Illuminismo oggi, sull’esempio della critica al clero, dovrebbe mettere in discussione il potere dei media e smascherare le loro sofisticate tecniche di manipolazione psicologica. E, sul modello della critica all’aristocrazia e alla grazia divina della monarchia, dovrebbe illuminare oggi sul potere dell’oligarchia e sull’economia mondiale sempre più dominata dai monopoli. Naturalmente, se questo secondo illuminismo dovesse iniziare, emergerebbe una dinamica che andrebbe ben oltre una semplice riforma del nostro sistema politico. È forse questo lo sviluppo che Stoltenberg definisce “il rischio più grande di tutti”, ossia il ritorno dell’Occidente ai suoi valori originari?


* multipolar-magazin.de

FONTE: https://multipolar-magazin.de/artikel/der-krieg-gegen-die-multipolare-welt


Traduzione di oval.media

Hauke Ritz. Ha conseguito un dottorato in filosofia e pubblica soprattutto su temi di geopolitica e storia delle idee. Libri: “Der Kampf um die Deutung der Neuzeit” (2013), “Endspiel Europa” (2022, insieme a Ulrike Guérot).

Fonte originale: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
Fonte traduzione: https://www.oval.media/it/lanalisi-del-filosofo-tedesco-hauke-ritz/
NOTE
(1) Rob Bauer, Presidente del Comitato militare della NATO, Intervista al canale televisivo RTP, 29.01.2023
(2) Chalmers Johnson, Un impero in declino: quando finirà il secolo americano? Monaco 2001; Peter Scholl-Latour, Weltmacht im Treibsand – Bush gegen die Ayatollahs, Berlino 2004; Emmanuell Todd, Weltmacht USA – Ein Nachruf, Monaco 2003
(3) Cfr: Hauke Ritz, Geopolitischer Gezeitenwechsel, in: Carsten Gansel (a cura di), Deutschland Russland – Topographie einer literarischen Beziehungsgeschichte, Berlino 2020, pp. 427-442.
(4) Anche la Rivoluzione russa del 1917 rientra in questa serie, ma in un modo particolare, che non può essere discusso in modo esaustivo in questa sede.
(5) Cfr. Susan Buck-Morss, Hegel und Haiti – Für eine neue Universalgeschichte, Berlino 2011.
(6) “…e la marcia egemonica di un impero o di un altro verso il dominio unipolare del mondo. La prego di rassicurarci che questa non è la sua visione, perché non c’è alcun risultato positivo su quella strada. Quella strada porta solo al disastro, tutti su quella strada hanno un pulsante rosso nella loro valigetta e più andiamo avanti su quella strada più le dita pruriginose si avvicinano a quel pulsante rosso e più ci avviciniamo tutti all’Armageddon”. Roger Waters, Discorso al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, New York, 08.02.2023
(7) Vedi: Ulrike Guerot, Hauke Ritz, Endspiel Europa – Warum das politische Projekt Europa gescheitert ist und wie wieder davon träumen können, Frankfurt a. Main 2022, p. 118ss.

L’Australia diventa una portaerei nucleare statunitense in Asia

di John Menadue (*) (1 novembre 2022)

Four Corners ieri sera ha mostrato come l’Australia stia diventando “un proxy” o “un patsy” per gli Stati Uniti in un possibile conflitto con la Cina. Le nostre azioni invitano a una risposta cinese. A volte mi chiedo perché i cinesi si preoccupino di ripristinare le relazioni quando ci comportiamo in modo così sciocco per volere degli Stati Uniti. La Cina non è una minaccia per l’Australia, ma il nostro “pericoloso alleato” continua a spingere la Cina a provocare una guerra.

Ieri sera Four Corners ha riferito:

  • Gli Stati Uniti si stanno preparando a schierare fino a sei bombardieri B-52 a capacità nucleare nel nord dell’Australia, una mossa provocatoria che, secondo gli esperti, ha come obiettivo la Cina.
  • I bombardieri fanno parte di un potenziamento molto più ampio dei mezzi di difesa nel nord dell’Australia, compresa un’importante espansione della base di intelligence di Pine Gap, che svolgerà un ruolo vitale in qualsiasi conflitto con Pechino.

Richard Tanter, ricercatore senior presso il Nautilus Institute e scrittore per Pearls and Irritations, ha affermato che il previsto dispiegamento dei bombardieri è più significativo della rotazione dei marines statunitensi a Darwin ogni anno. Ha detto che è “molto difficile pensare a un impegno più aperto che potremmo prendere. Un segnale più esplicito ai cinesi che stiamo assecondando i piani americani per una guerra con la Cina”.

La capacità della RAAF di ospitare bombardieri dell’USAF e di addestrarsi al loro fianco dimostra quanto siano integrate le nostre due forze aeree”, ha dichiarato un funzionario della difesa statunitense. Altrettanto importante per la crescente presenza degli Stati Uniti nel nord dell’Australia è la costruzione di undici giganteschi serbatoi di stoccaggio del carburante per jet a Darwin.

Richard Tanter ha dichiarato che la base di spionaggio vicino ad Alice Springs sta subendo un importante aggiornamento.

Questo avviene in un momento in cui il Parlamento australiano non è stato informato di nulla, né di dichiarazioni dei ministri, né di domande ai ministri”. Ha affermato che se dovesse scoppiare un conflitto tra Stati Uniti e Cina, Pine Gap giocherebbe un ruolo estremamente significativo. Sarebbe anche un obiettivo primario.

Ma c’è di più di quello che ci ha detto Four Corners.

Gli Stati Uniti hanno una serie di bombardieri più moderni e stealth che si esercitano da Amberley e che hanno come obiettivo il Mar Cinese Meridionale e oltre. La RAAF fornisce il rifornimento in volo a questi aerei statunitensi.

Come hanno sottolineato Richard Tanter e altri, non c’è alcun tentativo di informare l’opinione pubblica australiana su questi sviluppi epocali, con l’Australia che si impegna a “combattere una guerra di alto livello e a condurre operazioni militari combinate” con gli Stati Uniti nella nostra regione. Questo è ciò che i ministri statunitensi e australiani hanno concordato l’anno scorso.

Inoltre, non ho visto alcun segno che il governo australiano abbia discusso di questi temi con i Paesi dell’ASEAN. I nostri vicini regionali sono più preoccupati per le questioni economiche e per il cambiamento climatico. Stanno deliberatamente scegliendo di non schierarsi tra Cina e Stati Uniti. Sono esclusi dal QUAD e dall’AUKUS. Tutto questo deve far venire i brividi agli indonesiani e all’ASEAN. Se le nostre provocazioni militari non sono un’offesa sufficiente per i nostri vicini, ci siamo uniti agli Stati Uniti nell’escludere la Cina dalle istituzioni regionali.

Indottrinati dal flusso di Washington, la maggior parte dei nostri giornalisti è stata catturata dagli interessi stranieri su queste questioni strategiche. Si uniscono quotidianamente alla campagna anti-Cina condotta da Washington. Sono seguiti pedissequamente dai nostri politici, dagli alti funzionari pubblici, dalle agenzie di intelligence e dai “think tank” finanziati dagli Stati Uniti.

In quanto membri a pieno titolo del Club di Washington, Anthony Albanese e Richard Marles non mostrano alcun segno di cambiare la pericolosa rotta che stiamo seguendo. E Penny Wong è difficile da trovare!

La rapida militarizzazione dell’Australia settentrionale da parte degli Stati Uniti avviene in un momento in cui si presume che sia in corso la revisione strategica della difesa. Sembra una continua colonizzazione dell’Australia da parte degli Stati Uniti, con un’operazione di facciata per ciò che il Club di Washington si aspetta e vuole. Il Club non può accettare nient’altro che l’egemonia statunitense con la sua determinazione a rovesciare i governi e a scatenare guerre senza fine. Gli Stati Uniti sono uno degli imperi più violenti della storia umana. La violenza all’estero si riflette nella violenza e nel degrado interno.

Di seguito riporto un articolo che ho scritto su questi temi il 16 settembre di quest’anno.

(*) John Laurence Menadue  (8 febbraio 1935) ex alto funzionario pubblico e diplomatico. È stato Segretario del Dipartimento del Primo Ministro e del Gabinetto dal 1975 al 1976, sotto i governi Whitlam e Fraser. Successivamente è stato nominato da Malcolm Fraser ambasciatore australiano in Giappone, incarico che ha ricoperto dal 1977 al 1980. Successivamente Menadue è tornato in Australia ed è stato nominato Segretario del Dipartimento per l’Immigrazione e gli Affari Etnici dal 1980 al 1983. Successivamente, nel 1983, è diventato Segretario del Dipartimento del Ministro speciale di Stato e Segretario del Dipartimento del Commercio.


La Defence Strategic Review – Stiamo diventando un proxy o un patsy per gli Stati Uniti in un possibile conflitto con la Cina

La Defence Strategic Review deve mettere in guardia il Ministro Marles sulla pericolosa strada che sta percorrendo l’Australia. Stiamo diventando una portaerei per gli Stati Uniti.

Temendo che la loro egemonia mondiale sia messa in discussione, gli Stati Uniti spingono la Cina ad ogni occasione. La visita di Nancy Pelosi, presidente della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, a Taiwan è stata solo l’esempio più recente di questo incitamento.
La minaccia che ci viene dalla Cina è se continuiamo ad agire nella nostra regione come un proxy per gli Stati Uniti. Altri Paesi della regione non lo stanno facendo.

La minaccia “Cina” è una replica del vergognoso e precedente “pericolo giallo”. La Cina non è una minaccia militare per l’Australia.

Gli Stati Uniti sono il Paese più violento e aggressivo del mondo, quasi sempre in guerra. Il suo impero militare comprende 800 basi militari straniere.

Abbiamo bisogno di una forte presenza degli Stati Uniti nella nostra regione, ma non del comportamento provocatorio e pericoloso che vediamo continuamente.

Ci stiamo legando acriticamente a un egemone in declino ma pericoloso.

Il nostro “Club di Washington” è stato alimentato a goccia dall’America per molto tempo. Ha una mentalità “coloniale”. Accetta senza riflettere seriamente la visione statunitense del mondo.

L’Australia settentrionale sta diventando una colonia militare statunitense.

Questi punti sono sviluppati più avanti.

L’Australia settentrionale sta diventando una colonia militare statunitense

Nel 2011, in un momento di difficoltà politica, Julia Gillard era ansiosa che il Presidente Obama visitasse l’Australia e parlasse al Parlamento. Kim Beazley, il nostro ambasciatore a Washington, era molto desideroso di aiutare. Come parte dell’accordo per ottenere la visita di Obama, la Gillard acconsentì alla rotazione dei Marines a Darwin, con la speranza degli Stati Uniti di avere in futuro basi a Perth e a Cocos-Keeling.

Questa è stata la vera apertura della porta per gli americani.

Da allora la colonizzazione è proseguita a ritmo sostenuto, con un numero sempre maggiore di Marines a rotazione a Darwin e operazioni dell’USAF nell’Australia settentrionale.

Ma il piede sull’acceleratore della colonizzazione militare statunitense è arrivato nel settembre 2021.

Il 16 settembre 2021, il Segretario di Stato Antony Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin hanno ospitato il Ministro degli Affari Esteri e Ministro delle Donne Marise Payne e il Ministro della Difesa Peter Dutton a Washington D.C. per le 31esime consultazioni ministeriali Australia-Stati Uniti (AUSMIN 2021). I segretari e i ministri hanno approvato le seguenti aree di cooperazione sulla postura delle forze:

  • Cooperazione aerea rafforzata attraverso il dispiegamento a rotazione di velivoli statunitensi di tutti i tipi in Australia e l’addestramento e le esercitazioni di velivoli appropriati.
  • Cooperazione marittima rafforzata attraverso l’aumento delle capacità logistiche e di supporto delle navi di superficie e subacquee statunitensi in Australia.
  • Rafforzare la cooperazione terrestre conducendo esercitazioni più complesse e integrate e un maggiore impegno congiunto con gli alleati e i partner della regione.
  • Creazione di un’impresa combinata per la logistica, il sostentamento e la manutenzione a supporto di operazioni belliche di alto livello e di operazioni militari combinate nella regione.

Si veda la dichiarazione congiunta delle consultazioni ministeriali Australia-USA (AUSMIN).

Ci siamo impegnati a “sostenere operazioni militari combinate e di guerra di alto livello e a garantire un accesso illimitato alle forze e alle piattaforme statunitensi” nell’Australia settentrionale e occidentale.

Solo ieri l’AFR ha sottolineato “l’attenzione degli Stati Uniti per l’Australia occidentale e settentrionale. L’ex consigliere di politica estera del presidente George W. Bush e nuovo direttore del Centro Studi degli Stati Uniti, Michael Green, prevede che gli Stati Uniti diventeranno sempre più dipendenti dall’Australia per le operazioni militari e di intelligence. Lo spostamento dell’attenzione della politica estera dall’Asia-Pacifico all’Indo-Pacifico significa che le aree dell’Australia occidentale e settentrionale saranno “critiche” per gli Stati Uniti e i loro alleati. ”Abbiamo bisogno di accesso: abbiamo bisogno di acquistare l’Oceano Indiano e, quindi, dal punto di vista geografico, tecnologico, delle operazioni militari e di intelligence, gli Stati Uniti dipenderanno sempre di più dall’Australia”, ha detto Green. Non ci sono due modi per evitarlo”.

Non abbiamo discusso o considerato seriamente le enormi e rischiosissime conseguenze di tutto questo. La nostra sovranità e la nostra integrità come nazione sono in gioco e al capriccio degli Stati Uniti, un Paese che non sa bene su quale strada si trovi: cripto-fascismo, guerra civile o anarchia.

In AUKUS, a costi enormi e con grande ritardo, stiamo progettando di fondere i nostri futuri sottomarini a propulsione nucleare con la Marina statunitense per operare nel Mar Cinese Meridionale contro la Cina.

Il Ministro Marles ci ha detto che non solo lavoriamo “in modo interoperativo” con le forze armate statunitensi in numerosi modi, ma che ora ci siamo impegnati a “interscambiabilità” con le forze statunitensi. Ci stiamo legando ancora di più a un “alleato pericoloso”. Il Ministro Marles sembra non preoccuparsi della strada pericolosa che stiamo percorrendo. Ancor peggio, sembra incurante di cedere la nostra sovranità nazionale. Dovrebbe essere osservato con molta attenzione.

Gli Stati Uniti sono il Paese più violento del mondo e quasi sempre in guerra.

Esiste un enorme e potente gruppo di elettori statunitensi impegnati in una guerra continua. Abbiamo partecipato alle guerre in Vietnam, Iraq, Afghanistan e Siria. Tutte sono state disastrose. Ora gli Stati Uniti continuano a incitare e provocare la Cina e vogliono che ci uniamo a loro. E noi lo facciamo.

Malcolm Fraser aveva ragione riguardo al “nostro pericoloso alleato”.

Gli Stati Uniti sono assuefatti dalla convinzione del loro eccezionalismo, si basano sull’aggressività e sulla violenza sia in patria che all’estero e hanno difficoltà ad ammettere gli errori.

Sul piano interno assomigliano sempre più a un treno in corsa al rallentatore.

A parte brevi periodi di isolazionismo, gli Stati Uniti sono stati quasi sempre in guerra.

I dati sono chiari. Più volte ci siamo lasciati trascinare nelle guerre imperiali del Regno Unito e poi degli Stati Uniti. Abbiamo perso la nostra autonomia strategica.

In due secoli, gli Stati Uniti hanno sovvertito e rovesciato numerosi governi. Hanno un complesso militare e imprenditoriale che dipende dalla guerra per la propria influenza e il proprio arricchimento. Finanziano il nostro War Memorial e l’Australian Strategic Policy Institute e molti altri fronti per gli interessi militari e commerciali statunitensi.

I dati dimostrano che gli Stati Uniti sono un Paese molto più aggressivo e violento della Cina.

Gli Stati Uniti si arrogano una superiorità morale che negano agli altri. Sono accecati dalle proprie illusioni ideologiche e dalla propria auto-giustizia.

Molte delle nostre élite politiche, burocratiche, imprenditoriali e mediatiche sono state alimentate a goccia a goccia dagli americani, come l’Australian America Leadership Dialogue, per così tanto tempo che hanno difficoltà a pensare a un mondo senza l’egemonia globale americana. In passato abbiamo avuto una visione simile e dipendente dal Regno Unito. La cosa è finita in lacrime a Singapore.

In questo blog, “La guerra è nel DNA americano?“, ho richiamato più volte l’attenzione sui rischi che corriamo nell’essere “uniti al fianco” di un Paese che è quasi sempre in guerra. I fatti sono chiari. Gli Stati Uniti non hanno mai avuto un decennio senza guerre. Dalla sua fondazione nel 1776, gli Stati Uniti sono stati in guerra per il 93% del tempo. Queste guerre si sono estese dal proprio emisfero al Pacifico, all’Europa e più recentemente al Medio Oriente. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno lanciato 201 dei 248 conflitti armati. Negli ultimi decenni la maggior parte di queste guerre non ha avuto successo. Gli Stati Uniti mantengono 800 basi o siti militari in tutto il mondo, compresa l’Australia. Nella nostra regione gli Stati Uniti hanno un massiccio dispiegamento di hardware e truppe in Giappone, nella Repubblica di Corea e a Guam. La Cina ha una base navale off shore a Gibuti, nel Corno d’Africa, principalmente per combattere i pirati.

Pensate alla frenesia degli Stati Uniti se la Cina avesse una serie di basi simili nei Caraibi o se le sue navi pattugliassero le Florida Keys.

Da un secolo gli Stati Uniti si intromettono ampiamente negli affari e nelle elezioni di altri Paesi. Hanno cercato di cambiare i governi di altri Paesi 72 volte durante la Guerra Fredda. Molti leader stranieri sono stati assassinati. Nel pezzo riprodotto in questo blog The fatal expense of US Imperialism, il professor Jeffrey Sachs ha affermato che:

“La portata delle operazioni militari statunitensi è notevole… Gli Stati Uniti hanno una lunga storia di utilizzo di mezzi occulti e palesi per rovesciare i governi ritenuti ostili agli Stati Uniti… Lo storico John Coatsworth conta 41 casi di cambio di regime guidato dagli Stati Uniti, per una media di un rovesciamento di governo da parte degli Stati Uniti ogni 28 mesi per secoli”.

I rovesciamenti o le interferenze nei governi stranieri sono diversi, tra cui Honduras, Guatemala, Iran, Haiti, Congo, Indonesia, Giappone, Vietnam, Cile, Iraq, Afghanistan e, più recentemente, Siria. Si confronti con la Cina!

E questa interferenza è continuata con l’indebolimento del governo filorusso in Ucraina da parte del colpo di Stato Maidan sostenuto dagli Stati Uniti nel 2014. Gorbaciov e Reagan avevano concordato che, permettendo la riunificazione della Germania, la NATO non si sarebbe estesa verso est. Ma con l’incoraggiamento degli Stati Uniti, la NATO si è ora estesa provocatoriamente fino ai confini della Russia. Non sorprende che la Russia si opponga.

Gli Stati Uniti hanno incoraggiato la recente insurrezione “democratica” di Hong Kong. È quasi riuscita.

Nonostante tutte le prove di guerre e ingerenze, l’Imperium americano continua senza essere controllato o messo in discussione in America o in Australia.

Ci sono diverse ragioni per cui questo approccio non è stato messo in discussione.

Il primo è quello che viene spesso descritto come il “destino manifesto” dell’America: il diritto, conferito da Dio, di interferire negli affari degli altri Paesi. Questo diritto non viene esteso agli altri perché molti americani si considerano più virtuosi e il loro sistema di governo migliore degli altri. Il Presidente degli Stati Uniti, Biden, oggi veste questo destino manifesto in termini di democrazia contro autocrazia. E Nancy Pelosi si lancia in un viaggio provocatorio a Taiwan. Che alleato!

L’ignoranza e il campanilismo dell’America comune e dei suoi politici di altri Paesi sono leggendari, ma forse altrettanto importante è la loro resistenza ad alleviare l’ignoranza. Questo può non sembrare insolito, ma è pericoloso per un Paese con un potere militare schiacciante impiegato in tutto il mondo.

Chiunque abbia avuto a che fare con un gruppo di viaggio di texani campanilisti sa cosa intendo!!!

La seconda ragione per cui l’Imperium americano continua ad essere largamente incontrollato è il potere di quello che il presidente Dwight Eisenhower una volta chiamò il “complesso militare e industriale” degli Stati Uniti. Nel 2021 aggiungerei “politici” che dipendono fortemente dai finanziamenti dei potenti produttori di armi e dal personale militare e civile di oltre 4.000 strutture militari. Il Congresso aumenta l’enorme budget militare anno dopo anno. Anche la comunità dei servizi segreti e molte università e think tank hanno un interesse personale nell’imperium americano.

L’Australia è intrappolata nell’imperium americano

Questo complesso coopta istituzioni e individui in tutto il mondo. Ha un’influenza enorme. Nessun presidente degli Stati Uniti, né tanto meno nessun primo ministro australiano, potrebbe sfidarlo. Morrison e Albanese hanno la stessa visione dell’imperium statunitense.

L’Australia si è chiusa in questo complesso. I nostri leader militari e della difesa dipendono fortemente dai Dipartimenti della Difesa e di Stato degli Stati Uniti, dalla CIA e dall’FBI per i loro consigli. Noi agiamo come loro filiali.

Ma questo va oltre la consulenza. Rispondiamo volentieri e ci uniamo agli Stati Uniti in disastri come l’Iraq e il Medio Oriente. Mentre l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite vota a larga maggioranza sulla proliferazione nucleare, su Israele e su Diego Garcia, noi rimaniamo bloccati nella posizione degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi mendicanti.

La nostra autonomia e indipendenza sono a forte rischio anche perché le nostre élite della difesa/sicurezza a Canberra hanno come santo graal il concetto di “interoperabilità” con gli Stati Uniti. Questo si riflette nei commenti dei funzionari e dei think tank statunitensi sul ruolo che vedono per noi nella nostra regione. Il nostro nuovo Ministro della Difesa Marles ora ha addirittura superato tutto questo. L’espressione “interoperabile” diventa ora “intercambiabile” e noi dobbiamo operare “senza soluzione di continuità” con le forze statunitensi.

L’influenza degli Stati Uniti e la nostra cooperazione sono così potenti che le nostre politiche estere sono state in gran parte emarginate e messe in secondo piano dalle opinioni in materia di difesa e sicurezza degli Stati Uniti e dei loro accoliti mediatici in Australia.

Il concetto di interoperabilità non si riferisce solo alle attrezzature. Significa anche personale, con un numero sempre maggiore di militari australiani incorporati nelle strutture militari e di difesa statunitensi, in particolare nel Comando del Pacifico alle Hawaii.

Il complesso militare e industriale statunitense e i suoi associati hanno un interesse acquisito nel fatto che l’America sia in guerra e il nostro establishment della difesa, il Dipartimento della Difesa, l’ADF, l’Australian Strategic Policy Institute e altri sono lealisti americani chiusi in casa.

L’AUKUS ci ha ingabbiati ancora di più. Con AUKUS stiamo effettivamente fondendo la nostra Marina con quella degli Stati Uniti, in modo da poter operare insieme nel Mar Cinese Meridionale e minacciare la Cina. Stiamo cedendo sempre più la nostra autonomia strategica incoraggiando gli Stati Uniti a utilizzare l’Australia settentrionale come base avanzata contro la Cina, come se gli Stati Uniti non avessero già abbastanza basi militari giganti che circondano la Cina in Giappone, Repubblica di Corea e Guam.

Un “ordine internazionale basato su regole”, ma non per l’America

La terza ragione del continuo dominio dell’Imperium americano è il modo in cui gli Stati Uniti si aspettano che gli altri si attengano a un “ordine internazionale basato su regole” che è stato in gran parte determinato a Bretton Woods dopo la Seconda Guerra Mondiale e incorporato in varie agenzie delle Nazioni Unite. Questo “ordine” riflette il potere e le opinioni dei Paesi dominanti negli anni Quaranta. Non riconosce gli interessi legittimi di paesi emergenti come la Cina, che ora insistono nel voler giocare un ruolo in un ordine internazionale basato sulle regole.

Gli Stati Uniti seguono un ordine internazionale basato su regole solo quando fa comodo ai propri interessi. Scelgono ciò che più conviene loro in quel momento. Spingono per un sistema basato su regole nel Mar Cinese Meridionale, ma si rifiutano di approvare l’UNCLOS (Diritto del Mare) o di accettare le decisioni della Corte Internazionale di Giustizia. L’invasione dell’Iraq è stato un classico caso di violazione delle regole. È stata illegale. La morte e la distruzione che ne sono derivate in Iraq soddisfano i criteri dei crimini di guerra. Ma i colpevoli sono usciti indenni. Solo Tony Blair ha subito un danno alla reputazione.

È un mito che le democrazie come l’America si comportino a livello internazionale con un livello di moralità superiore. I Paesi agiscono secondo i propri interessi, come li percepiscono. Dobbiamo ignorare le nobili idee espresse dagli americani su come gestiscono il loro Paese sul fronte interno e guardare invece a come trattano coerentemente gli altri Paesi.

Le affermazioni degli Stati Uniti su come gestiscono bene il proprio Paese sono messe in discussione su molti fronti. Accanto a grandi ricchezze e privilegi, oltre 40 milioni di cittadini statunitensi vivono in povertà, hanno una massiccia popolazione carceraria con le sue indelebili connotazioni razziste, le armi sono onnipresenti e si rifiutano di affrontare il problema. La violenza è americana come la torta di ciliegie. È radicata nel comportamento degli Stati Uniti sia in patria che all’estero. Donald Trump ha incitato un attacco al Campidoglio.

I documenti fondanti degli Stati Uniti ispirano gli americani e molte persone in tutto il mondo. “La terra dei liberi e la casa dei coraggiosi” è ancora un grido di allarme. Purtroppo, questi valori fondamentali sono stati spesso negati ad altri. Quando le Filippine hanno chiesto il sostegno degli Stati Uniti, sono state invase. Ho Chi Minh voleva il sostegno degli Stati Uniti per l’indipendenza, ma il Vietnam fu invaso.

Come in molte democrazie, compresa la nostra, il denaro, i media e gli interessi acquisiti stanno corrompendo la vita pubblica. Negli Stati Uniti la “democrazia” è stata sostituita da una “donocrazia”, che da decenni non prevede praticamente alcuna restrizione al finanziamento delle elezioni e al lobbismo politico. Gli elettorati della Camera dei Rappresentanti sono suddivisi in gruppi e gli elettori poveri e delle minoranze sono spesso esclusi dalle liste. La potente lobby ebraica, sostenuta dai cristiani fondamentalisti, ha portato la politica statunitense fuori dai binari su Israele e sul Medio Oriente. La potente industria delle assicurazioni sanitarie private ha impantanato gli Stati Uniti nei servizi sanitari più costosi e inefficienti del mondo.

Il Congresso degli Stati Uniti è paralizzato. La Corte Suprema è impilata.

Molte democrazie sono in difficoltà. La democrazia statunitense è più in difficoltà della maggior parte delle altre. C’è una cecità pervasiva. Sta andando alla deriva verso un’altra guerra civile, il fascismo o semplicemente l’anarchia?

I media derivativi aggravano la mancanza di autonomia dell’Australia

Una voce importante nell’articolare l’estremismo americano e l’imperium americano è Fox News e Rupert Murdoch, che esercitano la loro influenza non solo in America, ma anche nel Regno Unito e in Australia. Fox News ha sostenuto l’invasione dell’Iraq ed è incurante delle terribili conseguenze. Rupert Murdoch ha applaudito l’invasione dell’Iraq perché avrebbe ridotto i prezzi del petrolio. Fox e News Corp sono i principali scettici sul cambiamento climatico che minaccia il nostro pianeta.

Ma non è solo il ruolo distruttivo di News Corp negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia. I nostri media, compresa l’ABC, sono così derivativi. È così pervasivo ed esteso che non lo riconosciamo per la sua stessa natura. Abbiamo davvero un “media dell’uomo bianco”. Lo vediamo oggi, in modo più evidente, nel modo in cui i media tradizionali vomitano ogni giorno un nastro trasportatore infinito di storie anti-Cina.

I nostri media sono pieni di morte e distruzione in Ucraina, ma molto peggio è accaduto in Yemen per mano dell’Arabia Saudita, sostenuta dagli Stati Uniti. I nostri media dell’uomo bianco ci danno una visione del mondo da Washington/Londra. Molta è la propaganda occidentale.

Nonostante le continue guerre criminali e spesso infruttuose, il rovesciamento o la sovversione di governi stranieri e il declino dell’influenza economica statunitense, l’egemonia e il dominio degli Stati Uniti sul pensiero australiano continuano. Nonostante tutte le prove, perché continuiamo a negare l’evidenza?

Uno dei motivi è che come piccola comunità asiatica, isolata e prevalentemente bianca, abbiamo storicamente cercato un protettore esterno, prima il Regno Unito e, quando questo è fallito, gli Stati Uniti. La mentalità coloniale è ancora presente.

Spesso ci viene detto che abbiamo valori condivisi e istituzioni comuni prima con il Regno Unito e ora con gli Stati Uniti. Ma i Paesi agiscono sempre per i propri interessi, come stanno scoprendo gli agricoltori australiani quando gli Stati Uniti si accaparrano i nostri mercati in Cina. Non è certo un modo per proteggerci le spalle!

Un’altra ragione per cui neghiamo l’imperium americano è, come ho descritto, la saturazione dei nostri media con notizie, opinioni e intrattenimento statunitensi. Non abbiamo media indipendenti. Qualunque cosa i media statunitensi dicano sulla Cina o sulla difesa avrà inevitabilmente un buon riscontro nei nostri media derivati.

Un’altra ragione per la continua egemonia degli Stati Uniti sugli atteggiamenti australiani è la seduzione dei leader d’opinione australiani che per decenni hanno beneficiato della generosità e del sostegno americano – nei media, nella politica, nella burocrazia, nelle imprese, nei sindacati, nelle università e nei think-tank. Migliaia di australiani influenti sono stati cooptati dal denaro e dal sostegno degli Stati Uniti in viaggi, “dialoghi” come l’AALD, centri di studio e think tank. Questa è la vera “influenza straniera”. La Cina è un attore secondario accanto agli Stati Uniti.

Se la Cina è una minaccia lontana, lo sarebbe molto meno se non fossimo così asserviti agli Stati Uniti. Il grande rischio di una guerra con la Cina è se continuiamo ad agire per conto degli Stati Uniti. Pine Gap sarebbe il primo obiettivo cinese.

Siamo una nazione che nega di essere “legata a doppio filo” a un alleato pericoloso, irregolare e rischioso. A parte brevi periodi di isolazionismo, gli Stati Uniti sono stati quasi sempre in guerra. Il rischio militare più grande che corriamo è quello di essere portati per il naso in una guerra degli Stati Uniti con la Cina.

Joe Biden sta smussando alcune asperità, ma lui e i suoi consiglieri per gli affari esteri sono impantanati nel vecchio mito statunitense dell'”eccezionalismo“.

Stiamo abbandonando volontariamente la nostra autonomia strategica. Stiamo diventando un proxy e un vassallo degli Stati Uniti, un Paese molto aggressivo e violento.

La Dsr ha il dovere di farci tornare indietro dalla pericolosa rotta che abbiamo imboccato.

La minaccia militare che abbiamo di fronte non è la Cina, ma l’agire per procura degli Stati Uniti.

Kishore Mahbubani ha descritto con precisione il nostro dilemma di sicurezza. “L’Australia può scegliere di essere un ponte tra l’Oriente e l’Occidente nel secolo asiatico, oppure la punta della lancia che proietta il potere occidentale in Asia“.

Il Ministro Marles sta chiaramente scegliendo il ruolo di punta di lancia per gli americani.

Si rende conto dei grandi rischi che corre l’Australia nell’essere un volenteroso proxy e un tirapiedi di un alleato molto aggressivo e violento, un alleato che è quasi sempre in guerra e ci trascina in un disastro militare dopo l’altro?

Per saperne di più, leggete la nostra serie di articoli sulla Defence Strategic Review.

FONTE: https://johnmenadue.com/four-corners-australia-the-spear-carrier-for-the-us-in-our-region/

(Traduzione: Cambiailmondo.org)

Video di Four Corner:

12 ore intorno al mondo per la Festa della Repubblica

12 ORE DI DIRETTA  – Evento webradiostreaming
di Radio MIR domani 2 Giugno 2021

 

Un giro del mondo virtuale, seguendo i fusi orari, cominciando alle 6 del mattino con l’Arabia Saudita per concludersi con l’Australia alle 17.30, passando per l’Europa, Nord e Sud America e Asia.

Ci collegheremo con italiani residenti all’estero e con persone che sono immigrate in Italia, mettendone a confronto le esperienze migratorie, le storie di integrazione, come vedono l’Italia dal loro punto di osservazione, nel giorno della Festa della Repubblica.

Circa 50 interventi da più di 25 paesi del mondo:  storie, reti di soggetti e  comunità, iniziative, interventi istituzionali, focus su temi importanti per le nostre comunità  per stimolare l’intreccio di nuove relazioni, incuriosire chi non conosce il mondo degli italiani all’estero. E anche un tentativo di “auto – inchiesta” per provare a riportare il grande tema delle migrazioni all’ordine del giorno dell’agenda politica italiana.

Ricostruiremo attraverso i collegamenti, una comunità con una propria identità non solo linguistica ma riconducibile al tratto comune di “Cittadini del mondo”.

E da “cittadini del mondo” non si smette di essere italiani quando si varca il proprio confine, semmai è il contrario. E’ l’Italia come Paese che purtroppo dimentica i suoi cittadini all’estero. Quale contributo reale danno possono dare gli italiani all’estero per fare in modo che l’Italia diventi un paese del mondo e non come diceva Metternich ”una mera espressione geografica”?
 

La diretta si svolgerà sulla pagina facebook di Radio MIR e sul canale Youtube e avrà inizio alle ore 6 del 2 Giugno 2021 con la conduzione principale di Fabio Sebastiani e Pietro Lunetto.

REGISTRAZIONE INTEGRALE DELL’EVENTO WEB

FONTE: Radio MIR, radio degli italiani mondo: www.radiomir.space

PARLAMENTO MONDIALE : UN NUOVO INIZIO. SE NON ORA QUANDO ?

Pubblichiamo due interventi, il primo di Luciano Neri e il secondo di  Mario Capanna, a sostegno della campagna per l’ istituzione del Parlamento Mondiale, lanciato dal Laboratorio istituito in collaborazione dalle Università della Calabria (Rende-Cosenza) e dall’Università dell’Insubria (Varese) .

“Il Laboratorio per l’istituzione del Parlamento Mondiale nasce dalla collaborazione tra il Dipartimento di Culture, Educazione e Società dell’Università della Calabria e il Dipartimento di Scienze Teoriche e Applicate dell’Università dell’Insubria di Varese, e vede impegnati studiosi di diversa formazione (filosofi, storici, scienziati della politica, sociologi, analisti internazionali, economisti, diplomatici, educatori…), non esclusivamente accademici. Inoltre si avvale della collaborazione decisiva di studenti universitari e medi-superiori, attivisti e persone interessate alle possibili risposte politiche, istituzionali e di pensiero che siamo oggi obbligati a ricercare e promuovere di fronte alle criticità che investono l’intero pianeta, alla crisi delle democrazie e al venir meno dell’Onu, dell’impianto istituzionale e di diritto internazionale costruito nella fase immediatamente successiva alla Seconda guerra mondiale.

Il Laboratorio è al tempo stesso il proseguimento del lavoro svolto per un decennio in seno all’Università della Calabria e portato avanti, tra gli altri, con un questionario che è stato inviato a studenti universitari di 41 Paesi di ogni continente.

Il progetto ha come obbiettivo quello di costituire entro il 2021 il Centro Interuniversitario per l’Istituzione del Parlamento Mondiale del quale possono entrare a far parte a pieno titolo altre sedi universitarie, istituzioni internazionali, associazioni e Centri Studi culturali e politici, oltre a singoli soggetti studiosi e/o attivisti interessati alla costituzione di un Consesso planetario e alla elaborazione di un nuovo pensiero che lo sorregga.

La crisi ambientale su scala planetaria, le sperequazioni sociali ed economiche, la finanza transazionale che divora le istituzioni e la politica, l’indigenza, i conflitti bellici, la corsa agli armamenti convenzionali e nucleari, le migrazioni, il rispetto e la tutela dei diritti in conformità alle Dichiarazioni universali, l’istruzione, lo sviluppo tecnologico etc., sono temi che evidenziano la crisi irreversibile dei modelli e delle istituzioni internazionali precedenti, la crisi delle stesse democrazie, il collasso di un mondo che muore mentre quello nuovo stenta a nascere. L’umanità di oggi si trova in questo interregno nel quale possono concretizzarsi pericoli enormi: dalle guerre su larga scala a degenerazioni climatiche e ambientali irreversibili. Non può esistere, né resistere nel tempo, un potere che mantiene e aumenta la forza coercitiva dopo aver perso legittimità e consenso.

È questo orizzonte dei problemi (abbiamo bisogno di “mondiologhi” diceva lo scrittore Ernesto Sabàto), queste criticità e queste urgenze che motivano la costituzione del Laboratorio per il Parlamento Mondiale, che spingono all’analisi, alla riflessione, allo studio, alla ricerca, alla relazione per far emergere su scala globale istituzioni nuove (come il Parlamento Mondiale), sorrette da un nuovo pensiero. Una proposta che parte dal dato di fatto che nessuna potenza oggi è in grado di costruire e rappresentare il nuovo centro dell’ordine mondiale. Una proposta che vuole avere il rigore e il coraggio di cimentarsi con la complessità di un mondo che, se vogliamo affrontare le sfide che abbiamo di fronte, inevitabilmente potrà essere solo multilaterale e policentrico.

Da gennaio a maggio 2021 il Laboratorio realizzerà un nuovo sondaggio in sedi universitarie di almeno 100 Paesi del pianeta, ricorrendo alla disponibilità e alla collaborazione di istituzioni pubbliche e private di varia natura: dai Ministeri degli Esteri alle Ambasciate, dai Consolati agli Istituti di Cultura, dalle Università ad Associazioni educative, culturali, sociali e politiche.”

Prof. Romolo Perrotta


 

Per partecipare all’iniziativa sono stati predisposti dei questionari on line in diverse lingue che possono essere compilati ai seguenti indirizzi:

ITALIANO:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScPi34g7mz4n7EUby6p3KVbTJEJqeGuDhElKUTS3fOqa7VRbw/viewform?usp=sf_link

SPAGNOLO:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSc1htERhbF01rUELuUHj7yajy4cIFP9W4wDunoWIlMbpEO6JA/viewform?usp=sf_link

INGLESE:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSefvIqBiK4ZAtr3hq8CqPgdqEjVMLKK-A0R0b3VLOcEGQlUnw/viewform?usp=sf_link

FRANCESE:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLScZ-2SeJIXFuWlMho1XBXXJ94gXXqqh7SnLIxwv4AbJxxVlMg/viewform?usp=sf_link

TEDESCO:

https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSeYkccfHyIOFR7qoudEOiOKxyo9q6U-sb6ugOaeOK5Mii02CA/viewform?usp=sf_link

Per contatti:

Luciano Neri, presidente@cenri.it – Romolo Perrotta, perrottaromolo@gmail.com


 

PARLAMENTO MONDIALE : UN NUOVO INIZIO. SE NON ORA QUANDO ?

Abbiamo bisogno dei mondiologhi

Ernesto Sabato

Da anni oramai, nei diversi continenti e a tutti i livelli, si è sviluppato un dibattito sul tema dell’evaporazione del diritto internazionale e degli organismi deputati a farlo rispettare. Alcuni hanno avanzato la proposta dii un Parlamento Mondiale come risposta possibile ai pericoli che minacciano la Terra. Le emergenze climatiche e ambientali, le guerre in corso e quelle che rischiano di esplodere, il rischio nucleare, la crisi delle democrazie, il collasso dell’Onu, le violazioni sistematiche delle norme del diritto internazionale, il potere incontrollato delle grandi trasnazionali, rendono oggi quella proposta non solo necessaria ma anche più urgente. Una proposta che, comunque la si pensi, è all’altezza della sfida imposta dalle trasformazioni profonde, regressive, con tratti neofeudali, introdotte in questi decenni nel sistema politico, istituzionale, economico e giuridico internazionale. Decenni nei quali sono deflagrati, o maturati nelle loro forme più tragiche e impunite, conflitti devastanti e guerre in quasi tutti i continenti, dalla Libia all’Iraq, dall’Ucraina alla Siria, dallo Yemen alla Somalia, dalla Nigeria all’intero centro Africa. Non ci sono state transizioni democratiche ma decine di colpi di stato, o di tentati: dall’Egitto alla Bolivia, dall’Honduras alla Thailandia, dal Paraguay alla Turchia, dall’Ucraina alla Birmania. Oltre 20 nel solo continente africano. Tutte le crisi, economica, sociale, climatica, sanitaria, migratoria, alimentare, della democrazia e belliche si stanno sommando rischiando di portare la condizione esistenziali degli umani ad un inedito livello di criticità. Gli Stati Uniti si sono ritirati dal Trattato INF (Intermedie – Range Nuclear Forces) con la Russia firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Mikhail Gorbaciov per mettere al bando i missili a raggio intermedio. Così come si sono ritirati dall’accordo sul nucleare iraniano, firmato nel 2015 dai Paesi del Consiglio di Sicurezza Onu più la Germania. Come risposta Teheran ha aumentato al 20% l’arricchimento dell’uranio dichiarando contestualmente di essere in condizione di raggiungere “facilmente” il 90% di arricchimento, soglia che consente la produzione dell’atomica. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna soprattutto, e per reazione anche le altre potenze, hanno approvato miliardari piani di potenziamento delle armi atomiche. Il Comitato per le minacce ad alto rischio dell’Onu, assieme ai più qualificati studiosi di strategie nucleari, come ad esempio l’ex segretario della Difesa degli Stati Uniti, William Perry, considerano “la probabilità di una catastrofe nucleare più elevata oggi che non negli anni della guerra fredda”, quando la catastrofe fu più volte sfiorata ed evitata per un nulla.

La proposta del Parlamento Mondiale è importante perché impone una riflessione sui cambiamenti strutturali a livello globale intervenuti negli ultimi trenta anni. Viviamo in un tempo nel quale, come diceva Gramsci, il passato non c’è più e il nuovo stenta a nascere. Un limbo nel quale possono prendere corpo gli accadimenti più pericolosi. Il vecchio sistema capitalistico, fondato sulla produzione di beni da parte di lavoratori compensata con un salario da parte dei padroni delle imprese, si è in questi ultimi decenni involuto in un neoliberismo finanziario incontrollato e incontrollabile, fondato sulla speculazione a discapito della produzione, per poi degenerare nel sistema neofeudale – liberista nel quale siamo immersi oggi. Un sistema nel quale, assieme all’uso degli strumenti di controllo e di comando più sofisticati, emergono diffusamente pratiche e figure di feudatari e di servi della gleba, nella società e nella rete, ambito nel quale sono più evidenti i processi di feudalizzazione in corso, con pochi sovrani (ricchissimi) e tanti servi della gleba (sempre più poveri, di pane, di lavoro, di diritti, di conoscenza). Il dominio dei pochi che hanno tutto viene esercitato esclusivamente attraverso la forza, usata o minacciata contro nemici o per riallineare amici dubbiosi. Lo storico equilibrio tra apparato produttivo, apparato finanziario e politica è saltato. L’apparato finanziario è cresciuto a dismisura, si è ipertrofizzato ed ha mangiato sia l’apparato produttivo che la politica. Oggi sono le multinazionali, le grandi trasnazionali bancarie e finanziarie a dettare le priorità alla politica, a nominare i governi, ad eleggere i Parlamenti, i Presidenti dello Stato e dei consigli di amministrazione. Mai come oggi, per usare una frase di John Dewey, la politica è l’ombra proiettata sulla società dai grandi interessi economici. Gli effetti perversi determinati dal neofeudalesimo – liberista sono in tutta evidenza rappresentati dal dato delle borse che, nella prima fase, in piena pandemia, sono cresciute mediamente del 9 – 12%, mentre il Pil europeo precipitava dell’8 – 10%. La traduzione è che con la crisi economica, con la disoccupazione, con la sofferenza sociale e umana, il sistema neofeudale, le multinazionali, i grandi gruppi bancari transazionali e le società del settore finanziario speculativo ci guadagnano. La sofferenza delle persone e il crollo dell’economia reale costituiscono per questi settori un investimento, la principale fonte di arricchimento. Delle migliaia di miliardi di dollari movimentati in tempo reale ogni giorno per via telematica, il 95% – (il 95%) – è finalizzato alla speculazione, nel perverso gioco degli arbitraggi e dei differenti tassi di interesse. Solo il 5% – (il 5%) – è il prodotto di transazioni economiche reali per l’acquisto, ad esempio, di materie prime, derrate alimentari, medicinali, macchinari agricoli ecc. (fonte Onu). Nel loro insieme Amazon, Facebook, Apple, Google, Microsoft, valgono (esclusi Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone) più di tutti i Paesi del mondo messi insieme. Una condizione, quella dell’epoca contemporanea, del tutto simile a quella descritta da Marx con la metafora sul ruolo del mulino nel passaggio all’era industriale. I contadini erano costretti a macinare il grano nel mulino del loro signore, servizio per il quale dovevano pagare. Non solo dunque lavoravano terre che non possedevano, ma vivevano in condizioni nelle quali il feudatario era, come afferma Marx, “signore e padrone del processo di produzione e dell’intera vita sociale”. Nel neofeudalesimo contemporaneo le piattaforme digitali sono i nuovi mulini, i loro proprietari miliardari sono i nuovi signori feudali, le migliaia di lavoratori e i miliardi di utenti i nuovi servi della gleba. E’ questa la grande differenza tra il capitalista, il cui profitto è il risultato del valore aggiunto generato dai lavoratori salariati con la produzione di beni, dal signore feudale che trae profitto dal monopolio, dalla coercizione e dalle concessioni. Una nuova articolazione del potere a livello globale caratterizzata dalla sudditanza totale dei governi a queste poche e immense aziende alle quali tutto viene concesso, persino il diritto di non pagare le tasse. Un livello inedito di concentrazione di poteri e di ricchezze tali minare alla radice le regole, i principi ed i valori dei sistemi liberaldemocratici. Il neofeudalesimo liberista è oggi il nemico principale della democrazia liberale.

La proposta del Parlamento Mondiale trova naturale legittimazione anche nella crisi strutturale dell’Onu e del sistema di norme internazionali costruito nel periodo post bellico dalle potenze vincitrici. Crisi che è conseguenza di un processo di cannibalizzazione, di delegittimazione e di smantellamento del “sistema Onu” da parte dei propri creatori. Una costante degli ultimi decenni, una pratica indispensabile per un sistema di potere che si nutre di forza, non di diritto. Ormai è un coro quasi unanime a ripetere che l’Onu non è più lo strumento adeguato per garantire la sua stessa mission fondativa: mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Se mai lo è stato. Le finalità che ispirarono la fondazione dell’Onu non erano quelle di costruire pace e sicurezza attraverso un sistema di norme e di leggi giuste e organismi preposti a farle rispettare. La vera e comprensibile finalità, esplicitata nel preambolo della Carta stessa, era quella di tenere il mondo lontano dalla guerra che i firmatari avevano conosciuto con i due conflitti precedenti. Ma lo fecero con un impianto organizzativo esclusivamente funzionale al potere delle Nazioni vincitrici, e con un impianto normativo finalizzato ad impedire qualsiasi ruolo decisionale a tutte le altre Nazioni aderenti. L’Assemblea Generale dell’Onu come organismo autorevole e decisionale non è mai esistito. I suoi poteri sono nulli. Le uniche funzioni attribuite si limitano allo studio, alla raccomandazione e al suggerimento (Cap. IV, art.li 9/22 della Carta). Tutti i poteri sono attribuiti ai cinque membri del Consiglio di Sicurezza (art. 24 della Carta) che tutto possono decidere e su tutto possono mettere il veto. E d’altra parte, come potrebbero i cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza essere i soggetti che salvaguardano la pace e la sicurezza di un mondo nel quale non c’è guerra della quale essi stessi non siano responsabili o nella quale non siano coinvolti ? Come può il Consiglio di Sicurezza dell’Onu tutelare la pace e la sicurezza se i suoi stessi componenti sono i principali fabbricanti e venditori di armi del mondo? A certificare l’inconsistenza dell’Onu, ormai, sono gli stessi protagonisti, senza neppure nasconderlo. “ Le Nazioni Unite non esistono – afferma l’ex ambasciatore all’Onu di Bush ed ex Consigliere per la Sicurezza di Trump, John Bolton – gli Stati Uniti decidono e le Nazioni Unite devono seguire; se agire secondo gli indirizzi dell’Onu risponde ai nostri interessi, lo faremo, altrimenti no”.

La proposta del Parlamento Mondiale ci costringe ad abbandonare il pensiero menomato e antropocentrico occidentale, il mito della conquista della natura e quello dello sviluppo umano da realizzare attraverso lo sfruttamento del pianeta e delle persone. Il progetto del Parlamento Mondiale non è solo una necessaria proposta di istituzione globale, è anche una rivoluzione del pensiero. Ci costringe a fare i conti con le illusioni, con la nostra idea sottosviluppata di sviluppo, con quel falso infinito nel quale ci siamo buttati chiamandolo progresso, ignorando che è il sottosviluppo etico e intellettuale degli sviluppati, il nostro, a produrre lo sviluppo dei sottosviluppati. Cosa c’è di progressista, di logico, di intelligente nel pensare e praticare un progetto infinito in un pianeta finito? E’ il nostro pensiero menomato, la nostra razionalità illusoria che ci porta all’arroganza di non considerare i mondi “altri”, ad ignorare le virtù, i saperi e le ricchezze di popoli e culture millenarie che hanno inscritto nel loro sviluppo antropologico e nelle loro filosofie naturalistiche e panteiste i codici più civilizzati, fondati sulla considerazione della Madre Terra come comunità indivisibile e vitale di esseri interdipendenti e uniti in un destino comune. Un pensiero menomato e delirante che pensa possibile la continuità di un mondo nel quale l’1% possiede il 99% della ricchezza. A tal punto menomato da arrivare a riconoscere scientificamente solo qualche anno fa ciò che nel pensiero e nelle pratiche di tanti popoli è codificato e applicato da migliaia di anni. Come noto, in occidente il termine “antropocene”, come definizione dell’era geologica caratterizzata dal riconoscimento che le criticità del pianeta sono determinate dal comportamento umano, è entrato ufficialmente nel dibattito scientifico solo nel 2000, grazie al chimico premio nobel Paul Crutzen. Una teoria che per le indagini dalle quali parte e per le conclusioni alle quali arriva mette in discussione il nostro modo di pensare, di produrre e di consumare. Il nostro modo di vivere con e nella Madre Terra. Ma la riflessione sui movimenti tellurici che venivano prodotti dal comportamento umano sull’ambiente in realtà si era sviluppato molto prima, per tutta la seconda metà dell’800, ma quel termine, “antropocene”, non era mai stato riconosciuto e utilizzato, era stato cancellato per lasciare il posto al termine anestetizzato, del tutto inefficace, di Olocene. Ultima era del quaternario. Perché avvenne questa menomazione concettuale e scientifica? Perche l’Ordine Internazionale dei Geologi e i tecnici del tempo erano già al servizio della nascente industria estrattiva del petrolio e del carbone. L’asservimento ai poteri, lo stravolgimento dei saperi e il mercenariato delle cosiddette èlite tecnoscientifiche non è una caratteristica esclusiva dell’oggi. I processi di analfabetizzazione pianificata in questi trenta anni dal neoliberismo feudale stanno costringendo le popolazioni zombie dei Paesi occidentali a guardare la realtà dal buco della serratura, con un riduzionismo cognitivo e analitico fondato sulla cancellazione del resto del mondo. Del quale nulla sappiamo. E del quale non ci occupiamo né ci preoccupiamo. Non vediamo che una rivoluzione antropologica del pensiero su questi temi, un cambio di paradigma e un impegno conseguente lo stanno portando avanti in molti, risultato di consapevolezza e responsabilità. I popoli indigeni originari innanzitutto. E’ la Pachamama dei popoli indigeni dell’America Latina, è lo Shan dei nativi europei, è lo spiritualismo panteista dei nativi americani. Cambiano i nomi ma il significato resta lo stesso: la Madre Terra come essere vivente, che ha generato tutto ciò che esiste nel pianeta, che se ne prende cura e del quale noi umani a nostra volta dovremmo prenderci cura. So bene che questo concetto, apparentemente così semplice, è impossibile da comprendere se si concepisce il mondo sulla base del patologismo antropocentrico che pone l’uomo al centro del’universo, in un rapporto conflittuale con il pianeta e con il diritto di sfruttare tutto ciò che ha intorno, dalle risorse naturali agli animali. Ma il concetto di pianeta vivente, di Terra Madre della cosmologia indigena, di corpo vivo e complementare a tutti gli esseri, non è forse lo stesso che, magari partendo da punti di osservazione diversi e con articolazioni analitiche complementari, è stato sviluppato oggi da alcuni degli scienziati, degli economisti e degli intellettuali contemporanei più prestigiosi dell’occidente? Da Fritjof Capra a Ilya Prigogine, da Edgar Morin a Stéphane Hessel, da Zygmunt Bauman a Noam Chomsky, da Thomas Piketty a Joseph Stiglitz. Fino a leader religiosi come Papa Francesco e il Dalay Lama. Non è forse la filosofia indigena della Madre Terra quella che ritroviamo nell’eretica e meravigliosa enciclica “laudato si” di papa Francesco? Una riflessione talmente radicale e necessaria che interroga tutti, laici e religiosi, chiamandoli alla riflessione e, soprattutto, alla lotta. Partendo dal Cantico delle Creature, Bergoglio arriva alla Madre Terra, entità viva, titolare di diritti, riconoscendola come “…sorella con la quale condividiamo l’esistenza, madre bella che ci accoglie tra le sue braccia” (n. 1 – Laudato si). Partendo dal principio che tutto è connesso (n.138), Francesco condanna “l’antropocentrismo dispotico che non si interessa delle altre creature” (n.68). Un documento positivamente contaminato dalle culture indigeniste latinoamericane, rappresentate da leader nativi che Bergoglio, nell’indignazione dei settori confessionalmente arcaici e dogmaticamente clericali, ha voluto con sé in Vaticano in occasione del sinodo sull’Amazzonia. “Querida Amazzonia” rappresenta l’attualizzazione di un pensiero e il superamento, attraverso il rapporto con la laicità e con il naturalismo indigenista, dell’arcaicità antistorica della Genesi (“Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili” – Genesi 26). E ancora, quale è la differenza tra la millenaria filosofia indigena della Madre Terra viva, indivisibile e autoregolata con la analoga teoria di Gaia, che lo scienziato britannico James Lovelock elaborò e diffuse nel 1979 ? La teoria di Gaia, così la battezzò Lovelock, dandole lo stesso nome che i Greci avevano dato alla “Madre Terra”. Una teoria che considera il pianeta Terra un organismo biologico, un essere vivente capace di autoregolarsi e di mantenere le condizioni materiali necessarie per la vita sua e degli esseri che la abitano.

Se quello occidentale resta un modello di pensiero e di potere ristretto, nazionalistico, patriarcale e “patriottico”, quello indigenista ha un carattere universale (in quanto rivolto a tutto il pianeta e a tutti gli esseri) è “matriottico”, al femminile, consapevole della propria origine e rispettoso della Madre Terra genitrice, generosa e saggia. Un pensiero che non è rimasto confinato al filosofico o, come erroneamente pensano molti occidentali, al livello testimoniale di popoli marginali e in via di estinzione. Quel pensiero è stato ed è protagonista dei cambiamenti politici, culturali, istituzionali e costituzionali più innovativi degli ultimi decenni. Specialmente in America Latina. Le comunità indigene, che sono maggioranza o rappresentano larghe minoranze in molti Paesi, hanno recuperato la loro storia millenaria e sono diventati protagonisti di lotte, di governi e di un altro mondo possibile dopo il fallimento dei partiti progressisti e sviluppisti, a partire dal Pt di Lula in Brasile e dal Partito Socialista in Cile. Particolarmente significativa in questo senso è l’esperienza indigenista in Bolivia, un Paese storicamente segnato dai colpi di stato della minoranza (15%) bianca, ricca ed europea contro la maggioranza indigena (60%) rappresentata dalle 32 nazionalità originarie, tra le quali le due maggioritarie, Aymara e Quechua. Milioni di persone per 500 anni sono state tenute in condizioni di schiavitù e private dei diritti basici, dello stesso diritto di esistere come esseri umani. Fino a quando, nel 2006, dopo mesi di lotte i movimenti sociali e indigeni non hanno sconfitto i militari, imposto libere elezioni e conquistato il Parlamento e il governo. Evo Morales, Aymara della provincia del Chaparè, è stato il primo presidente indigeno boliviano ad essere eletto capo di stato in quell’area geografica a oltre 500 anni dalla conquista. E’ da quel momento che inizia l’altra storia, la primavera dei diritti e dell’emancipazione degli umili nel paese più militarizzato e povero dell’America latina. I saperi ancestrali non recuperano solo una storia identitaria che si riconosce con le lotte per l’indipendenza del XVIII° secolo e con icone rivoluzionarie anticoloniali come Tupak Katari e Tupak Amaru. Quei saperi, la filosofia della Pachamama, del “vivir bien” diventano la base politica e culturale delle conquiste civili, sociali, economiche e costituzionali che seguiranno. Negli anni successivi la Bolivia nazionalizza le risorse naturali ed energetiche, promuove programmi di sviluppo per i settori più umili fino ad allora esclusi, sconfigge la povertà estrema e l’analfabetismo, diventando il Paese dell’America Latina con la crescita annuale più alta e con il più alto indice di redistribuzione della ricchezza prodotta. Distribuisce le terre, bandisce gli organismi geneticamente modificati in agricoltura e avvia la realizzazione di banche del germoplasma per salvaguardare i semi originari. Ma il riconoscimento più forte dei diritti delle nazioni indigene arriva nel 2009 con l’approvazione della nuova Costituzione che consacra e istituisce lo “Stato Plurinazionale di Bolivia”, ampliando la nozione del diritto di cittadinanza con il riconoscimento delle “nazioni e popoli indigeni originari e contadini”. Viene ufficializzata la doppia bandiera, quella storica e la Whipala, la bandiera multicolore delle nazionalità indigene. Un processo che chiede allo Stato di adattarsi alla pluralità dei soggetti e delle esperienze storiche della sua gente. E’ stato un processo originale certamente difficile, non privo di difficoltà e contraddizioni, come comprensibile in un Paese nel quale non era mai esistita alcuna forma di organizzazione o rappresentanza politica effettiva, nessuna istituzione democratica, storicamente segnato da una oppressione brutale e da una povertà estrema. Ma la piccola Bolivia è diventata un esempio per tutta l’America Latina, e non solo. Nel 2010 Evo Morales ha presentato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione Universale dei Diritti della Madre Terra. Una sfida culturale coraggiosa che partendo dal riconoscimento della Terra come comunità indivisibile e vitale di esseri interdipendenti e correlati, ne riconosce i diritti e ne raccomanda il rispetto e la tutela. E se la Dichiarazione è ancora in discussione all’Onu, qualche effetto è riuscita a produrlo. E’ stata approvata da diverse città in America Latina e nel mondo, sta suscitando riflessioni, stimolando dibattito e creando coscienza. L’esempio della piccola Bolivia ci dice che immaginare e costruire realtà nuove è possibile anche nei contesti più difficili, e che pensare diversamente è una condizione vitale che accompagna i cambiamenti irrimandabili. Una rivoluzione paradigmatica e mentale più importante della rivoluzione copernicana. Se vogliamo uscire dall’età del ferro planetario nel quale siamo ancora immersi. Se vogliamo costruire una nuova umanità solidale che condivide un destino comune con la Terra e con tutti gli esseri che la abitano.

Luciano Neri


 

L’ASSISE DEI POPOLI

I problemi non possono essere risolti allo stesso

livello di pensiero che li ha generati.

(A. Einstein)

“Da millenni l’umanità non è esistita in quanto tale”, rifletteva tristemente l’uomo, e domandò: “Che pensi, potrà sopravvivere?”

La donna rispose: “Sì, se acquisirà quella coscienza di specie, per cui si riconosce come famiglia umana”…

“Altrimenti?”, chiese l’uomo.

“In caso contrario si estinguerà, e la natura ne sarà felice, risorgendo dopo le interminabili ferite subite”.

Attesa invano una replica, la donna proseguì: “Che iattura sarebbe, dato che noi siamo, fino a prova contraria, l’unica coscienza dell’universo!”

E aggiunse, prendendo per mano l’uomo: “Mettiamoci al lavoro!… Adesso, perché il tempo stringe”…

Un’Assise mondiale rappresentativa di tutti i popoli della Terra: è ciò che l’umanità non si è mai data nella sua travagliata storia millenaria. E i risultati sono di un’evidenza dirompente.

Il mondo sta bruciando.

Per i mutamenti climatici, per la ripresa compulsiva della corsa agli armamenti sia convenzionali che nucleari, per le guerre in atto – “la terza guerra mondiale a pezzi”, che è in corso, secondo le pertinenti parole di Papa Francesco – per le guerre commerciali quasi devastanti come quelle degli eserciti, per il predominio del profitto capitalistico che ci ha portato alla società dell’1 per cento: l’1 per cento dell’umanità possiede ricchezze e beni che superano quello del 99 per cento! Mai si era visto un accaparramento di risorse così concentrato.

Per l’insieme di questi fattori gli scienziati e i premi Nobel, che sovrintendono al Doomsday Clock – “l’Orologio dell’Apocalisse” – all’inizio del 2020, prima della pandemia del Coronavirus, hanno spostato le lancette a 100 secondi dalla mezzanotte, che simboleggia la fine del mondo.

Si tratta dell’orario più vicino al “giorno del giudizio” dal 1953 (anno dello sviluppo della bomba all’idrogeno da parte di Usa e Urss).

L’uomo contemporaneo è portato a non pensare a questo preoccupante orizzonte, imprigionato com’è in quel materialismo quotidiano da cui si lascia pervadere, alimentato da una sapiente (insipiente?) propaganda parcellizzata, che spezza, e frantuma di continuo, il quadro d’insieme del mondo.

Così i 7 miliardi e mezzo di donne e uomini, che compongono oggi l’umanità, sono indotti a non rendersi conto che, per continuare a vivere ai ritmi attuali, avrebbero bisogno di due pianeti, anziché dell’unico che abbiamo.

Si è giunti a questo punto – vicini al non ritorno – per lontane ragioni storiche e culturali.

Dalla fondazione delle prime città, all’incirca 5 mila anni fa, dapprima con le città-stato, poi con le nazioni e quindi con gli imperi, l’umanità si è concepita basata principalmente sulla divisione: divisione-separazione per etnie, per localismi, per interessi economici, per visioni religiose.

Una continua lotta per l’egemonia sfociata quasi sempre nella guerra, fino a quelle mondiali.

Non si pone sufficiente attenzione sul fatto che è con le prime città che nascono gli eserciti, le burocrazie, la guerra. Ma 5 mila anni sono un battito di ciglia nella storia.

E’ consolante rilevare che, per più del 90 per cento del tempo in cui l’uomo ha camminato eretto, il concetto di guerra era sconosciuto, come mostrano gli studi di etnologia comparata.

Dunque le attuali condizioni del mondo non sono il risultato di una presunta natura umana votata irreversibilmente all’autodistruzione.

Quella che definiamo “natura umana” è il risultato di una costruzione storica, che dunque può essere superata da un’altra costruzione storica, basata su una diversa visione del mondo.

Perciò Einstein ha scritto a buon diritto: “L’umanità avrà la sorte che saprà meritarsi”.

Il punto è proprio questo: saremo in grado di costruire una “sorte” diversa da quella che ci si sta profilando?

I mutamenti climatici sono il nuovo paradigma che sta mettendo a repentaglio il mondo.

L’avvelenamento dell’atmosfera, prodotto dalle attività umane subordinate al profitto capitalistico, ha raggiunto traguardi crescenti di allarme.

Nell’ultimo secolo abbiamo bruciato immense quantità di carbone e petrolio, al ritmo di 70 milioni di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera ogni 24 ore.

La conseguenza è stata che le concentrazioni di anidride carbonica – che in più di un milione di anni non erano mai giunte a 300 parti per milione – all’inizio del terzo millennio sono salite a 338 ppm.

La Conferenza di Parigi sul clima (dicembre 2015), presentata come un accordo storico fra i 195 paesi firmatari, prevedeva di contenere al di sotto dei 2 gradi il riscaldamento globale entro il 2020: proposito che si è rivelato di gran lunga insufficiente.

Infatti: alla fine del 2016 l’agenzia meteorologica dell’Onu informava il mondo che, nel 2015, la concentrazione di anidride carbonica aveva superato le 400 ppm, infrangendo quella che era considerata la soglia-simbolo.

Non solo: l’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, la più antica stazione di rilevamento di CO2 al mondo, registrava, il 18 aprile 2017, il superamento della soglia di 410 ppm.

Lo stesso osservatorio ha registrato, il 2 giugno 2020, ben 417,9 ppm.

Continuando così, avvertono i climatologi, rischiamo di avere causato, in meno di 50 anni, un cambiamento climatico mai verificatosi in 50 milioni di anni.

Con il termine “antropocene” – coniato dal chimico olandese premio Nobel Paul Crutzen – viene indicata l’epoca geologica attuale, in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, è fortemente condizionato su scala locale e globale dagli effetti dell’azione umana.

Per avere un’idea concreta dell’impatto delle attività umane sul – nel – mondo basti considerare che abbiamo reso artificiale la Terra, nel senso preciso per cui ci sono ormai più oggetti che esseri viventi.

Secondo lo studio dell’istituto israeliano Weizman, pubblicato su Nature, solo la plastica, con i suoi 8 miliardi di tonnellate, sovrasta del doppio il peso degli animali, fermi a 4 miliardi di tonnellate.

Se a ciò aggiungiamo il peso delle metropoli, delle città, delle strade , delle automobili ecc., raggiungiamo cifre stratosferiche.

Lo studio afferma che l’umanità, che in termini di peso rappresenta lo 0,01 per cento degli esseri viventi, grava il pianeta, ogni settimana, del peso di se stessa.

Il risultato è che le nostre fabbriche riversano sulla Terra 30 miliardi di tonnellate ogni anno.

A questo ritmo la nostra bulimia tecnologica potrebbe portarci, nel 2040, a produrre 30 mila miliardi di tonnellate di massa artificiale.

Non è folle pensare di andare avanti così? Fino a quando il mondo potrà reggere gli effetti di questa crescente invasione antropica?

L’impetuoso sviluppo delle conoscenze scientifico-tecnologiche, usate così come oggi avviene – per aumentare il potere di quell’1 per cento che domina la società umana- dà all’uomo contemporaneo un potere mai conosciuto prima.

La questione, per più di un aspetto drammatica, che si pone è: o l’apparato scientifico-tecnologico viene ricondotto sotto il controllo umano e finalizzato a soddisfare i bisogni reali – non quelli indotti – dell’umanità, in equilibrio con l’ecosistema, oppure diventerà il nodo scorsoio destinato a stringersi sempre più intorno al collo degli esseri umani, come già sta avvenendo (i mutamenti climatici ne sono l’avvisaglia più evidente e minacciosa).

Non bisogna essere tecnofobici. Ma si tratta di capire che niente al mondo è neutro, nemmeno il concetto che afferma che niente è neutro, e tantomeno lo sono le scienze e le tecniche.

Se non le indirizziamo a costruire il bene comune – degli uomini e della Terra – esse finiranno con l’assoggettare a se stesse sia gli uomini sia la Terra, in un crescendo destinato a divenire incontrollabile.

In presenza di uno stato di cose così preoccupante, il mondo è “governato” dall’unica entità sovranazionale esistente: l’Onu.

Le Nazioni Unite, come il nome stesso indica, rappresenta l’insieme delle entità nazionali e degli stati cui esse hanno dato vita.

Sotto questo profilo esse sono l’evoluzione e la proiezione moderna delle… città-stato: l’umanità non viene rappresentata in quanto tale, come specie e dunque come entità globale, bensì nel suo essere frazionata nelle diverse particolarità nazionali e statuali, che hanno interessi differenti e, spesso, contrastanti, quando non antagonistici.

Di conseguenza i rapporti in seno all’Onu non sono bilanciati in vista dell’interesse umano comune, ma fondati sugli stati di serie A, di serie B e C…

La governance dell’Onu risiede nel Consiglio di Sicurezza, dominato dagli stati di serie A, ovvero i suoi cinque membri permanenti: Usa, Cina, Russi, Francia, Inghilterra (non a caso tutte potenze nucleari).

Ognuno dei cinque, come è noto, si è arrogato il diritto di veto: sicché qualsiasi decisione, che non vada a genio ai cinque stati – o anche a uno solo di loro – è bloccata e resa vana dal veto.

L’Assemblea generale può prendere sì decisioni, ma le sue deliberazioni non hanno valore vincolante per le nazioni del mondo.

Ecco le ragioni di fondo per cui l’Onu, nata in un preciso momento storico dopo la seconda guerra mondiale, si rivela sempre più obsoleta e del tutto incapace di regolare i destini della Terra: ad attestarlo è il marasma attuale del mondo.

E’ evidente che il Consiglio di Sicurezza è il ferro vecchio più arrugginito. Più che decidere, per i meccanismi che lo regolano, il suo scopo è permettere di non decidere.

I cinque membri permanenti rappresentano, insieme, poco più di 2 miliardi di persone: una netta minoranza della popolazione mondiale. Perché gli altri quasi 6 miliardi di cittadini dovrebbero sottostare alle loro decisioni (e non-decisioni)? Tanto più che non li ha eletti nessuno, si sono… autoeletti…

Da che l’Onu esiste, si è sviluppato, soprattutto negli ultimi tempi, un dibattito a intermittenza circa la necessità-possibilità della sua riforma.

Inutile dire che il dibattito non ha mai portato a nulla, sia perché manca la sede decisionale su cui il dibattito stesso possa poggiarsi sia perché i cinque membri permanenti non vogliono saperne di allargare il cerchio e, poi, perché i candidati (autocandidati?) a entrare nel giro sarebbero molti, per di più in lizza fra di loro

Sicché la situazione risulta bloccata ed è destinata a restare tale. Controprova: chi dovrebbe diventare paese di serie A? L’India, con la sua popolazione di 1 miliardo e 370 milioni di abitanti? L’Indonesia (269 milioni)? Il Pakistan (220 milioni)? Il Brasile (212 milioni)? Il Giappone (125 milioni)? La Germania (82 milioni)? E devono essere potenze nucleari, come l’India e il Pakistan, oppure no? Chi lo decide?

In questo aggrovigliato contesto è Papa Francesco a mettere in rilievo (v. Enciclica Fratelli tutti) la necessità di “prevedere il dare vita a organizzazioni mondiali più efficaci, dotate di autorità per assicurare il bene comune mondiale, lo sradicamento della fame e della miseria e la difesa certa dei diritti umani fondamentali”. Senza tuttavia spingersi a indicare quali dovrebbero essere quelle organizzazioni.

Una organizzazione mondiale più efficace, “dotata di autorità per assicurare il bene comune mondiale”, può sorgere solo se l’umanità nel suo insieme, comprendendosi come specie – ovvero come grande famiglia di persone coinvolta(e) in un unico destino su un pianeta ridotto allo stremo – deciderà di costruirla.

Costituire l’Assise dei popoli del mondo, per l’autogestione dell’umanità: ecco ciò che è necessario e urgente.

IL Parlamento Mondiale (d’ora in poi PM), eletto da tutti i popoli secondo il criterio della democrazia rappresentativa – una testa, un voto – può e deve diventare la sede tramite la quale l’umanità, per la prima volta nella sua storia, si autodetermina, uscendo finalmente da quello stato di minorità su cui si è finora schiacciata, frazionandosi per particolarismi nazionali.

Significa che l’umanità matura e assume la coscienza di sé come specie, nessuna frazione esclusa, e decide lo sviluppo (la sopravvivenza?) del suo presente e del suo futuro, in rapporto a tutti gli altri esseri, con cui è in relazione ineliminabile.

Significa elevare al massimo grado la propria intelligenza collettiva, divenendo capace di inter-legere e intus-legere (“leggere fra” e “leggere dentro”) nella complessa realtà dell’esistenza comune del mondo.

Il PM può essere composto da mille membri – un eletto ogni 7 milioni e mezzo di abitanti della Terra (poco più dei deputati attuali del Parlamento europeo).

Un’assemblea perfettamente gestibile e operativa, dove tutti i popoli vengono rappresentati con pari dignità, senza che ci siano quelli di serie A, B, C…

Oltre le riunioni plenarie, dove si prendono le decisioni fondamentali riguardanti tutto il mondo, si struttura per commissioni di lavoro sui temi di maggiore importanza.

Il PM dura in carica 5 anni ed elegge il suo presidente, che diviene il Presidente del Mondo. Si può immaginare la sua autorevolezza se paragonata a quella del segretario dell’Onu…

Lasciando agli stati la gestione dei problemi interni di ogni singola nazione, il PM delibera sulle questioni basilari dell’umanità: la pace – la guerra deve diventare un tabù – il disarmo a partire da quello nucleare, la salvaguardia dell’ecosistema terrestre, i diritti e i doveri fondamentali, lo sradicamento della fame, le produzioni eque e solidali e l’introduzione dell’onesto guadagno – al posto del profitto onnivoro – la giusta distribuzione delle risorse, le migrazioni, la difesa e l’incremento di tutti i beni comuni.

Dal punto di vista tecnico, l’elezione del PM non presenta affatto ostacoli insormontabili: seguendo i fusi orari, in un giorno di vota dappertutto e l’indomani si conoscono i risultati.

E’ evidente che il problema è prettamente culturale e politico: lasciare la vecchia strada per la nuova.

E però ormai vediamo che proseguire sulla vecchia e non imboccare la nuova può comportare conseguenze irreparabili.

Ho avuto la fortuna di sperimentare, insieme a milioni di altri, la democrazia diretta e, poi, quella rappresentativa, sia nel Parlamento europeo sia in quello italiano, e dunque ho avuto modo di conoscere direttamente i limiti della democrazia delegata.

Se dico che la democrazia rappresentativa, pur con tutti i suoi difetti, è tuttavia migliore dell’attuale oligarchia che pesa sul mondo, credo di indicare una conclusione accettabile.

Oggi gli stati sono troppo grandi per i problemi piccoli (e infatti decentrano taluni poteri agli enti locali) e troppo piccoli per affrontare le questioni grandi.

In più prevale generalmente, al loro interno, un processo di verticalizzazione delle decisioni, con governi che tendono in misura crescente all’autocrazia, esautorando spesso, progressivamente, i rispettivi parlamenti.

Così la stessa democrazia rappresentativa va restringendosi, fino a rattrappirsi in mera “democrazia formale”.

L’eclissi della democrazia, provocata e insieme utilizzata dal capitalismo finanziario globale, riduce sempre più la politica al predominio dei rapporti di forza e la prepotenza diviene la sua stella polare.

L’assalto al Campidoglio di Washington, il 6 gennaio 2021, da parte di manipoli del presidente Trump sconfitto alle elezioni, da lui apertamente e direttamente istigati, codifica, sebbene debellato, l’alto grado di disfacimento della democrazia istituzionale in quanto piegata a privatizzazione di scopi e interessi.

La politica, di fatto, non c’è più: è sostituita dalla propaganda – di chi ha il potere di farla – e viene a coincidere con la finzione e la simulazione. La propaganda è a sua volta una merce:viene fabbricata – venduta e… comprata – alla stessa stregua delle armi, dei telefoni cellulari, delle auto e dei computer.

Ecco perché la “politica”, oggi prevalente, è ridotta ad un ruolo ancillare: segue ed e-segue i diktat dei poteri dominanti.

In questo contesto l’elezione del PM ridà linfa alla democrazia, inverando il principio “ciò che riguarda tutti deve essere deciso da tutti”.

Le persone e i popoli vengono a parlare in prima persona e l’umanità si erge a determinare il proprio destino e quello della Terra. Una netta, e salutare, inversione di tendenza, rispetto ai silenzi e alla passività delle moltitudini.

I 2500 scienziati, che hanno elaborato nel 2007, per conto dell’Onu, il rapporto sui mutamenti climatici, in modo unanime consegnavano all’umanità un messaggio inequivocabile: rilevato che “il 90 per cento dei mutamenti atmosferici è causato dall’uomo”, essi ammonivano: “Si avvicina il giorno in cui il riscaldamento del clima sfuggirà a ogni controllo. Siamo alle soglie dell’irreversibile”.

Per scongiurare il superamento del punto di non ritorno, gli scienziati ci raccomandavano di tenere presente che “non è più il tempo delle mezze misure” (come quelle adottate nella Conferenza di Parigi) e ci affidavano tre indicazioni imperative: “E’ il tempo della rivoluzione delle coscienze, della rivoluzione dell’economia, della rivoluzione dell’azione politica” (corsivi miei).

Il PM è sia la conseguenza – il risultato – di quelle tre rivoluzioni sia il mezzo per realizzarle compiutamente.

E’ la sede attraverso cui possiamo e dobbiamo gestire in comune il bene comune più prezioso che abbiamo: la nostra vita – e quella di tutti gli altri esseri.

L’umanità e il mondo sono inscindibilmente interdipendenti: a dircelo è la stessa fisica quantistica, secondo cui ogni cosa non è realmente comprensibile se non vista in relazione con tutte le altre. Separata da quei nessi, non esiste se non come astrazione.

Comprendere appieno questo è l’obiettivo più alto che l’umanità può e deve raggiungere.

La coscienza di specie si dilata fino a divenire coscienza globale: la comprensione che la parte è collegata al tutto e il tutto è più delle singole parti che lo compongono.

La pandemia di Covid 19, che dal 2020 ha colpito l’umanità ovunque, ci ha fatto toccare con mano, in modo bruciante, questa interconnessione fra le persone – e fra loro e la natura. Ci ha mostrato come nessuno può salvarsi da solo, e che la salvezza richiede necessariamente una solidarietà, individuale e collettiva, di autoprotezione, per ridurre la contagiosità del virus, anche a costo di rinunciare ad alcune libertà fondamentali. Una lezione drammatica alla hybris antropocentrica.

Va da sé che non si arriverà al PM senza quella rivoluzione delle coscienze che gli scienziati, non a caso, hanno indicato per prima – e come condizione necessaria per realizzare la rivoluzione dell’economia e quella dell’azione politica.

E’ necessario costruire – entro ciascuno di noi e in noi tutti – quella che i greci chiamavano metànoia: “correzione di pensiero”, “mutamento di parere”.

(In altre parti del libro viene indicato il lavoro incominciato verso questo percorso).

Il PM sarà il risultato del mutamento di pensiero necessario e, insieme, il volano di sviluppo per realizzarlo compiutamente.

Costituisce il passaggio dell’umanità dal confine all’orizzonte.

Per salvarsi. E per salvare il mondo.

Mario Capanna

Klaus Schawb e Thierry Malleret, “Covid 19: The great reset”

Il prof Schwab è un ingegnere che ha anche un dottorato in economia alla famosa Università di Friburgo, in pratica la patria dell’ordoliberalesimo, con un master in Public Administration ad Harvard, fondatore del Word Economic Forum[1] ed autore di un libro di grande successo come “The Fourth Industrial Revolution” nel 2016. Si tratta, insomma, di una persona con un curriculum accademico indiscutibile, apprezzabilmente interdisciplinare, e di certissima derivazione ideologica-culturale. Uno dei papi del capitalismo contemporaneo, insomma.

Thierri Malleret è più giovane, sulle sue spalle sarà caduta la redazione di gran parte del libro. Si occupa di analisi predittiva (una remunerante specializzazione) e di Global Risk al Forum. Educato alla Sorbona in scienze sociali e specializzato ad Oxford in storia dell’economia (master) ed economia (dottorato). Si è mosso tra banche d’affari, think thank, impegni accademici e servizio presso il primo ministro francese.

Questo libro fa parte di una proliferante letteratura. Un tipo di letteratura divulgativa ed esortativa, molto generica e contemporaneamente molto larga nella visione, fatta per tradursi in presentazioni da convegno attraenti e stimolanti, dirette ad un pubblico di manager e imprenditori che hanno bisogno di sentirsi consapevoli, aggiornati e progressisti con poco sforzo. Una lettura da weekend sul bordo della piscina. Continua a leggere

Andrea Vento (Giga): Gli effetti economici e sociali della pandemia

di Andrea Vento

Durante il 2020 l’economia mondiale ha registrato la più grave recessione (-3,5%) dalla crisi del 1929 con milioni di persone hanno perso il lavoro e sono sprofondate nella povertà, mentre le 500 persone più ricche del Terra, equivalenti allo 0,001% della popolazione mondiale, hanno visto le loro fortune crescere più di quanto accaduto negli otto anni precedenti. Al contempo aumenta ulteriormente il trend delle disuguaglianze e la povertà è ripresa a crescere. Sarà sufficiente la ripresa economica del 2021 ad invertire le tendenze sociali sperequative oppure è necessario un ripensamento del sistema economico dominante a livello globale? Continua a leggere

Covid-19: «rivelazioni» e conferme di giugno

di Marinella Correggia

Intorno al Covid-19 si susseguono da mesi colpi di scena, rivelazioni e successive rettifiche. Grande è la confusione sotto il cielo. Ma non siamo ai tempi di Mao e quindi la situazione non è affatto eccellente. Cerchiamo di collegare alcuni puntini.

1. Oms: «Il contagio da parte di asintomatici è molto raro»…anzi «non sappiamo». Maria Van Kerkhove, direttrice del team tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) per la risposta al coronavirus (1), lunedì 8 giugno osa affermare: «Ci sono casi di persone infettate che sono asintomatiche, ma i paesi che stanno monitorando in modo dettagliato i contatti non stanno trovando da questi casi una trasmissione secondaria». Gli «esperti di salute pubblica» insorgono, capitanati dall’Harvard Global Health Institute. E così l’Oms aggiusta il tiro il giorno dopo: «La maggioranza dei casi di trasmissione che conosciamo si verifica, con le droplets, da parte di chi ha sintomi. Ma ci sono persone che non sviluppano sintomi, e non abbiamo ancora risposta sulla questione di quanti infettati non abbiano sintomi». Alcune ricerche stimano la probabilità di infezioni da asintomatici (e più spesso pre-sintomatici) con modelli probabilistici, senza documentare direttamente la trasmissione. Comunque la frase rivelatrice dell’esperta dell’Oms è: «Per ogni risposta che troviamo alle domande, ne sorgono altre dieci». La risposta è sempre: dipende (dalle circostanze): un luogo chiuso affollato e in una zona ad alta carica virale è un caso specifico, non generalizzabile (vedi ai punti 10 e 12). Continua a leggere

L’impatto macroeconomico globale del COVID-19: Sette Possibili Scenarî.

La ANU è tra le prime tre Università nel ranking delle università australiane. L’articolo costituisce un valido contributo alla conoscenza dei possibili sviluppi dell’epidemia da Covid-19.

L’articolo illustra 7 possibili scenari di diffusione della pandemia a livello globale. Il punto centrale dell’articolo: un maggiore investimento nella sanità pubblica ammortizza l’impatto economico dell’epidemia. Continua a leggere

17° Rapporto sui Diritti GLOBALI 2019. CAMBIARE IL SISTEMA.

Giunto al suo diciassettesimo anno, il Rapporto sui diritti globali, promosso dalle associazioni più rappresentative, offre le analisi
più approfondite, le cifre più aggiornate, il quadro più ampio.

Il Rapporto sui diritti globali è una pubblicazione annuale sui processi connessi alla globalizzazione e alle sue ricadute, sotto i vari profili economici, sociali, geopolitici e ambientali.
Lo studio è realizzato dalla Associazione Società INformazione Onlus, che cura il volume pubblicato da Ediesse editore, da 17 anni è promosso dalla Cgil nazionale con l’adesione delle maggiori associazioni, italiane e non solo, impegnate a vario titolo sui grandi temi trattati nel Rapporto. Continua a leggere

Verso il Forum sociale mondiale delle economie trasformative di Barcellona (Giugno 2020)

di Riccardo Troisi

Sono trascorsi vent’anni dai primi movimenti di protesta globale iniziati a Seattle e poi visibili nei Forum sociali mondiali e, via via, in tante iniziative di mobilitazione e di disobbedienza dal basso. In tutto il mondo, forme di resistenza sempre più diffuse e multiformi provano a proporre a livello locale modelli alternativi di produzione, distribuzione, consumo e risparmio, dove le persone, l’ambiente e le comunità sono rimesse al centro del processo di soddisfazione delle proprie necessità. Continua a leggere

A 20 anni da Seattle: sappiamo cosa fare, ma manca la volontà politica.

di Monica Di Sisto

Una svolta egualitaria e verde per salvare il pianeta

“Un vero Green new deal può partire solo con degli Stati che reclamano il loro spazio politico, dal quale sono stati progressivamente esautorati negli ultimi 30-40 anni. Questa è la condizione di base. Il finanziamento può essere fatto in tantissimi modi, ma ci vogliono investimenti importanti. Si tende a pensare che non abbiamo i soldi, argomentazione che lascia perplessi quando nello stesso periodo si spendono 23 miliardi di dollari per espandere i bilanci delle banche centrali, si assiste a 700 miliardi di dollari in trasferimenti dai paesi in via di sviluppo ai paesi sviluppati per elusione fiscale e sussidi indebiti, migliaia di miliardi di dollari in combustibili fossili”. Lo ha detto l’economista dell’agenzia Onu che si occupa di Commercio e sviluppo (Unctad), Jeronim Capaldo, intervenendo con una lezione su quello che significa scommettere davvero su un accordo “verde” socialmente sostenibile, in Italia e a livello globale, all’iniziativa “Seattle+20: Green New Deal and/for Community-led Local Development”, organizzato a Roma dall’associazione Fairwatch insieme all’Associazione delle Ong italiane, la Fondazione Di Vittorio e il Kyoto Club. Continua a leggere

Il quadro generale della situazione ambientale, politica e dei movimenti sociali all’apertura della Cop 25

di Andrea Vento

Come introduzione al progetto scolastico proposto dal Giga per formare gli studenti alle tematiche ambientali

Il quadro generale della situazione ambientale, politica e dei movimenti sociali all’apertura della Cop 25. Come introduzione al progetto scolastico proposto dal Giga per formare gli studenti alle tematiche ambientali

La crisi del pianeta sta manifestando giorno per giorno il suo inesorabile incedere attraverso il manifestarsi di una molteplicità di effetti che disvelano agli occhi dell’umanità la gravità della situazione dell’ecosistema terrestre, il cui stato di crisi si sta pericolosamente avvicinando verso il punto di non ritorno (tipping point). Continua a leggere

Alessandro Vissalli e Carlo Formenti: Partito e classe dopo la fine della sinistra.

Questa, relazione, firmata da Carlo Formenti e Alessandro Visalli, è stata presentata all’Assemblea: “Oltre la sinistra. Lavoro, sovranità, autodeterminazione”, tenutasi a Roma il 15 giugno presso il Circolo dei Socialisti alla Garbatella.

Il testo di lancio dell’Assemblea recitava:

Dopo il lancio, a marzo, del Manifesto per la Sovranità Costituzionale il campo in formazione del neo-socialismo patriottico ha subito le tensioni della fase in corso. La frattura tracoloro che sono connessi al sistema-mondo capitalista (mondo finanziario, reti industriali transanzionali, segmenti superiori dell’economia della conoscenza), e coloro che restano ai suoi margini, respinti nelle tante periferie del nostro paese, è stata rimossa da alcuni in favore di un’immaginaria frattura tutta morale tra destra e sinistra. Per altri la ricerca del consenso, e la fretta di intercettarlo, ha prodotto un’interpretazione del ‘populismo di sinistra’ come mera tecnica, priva di un’analisi all’altezza della durezza dello scontro in essere.

Noi crediamo che il conflitto sia tra i ‘centri integrati’ nel mercato mondiale, organizzati gerarchicamente, e le ‘periferie’ che sono nella posizione di essere sfruttate da questi. E crediamo che questo conflitto apra una frattura insanabile che attraversa diagonalmente l’intero campo del capitalismo. Esso crea fenomeni interconnessi come l’estendersi della precarietà, l’erosione della capacità di sostenere una vita decente, il degrado fisico delle nostre città, periferie e campagne, l’abbandono dell’ambiente e il saccheggio indiscriminato, di risorse e uomini del mondo. Continua a leggere

“Flussi migratori recenti e tutele possibili”. Relazione di P. Lorenzo Prencipe, Presidente dello CSER al convegno FAIM

Si è svolto venerdì scorso a Roma un importante seminario sull’ immigrazione e l’emigrazione, organizzato dal FAIM (Forum delle Associazioni Italiane nel Mondo), un consesso che raggruppa oltre 100 organizzazioni rappresentative dell’emigrazione italiana in decine di paesi europei ed extra-europei e che in Italia sono impegnate anche sul versante immigrazione.

Il seminario ha fornito importanti elementi conoscitivi sulla dimensione migratoria globale e sulla nuova emigrazione italiana che si configura ormai come la terza grande migrazione dal nostro paese, ricominciata con l’inizio della crisi economica del 2007-2008 e che ha dimensioni analoghe a quella del dopoguerra.

Alcune sintesi delle altre relazioni presentate (che possono essere lette QUI). In questa occasione presentiamo quella di P. Lorenzo Prencipe, Presidente dello CSER (Centro Studi Emigrazione Roma) dei Padri Scalabriniani, che fornisce un quadro complessivo e preciso delle persone in movimento sul pianeta, per origine e meta dei flussi ed individua una serie di orientamenti possibili per la gestione di un fenomeno che è destinato a proseguire e ad ampliarsi nei prossimi anni, coinvolgendo, come avviene già anche per molti paesi europei e l’Italia, anche milioni di residenti nei paesi sviluppati. Continua a leggere

Pillole economiche dal mondo (25)

di Tonino D’Orazio (15 febbraio 2019)

Il numero di miliardari è raddoppiato da dopo la crisi del 2008. (Oxfam). Erano 27, ora sono 42. Complessivamente, la ricchezza di questi miliardari è aumentata di  900 miliardi di dollari l’anno scorso, ad un tasso di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre quella della metà più povera della popolazione del pianeta è sceso dell’11%. L’uomo più ricco del mondo, Jeff Bezos, capo di Amazon, detiene 112 miliardi di dollari nel 2018, in pratica il bilancio sanitario dell’Etiopia è l’1% della sua ricchezza. Continua a leggere

Pillole economiche dal mondo (24)

di Tonino D’Orazio

Il segretario di Stato francese per la Transition Ecologique Brune Poirson è rimasta “scioccata” dal fatto che Amazon distrugge milioni di nuovi prodotti invenduti, dopo che un giornalista, assunto come magazziniere in uno dei magazzini di Amazon, ha filmato dei grandi contenitori pieni per la distruzione di oggetti di ogni genere: pannolini, macchine da caffè, televisori, giocattoli, ecc. Il giornalista ha anche svelato le clausole contenute nei contratti tra la piattaforma di Amazon (“market place“) e i fornitori di terze parti che ospita e memorizza i prodotti nei suoi magazzini. Questi accordi prevedono che in caso di beni invenduti, sia che i beni vengano restituiti, sia che vengano distrutti, anche nuovi. “L’emergenza climatica richiede di ridurre rapidamente i livelli di produzione”. (Alma Dufour, porta parola di “les Amis de la Terre“). Pensare che l’azione dei Gilets Jaunes era scaturita da una ecotassa di 10 centesimi a litro di prodotto energetico. Continua a leggere

VENEZUELA, gli USA escono male dalla discussione in Consiglio di Sicurezza dell’ONU: Maggioranza di 19 a 16 Paesi per il dialogo, il riconoscimento della sovranità e contro l’ingerenza esterna.

La discussione nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU sulla situazione venezuelana, convocato su richiesta degli Stati Uniti, rappresentati ai più alti livelli (era presente Mike Pompeo), dà un risultato opposto agli auspici di nord amerciani e europei. Come aveva dato il risultato opposto il tentativo di far approvare dall’OEA (Organizzazione degli Stati Americani) la convocazione urgente per mettere sotto tutela il Venezuela. Dei 35 paesi che hanno partecipato, 19 si sono espressi per sostenere il dialogo tra le parti, il rispetto della sovranità nazionale del Venezuela e il riconoscimento del legittimo presidente, Nicolas Maduro Moros, mentre 16 paesi hanno comunicato di riconoscere l’autoproclamatosi presidente dell’assemblea nazionale, Juan Guaido. Una doppia sconfitta degli USA sul versante delle organizzazioni multilaterali, che dovrebbe costituire un elemento di riflessione per l’Europa e l’Italia. Continua a leggere

MARCIA DELLA PACE PERUGIA-ASSISI: NESSUNA PACE SENZA GIUSTIZIA E LIBERTÀ!

NESSUNA  PACE SENZA GIUSTIZIA E LIBERTA’!

(Comunicato stampa Giovani Comunisti)

 

Domenica 7 ottobre saremo presenti alla marcia della Pace Perugia-Assisi a ribadire con ancora maggior forza le nostre idee e i nostri valori che sono quelli della solidarietà e giustizia sociale in un mondo in cui gli innumerevoli conflitti non fanno che alimentare guerre e miseria. Libia, Yemen, Siria, Palestina, Afghanistan, Donbass e i conflitti più dimenticati che attraversano il continente africano, le tensioni e i golpe bianchi in America Latina con il tentativo di destabilizzazione di molti paesi (Venezuela e Bolivia), le tensioni nel continente asiatico, Paesi in cui riecheggia il rumore della morte  e delle armi prodotte in occidente spesso made in Italy. Continua a leggere

Joseph Halevi: recensione a ISRAELE E I MITI SIONISTI (II), Ilan Pappé

di Joseph Halevi

Recensione a: Ilan Pappé Ten Myths About Israel London: Verso 2017, pp. 171

Seconda parte

Un paese che si basa sulla pulizia etnica e sulla colonizzazione permanente non può essere definito democratico. In verità nessuna entità statuale ove é in atto una colonizzazione a scapito della popolazione autoctona é definibile come democratica: si veda il caso dell’Australia ove fino al 1967 gli aborigeni, già violentemente decimati durante il diciannovesimo secolo, non venivano nemmeno contati nei censimenti. Eppure l’Australia era considerata una fiorente democrazia, il che significa che il termine è perfettamente malleabile a piacere senza un valore universale. Il settimo capitolo del volume di Pappé si prefigge di dimostrare la fallacia insita nella propaganda americano-israeliana riguardo l’unica democrazia nel Medioriente. Il capitolo é più incisivo di quello precedente appena discusso. Continua a leggere

Il vero pericolo per la pace

L’Editoriale di Frank Barbaro: “Il vero pericolo per la pace” (da Nuovo Paese Australia)

 

Siamo in un periodo in cui il discorso ufficiale dei potenti sulla pace e sulla guerra viene accettato come una fedele rappresentazione della realtà.

Mentre vengono considerate fuori dalla realtà le persone che non accettano nozioni come guerre e bombe umanitarie e discorsi che individuano nella Corea del Nord, che ha surclassato i jihadisti, il pericolo principale per la pace.

Continua a leggere

IL DIRITTO DI NON- EMIGRARE

di Agostino Spataro

Sommario:

Il neoliberismo produce guerre, miserie e…migrazioni; Un sistema esclusivo ossia escludente; I nuovi “filantropi” padroni del mondo; L’emigrazione non è “Camel Adventure”; Il “caos funzionale”: esodo e mercato del lavoro; Italia, un Paese in svendita; Il “nuovo ordine” delle multinazionali;  C’è bisogno di comunismo.  Continua a leggere

Ucraina 2014, Venezuela 2017: analogie e differenze

di Ramiro Gómez

Le strade di Caracas e di alcune altre località venezuelane hanno vissuto cento giorni di violenza, da quando l’opposizione ha dato inizio a una escalation per far cadere con la forza il governo di Nicolás Maduro. Dalle iniziali manifestazioni degli oppositori in seguito a una decisione del Tribunale supremo di giustizia – che stabiliva l’illegalità delle azioni della cupola parlamentare, la quale stava procedendo a nomine illegali – tutto è sfociato in una serie di violenze che ricordano gli eventi come Euromaidan, sfociati nel 2014 nella caduta del presidente ucraino Victor Ianukovic. Le analogie fra i due eventi saltano agli occhi e hanno suscitato l’allarme del governo venezuelano e di movimenti politici internazionali. Continua a leggere

E’ on line il numero di maggio di Nuovo Paese, la rivista della Filef Australia

La cooperazione, non il cowboy solitario

L’attacco alla Siria è stato “mirato e limitato” e una “risposta proporzionata”, secondo il Pentagono, che lo ha giustificato come risposta all’uso, sempre secondo il Pentagono, delle armi chimiche da parte di Assad. Continua a leggere

LA GUERRA CHE INCOMBE SULLA CINA, di John Pilger [VIDEO con sott. in italiano]

In un documentario impressionante per accuratezza e dimensioni, John Pilger rivela ciò che i canali ufficiali non dicono: che la più grande potenza del mondo militare, gli Stati Uniti, e la seconda potenza economica mondiale, la Cina, entrambe dotate di armi nucleari, sono sulla strada della guerra. Il film di Pilger è un avvertimento, e una ispirata storia di resistenza.

Traduzione in italiano:
Martina Zanette e Riccardo Radici

 

FONTE: pandoratv.it

 


 

 

Secolo XXI: Economia del Terrore ? – un importante contributo di Lo Brutto e Spataro

Spataro-Economia del terroreIntroduzione

SCENARI DELLA CRISI DEL MONDO

Con l’inizio del nuovo secolo, all’orizzonte del nostro futuro si profila una tendenza inquietante, maturata nell’ambito delle oligarchie neoliberiste dell’Occidente: il frequente ricorso alla guerra, anche locale, come risposta ai problemi insorti con la crisi globale.

Tale tendenza è insita nella natura violenta, nella stessa dinamica del capitalismo internazionale. Tuttavia, oggi, appare anche come una reazione metodica alle difficoltà crescenti d’imporre il suo modello politico-culturale e consumistico.

Più che un fenomeno ciclico, essa parrebbe denunciare una difficoltà, perfino un declino, non tanto del sistema capitalistico in se stesso quanto dell’egemonia occidentale sul terreno dell’economia e della cultura. Continua a leggere

DOPO COVID-19

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